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IL DIRITTO DEL LAVORO: è una delle branche del diritto civile italiano. Quando ne parliamo ci riferiamo fondamentalmente al LAVORO SUBORDINATO, che trova la sua definizione nel Codice Civile italiano, nell’articolo 2094 il quale, parlando di “prestatore di lavoro” ( il lavoratore
“subordinato”) afferma che “….E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore…”.
Il codice civile come “datore di lavoro” fa riferimento alla figura dell’”imprenditore” ( colui che esercita un’attività economica organizzata finalizzato allo scambio di beni o di servizi ) ma la definizione di lavoratore (prestatore) di lavoro subordinato di cui sopra è applicabile anche agli enti pubblici e allo Stato ( che non sono generalmente “imprenditori” perseguendo l’interesse pubblico e non il fine di profitto o di lucro ).
Il LAVORATORE SUBORDINATO si distingue dal LAVORATORE AUTONOMO che – sempre nella definizione che ne fornisce il Codice Civile con l’articolo 2222, dove parla del “contratto d’opera” - è quella persona che si obbliga a compiere – a fronte di un corrispettivo pattuito – un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente ( cioè di chi da l’incarico di tale opera o di tale servizio ).
LE DIFFERENZA TRA LAVORATORE SUBORDINATO E LAVORATORE
“AUTONOMO” :
il lavoratore subordinato si obbliga, a fronte di retribuzione (salario o stipendio):
A) a “collaborare” con l’imprenditore (datore del lavoro) quindi non a fare – come il lavoratore autonomo – una singola opera o un singolo servizio ma una serie indeterminata di opere o di servizi (con lavoro intellettuale o manuale);
B) a porre in essere tale collaborazione alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
Invece, come si è visto, il lavoratore autonomo ( e per questo si dice “autonomo”) : A) si obbliga a compiere una singola opera oppure un singolo servizio;
B) con lavoro prevalentemente proprio e senza subordinazione ( quindi senza
“dipendere”) dal “committente” ( cioè da chi lo incarica di fare un’opera o di svolgere un servizio ).
Esempio tipico: un artigiano idraulico, chiamato per riparare una perdita idrica di una tubazione, deve fare solo quel lavoro per cui è stato chiamato ( la riparazione della tubatura ) e mentre ciò esegue lo fa in base a regole tecniche e di buona “regola d’arte” che lui conosce, senza che chi lo ha chiamato gli possa dire come e dove riparare la tubazione !
LE “FONTI” DEL DIRITTO DEL LAVORO
“Fonte” del diritto e la regola che è imposta ad un rapporto economico-sociale ( come è il rapporto giuridico di lavoro, che è giuridico, appunto perché è regolato, disciplinato, ordinato dal diritto ! ).
Le fonti del diritto dl lavoro si distinguono fondamentalmente in “nazionali” e “sovra nazionali”.
Anche se le fonti “sovra nazionali” sono sempre più importanti, oggetto del nostro esame sono le fonti nazionali del diritto del lavoro.
Le fonti del diritto sono tra loro in rapporto di GERARCHIA ( così detta “gerarchia delle fonti” ).
Nel diritto del lavoro, tuttavia, in particolare può verificarsi (fatta eccezione per la Costituzione della Repubblica Italiana e per le Leggi dello Stato ) che una “fonte” superiore” come il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro sia derogata – in favore del lavoratore - da una “fonte” inferiore come il contratto individuale di lavoro. Vi è infatti un principio generale nell’Ordinamento Giuridico italiano di c.d. “favore” per il lavoratore subordinato in quanto considerato la parte economicamente più debole del contatto e del conseguente “rapporto” di lavoro.
La prima “Fonte” del diritto del lavoro è la su accennata Costituzione della Repubblica Italiana, promulgata il 1° gennaio 1948, che nella sua prima Parte ( che contiene i principi fondamentali riguardanti la forma dello Stato, i diritti e doveri dei cittadini, i rapporti economici e quelli sociali,
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ecc. ) dedica proprio il suo primo articolo, l’art. 1, al “lavoro”, in tutte le sue forme, recitando che
“…L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro…..”.
Diverse altre norme della Costituzione riguardano il lavoro, in particolare “subordinato” :
grande importanza e rilievo riveste l’articolo 36, che introduce il concetto della retribuzione giusta od “equa”, affermando che : “….Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa….”.
Lo stesso articolo 36 Cost., al suo II comma, afferma poi che la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge dello Stato e al III comma afferma che il lavoratore ha un diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite a cui non può rinunciare.
Quindi, al riposo settimanale e alle ferie annuali non è possibile rinunziare, a fondamentale tutela della salute oltre che della dignità personale del lavoratore.
Con l’articolo 37 la Costituzione dispone che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti dell’uomo lavoratore ed a parità di lavoro ha diritto alla stessa retribuzione. Stabilisce poi che le condizioni di lavoro della donna lavoratrice le debbono consentire la funzione familiare ( ma al giorno d’oggi la stessa tutela è assicurata anche all’uomo che debba svolgere la funzione familiare di accadimento, cura ed istruzione dei figli e della famiglia in generale ) e – afferma letteralmente la Costituzione in detto suo articolo 37 – “……..assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione …..”.
Sempre l’art. 37 afferma la tutela, da parte dello Stato, del lavoro dei minorenni che pure, parità di lavoro con i lavoratori maggiorenni hanno diritto a uguale retribuzione e afferma che è la legge dello Stato a stabilire il limite minimo di età per il lavoro salariato.
( Nota Bene: da tenere presente che, tradizionalmente, il “salario” è la retribuzione degli “operai” e lo “stipendio”
quella degli “impiegati” : noi usiamo indifferentemente il più ampio e comprensivo concetto di retribuzione ).
Importante è pure l’articolo 38 per il quale i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati loro mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, di malattia, di invalidità, di vecchiaia e di disoccupazione involontaria ( la c.d. previdenza e assistenza sociale ).
Con l’articolo 39 la Costituzione riconosce le organizzazioni sindacali affermandone la libertà.
Con l’articolo 40 è riconosciuto il diritto di sciopero, diritto che deve essere esercitato nell’ambito delle leggi che esso regolano.
Altre “Fonti” del diritto del lavoro sono il Codice Civile e le leggi statali dette “speciali” ( speciali perché non sono contenute nel citato Codice Civile, che è una raccolta sistematica e organizzata di leggi - quasi 3000 articoli – fonte di pressocchè tutto il diritto civile/privato italiano ), i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, il contratto individuale di lavoro e in ultimo gli usi o consuetudini.
L’”USO” ( o CONSUETUDINE ) – ultima nella scala della “gerarchia” delle fonti del diritto - è definita come un comportamento che in un certo ambito sociale ( in una comunità, in un villaggio, in una fabbrica ! ) viene ripetuto in maniera costante ed uniforme da lunghissimo tempo da parte dei componenti di tale ambito/gruppo sociale, con la convinzione di osservare un dovere ( o obbligo ) giuridico, quindi che sia giuridicamente necessario.
