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1. VERSO UN’AUTONOMIA DEL DESIGN (1945-1960) 8 2. IL DESIGN AI TEMPI DEL “BOOM” ECONOMICO (1960-1975) 22

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INDICE

ABBREVIAZIONI E ACRONIMI 4 INTRODUZIONE 5

1. VERSO UN’AUTONOMIA DEL DESIGN (1945-1960) 8 2. IL DESIGN AI TEMPI DEL “BOOM” ECONOMICO (1960-1975) 22

2.1 INTRODUZIONE 22

2.2 IL VALORE SIMBOLICO, UN ACCENNO 23 2.3 TRE DIVERSI APPROCCI AL DESIGN 26

3. SCUOLE E DIDATTICA DEL DESIGN (1960-1975) 37 3.1 INTRODUZIONE 37

3.2 I CSDI: NASCITA E STRUTTURA GENERALE 42 3.3 IL CSDI DI FIRENZE 49

• 3.3.1 DISCIPLINE 51

• 3.3.2 PROGETTI 59 3.4 IL CSDI DI ROMA 62

• 3.4.1 DISCIPLINE 63

• 3.4.2 PROGETTI 69

3.5 LA CHIUSURA DEI CSDI E CONSIDERAZIONI FINALI 77 3.6 I CORSI DI PROGETTAZIONE ARTISTICA PER L’INDUSTRIA PRESSO LE FACOLTÀ DI ARCHITETTURA 83

3.7 CONCLUSIONI 88

4. IL DESIGN NEL POSTMODERNISMO (1975-1995) 93

(2)

4.1 INTRODUZIONE 93

4.2 LA COMPLESSITÀ DI MERCATI, SOCIETÀ E MATERIALI 94 4.3 LA CULTURA POSTMODERNA DEL PROGETTO 98

4.4 INFORMATICA, ELETTRONICA, TELEMATICA 101 4.5 VERSO GLI ANNI NOVANTA 103

5. SCUOLE E DIDATTICA DEL DESIGN (1975-1995) 108 5.1 INTRODUZIONE 108

5.2 IL DISEGNO INDUSTRIALE VISTO DALLE FACOLTÀ DI ARCHITETTURA 112

• 5.2.1 LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI MILANO 115

• 5.2.2 LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI TORINO 118

• 5.2.3 LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE 120

• 5.2.4 LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI 122

• 5.2.5 LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO 126

• 5.2.6 CONSIDERAZIONI 127

5.3 GLI ISTITUTI SUPERIORI PER LE INDUSTRIE ARTISTICHE (ISIA) 130

• 5.3.1 ATTIVAZIONE DEGLI ISIA E STRUTTURA GENERALE 130

• 5.3.2 LA DIDATTICA DELLA COMPLESSITÀ DEGLI ISIA 132

• 5.3.3 L’APERTURA VERSO L’ESTERNO: L’ITALIA’S CUP 137

• 5.3.4 CONSIDERAZIONI 138

5.4 IL CORSO INTERDISCIPLINARE DI DESIGN DELL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI CARRARA 140

• 5.4.1 ATTIVAZIONE DEL CORSO E STRUTTURA GENERALE: IL CORSO

BASE E LA FASE “OPERATIVA” 140

(3)

• 5.4.2 PROGETTI, UN ESEMPIO: LA PROGETTAZIONE DI UN OGGETTO RISPONDENTE AD UNA FUNZIONE PRIMARIA (IL SEDILE) 146

• 5.4.3 GLI SCAMBI INTERNAZIONALI 149

• 5.4.4 CONSIDERAZIONI 149

5.5 LA SCUOLA POLITECNICA DI DESIGN DI MILANO (SPD) 153

• 5.5.1 NASCITA DELLA SCUOLA E STRUTTURA GENERALE: IL

“GESTALTISMO” 153

• 5.5.2 DISCIPLINE 156

• 5.5.3 CONSIDERAZIONI 160

5.6 DUE BREVI CENNI: LA DOMUS ACADEMY E L’ISTITUTO EUROPEO DEL DESIGN (IED) 161

• 5.6.1 LA DOMUS ACADEMY 161

• 5.6.2 L’ISTITUTO EUROPEO DEL DESIGN (IED) 165

CONCLUSIONI 168

APPENDICE 173

ILLUSTRAZIONI 213

BIBLIOGRAFIA 239

(4)

ABBREVIAZIONI E ACRONIMI

• ABS: Acrilonitrile-Butadiene-Stirene

• ADI: Associazione del Disegno Industriale

• AFR: Archivio Fondazione Ragghianti

• CEE: Comunità Economica Europea

• CISDA: Centro Interdipartimentale di Servizi per la Didattica della Facoltà di Architettura

• CISIP: Centro Interdipartimentale di Servizi Informatici del Politecnico

• CNR: Centro Nazionale Ricerche

• CSDI: Corso Superiore di Disegno Industriale

• DPPPE: Dipartimento di “Programmazione, Progettazione e Produzione Edilizia”

• FIAT: Fabbrica Italiana Automobili Torino

• ICSID: International Council of Societies of Industrial Design

• IED: Istituto Europeo del Design

• ISIA: Istituto Superiore per le Industrie Artistiche

• ISO: International Organization for Standardization

• IUAV: Istituto Universitario di Architettura di Venezia

• MAC: Movimento Arte Concreta

• MOMA: Museum of Modern Art

• OPEC: Organization of the Petroleum Exporting Countries

• PVC: Poli-Vinil-Cloruro

• SPD: Scuola Politecnica di Design

• UNI: Ente Nazionale Italiano di Unificazione

(5)

INTRODUZIONE

Il presente elaborato tratta il tema dell’insegnamento del disegno industriale, così come è stato sperimentato in Italia in un periodo che va dal secondo dopoguerra fino agli inizi degli anni Novanta. Esso si ferma così al momento dell’inserimento, all’interno delle Facoltà di Architettura, di veri e propri corsi di laurea in Disegno Industriale.