Esempio classico, nel diritto del lavoro, la “tredicesima” mensilità di retribuzione o ( come era chiamata ) “gratifica natalizia”: essa costituiva un “regalo” ( quindi non una cosa dovuta !) che i datori di lavoro offrivano ai propri dipendenti in occasione delle festività natalizie: ripetendosi per lunghi anni tale consuetudine, appunto, essa divenne regola e tutti i datori di lavoro si uniformarono, nel tempo, ad essa, fino ad ingenerarsi la convinzione – tra datori di lavoro e lavoratori – che tale gratifica fosse dovuta: fino a che divenne una istituzione giuridica, contenuta nei contratti collettivi nazionali di lavoro come un elemento aggiuntivo della retribuzione annuale.
L’articolo 2078 del Codice Civile, nello specifico campo del diritto del lavoro, dispone che la consuetudine ( quindi gli usi vigenti in quel determinato ambito di lavoro, esempio, tutti i lavoratori minerari o tutti quelli della siderurgia ) si applica ogni qual volta manchi una disposizione della Legge o del Contratto Nazionale Collettivo.
Sempre nel diritto del lavoro, tuttavia, gli “usi” ( o consuetudine ) se più favorevoli al lavoratore prevalgono sulle norme di legge ma non sui contratti collettivi o sul contratto individuale. ( è,
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questo ultimo, un esempio di come la così detta “gerarchia delle fonti” si atteggi diversamente nello specifico campo del diritto del lavoro, dove, come sopra si è visto, la consuetudine mentre può prevalere sulla stessa legge, ove contenga disposizioni più favorevoli al lavoratore, tuttavia sia subordinata ai c.c.n.l. o allo stesso contratto individuale di lavoro, che a rigore sono fonti di diritto subordinate alla legge ! ).
IL LAVORO SUBORDINATO ALLE DIPENDENZE DI SOGGETTO PRIVATO E QUELLO ALLE DIPENDENZE DI SOGGETTO PUBBLICO.
Un’altra distinzione rilevante nel diritto del lavoro è quella tra lavoro privato e lavoro pubblico ( ex
“p u b b l i c o i m p i e g o”, ormai quasi del tutto privatizzato, nel senso dell’applicazione allo stesso del Codice Civile e del suddetti contratti collettivi nazionali di lavoro, fatte alcune limitate eccezioni: Forze Armate, Forze di Polizia, Magistratura e Avvocatura Generale dello Stato ).
Il rapporto di lavoro pubblico è quello – sempre con vincolo di “subordinazione” – svolto alle dipendenze dello Stato e in generale delle “pubbliche amministrazioni”.
La prima fondamentale differenza tra i due tipi di rapporto di lavoro è quella “genetica”, relativa alle modalità di accesso al rapporto di lavoro a tempo indeterminato che, nel lavoro pubblico, è sempre fondata sulla selezione mediante concorso pubblico. Ulteriore differenza, come si vedrà più innanzi, si apprezza in merito alla disciplina delle “mansioni” così dette superiori rispetto all’inquadramento giuridico del lavoratore in seno all’impresa privata ovvero in seno ad una Pubblica Amministrazione ( Stato, regioni, province, comuni, enti pubblici non economici vari, Aziende Sanitarie Locali, ecc. ).
LE CARATTERISTICHE DEL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO. I POTERI ORGANIZZATIVO, DIRETTIVO E DISCIPLINARE DEL DATORE DI LAVORO.
Il lavoro subordinato è dunque caratterizzato da una posizione di subordinazione di un soggetto – lavoratore – rispetto ad un altro – il datore di lavoro. Il rapporto giuridico di lavoro subordinato è quindi fondato su una relazione gerarchica tra due soggetti.
Il datore di lavoro, infatti, rispetto al lavoratore è dotato:
1) del POTERE DIRETTIVO, nel che si sostanzia, appunto, il potere di supremazia gerarchica che la legge conferisce al datore di lavoro ( sia esso soggetto pubblico che privato, persona fisica o persona giuridica – società privata, associazione, ente pubblico ).
In senso stretto, il potere direttivo è un potere di organizzazione, diretto a fare sì che ogni lavoratore di “conformi” alle esigenze dell’impresa ( o comunque a quelle dell’ente giuridico, anche pubblico – che dunque non è “impresa” in senso economico ).
Quindi, nel potere direttivo si ricomprende:
1.a) il potere gerarchico, come detto quale supremazia del datore di lavoro sul lavoratore, che però è ammesso solo nella misura in cui è funzionalmente necessario ai fini della prestazione lavorativa, quindi senza che vi sia nessuna ingerenza nella sfera personale e privata del lavoratore e nel rispetto della sua libertà e dignità ( come emerge dalle disposizioni della Legge n.° 300 del 1970, così detto “Statuto dei Lavoratori” );
1.b) il potere conformativo, inteso come il potere del datore di lavoro di determinale le modalità di esecuzione del lavoro, preordinando le singole prestazioni di lavoro qualifica per qualifica, reparto per reparto, stabilimento per stabilimento, ecc.ed emanando disposizioni di organizzazione anche tecnica del lavoro ( orari, turni di lavoro, ecc. ).
2) del POTERE DI VIGILANZA E CONTROLLO, che discende dal potere direttivo suddetto e che è diretto alla verifica che l’attività lavorativa del prestatore di lavoro subordinato sia effettuata secondo le modalità e le disposizioni dettate dal datore di lavoro.
Tuttavia molti sono i LIMITI che a tale potere di vigilanza e di controllo sono stati previsti dal già citato “Statuto dei Lavoratori” ( Legge n.° 300/1970). Esaminiamone solo alcuni, significativi:
2.a) divieto di servirsi di “guardie giurate” per il controllo dell’attività lavorativa: il servizio di vigilanza privata a mezzo di guardie giurate è utilizzabile solo per la tutela del patrimonio ( della
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proprietà privata) dell’azienda datrice di lavoro: per i datori di lavoro che non rispettano tale divieto ( a parte la sospensione o la vera e propria revoca alla società di sicurezza privata del servizio da parte del Prefetto) vi sono anche sanzioni di tipo penale;
2.b) divieto di controlli a distanza mediante impianti audiovisivi, il cui impiego è consentito solo per comprovate esigenze organizzative e produttive o per motivi di sicurezza, previo accordo con le organizzazioni sindacali dei lavoratori ( e in mancanza di accordo, la decisione è rimessa al Ministero del Lavoro );
2.c) divieto di visite personali di controllo (perquisizioni) appunto sulla persona del lavoratore e sulle sue immediate pertinenze (borse, ecc.), salvo quelle che siano indispensabili alla tutela del patrimonio del datore di lavoro in ragione delle qualità delle materie prime lavorate o del valore degli strumenti di lavoro: ma anche in questi casi, il citato “Statuto dei Lavoratori” prevede modalità che salvaguardino la dignità e la riservatezza dei lavoratori;
2.d) diritto dei lavoratori di manifestare liberamente il proprio pensiero sui luoghi di lavoro, nel rispetto dei principi della Costituzione e dello stesso “Statuto dei Lavoratori” e correlativo divieto del datore di lavoro – sia ai fini dell’assunzione che nel corso del rapporto lavorativo – di effettuare indagini sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore e su fatti che in generale non rilevino per la valutazione delle attitudini professionali di questi.