Questo episodio rappresenta il momento a partire dal quale, nelle Università, la preparazione specifica ed autonoma del disegnatore industriale si aggiunge a quella di architetto, tradizionalmente ritenuta sufficiente per la formazione del designer.

Il lavoro è suddiviso in tre sezioni principali, corrispondenti a tre periodi, ciascuno dei quali è contraddistinto da una delimitazione temporale (1945-60 / 1960-75 / 1975-95) che non vuole essere vincolante, bensì convenzionale. Questa delimitazione ha il compito di aiutare a definire ed inquadrare il contesto storico e culturale entro cui di volta in volta si inseriscono le diverse esperienze dell’insegnamento.

La prima sezione (1945-60) funge da premessa. Essa prende avvio dalla

fine del conflitto, quando le devastazioni belliche imposero l’uso di

metodi di produzione industriale per rispondere all’urgente necessità di

una ricostruzione su vasta scala. L’utilizzo di processi di tipo industriale

ha condotto a riflessioni e dibattiti sia sul ruolo di questi processi nella

definizione di oggetti d’uso quotidiano, sia sulla figura professionale

adatta a gestirli. In questo contesto presero corpo le prime ipotesi di

istituzione di scuole dedicate al disegno industriale. Al dibattito

parteciparono importanti personalità, a partire da Sottsass con il suo

intervento ne “Il politecnico” nel 1947, passando dall’intervento di

(6)

Argan in occasione del I Congresso Internazionale di Industrial Design tenuto all’interno della X Triennale di Milano, fino alle definizioni avanzate dall’ADI e dall’ICSID sulla figura professionale del designer.

La seconda sezione (1960-1975) consta di due parti.

La prima parte ricostruisce il periodo del “boom” economico, prestando attenzione ai fenomeni del consumismo e della contestazione al sistema di sviluppo capitalista nelle loro implicazioni con il design. Questi fenomeni, infatti, hanno esercitato la propria influenza nei confronti della cultura progettuale, favorendo la nascita di tre tipi di approccio al progetto: “conformista”, “riformista” e di “contestazione”.

Questo rappresenta la cornice entro cui si inseriscono le specifiche esperienze didattiche riferite al disegno industriale, argomento della seconda parte della sezione. Essa affronta il tema dei corsi di

“Progettazione artistica per l’industria”, istituiti nell’ambito delle Facoltà di Architettura allo scopo di integrare la formazione di architetto con nozioni sui metodi di produzione industriale. È affrontato altresì il tema dell’istituzione dei CSDI e dell’insegnamento in essi impartito, e rivolto a formare, seppur nell’ambito delle esperienze artistiche, veri e propri disegnatori industriali al fianco della tradizionale figura dell’architetto.

La terza sezione (1975-1995) consta anch’essa di due parti.

La prima parte prende le mosse dalla fine del “boom” economico e dall’inizio di una fase di crisi, durante la quale si manifestano i fattori a monte di importanti cambiamenti. Tra questi, la ristrutturazione industriale, l’avvento delle nuove tecnologie, la frammentazione del tessuto sociale e la parcellizzazione del mercato esercitano la propria influenza anche nei confronti della cultura del progetto.

Questi fattori sono alla base di mutamenti intervenuti anche in seno alle

specifiche esperienze di insegnamento del design, esperienze che

rappresentano l’argomento della seconda e ultima parte.

(7)

Essa, in particolare, passa in rassegna le esperienze condotte

nell’ambito delle Facoltà di Architettura, dove sono istituiti indirizzi di

laurea e scuole di specializzazione dedicate al disegno industriale. È

affrontato anche il tema degli ISIA, che prendono il posto dei CSDI, del

corso di Design attivato presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara e

delle tre strutture private della Scuola Politecnica di Design di Milano,

della Domus Academy e dell’IED.

(8)

1. VERSO UN’AUTONOMIA DEL DESIGN (1945-1960)

Il secondo dopoguerra rappresentò per l’Italia un momento durissimo, un periodo nel quale alla diffusa penuria si legava tuttavia un’immagine di possibile, futura abbondanza.

Durante gli anni del conflitto, gli strumenti tecnologicamente più avanzati erano i mezzi di trasporto militari, sempre più efficienti, o le armi, oggetti automatici o semiautomatici coi quali migliaia di combattenti convivevano fino a farne protesi del proprio corpo, e con i quali entravano in contatto con una realtà per certi versi industriale, contraddistinta dalla reiterazione di gesti e dalla comprensione, anche se intuitiva, della logica meccanica

1

. D’altronde, già dal 1935 Mussolini aveva sposato una pura economia di guerra, a causa della quale le uniche realtà in grado di avvantaggiarsi dalle commesse statali furono le industrie belliche, che poterono svilupparsi senza significative e positive ricadute sul tessuto sociale della popolazione

2

. Così, quando al termine del conflitto l’Italia si presentava come un paese economicamente distrutto

3

, proprio le armi e i mezzi da guerra erano gli strumenti più all’avanguardia e funzionanti a disposizione, che in un momento di forte penuria non potevano essere abbandonati, ma dovevano essere

1

M. Vitta, Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica, 1851-2001, Torino, 2001, pp.

217-218.

2

G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi. Bari, 2006, p. 388.

3

La produzione industriale era un terzo di quella del ʼ38; il settore agricolo aveva subito anchʼesso notevoli danni, mentre le infrastrutture e il sistema dei trasporti erano ormai disarticolati. I bombardamenti, inoltre, avevano distrutto o gravemente danneggiato diverse abitazioni. Ivi, pp.

490-491.

(9)

riutilizzati e riconvertiti a scopi civili e produttivi, anziché distruttivi. Allo stesso modo, era necessario riconvertire a scopi civili i metodi di produzione dell’industria bellica. Un limpido esempio in questa direzione è offerto dal caso della «Vespa» (Fig. 1), progettata a partire da materiali e principi derivati dall’industria aeronautica militare. Proprio nel 1945 Corradino D’Ascanio, ingegnere della “Piaggio”, utilizzò gli scarti e i residui della guerra per realizzare il famoso veicolo, montando un motorino d’avviamento per aerei su un monopattino pieghevole a motore fornito ai propri paracadutisti dall’esercito alleato. Quello della

«Vespa» fu uno dei primi casi in cui metodi di produzione industriali ispirarono una forma adeguata, cioè una forma funzionale, tecnica e essenziale, suggerita dall’aspetto aerodinamico, dalla carrozzeria portante in sostituzione del telaio e dal motore coperto posizionato sul lato posteriore

4

, in modo tale da consentire la trasmissione diretta dal cambio alla ruota corrispondente senza catena. Questi erano tutti fattori che, pur rispondendo ad una funzione imprescindibile, esprimevano una qualità estetica nuova e nello stesso tempo conducevano gli italiani a familiarizzare con una realtà industriale in fieri.

Non è un caso, dunque, che furono proprio i mezzi di trasporto

5

, che poterono contare sul riutilizzo della più avanzata tecnologia bellica, i primi oggetti a portare la popolazione, in tempo di pace, a contatto con la realtà della macchina, un mondo ancora sconosciuto ma che cominciava a fare il suo ingresso nella vita quotidiana. Proprio questi veicoli, tra l’altro, avvicinarono gli uomini dalla campagna alle città, contribuendo a loro modo a incrementare il fenomeno dell’inurbamento, già avviato con il conflitto.

4

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 220; 230-231.

5

Al motorscooter della Piaggio seguì dal 1946 la «Lambretta» progettata da Cesare Pallavicino per

la “Innocenti”.

(10)

Quest’evoluzione, unitamente all’urgenza della ricostruzione che seguì la fine dello scontro, pose problemi di ordine nuovo, colti innanzitutto dal settore dell’arredamento e dell’edilizia, nei quali si comprese l’esigenza non solo di nuove abitazioni, ma anche di nuovi modelli abitativi. Difatti l’VIII Triennale di Milano del 1947, nel significativo progetto del quartiere “QT8”, introdusse i principi della serialità, dell’economia e della riproducibilità illimitata dei materiali come condizione necessaria per rispondere agli urgenti bisogni di una società di massa, anche ai fini di una maggiore equità sociale. L’architetto Piero Bottoni, nell’introduzione al catalogo guida della suddetta Triennale, asseriva la necessità che «Il programma doveva tener conto del clima economico e sociale che la guerra aveva determinato [...] per le arti industriali un maggior incremento della produzione dei pezzi di gran serie (realizzabile attraverso l’industria) per le loro possibilità di basso costo e, quindi, di vasto contributo alla necessità della ricostruzione»

6

e ancora «Architettura moderna, espressione che non può essere dissociata da quella di urbanistica, sociologia, igiene, tecnica»

7

.

Il ruolo e l’importanza della nascente industria, anche dal punto di vista sociale, cominciava quindi a emergere, in particolare quando industriali illuminati, tecnici e architetti compresero la necessità di rispondere ai gravi quesiti e agli obblighi che il dopoguerra poneva, con un occhio di riguardo ai possibili profitti che se ne potevano ricavare.

Ne è esempio l’esperienza di Giulio Castelli, imprenditore e ingegnere chimico specializzato nella lavorazione del polipropilene e dei materiali plastici, il quale intendeva scoprire i possibili utilizzi pratici dei materiali polimerici sintetici, studiati solo dal punto di vista teorico all’università.

6

Triennale di Milano, T8: Ottava Triennale di Milano, Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dellʼarchitettura moderna: catalogo guida, Milano, 1947, p. 7

7

Ivi, p. 9.

(11)

Quando nel 1949 Castelli fondò la “Kartell”, impresa specializzata nei materiali plastici, l’obiettivo principale era la produzione industriale di oggetti d’uso quotidiano, che sorprendessero l’utente per le caratteristiche innovative derivanti dall’applicazione di tecnologie all’avanguardia. Lo stesso uso di metodi industriali, procedimenti diversi da quelli tradizionali, si traduceva nella creazione di tipologie oggettuali nuove e differenti, che per certi versi accompagnavano il contingente rinnovamento delle esigenze sociali e culturali

8

. In altri termini, l’adozione di una scoperta scientifica come quella delle plastiche i n d u s t r i a l i , c o m p o r t a n d o i m p o r t a n t i t r a s f o r m a z i o n i s i a nell’organizzazione funzionale delle componenti dell’oggetto, sia soprattutto nella struttura stessa della materia, faceva sì che gli utensili e i prodotti anche più umili, proprio in virtù di tali cambiamenti rivoluzionari, rivestissero un ruolo culturale rinnovato e divenissero espressione dei mutamenti in corso. Un esempio in tal senso è offerto dal secchio in polietilene «K.S. 1146» (Fig. 2), disegnato dall’architetto Gino Colombini nel 1955 e vincitore del prestigioso Compasso d’Oro.

L’oggetto stesso, a sua volta, costituiva il simbolo di modi progettuali e produttivi in linea con una cultura industriale in fase di avviamento

9

. Sebbene la “Kartell” iniziasse a sperimentare le nuove frontiere della produzione industriale, e Giulio Castelli comprendesse che la validità e la qualità di un progetto derivassero da una complessità di fattori, di ordine economico, organizzativo, tecnologico e industriale, oltre che estetico, non vi era ancora la consapevolezza, la coscienza di fare design, come ammise lo stesso ingegnere/imprenditore

10

. Qualcosa però cominciava a muoversi, come dimostrano le neonate imprese

8

G. Castelli, P. Antonelli, F. Picchi (a cura di), La fabbrica del design. Conversazioni con i protagonisti del design italiano. Milano, 2007, pp. 26-27.