3) del POTERE DISCIPLINARE cioè della facoltà del datore di lavoro di irrogare sanzioni disciplinari al lavoratore che venga meno alle sue obbligazioni contrattuali ( gli obblighi di diligenza, di fedeltà, di obbedienza di cui meglio più avanti ).
Anche il potere disciplinare è sottoposto a forme di esercizio e di controllo ed a limiti, soprattutto dal punto di vista delle procedure.
Innanzitutto il fatto rilevante dal punto di vista disciplinare deve esistere ed essere direttamente imputabile al lavoratore che di esso è incolpato e deve consistere in una COLPEVOLE violazione delle sue obbligazioni contrattuali ( ancora: obblighi di diligenza, fedeltà, obbedienza di cui meglio in prosieguo).
La sanzione disciplinare che viene irrogata deve essere adeguata ( quindi proporzionata) al fatto di rilievo disciplinare addebitato al lavoratore.
Gli illeciti “disciplinari” devono essere previsti preventivamente dal datore di lavoro attraverso la pubblicazione e massima diffusione del “codice disciplinare” così come predeterminata deve essere la tipologia delle sanzioni disciplinari ( che, generalmente, vanno dal richiamo verbale alla ammonizione scritta – “censura” – dalla multa – quale importo economico da detrarsi dalla retribuzione – alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, fino al licenziamento
“disciplinare”).
Da un punto di vista “procedurale” le sanzioni disciplinari non possono essere irrogate dal datore di lavoro senza una preventiva e specifica contestazione dell’addebito al lavoratore e senza avere concesso a quest’ultimo il diritto di difesa.
In ogni caso, le sanzioni disciplinari possono essere impugnate (opposte) dal lavoratore o con azione giudiziaria ( dinanzi al Tribunale in funzione di Giudice specializzato del lavoro) o attraverso varie procedure “arbitrali” ( molte delle quali previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro ), anche dinanzi a Organi Pubblici del Ministero del lavoro.
IL CONTRATTO INDIVIDUALE DI LAVORO SUBORDINATO
E’ una “specie” del genere “contratti”. Molti rapporti giuridici e gli obblighi e diritto che esso compongono trovano la propria “fonte” nel contratto.
In generale – secondo il Codice Civile – il CONTRATTO è l’accordo tra due o più parti finalizzato a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale.
Pertanto:
- Accordo, come incontro libero di volontà per perseguire uno scopo comune;
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- Tra due o più soggetti (siano essi persone fisiche che persone così dette “giuridiche”:
società, associazioni, enti pubblici );
- Per costituire di nuovo, per modificare ( se già preesistente) o anche per estinguere (sciogliere) un rapporto giuridico ( cioè una relazione retta da regole appunto giuridiche che dispongono diritti e doveri reciproci) patrimoniale ( cioè che sia economicamente apprezzabile e valutabile ).
Quindi, anche il contratto individuale di lavoro è l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore ( incontro sul mercato tra la DOMANDA di lavoro e l’OFFERTA di lavoro, in termini economici ) finalizzato a costituire un rapporto giuridico di lavoro subordinato.
Il contratto di lavoro ( come ogni contratto ) è – si ripete – una delle “fonti” del rapporto di lavoro subordinato e come ogni rapporto giuridico prevede, da parte dei due soggetti che lo stipulano OBBLIGAZIONI ( e correlativi diritti ) RECIPROCHE.
Si parla di obbligazioni (cioè di “comportamenti vincolati”: obbligo di dare, obbligo di fare, obbligo di non fare ) e di correlativi diritti perché ad ogni obbligo corrisponde, dall’altra parte, il diritto a pretendere che tale obbligo sia adempiuto ( e ogni diritto è potere di pretendere un dato comportamento o un dato bene o un dato servizio dal soggetto obbligato).
LE OBBLIGAZIONI ( GLI OBBLIGHI ) DEL DATORE DI LAVORO NEL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO.
Oltre che dai “poteri” che sopra abbiamo esaminato, la posizione giuridica del datore di lavoro è caratterizzata da alcune obbligazioni fondamentali nei confronti del lavoratore.
Prima obbligazione fra tutte, quella di corrispondere la retribuzione al lavoratore, nei modi e nei termini previsti dal contratto, oltre al così detto “Trattamento di Fine Rapporto” (TFR, costituito da un accantonamento annuale in dodicesimi, liquidato al lavoratore alla fine – per qualsiasi causa, anche per licenziamento – del rapporto di lavoro ).
Viene poi in rilievo la fondamentale obbligazione di tutela delle condizioni di lavoro, della salute e sicurezza di lavoratori: obbligo variamente previsto fin dal Codice Civile ( che con il suo art. 2087, vigente fin dal 1942, impone al lavoratore di tutelare la salute fisica e psichica – l’”integrità morale” – del lavoratore ), dal Decreto Legislativo nr. 81/2008 e dal citato “Statuto dei Lavoratori” (articolo 9). Nel citato obbligo rientra oltre al divieto di discriminazioni, altresì l’obbligo datoriale di prevenire il fenomeno del così detto “mobbing” ( condotta illecita dei colleghi di lavoro – mobbing orizzontale – o dello stesso datore di lavoro – mobbin verticale o
“bossing” – tesa ad escludere moralmente e fisicamente il lavoratore ( dall’inglese “to mob”, ti escludo ), a mortificarlo, umiliarlo, avvilirlo al punto di danneggiarlo fisicamente e psichicamente anche in violazione del diritto alla salute costituzionalmente previsto.
Obbligo di tutela assicurativa e previdenziale del lavoratore mediante le assicurazioni obbligatorie previste dalla legge per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e mediante il versamento di contributi finalizzati ad assicurare la c.d. “pensione” alla fine della vita lavorativa ( al ricorrere delle condizioni anagrafiche di età e di anzianità contributiva del lavoratore medesimo).
Obbligo di tutela della riservatezza dei lavoratori ( Decreto legislativo nr. 196/2003:
“Codice” in materia di riservatezza e di tutela del trattamento dei dati personali).
LE OBBLIGAZIONI ( GLI OBBLIGHI ) DEL LAVORATORE NEL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO.
La prima e fondamentale obbligazione del lavoratore è quella – già sopra citata – di cui all’art.
2094 Codice Civile, ovvero mettere a disposizione del datore di lavoro, a fronte della concordata retribuzione, “…. il proprio lavoro intellettuale o manuale…..” alle sue dipendenze e sotto la sua direzione.