9

Vitta, Il progetto della bellezza. Cit., pp. 248-250.

10

Castelli, Antonelli, Picchi (a cura di), La fabbrica del design, cit., p. 28.

(12)

attive sul territorio e avviate verso una produzione di serie

11

, e tra la fine degli anni ’40 e gli anni ’50 si tentò un primo dibattito volto a trovare una definizione disciplinare del disegno industriale, destinato ad assumere un valore autonomo.

In un primo momento, tuttavia, l’artigianato conservava un ruolo rilevante in questa definizione.

Considerando la velocità con cui l’Italia lasciò la propria condizione rurale e contadina per entrare nella civiltà dei consumi

12

, e che non si accompagnò a un’analoga repentina evoluzione del tessuto sociale, tale rilievo assume aspetti più comprensibili. Il passaggio a una civiltà moderna, cioè, fu affrontato da una classe sociale che impiegò più tempo a modernizzarsi, e rimase ancorata per certi versi ai vecchi modi di vita. La cosiddetta “borghesia”, per esempio, in Italia non aveva la lunga tradizione industriale di altri paesi europei, e in questo primo periodo affrontava le esigenze produttive con una mentalità tradizionale, artigiana appunto.

Sulle pagine de “Il Politecnico” diretto da Elio Vittorini, Ettore Sottsass jr. postulava difatti l’integrazione tra artigianato e industria. Per arrivare a tale conclusione, partiva dalla contrapposizione tra questi due campi, però estremizzati: poneva da un lato architetti e tecnici talmente fiduciosi nelle capacità dell’industria da ritenere la macchina in grado di definire in perfetta autonomia l’oggetto da produrre, e quindi senza un

11

Alla “Kartell”, fondata nel 1949 come indicato nel testo, si possono aggiungere “Arflex”, fondata nel 1950, e la “Figli di Amedeo Cassina”, in realtà già attiva dal 1927.

12

Dopo lʼerogazione dei fondi del piano Marshall (1300 milioni di dollari stanziati tra il 1948 e il 1951) si potè assistere a una rapida crescita economica iniziata nel ʼ51, dando vita al periodo del cosiddetto “miracolo economico”, il cui culmine si verificò tra il 1958 e il 1963. In questi anni la produzione industriale manifatturiera conobbe uno sviluppo vertiginoso, seguita dai settori siderurgico, meccanico e chimico. Tra i principali fattori di questa crescita vi fu lo scarto fra lʼaumento della produttività e il basso livello di salari, favorito dalla più larga disponibilità di manodopera; basti pensare che nel decennio in questione lʼoccupazione nel settore secondario passò dal 29 al 37%. Ovviamente un mutamento sì repentino fece in modo che lʼItalia passasse disordinatamente nella modernità, senza aver risolto i propri squilibri, in primo luogo territoriali.

Sabbatucci, Vidotto, Il mondo contemporaneo, cit., p. 503, 568-570.

(13)

progetto preliminare e senza interrogarsi sulla possibilità e sulla necessità di realizzare davvero in serie tutti i prodotti; dall’altro gli artigiani, che, ostinandosi senza rinnovarsi in un lavoro ormai lento, pesante e costoso, non rispondevano più alle esigenze della società moderna, abbarbicandosi a metodi ormai passati. Legarsi alla civiltà industriale era l’unico modo che l’artigianato aveva per salvaguardare la propria vitalità nella società attuale, e questo processo di integrazione doveva avvenire nelle scuole, di cui era necessario un adeguato rinnovamento

13

.

Sebbene Sottsass riservasse ancora una notevole attenzione al lavoro manuale, quando afferma che «l’artigianato così come lo vuole la tradizione [...] deve sparire, perché tante cose fatte da artigiani si fanno a macchina, più belle, meglio e meno costose»

14

, riesce a cogliere un principio fondamentale, e cioè l’importanza della macchina e dell’industria nella definizione, anche sociale e culturale, dell’oggetto

“moderno”.

Questo inizia ormai, dagli albori degli anni ’50, ad invadere la vita quotidiana degli italiani, anche grazie all’attività di strutture produttive, come per esempio le già citate “Kartell”, “Cassina” o “Arflex”, in grado di mettere in circolazione una quantità di prodotti ad elevato contenuto tecnico e di alta qualità formale, capaci di incidere sui modelli comportamentali e sui consumi, ormai di massa, della popolazione. Se il disegno industriale, quindi, incomincia a far parte integrante della realtà pratica con cui l’uomo entra quotidianamente in contatto

15

, dal punto di vista teorico la sua sistematizzazione come disciplina autonoma era ancora in divenire; tuttavia, proprio in virtù degli ultimi sviluppi, la necessità di una profonda riflessione sul design diventava imperativa.

13

E. Sottsass jr., Le vie dellʼartigianato, in “Il Politecnico”, n. 38, novembre 1947, pp. 22-24.

14

Ivi, p. 25.

15

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 232-233.

(14)

Così, la X Triennale di Milano del 1954 ospitò il Congresso Internazionale dell’Industrial Design, ove gli interventi dei vari designer, tecnici e critici, sebbene ancora improntati all’abituale schema del rapporto tra arte e industria, ebbero il merito di condurre una riflessione più sistematica e problematica. In questa occasione, Alberto Rosselli spiegò che la bellezza di un prodotto dipendeva dall’equilibrato e giusto rapporto tra arte e tecnica, funzionalità e fantasia, auspicando la collaborazione tra artisti e tecnici nel delineare le caratteristiche del prodotto industriale, il quale doveva unire una tecnica progredita a una forma adeguata, e cioè i valori della quantità con quelli della qualità

16

. E questo connubio avveniva all’interno delle moderne strutture produttive: incominciavano a riconoscersi, dunque, nonostante i costanti rimandi al mondo dell’arte, più stretti rapporti tra design e industria, senza l’intervento dell’artigianato in qualità di mediatore.

Anche Giulio Carlo Argan, intervenendo al dibattito, ribadiva la natura del design come fattore d’integrazione tra quantità e qualità. Questi asseriva che l’oggetto di design è tale perché, alla rispondenza piena alla funzione, aggiungeva un quoziente estetico che rendeva più piacevole e preferibile il rapporto con esso. Ne faceva conseguire, dunque, che questo piacere non dipendesse dalla mera funzione, bensì dalla contemplazione cui il prodotto è sottoposto, derivante dalla sua particolare definizione formale, colta pienamente nell’atto stesso con cui si utilizza l’oggetto e si instaura con esso una relazione

17

. Se questa era tale da creare un rapporto diretto e personale tra utente/spettatore e oggetto, allora quest’ultimo, anche se riprodotto in migliaia di

16

Ivi, pp. 235-237.

17

In altri termini, la contemplazione che dimostra la bontà dellʼoggetto non deriva dallʼosservazione

passiva e distaccata del prodotto inteso come elemento formale, ma dallʼuso stesso per il quale

questo è stato progettato, e che consente allʼoggetto di esprimere, insieme con la sua forma

adeguata, tutte le sue qualità, di ordine funzionale, tecnico, estetico.

(15)

esemplari, conservava il suo carattere di unicum, che lo rendeva un pezzo “artistico”.

Nonostante la permanenza di concetti desunti dalla tradizionale riflessione artistica (ad esempio l’insistenza sulla contemplazione e sul formalismo), Argan riconosceva il design come fattore che, inserendosi appieno all’interno dei processi produttivi attuali, portava un valore di qualità che stemperava e riformava i criteri puramente quantitativi che muovevano l’industria.

Affinché il design potesse assolvere il proprio ruolo riformatore, il famoso critico riteneva necessario che il rinnovamento partisse dalle stesse strutture preposte al suo insegnamento, esigendo che questo, orientato alla creazione di oggetti prodotti in serie, fosse slegato dalla tradizionale formazione impartita dalle Facoltà d’arte o d’architettura

18

. A tal proposito, avanzò un’ipotesi di riforma della scuola articolata in più punti:

• Raccolta di informazioni di carattere tecnico e formale. Prevedeva la creazione di un centro-studi dove conservare queste informazioni, e che fosse un punto d’incontro tra organismi scolastici e produttivi.

• Creazione di una grande scuola di Design a carattere internazionale.

• Creazione di scuole aziendali, dedite al design tecnico per rispondere ai fini precipui dell’azienda. Queste, al di là dei limiti delle politiche aziendali e grazie a misure correttive, potrebbero costituire un importante elemento di qualificazione della mano d’opera.

• Trasformazione graduale dei metodi di insegnamento nelle scuole d’arte e d’architettura.

18

F. Burkhardt, G. Furlanis, A. Minisci (a cura di), Design, qualità e valore. ISIA - Dieci anni di

design al servizio della società, Roma, 2005, p. 18.

(16)

• Modificazione di programmi e metodi d’insegnamento nelle scuole umanistiche, con lo scopo di eliminare la frattura esistente tra

“cultura” e produzione

19

.

La necessità di istituire strutture scolastiche adeguate a tal compito, d’altronde, era stata avanzata negli anni precedenti. Già il 21 settembre del 1950 lo stesso Argan, in qualità di ispettore del Ministero dell’Istruzione responsabile per l’insegnamento artistico, aveva redatto per l’Istituto Veneto per il lavoro il foglio di promozione del Corso di progettazione per disegnatori industriali e artigiani. Lo studio di Walter Gropius e del Bauhaus aveva costituito il punto di partenza per la definizione dei compiti del corso stesso, contenuti nel suddetto foglio.

Quivi, Argan aveva difatti attribuito all’impianto didattico di quella scuola e degli istituti ad essa ispirati la facoltà di formare “industrial designer” capaci di rispondere, anche grazie al progresso della tecnica, alle esigenze di un sempre maggior numero di consumatori, divenendo i principali artefici della produzione di massa. Poiché questa è ottenuta esclusivamente tramite la macchina, Argan la poneva su un piano diverso rispetto all’artigianato, asserendo infatti che ciascuna di queste produzioni ha caratteristiche formali proprie, dipendenti dal differente mezzo o strumento utilizzato: l’utensile direttamente guidato dalla mano per la produzione artigianale, la macchina per quella industriale

20

. Se l’intervento in corso d’opera dell’artista-artigiano produrrà quelle differenze anche minime che, rendendo impossibile un’assoluta identità tra gli esemplari creati, costituiscono il pregio artistico del lavoro manuale, e quindi un aspetto auspicabile e necessario, non si può dire lo stesso per l’oggetto prodotto industrialmente. In questo caso, la

19

G.C. Argan, Lʼ«Industrial Design» come fattore di integrazione sociale; relazione introduttiva al “I Congresso internazionale di Industrial Design”, X Triennale di Milano, 1954; ora in Carlo Gamba (a cura di), Progetto e oggetto. Scritti sul design. Milano, 2003, pp. 73-78.

20

M. Brusatin, Arte come design. Storia di due storie, Torino, 2007, pp. 158-159, 172-174.

(17)

presenza di imperfezioni e differenze non rappresenta un valore, bensì un errore, un imprevisto sfuggito alla volontà del progettista. Questo perché l’oggetto industriale dev’essere già determinato in tutti i suoi aspetti in fase progettuale, nel disegno esecutivo a partire dal quale si realizza il modello-prototipo da cui si origina poi la serie sempre identica. In questo consiste la principale differenza tra i due tipi di produzione: la qualità del lavoro artigianale si esplica alla fine, quella del prodotto industriale al principio

21

.