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Il contenuto di tale obbligazione è definito dai “caratteri” della prestazione di lavoro che deve essere:
a) lecita, cioè consentita (non vietata) dall’ordinamento giuridico;
b) possibile: una attività impossibile, ovviamente, non può costituire oggetto di alcun impegno, di alcuna obbligazione;
c) determinata o comunque determinabile: non può essere dedotta in un rapporto giuridico una prestazione assolutamente generica e indeterminata, che non dia alcuna sicurezza sul suo contenuto, in tal modo facendo venire meno la sicurezza dei rapporti sociali ed economici e la stessa “certezza del diritto”;
d) personale: nel senso che il lavoratore subordinato non può in nessun caso farsi sostituire da altri nell’espletamento della dovuta attività lavorativa, salvo l’espresso consenso del datore di lavoro o l’esistenza di specifiche disposizioni di legge in deroga ( vedasi il contratto di
“portierato”, nel quale è espressamente prevista dalla contrattazione collettiva la sostituibilità del portiere da parte dei suoi familiari ). Dalla suddetta insostituibilità discende, ad esempio, che il contratto di lavoro subordinato ( a differenza di altri contratti ) non può essere ceduto dal lavoratore a terzi estranei al rapporto né è possibile l’adempimento delle obbligazioni del detto contratto da parte di terzi.
e) patrimoniale: cioè l’attività lavorativa deve essere suscettibile di valutazione economica.
- L’obbligazione di diligenza
La “diligenza” ordinaria ( c.d. “diligenza del buon padre di famiglia”) è quel complesso di cure, di attenzioni, di cautele che ogni uomo deve adottare nel proprio comportamento sociale ( nella vita associata). E’ un concetto di “normalità” statistica ( derivante dalle conoscenze, dagli usi e dai costumi di ogni singolo periodo storico) cioè il buon comportamento che “normalmente” si attende da “t u t t i”. E’, quindi, il contrario della negligenza che i Romani definivano il non capire, il non comprendere ciò che normalmente la maggioranza degli uomini capisce e comprende ! ( in latino si diceva nec intelligere quod omnes inteligunt ).
A parte, dunque, la diligenza ordinaria sopra definita, esiste una diligenza specifica in ogni settore di attività umana e segnatamente anche in ogni campo dell’attività lavorativa, per cui è evidente che la diligenza ( attesa e pretesa da parte del datore di lavoro) di un operaio specializzato sia maggiore rispetto a quella di un operaio generico; ovvero che la diligenza di un medico sia diversa da quella di un infermiere professionale o da quella di un notaio, di un architetto o di un avvocato.
Il codice civile afferma dunque, con l’art. 2104, che “…Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale…”.
Quindi la diligenza del lavoratore subordinato riguarda sia la buona esecuzione della prestazione lavorativa secondo la sua natura, quindi secondo le regole oggettive di buona tecnica e dell’”arte” ma anche l’obbligo di porre in essere comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ai fini di un’utile prestazione.
- L’obbligazione di obbedienza ( o di osservanza ).
Trattasi dell’obbligo di osservare le disposizioni dettate dal datore di lavoro per l’esecuzione e la disciplina del lavoro, che il datore di lavoro o i suoi collaboratori impartiscono per conformare la prestazione lavorativa alle esigenze dell’impresa.
- L’obbligazione di fedeltà: il divieto di concorrenza e l’obbligo di riservatezza ( art.
2015 codice civile ).
E’ l’obbligo – facente capo al lavoratore – di astenersi da qualsiasi condotta che per la sua natura e le possibili conseguenze risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nell’organizzazione del datore di lavoro ( nell’Azienda, come dice il cod. civile) oppure crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi del datore di lavoro, al punto da ledere irrimediabilmente il presupposto FIDUCIARIO del rapporto di lavoro stesso.
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In pratica si tratta dell’obbligo di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro, tutelandone in ogni modo gli interessi.
Tale obbligazione di fedeltà si traduce in concreto:
1) nel divieto di concorrenza, quale divieto di trattare affari per conto proprio o di altri in concorrenza con l’attività economica svolta dal datore di lavoro;
2) nell’obbligo di riservatezza, ( o di segretezza) cioè nel divieto di divulgare o utilizzare, a vantaggio proprio od altrui, notizie relative all’organizzazione o ai metodi di produzione dell’impresa, così da causare a quest’ultima un pregiudizio.
Nel rapporto di lavoro pubblico ( alle dipendenze di pubbliche amministrazioni) nell’obbligo di fedeltà si ricomprende l’obbligo di “esclusività”, cioè quello di esercitare soltanto il pubblico impiego, con esclusione di qualsiasi altra attività lavorativa aggiuntiva e/o parallela.
La violazione di tali divieti implica una lesione del rapporto fiduciario che è il presupposto di ogni rapporto lavorativo e oltre a determinare il recesso (licenziamento) dal rapporto, da parte del datore, nel caso in cui l’attività in concorrenza o la divulgazione di notizie riservate abbiano determinato un danno al datore di lavoro, facoltizzano quest’ultimo a richiederne il risarcimento integrale al lavoratore infedele.
LA DISCIPLINA DELLE MANSIONI DEL LAVORATORE. IL DIRITTO DEL LAVORATORE ALLA MANSIONE. MANSIONI SUPERIORI E MANSIONI INFERIORI: DIFFERENZE TRA RAPPORTO DI LAVORO PUBBLICO E RAPPORTO DI LAVORO PRIVATO.
Una volta assunto, ( Art. 2103 codice civile) il lavoratore subordinato deve essere adibito alle mansioni lavorative per l’esecuzione delle quali è stato inquadrato (siano esse di natura materiale o intellettuale, semplicemente esecutive oppure di “concetto”) e per le quali deve essere retribuito.
Sempre per quanto disposto dalla legge ( art. 2103 cod. civ. citato), in applicazione del diritto alla “giusta” retribuzione di cui all’art. 36 Costituzione, se il prestatore di lavoro è adibito a mansioni superiori a quelle di iniziale inquadramento giuridico (assunzione) non per sostituire altri lavoratori che hanno diritto per legge (es., lavoratrici in maternità, lavoratori in malattia o in infortunio) alla conservazione del posto di lavoro oppure se è comunque adibito a tali mansioni per un periodo superiore a tre mesi, il prestatore di lavoro medesimo ha diritto al trattamento economico (retribuzione) corrispondente all’attività lavorativa – superiore – svolta.
Nel rapporto di lavoro privato, il lavoratore che svolga mansioni “superiori” ha non soltanto diritto al superiore trattamento economico ma, se l’adibizione alle superiori mansioni non è avvenuta ( come sopra detto) per “sostituire” altro lavoratore con diritto alla conservazione del posto di lavoro durante la sua assenza, ha diritto anche alla qualifica superiore.
(esempio: se un lavoratore con qualifica di operaio generico abbia svolto mansioni di operaio specializzato, non soltanto ha diritto alla retribuzione dell’operaio specializzato ma anche alla relativa qualifica giuridica).