Una volta riconosciuta la significativa differenza tra i due campi, Argan affermava la necessità che lo stesso disegnatore industriale contribuisse a qualificare la produzione di serie, intendendo la “qualificazione” non solo come «messa in valore delle caratteristiche essenziali del genere di produzione mediante il più idoneo uso della materia, degli strumenti, delle tecniche, dei procedimenti di fabbricazione»

22

ma anche come

«predeterminazione esatta degli scopi, economia di energie, rispondenza formale alle effettive necessità d’ordine materiale e spirituale maturate dalla maniera di vivere oggi»

23

. Questi, dunque, erano i compiti che il designer era chiamato a svolgere, e per i quali bisognava istituire un Corso sperimentale, tanto più necessario quanto in Italia tale categoria, ancora da formare, mancava del tutto, essendo mancata fino a quel momento una vera e propria industria.

Così, nel 1950 nasce a Venezia la prima “proto-scuola” di design, affidata a Franco Albini, Carlo Scarpa e Vinicio Vianello, che dirigevano rispettivamente i laboratori del legno, del metallo e del vetro

24

. Naturalmente si trattava di un primo tentativo, per lo più sperimentale, volto a definire i tratti di una professione per la quale non vi erano punti

21

G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Torino, 1972, pp. 33-34.

22

Brusatin, Arte come design, cit., p 172.

23

Ibidem.

24

Ivi, pp. 158-159, 172-174.

(18)

di riferimento, e che doveva dialogare con una struttura produttiva, l’industria, ancora in fase di avviamento. Non stupisce, dunque, che i 3 maestri-artisti si interessassero più alla cultura della materia e del progetto che ai rapporti con queste strutture.

Tuttavia, queste riflessioni ebbero il merito di definire meglio i rapporti del design all’interno dell’industria, e di delinearne con sempre maggiore precisione i contorni come disciplina autonoma e come professione.

Ulteriori passi in tale direzione sono rappresentati dall’istituzione di due importanti realtà: il premio “Compasso d’Oro” fondato dalla Rinascente nel 1954 e l’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) costituito nel 1956.

Il premio venne promosso con lo scopo precipuo di individuare quegli aspetti che facessero risaltare la forma vera del prodotto, ovvero la forma della funzione, persistendo sul giusto equilibrio tra il valore progettuale e quello culturale dell’oggetto, come anche tra la perfezione tecnica e la rispettiva corrispondenza estetica. L’insistenza con cui si ribadiva la necessità di un simile equilibrio serviva appunto a definire il ruolo del designer all’interno dell’impresa, onde evitare che questi venisse assunto o in qualità di artista portatore di soli valori estetici aggiunti all’oggetto dall’esterno, oppure come agente di marketing assoggetto alla pura politica aziendale.

L’ADI, dal canto suo, tramite il Comitato incaricato di redigerne il

programma, espresse l’assunto per cui il disegno dell’oggetto d’uso,

ovvero del prodotto industriale destinato al consumo di massa, è

diventato molto meno competenza della tecnica, dell’arte o

dell’organizzazione quanto del particolare ambiente in cui queste siano

ben assimilate. All’oggetto industriale moderno, cioè, si riconosce una

complessità maggiore rispetto a quello tradizionale, una diversa natura,

e tale differenza giustifica l’adozione di modelli formali e metodi

(19)

progettuali nuovi rispetto a quelli tradizionali desunti dal mondo dell’architettura e dell’arredamento. Il design, dunque, tende sempre più a costituirsi come campo d’indagine totalmente autonomo rispetto all’edilizia e l’associazione stessa sancirà questa indipendenza argomentando che al «designer non occorrerà di essere necessariamente architetto, occorrerà invece una preparazione culturale specifica»

25

. Un ulteriore conferma in tal senso viene dallo Statuto Nazionale dell’ADI, dove si afferma che: «Intendendo il "ciclo industriale" quale processo organizzato, controllato, ripetibile e migliorabile in ogni sua fase, affinché si sviluppino una teoria e una pratica del design industriale culturalmente qualificate [...] tutti coloro che concorrono all’attività progettuale debbono godere di uno status professionale nonché di un livello formativo adeguato e aggiornato»

26

. In definitiva, sul finire degli anni ’50 tutta una serie di interventi e indicazioni si succedettero con lo scopo di illuminare la strada percorsa dal design nel primo quindicennio di attività preso in considerazione, periodo durante il quale esso fu oggetto di una riflessione e di una sistemazione culturale volte ad affrancarlo dal legame troppo stretto con l’artigianato e dalla subordinazione al campo dell’architettura, nonché a definire con maggiore precisione le caratteristiche dell’industrial designer come professione a sé stante. In tal senso è rilevante l’operato dell’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design), organizzazione internazionale sorta nel 1957 e tra i cui membri fondatori figura l’ADI, che nello stesso anno della nascita diffuse la prima definizione preliminare della professione, ratificata poi durante il suo primo congresso tenutosi a Stoccolma nel 1959. Tale definizione recitava che:

25

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 237-238.

26

ADI - Associazione del Disegno Industriale, Statuto Nazionale, 2009, p. 2.

(20)

«Un disegnatore industriale è una persona che si qualifica per la sua formazione, la sua conoscenza tecnica, la sua esperienza e la sua sensibilità visiva, in grado di determinare i materiali, la struttura, i meccanismi, la forma, il trattamento delle superfici e la veste di prodotti fabbricati in serie tramite procedimenti industriali. Secondo le circostanze, il disegnatore industriale può occuparsi di uno o di tutti questi aspetti. Egli può inoltre occuparsi dei problemi di imballaggio, di pubblicità, di esposizione e di marketing, qualora la soluzione di questi problemi, oltre a una conoscenza tecnica e a un'esperienza tecnica, richieda una sua capacità di valutazione visiva»

27

.