Nel rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione ( dello Stato o di un ente pubblico) il lavoratore che svolge mansioni superiori ( o che in prevalenza svolga mansioni superiori) ha eventualmente diritto soltanto alla maggiore retribuzione delle mansioni superiori per il periodo di effettivo lavoro, quindi alle relative differenze retributive: non ha, però, diritto a conseguire la categoria o qualifica giuridica superiore di cui di fatto ha svolto le relative mansioni, perché nel rapporto di lavoro pubblico ogni posto di lavoro o posizione lavorativa si consegue attraverso una selezione ( il pubblico concorso ), per espressa disposizione della Costituzione e delle leggi speciali (quando si parla di leggi “speciali” ci si riferisce a leggi che non sono fra quelle contenute nel Codice Civile ).
Il lavoratore subordinato non solo ha il dovere di svolgere le sue mansioni ( quelle per le quali è stato inquadrato) ma vanta anche un diritto a tali mansioni.
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La ragione di tale diritto risiede nel fatto che le mansioni lavorative, come esperienza lavorativa/professionale entrano a far parte del patrimonio del lavoratore ( come se fossero soldi che entrano in tasca! ) e sono quindi economicamente valutabili e come tali, come valori economici,
“scambiabili” sul mercato del lavoro.
Quanto sopra può meglio spiegarsi con un esempio:
Se un operaio specializzato viene adibito alle mansioni di un operaio generico ma, ciò nonostante, viene retribuito sempre da operaio specializzato, esso subisce comunque un danno ( da “demansionamento” ovvero da “dequalificazione professionale”) alla sua capacità professionale che, nel tempo, progressivamente perderà e avendola perduta non potrà in futuro utilizzarla sul mercato del lavoro in esso vantando l’esperienza di “specializzato” che, però, nel tempo ha perso per avere effettuato mansioni di operaio generico.
IL CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO.
Come si è detto, il contratto collettivo nazionale di lavoro (abbreviato: C.C.N.L.) viene annoverato tra le “fonti” del diritto del lavoro italiano.
Esso è un “contratto”, definito di “diritto comune” in quanto è una specie del genere Contratto previsto dal codice civile ( ovvero quell’Accordo, tra due o più parti, per costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale ).
Dunque, il CCNL è un accordo che viene stipulato tra le associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale dei lavoratori (organizzazioni sindacali o “sindacati”) e le associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale dei “datori di lavoro”, di un certo settore produttivo o “comparto”.
Il CCNL vincola (obbliga) soltanto gli associati alle associazioni sindacali ( dei lavoratori e dei datori di lavoro) che lo hanno stipulato.
La vincolatività del CCNL trae origine anch’essa da un rapporto giuridico, detto rapporto di mandato. L’istituto giuridico sottostante a detto rapporto di mandato è quello della rappresentanza, intesa come il potere che un soggetto ( Rappresentato) conferisce ad un altro (Rappresentante) di compiere atti giuridici nel suo interesse ( e alle volte anche direttamente in suo nome) al punto che tali atti giuridici compiuti dal rappresentante hanno un effetto diretto sulla sfera giuridica ( sul patrimonio) del rappresentato.
Con l’adesione del singolo lavoratore e del datore di lavoro a questa o quella associazione sindacale maggiormente rappresentativa a livello nazionale, tali soggetti, quindi, conferiscono a tali associazioni il potere di rappresentanza, quindi il potere di regolare a livello collettivo i loro interessi nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato. Il principio - generale e di senso comune - che sta a fondamento della stipulazione di un contratto a livello collettivo è quello della “unione” che “..fa la forza…”: nel senso che, in particolare per i lavoratori ( parte economicamente più debole nel rapporto di lavoro rispetto al datore di lavoro che è proprietario e gestore dei mezzi di lavoro e di produzione ), trattare e quindi stipulare il contratto a livello collettivo può far “spuntare”
condizioni ( soprattutto economiche, retributive) di maggiore favore e utilità !
Quindi, il principio generale è quello – su esposto – per cui il CCNL vincola soltanto i lavoratori e i datori che aderiscono alle organizzazioni sindacali che tale Contratto Collettivo hanno stipulato.
Tuttavia, vi può essere una estensione DI FATTO del CCNL, anche se una o entrambe le parti del contratto individuale di lavoro non sono iscritte ( non hanno concesso il mandato ) alle organizzazioni sindacali di categoria – dei lavoratori e dei datori – che hanno stipulato il CCNL.
Vi è, quindi, in tali ipotesi, una applicazione di fatto del CCNL, la quale si verifica quando i soggetti del rapporto individuale di lavoro abbiano prestato adesione al CCNL oppure lo abbiano implicitamente recepito nel contratto individuale, applicando pertanto gli istitudi giuridici ed economici del detto Contratto Collettivo come – ad esempio – orario di lavoro, ferie, permessi orari o giornalieri, retribuzione per livelli, fasce, classi di anzianità, ecc.
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Quanto sopra avviene – e storicamente è avvenuto – soprattutto con riferimento ai minimi di retribuzione ( o minimi salariali ), che sono stati applicati dai Giudici nazionali in via di interpretazione delle norme giuridiche anche a coloro i quali non fossero stati iscritti ai sindacati stipulanti a livello nazionale il Contratto Collettivo, in diretta applicazione del principio della
“giusta retribuzione” di cui all’art. 36 Costituzione.
- Relazioni tra il CCNL e altre “fonti” del rapporto di lavoro subordinato.
Occorre ora chiedersi quali siano i rapporti gerarchici fra il CCNL ed altre “fonti” del rapporto di lavoro subordinato.
Senza dubbio il CCNL cede di fronte alla Legge ed atti ( anche sovranazionali, come le Direttive dell’Unione Europea ) equiparati. Nel senso che la legge statale nazionale e particolari atti normativi sovranazionali si applicano sempre al rapporto di lavoro anche se il CCNL abbia disposto diversamente.
Nei rapporti con il contratto individuale di lavoro la situazione, tuttavia, si atteggia in modo differente, avendo presente il principio generale di favore per il lavoratore subordinato quale parte economicamente più debole del rapporto giuridico di lavoro (c.d. “favor lavoratoris” ).
Infatti, la regola generale è che ( nell’ambito del criterio di gerarchia delle fonti ) le disposizioni del CCNL non possono essere derogate dalla clausole del contratto individuale; così chè le clausole di quest’ultimo contratto che deroghino al CCNL sono NULLE. Si tratta di una nullità relativa, in quanto non travolge l’intero contratto individuale di lavoro ma soltanto le clausole di questo ultimo che siano in contrasto con il CCNL, le quali, quindi, sono sostituite in maniera AUTOMATICA da quelle del CCNL.
Tuttavia, la su descritta inderogabilità del CCNL opera solo per quelle deroghe ad esso ( da parte del contratto individuale ) CHE PEGGIORANO LA CONDIZIONE DEL LAVORATORE ( così detta derogabilità “in pejus” ); non opera, invece, per le deroghe che il contratto individuale apporti IN SENSO MIGLIORATIVO DELLE CONDIZIONI GIURIDICHE ED ECONOMICHE DEL LAVORATORE ( c.d. derogabilità “in melius”):
dette deroghe migliorative e più favorevoli al lavoratore, dunque, prevalgono sulle diverse e contrastanti clausole e disposizioni del CCNL.
LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO E I CASI DI ESTINZIONE. LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO E IL RECESSO UNILATERALE ( DIMISSIONI- LICENZIAMENTO ).
I casi di estinzione del rapporto di lavoro subordinato sono molteplici e possono come di seguito sintetizzarsi:
1) per scadenza del termine nei contratti di lavoro,appunto, “a termine”, che dunque non siano stati stipulati a TEMPO INDETERMINATO. Esemplificativamente sono i contratti generalmente definiti a tempo determinato, di apprendistato, di formazione e lavoro, i contratti di inserimento, ecc. Tutti questi contratti DEROGANO al principio generale ( ancora esistente – seppure ormai solo sulla “carta” – nell’ordinamento giuridico italiano ) che vede IL FAVORE DEL LEGISLATORE VERSO IL CONTRATTO SENZA DETERMINAZIONE DI DURATA O CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO.
2) per la morte del lavoratore. In via di principio, la morte del datore che sia persona fisica non cagiona l’estinzione del rapporto di lavoro perché di regola esso prosegue con i suoi successori nell’attività di impresa e i suoi eredi.
3) per l’accordo delle parti: è l’ipotesi del c.d. “mutuo consenso” ovvero il caso della risoluzione consensuale del contratto di lavoro, sulla base di un accordo tra lavoratore e datore.
In generale tutti i contratti, così come si stipulano con il reciproco consenso ( incontro delle volontà che si fondono nel contratto ) allo stesso modo di sciolgono ( ri-solvono !) sempre con lo stesso consenso. Si pensi alla separazione consensuale tra i coniugi e al c.d. “divorzio congiunto” che risolve(scioglie il contratto di matrimonio.
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4) per la impossibilità sopravvenuta ( definitiva) della prestazione di lavoro o per “forza maggiore”. Dette circostanze possono riguardare sia il lavoratore ( es., la sua carcerazione per condanna definitiva oppure la sua sopravvenuta inidoneità fisica e/o psichica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro), sia il datore di lavoro ( es., la requisizione da parte dell’Autorità pubblica degli impianti aziendali, la loro distruzione a causa di fatti naturali come terremoti o inondazioni: quanto a questi ultimi sono i tipici casi di c.d. “forza maggiore”, che i Romani definivano una “forza alla quale è impossibile resistere”-“vis major cui resisti non potest” ).
5) per altre cause di estinzione previste dalla legge, come ad esempio il superamento del c.d.
periodo di “comporto” ( art. 2110 cod. civile, quando il lavoratore superi il termine massimo in cui gli è consentito di non lavorare per causa di malattia, essendo comunque anche parzialmente retribuito e conservando il posto di lavoro ).
6) In ultimo, ma non per importanza, per il recesso del lavoratore (dimissioni) e del datore di lavoro ( licenziamento ).
- Cenni sul recesso in generale e in particolare nel rapporto di lavoro subordinato.
Il recesso, nel rapporto di lavoro, è applicabile solo al contratto di lavoro a tempo indeterminato, nel quale, cioè, non è predeterminata la durata del rapporto. Nel contratto a termine o a tempo determinato la cessazione, ovviamente, si ha alla scadenza finale del contratto.
Il recesso, in generale, possiede le seguenti giuridiche caratteristiche:
è UNILATERALE, in quanto proviene da una sola delle parti contrattuali;
è un ATTO RICETTIZIO, il quale quindi si perfezione ed è dunque valido ed efficace soltanto quanto viene a conoscenza della parte rispetto a cui è intimato: in proposito si parla di conoscenza legale, ovvero del fatto che tale atto di recesso deve entrare nella sfera non di conoscenza effettiva ma di legale conoscibilità ( se intimo il recesso con una lettera raccomandata con l’avviso di ricevimento – la raccomandata a.r. – se il destinatario la rifiuta o il postino non lo trova dove risiede e quindi deposita l’atto presso l’ufficio postale centrale è un problema del destinatario: egli poteva conoscere l’atto con l’ordinaria cura e diligenza, andandolo a ritirare all’ufficio postale, ma non lo ha fatto: l’atto si ha comunque per ricevuto ! Diversamente, non si potrebbe fare alcuna comunicazione o formale notificazione e verrebbe meno la certezza necessaria dei rapporti giuridici ).
è la estrinsecazione di un DIRITTO POTESTATIVO in quanto anche se la manifestazione di volontà che è contenuta nell’atto di recesso è unilaterale essa produce effetti nella sfera giuridica del destinatario determinando l’estinzione del rapporto giuridico.
- il recesso del lavoratore ( le dimissioni )
Nel contratto d lavoro a tempo indeterminato le dimissioni sono sempre ammesse, purchè sia rispettato il termine di preavviso stabilito dal CCNL o dagli USI, sotto pena di pagamento dell’indennità di mancato preavviso.
Il preavviso serve a consentire al datore di lavoro di rimpiazzare il lavoratore dimissionario e generalmente varia sulla base dell’anzianità di lavoro del lavoratore e della sua qualificazione professionale: ovviamente per rimpiazzare un lavoratore specializzato sarà necessario più tempo rispetto alla sostituzione di un lavoratore “generico” quindi il termine di preavviso aumenta.
Nel caso in cui, però, ricorra una giusta causa ( si veda più ampiamente in tema di
“licenziamento” ) se il rapporto è a tempo indeterminato non è necessario rispettare il preavviso ( c.d. recesso “in tronco”) mentre se il contratto è a tempo determinato, non è necessario attendere la scadenza finale del contratto ( nel tempo determinato, solo quando ricorra la c.d.
“giusta causa”).
La FORMA delle dimissioni del lavoratore – a differenza di quella del licenziamento, che è vincolata all’atto scritto – è generalmente libera, a meno che non vi sia una forma particolare prescritta dal CCNL.
In tutti i casi in cui il recesso ( ora, le dimissioni) deve rivestire una particolare forma e deve essere comunicato in un certo modo, il mancato rispetto della forma e delle modalità di comunicazione determina la nullità dell’atto di recesso.
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Particolari cautele sono previste dalla legge in materia di forma delle dimissioni di soggetti particolarmente deboli, come ad esempio le dimissioni del lavoratore minorenne o quelle della lavoratrice per causa di matrimonio, di gravidanza, o durante il primo anno di vita del figlio della lavoratrice ( e oggi anche del lavoratore-padre). In tutti tali casi le dimissioni del lavoratore devono essere convalidate dal servizio ispettivo competente del Ministero del Lavoro.
- il recesso del datore di lavoro (licenziamento ): divieti di licenziamento.