Fatti salvi gli indispensabili riferimenti ai procedimenti industriali e alla produzione seriale, emerge tuttavia un cenno piuttosto vago alla capacità dell’operatore di affrontare i vari fattori che determinano un prodotto industriale

28

, portando a galla il problema del rapporto irrisolto con l’oggetto vero e proprio. Avendo prestato più attenzione al ruolo e al posto occupato dal design all’interno delle strutture produttive, si è finito per proporre come referente principale di questa disciplina la modalità di produzione, anziché il prodotto stesso

29

.

Dalla definizione proposta dall’ICSID si evince altresì la pressoché totale elusione di alcuni problemi concernenti aspetti qualitativi in seguito ritenuti indispensabili, come l’attenzione all’ambiente, alla società, ai bisogni e all’innovazione

30

. Questi erano aspetti che non sembravano riguardare, se non marginalmente, il principale e più urgente movente dell’attività progettuale, com’era inteso all’epoca, e cioè l’aderenza alla funzione d’uso, alla quale doveva corrispondere una forma adeguata ad esprimerla. La produzione di oggetti, difatti, lasciava sottintendere che

27

http://www.icsid.org/about/about/articles33.htm, consultato in data 15/4/2011.

28

G. Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale, Milano, 1993, pp. 25-26.

29

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 262-263.

30

Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale, cit., p. 26.

(21)

l’apparato tecnico-funzionale fosse la principale determinante della forma del prodotto, anche se a questo si riconosceva la possibilità di godere di una maggiore libertà o autonomia formale, sempre in nome di un sobrio minimalismo che rispettava le linee essenziali, denotative dell’uso particolare al quale tale prodotto era destinato

31

.

Detto ciò, gli anni ’60 si aprivano con alcune questioni irrisolte nel dibattito sul design, che aveva sì visto riconosciuta la sua sostanziale differenza dall’artigianato e la sua autonomia dall’architettura (sebbene questa autonomia, pur teoricamente sancita, non era ancora pienamente conquistata a livello pratico), ma doveva ancora risolvere il problema dei suoi reali rapporti con l’oggetto da una parte, e con la società e l’ambiente dall’altra.

31

La convinzione che fosse questo lʼaspetto cardinale del disegno industriale era largamente condivisa: ancora Argan affermava che il progetto doveva considerare e risolvere a priori tutti i problemi riguardanti le condizioni tecniche e di materia per rispondere appunto alla funzione particolare per il quale lʼoggetto è stato pensato, e determinare nello stesso tempo la qualità, estetica, del prodotto realizzato. G.C. Argan, Che cosa è il disegno industriale in “Notizie Olivetti”, 1955; ora in C. Gamba (a cura di), Progetto e oggetto, cit., p. 90. Max Bill, dal canto suo, spiegava che la funzione costituiva il fondamento del valore dellʼoggetto industriale, specificando in seguito che bisognava individuare di volta in volta il particolare tipo di funzione cui rispondere per determinare la forma adeguata che, quindi, costituiva il risultato, lʼespressione delle funzioni. C. L.

Ragghianti, Estetica industriale, in “SeleArte”, Lucca, 14, 1955, p. 23.

Alcuni esempi, utili a chiarificare questa posizione, sono forniti da mobili realizzati in questo

periodo, come la sedia Superleggera progettata da Gio Ponti per “Cassina” nel 1957 (Fig. 3), nella

quale il lieve affusolamento delle zampe e lʼinclinazione dei montanti della spalliera costituiscono

lʼunico campo sottratto alla piena rispondenza alla funzione e concesso alla libertà formale; o come

la libreria LB7, realizzata da Franco Albini per “Poggi” nel 1956 (Fig. 4), costituita da montanti

metallici bloccati a pressione tra pavimento e soffitto e da scaffalature in legno che definiscono

lʼambiente circostante per linee ortogonali, introducendovi quei principi di razionale sfruttamento

dello spazio suggerito dalle forme stesse, senza che questa qualità formale sia inficiata da uno

stile freddo e impersonale. Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 250-252.

(22)

2. IL DESIGN AI TEMPI DEL “BOOM”

ECONOMICO (1960-1975)

2.1 INTRODUZIONE

I primi anni ’60, dunque, rappresentarono il culmine del processo di sviluppo economico, che a sua volta portò un diffuso benessere tra i vari strati sociali, in grado di godere per la prima volta di nuove possibilità.

La novella società del benessere poté così battezzare l’ingresso dell’Italia nella tanto agognata civiltà dei consumi, e questo ingresso sancì anche un differente approccio all’oggetto d’uso: se in periodo di privazioni e penuria il possesso di qualsiasi prodotto costituiva un dono da difendere con la forza e da conservare con saggezza, adesso la conquista di una maggiore libertà, in particolare la libertà di scelta, condusse a un desiderio sempre più forte da soddisfare continuamente, e che nel continuo soddisfacimento poneva le basi di un senso di perenne insoddisfazione che a sua volta alimentava il desiderio stesso, determinando in siffatto modo un circolo vizioso conosciuto come

“consumismo”. Questo significava che la fruizione dell’oggetto non era

più determinata dalla sola funzione d’uso, la quale non veniva meno

allorché si decideva, dopo un tempo relativamente breve, di cambiare il

prodotto, ma anche che quest’ultimo andava incontro a una repentina

obsolescenza dovuta non al deperimento dell’apparato tecnico-

funzionale, bensì delle proprie qualità formali. Si consideri peraltro che

la differenziazione sociale (un tempo data dalla possibilità o meno di

possedere determinati oggetti) nella civiltà dei consumi era sancita,

considerata la possibilità per un numero sempre maggiore di utenti di

(23)

entrare in possesso di gran parte dei prodotti realizzati, dalla capacità di cambiarli, cioè di sprecarli e riappropriarsene subito in forma nuova.

Affinché tale possibilità fosse concessa, era indispensabile che l’oggetto

“soffrisse” di una certa precarietà o instabilità formale che ne giustificasse il continuo rinnovamento e cambiamento.