Vi è divieto di licenziamento del lavoratore subordinato nei seguenti ed esemplificativi casi:
- per matrimonio;
- per stato di gravidanza e puerperio della lavoratrice;
- per fruizione dei congedi parentali previsti dalla legge;
- per malattia generica ( diritto alla conservazione del posto di lavoro e anche alla parziale retribuzione per un periodo massimo previsto dai CCNL: c.d. periodo di comporto );
- per infortunio e malattia professionale ( causata cioè dal lavoro);
- per incarichi sindacali e di pubbliche funzioni elettive;
- per sciopero.
- Il licenziamento per GIUSTA CAUSA e per GIUSTIFICATO MOTIVO
La nozione di giusta causa si rinviene nell’art. 2119 cod. civile per il quale, nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, le Parti ( quindi sia il datore che il lavoratore, quest’ultimo con le
“dimissioni” ) possono recedere dal contratto senza preavviso ( quindi, in tronco o come anche si dice “ad nutum” ) qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro.
Nel contratto a tempo determinato è pure possibile il recesso per tale “giusta causa” prima che sia scaduto il termine finale di detto contratto.
La “giusta causa” ricorre allorchè siano commessi fatti di particolare gravità che, valutati sia soggettivamente che oggettivamente, siano tali da configurare una grave ed irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, fondamentalmente dell’elemento “FIDUCIA” che è sottostante a tale rapporto.
A differenza del licenziamento per c.d. “giustificato motivo soggettivo” ( di cui in prosieguo) la
“giusta causa” E’ PIU’ AMPIA, nel senso che non viene integrata solo da comportamenti ( del lavoratore o anche del datore) che costituiscono notevoli e gravi INADEMPIMENTI ALLE OBBLIGAZIONI SCATURENTI DAL CONTRATTO DI LAVORO, ma può rinvenirsi anche in FATTI E COMPORTAMENTI CHE SIANO ESTRANEI AL CONTRATTO ED AL CONSEGUENTE RAPPORTO DI LAVORO MA CHE SIANO TALI DA FARE VENIRE MENO LA FIDUCIA CHE TALE RAPPORTO CARATTERIZZA.
Il più delle volte sono i Contratti Collettivi nazionali di lavoro che individuano fatti TIPICI e tali da integrare il recesso per giusta causa ma l’ampiezza della nozione ( di giusta causa), come sopra espressa, è tale che le condotte tipiche individuate dal CCNL non sono un vincolo per il Giudice ( chiamato a decidere sulla legittimità o meno del recesso ).
Il licenziamento per giustificato motivo si differenzia da quello per giusta causa perché esso consiste esclusivamente in un notevole inadempimento agli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ( mentre la giusta causa può essere anche un fatto grave, esterno al rapporto di lavoro ma che faccia venire meno in una del due parti del rapporto – in caso di licenziamento, nel datore di lavoro – la Fiducia ).
Quindi, nel licenziamento per giustificato motivo i fatti possono soltanto riguardare il rapporto contrattuale di lavoro, costituendo inadempimenti alle obbligazioni che discendono dal contratto.
A differenza della giusta causa il rapporto può proseguire per un certo tempo, che è quello dato dal PREAVVISO.
Quello di cui sopra è il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, che si distingue dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo che si ha ogni qual volta dipenda non da un
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notevole ed importante inadempimento del lavoratore ma ( appunto, oggettivamente) da fatti e motivi collegati alla attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento dell’attività produttiva.
In tali casi ( quando cioè il datore ritenga che per riorganizzare il lavoro, ad esempio a causa di una crisi economica, ha bisogno di meno lavoratori oppure perché sono venute meno importanti commesse che facciano flettere negativamente il fatturato dell’impresa non consentendo più di pagare tutti i salari, ecc. ) quindi per il giustificato motivo
“oggettivo” la legge riconosce la prevalenza delle esigenze del datore di lavoro ( dell’impresa) rispetto alle esigenze del lavoratore a conservare il posto di lavoro.
- l’intimazione del licenziamento. Forme e procedure.
A differenza delle dimissioni del lavoratore (la cui “forma” è libera), il licenziamento deve sempre essere intimato IN FORMA SCRITTA .
La sua motivazione non deve essere necessariamente contenuta nell’atto di recesso (licenziamento) ma il lavoratore – entro 15 giorni da quando ha ricevuto l’atto di recesso – può richiederne la motivazione e nei successivi 7 giorni il datore deve comunicare i MOTIVI del licenziamento per iscritto. Tali motivi, una volta come sopra comunicati non possono più essere cambiati ( immutabilità dei motivi di licenziamento).
L’intimazione di licenziamento deve poi essere IMMEDIATA rispetto al verificarsi della causa che lo giustifica ( sia nel lic. per giustificato motivo che – e sopra tutto – in quello per giusta causa ).
Il lavoratore ha l’ONERE ( nel senso che se non lo fa è un suo problema e quindi avrà accettato il licenziamento e nulla potrà fare come reazione, anche giudiziale, allo stesso ) di IMPUGNARE – SEMPRE PER ISCRITTO - ENTRO 60 GIORNI IL LICENZIAMENTO.
Detto termine di 60 gg. decorre dalla comunicazione dell’intimazione di licenziamento ovvero ( se il lavoratore li ha espressamente richiesti) dalla comunicazione dei motivi.
Se tali Forme non vengono rispettate il licenziamento non è efficace ( cioè non produce il suo effetto tipico di far cessare il rapporto di lavoro).
IL DIRITTO DI SCIOPERO
Lo sciopero ( il cui diritto è previsto direttamente dalla Costituzione) è la più importante forma di autotutela sindacale, a difesa dei diritti dei lavoratori e per sostenerne le rivendicazioni.
L’autotutela dei propri diritti è generalmente esclusa perché nel nostro Ordinamento Giuridico di norma per tutelare un proprio diritto non ci si può fare “giustizia da sé” ( che sarebbe anche un reato penale, chiamato “esercizio abusivo delle proprie ragioni”) ma bisogna rvolgersi ad un giudice quindi alla Autorità Giudiziaria.
Nel mondo del lavoro, invece, esistono varie forme di auto tutela “sindacale” che si attuano attraverso il ricorso a varie e particolari forme di azione diretta che nel nostro Ordinamento hanno natura eccezionale ( per le sopra accennate ragioni). Tali forme di azione diretta sono mezzi NON GIURIDICI di risoluzione delle controversie collettive economiche e si riferiscono, pertanto, ad interessi che ancora non hanno la dignità di DIRITTI e per il cui riconoscimento come tali ( come diritti ) appunto si pongono in essere le azioni dirette in questione.
Lo sciopero è la più importante delle azioni dirette di cui sopra ed in se e per sé è considerato come diritto dalla Costituzione.
Esso si configura come una astensione totale e concertata dal lavoro da parte di una pluralità di lavoratori subordinati, per la tutela dei loro interessi collettivi.
Da tale nozione immediatamente deriva che lo sciopero non può essere effettuato da un solo lavoratore o da pochi lavoratori.
Abbiamo detto che lo sciopero è un diritto: la sua titolarità è individuale, nel senso che appartiene ad ogni singolo lavoratore, ma il suo ESERCIZIO è COLLETTIVO.
Essendo un diritto, quindi un fatto lecito, l’esercizio dello sciopero non ha alcuna conseguenza sul rapporto di lavoro ( si è visto più sopra che il lavoratore che sciopera non può essere licenziato). Gli unici effetti che lo S. ha sul rapporto di lavoro che, per la sua durata, si
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sospendono le 2 obbligazioni fondamentali del rapporto di lavoro: quella di lavorare e – per il datore – quella di corrispondere la retribuzione. Pertanto, durante lo sciopero, permangono le altre obbligazioni a carico del datore di lavoro e le prestazioni a carico degli enti previdenziali che vengono regolarmente erogate anche durante lo sciopero.
Diverse sono le forme ANOMALE di sciopero che, tuttavia, nonostante la loro anomalia rispetto alla nozione generale, come forme di lotta e autotutela sono state comunque ritenute legittime dalla Giurisprudenza.
Si possono citare:
- lo sciopero “a sorpresa”, cioè senza preavviso. Fatta eccezione per i c.dd. “servizi pubblici essenziali” tale sciopero è ritenuto legittimo;
- lo sciopero dello “straordinario”, quale generalizzato rifiuto di prestare lavoro straordinario (anche se retribuito) richiesto dal datore di lavoro.
- lo sciopero a scacchiera, come astensione dal lavoro in reparti alternati e in tempi successivi;
- lo sciopero “a singhiozzo”, come astensione dal lavoro frazionata in brevi periodi di tempo.
- Lo sciopero nei servizi pubblici “essenziali”.
Lo sciopero è un diritto che, secondo la Costituzione (art. 40), deve essere esercitato nelle forme e nei LIMITI previsti dalle leggi.
Una legge, la nr. 146 del 1990, disciplina l’esercizio del diritto di sciopero nei così detti
“servizi Pubblici essenziali”. Questi ultimi sono i servizi in favore della collettività e a tutela di diritti fondamentali parimenti previsti nella Costituzione della Repubblica Italiana.
Essi – ma l’elenco non è tassativo – sono quelli che riguardano la tutela della vita e della salute, della libertà e sicurezza della persona, dell’ambiente e del patrimonio storico e artistico, la tutela della libertà di circolazione, l’istruzione pubblica, la libertà di comunicazione, la previdenza ed assistenza sociale.
Poiché devono essere garantiti tali diritti fondamentali, i limiti all’esercizio dello sciopero in tali servizi essenziali sono applicabili sia ai lavoratori subordinati che a professionisti e lavoratori autonomi nonché a piccoli imprenditori che operino nell’ambito di tali servizi pubblici essenziali.
Lo scopo della citata legge ( la 146/1990) è quello di contemperare, di equilibrare l’esercizio del diritto di sciopero nel settore dei servizi pubblici “essenziali” con il godimento dei diritti fondamentali “della persona” - costituzionalmente previsti e tutelati – alla vita, alla salute, alla libertà, alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’istruzione, alla libertà di comunicazione, alla assistenza ed alla previdenza sociale ( sono, quindi, quelli predetti i settori in cui si esercitano e svolgono servizi pubblici “essenziali”). La legge, allora, enuncia le regole per esercitare lo sciopero nei detti servizi pubblici essenziali attraverso:
A) l’adozione di misure che comunque consentano l’erogazione delle prestazioni indispensabili.
Tali misure sono, quindi, definite nei Contratti Collettivi ( i CC.NN.L.).
B) l’osservanza di un preavviso minimo non inferiore a dieci giorni per esercitare lo sciopero:
il preavviso predetto serve a predisporre l’erogazione di prestazioni indispensabili oltre che per attivare dei tentativi di composizione dei conflitti per il quali si vuole fare lo sciopero. Il preavviso si deve comunicare in forma scritta e deve indicare le motivazioni dello sciopero, la sua durata, le modalità di attuazione; ovviamente, il preavviso lo deve dare chi proclama lo sciopero – cioè le organizzazioni sindacali dei lavoratori – al datore di lavoro sostanzialmente “pubblico” che eroga i servizi pubblici essenziali.
C) L’obbligo delle pubbliche amministrazioni o comunque delle aziende che erogano i servizi pubblici essenziali di dare alla utenza (ai cittadini ) le informazioni sullo sciopero, almeno 5 giorni prima che esso inizi, con indicazioni circa i modi e i tempi di erogazione dei servizi durante lo sciopero e delle misure per riattivare i servizi dopo la fine dello sciopero.
D) L’obbligo di fare, prima dello sciopero, un tentativo di conciliazione ( per evitare lo sciopero ). Tale tentativo di conciliazione è obbligatorio ed è vincolante per le parti ( datore di lavoro e sindacati) e si può fare sia seguendo le procedure indicate dai contratti collettivi
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nazionali che presso il Ministero del Lavo ( per i conflitti a livello nazionale) o la Prefettura od il Comune ( per i conflitti a livello locale ).
E’ poi prevista la Commissione di Garanzia che esamina i contratti collettivi nazionali ove prevedono le prestazioni indispensabili da erogare durante lo sciopero ed esamina altresì i codici di autoregolamentazione emanati dalle categorie di lavoratori autonomi ( esempio: gli avvocati) che però anche essi erogano servizi di pubblica necessità ( “essenziali”).
Per fare tali valutazioni la Commissione interpella le associazioni di consumatori e di utenti.
Alla fine del proprio esame, la Commissione emana un suo giudizio, positivo o negativo, sul modo in cui con i suddetti CC.NN.L. e Codici di autoregolamentazione si disciplina lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Se il giudizio è negativo ( quindi il CCNL o il codice di autoregolamentazione non sono idonei ) la citata Commissione di Garanzia elabora una proposta che sottopone alle parti ( gli stipulanti del CCNL o i rappresentanti delle categorie di lavoratori autonomi che hanno emanato il codice di autoregolamentazione dello sciopero nel loro settore ). Se le dette parti non sono d’accordo sulla proposta la Commissione in questione elabora una regolamentazione provvisoria dello sciopero, che dura fino a quando le dette parti non emanano regole idonee.
Vi è poi l’istituto della Precettazione che è un provvedimento di autorità ( una Ordinanza) che – appunto, d’autorità ! – può ordinare che lo sciopero sia rinviato, che ne sia ridotta la durata o che sia attuato con modalità diverse. Se l’ordine di precettazione non è ottemperato vi sono delle Sanzioni pecuniarie a carico delle organizzazioni sindacali o delle organizzazioni di categoria dei lavoratori autonomi che hanno comunque scioperato.
L’ordine di precettazione si ha quando dallo sciopero può derivare un grave pericolo per il pubblico dell’utenza dei servizi essenziali: l’interesse pubblico collettivo è, quindi, rietnuto più importante dell’interesse di una categoria di lavoratori a scioperare per le proprie rivendicazioni.