In questo modo lo stesso prodotto rispondeva a una nuova quanto potente funzione simbolica, che accompagnava e per certi versi sopravanzava quella tecnica, ormai ritenuta scontata; l’oggetto industriale diveniva cioè l’elemento che permetteva al possessore di differenziarsi dal prossimo e sancire così la propria integrazione nella società del benessere. Questa circostanza lo portava infine a rappresentarsi tramite di esso, a identificarsi con i suoi stessi oggetti.

Ciò significa che il consumo dell’oggetto era determinato non dallo stesso, ma dalla forma con cui esso si rappresentava e con cui rappresentava l’utente in persona

32

.

2.2 IL VALORE SIMBOLICO, UN ACCENNO

Prestando per un attimo attenzione al valore simbolico riconosciuto all’oggetto, Gillo Dorfles riconosceva in quegli anni che il simbolismo del prodotto industriale doveva tendenzialmente restare un simbolismo funzionale, legato cioè alle caratteristiche d’uso del prodotto, sulle quali i progettisti dovevano intervenire al fine di renderle più esplicite, e quindi più facilmente individuabili e godibili da parte dell’utente. In altri termini, già in fase progettuale l’oggetto doveva essere messo nelle condizioni di “significare” la propria funzione, attraverso la semantizzazione di particolari aspetti plastici o iconici che consentissero di comprenderne meglio la fruibilità. Intuendo l’importanza di tali

32

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 257-259.

(24)

ragioni, lo studioso sostenne la necessità di passare dal concetto di

“funzionalità” a quello di “semanticità”, asserendo che l’oggetto deve rispondere «oltre che a delle esigenze pratiche, utilitarie, di adeguatezza al materiale usato e ai costi, ecc., anche a delle esigenze semiotiche, di corrispondenza tra la forma dell’oggetto e il suo significato»

33

. Questa funzione simbolica, dunque, non era necessariamente una funzione negativa, ma poteva prestarsi a dinamiche di mercato che ne giustificassero la critica come strumento volto esclusivamente a incrementare il consumo. Lo stesso Dorfles asserì che è proprio l’elemento simbolico a causare in misura maggiore il più frequente mutamento della forma degli oggetti industriali, non a causa di una sopraggiunta inadeguatezza tecnico-funzionale, ma per motivi appunto simbolici e espressivi, psicologici, giustificando poi tali mutamenti qualora la forma assunta fosse stata capace di simboleggiare in modo più chiaro e soddisfacente la funzionalità

34

e l’appartenenza al contesto culturale dell’eventuale possessore. Il simbolo, difatti, non è un dato oggettivo

35

, un elemento che resta immutabile una volta realizzato, ma, come evidenziato da Susanne Langer, è piuttosto una sorta di sovrastruttura, la cui interpretazione dipende dal rispettivo contesto, e cambia con esso (in tal senso è sempre indicativo l’esempio della radio addotto da Dorfles).

Ora, se è vero che si poteva riconoscere alla forma un valore simbolico funzionale, cioè la capacità di indicare con più chiarezza il ruolo e le modalità d’uso di un oggetto facendo leva su meccanismi psicologici che

33

Dorlfes, Introduzione al disegno industriale, cit., pp. 47-51.

34

Ivi, pp. 48-49. In queste pagine, peraltro, Dorfles propone la radio come esempio del mutare della veste di un prodotto, pur rimanendo fondamentalmente lo stesso.

35

Secondo Susanne Langer, il simbolo è uno strumento convenzionale grazie al quale il pensiero

riveste con le sembianze di un particolare oggetto qualcosa di più indefinito, intangibile, per poi

indicare proprio attraverso tale oggetto questo “qualcosʼaltro”, che sia unʼesperienza, una norma

culturale, un valore o anche una tradizione. B .E. Bürdek, Design. Storia, teoria e pratica del

disegno industriale, Roma, 2008, p. 336.

(25)

rendessero più empatica e semplice la relazione tra l’utente e lo stesso oggetto (essere se stesso e la rappresentazione di sé), è anche vero che l’insistenza sul compito del simbolo poteva condizionare eccessivamente questo rapporto. Il simbolo, difatti, agendo in qualità di ponte tra una realtà concreta, la cosa, ed una più profonda e psicologica propria dell’uomo, poteva, attraverso una forzatura nell’accostamento tra le due realtà, condurre a un legame tanto stretto tra consumatore e prodotto da causarne l’identificazione. Se, infatti, riprendendo le conclusioni della Langer, il simbolo consentiva il trasferimento nell’oggetto di concetti intangibili come esperienze o assunzioni di valore personali, allora si riconosceva la possibilità per l’utente di vedere in questi stessi oggetti quell’esperienza o quel valore, cioè una parte di sé. Portando agli estremi questa potenzialità dell’elemento simbolico, si corre il rischio di considerare l’oggetto per l’immagine di sé che esso proietta (rappresentazione dell’individuo), a prescindere e a discapito della sua vera funzione. Inoltre quello stesso oggetto verrebbe cambiato tutte le volte che un’altro possa essere ritenuto più rappresentativo. Un esempio a riguardo è offerto dal fenomeno dello styling, una pratica volta a caricare i valori espressivi e semantici dei prodotti a dismisura, più di quanto necessitino. L’obiettivo fondamentale era quello di dare alle cose una veste formale slegata dalle vere ragioni tecniche e funzionali, ma utile ad attirare l’attenzione del potenziale acquirente, facendogli intravedere l’eventualità apparente di poter dare risposta ad un bisogno profondo

36

, di auto-rappresentazione.

36

Dorfles, Introduzione al disegno industriale, cit., pp 52-53. Dorfles riconosceva tuttavia allo

styling connotazioni positive, come la capacità di proporre nuove indicazioni stilistiche, adducendo

come esempio quello dellʼintroduzione di linee aerodinamiche, proposte dapprima per rendere più

appetibile la forma, senza un adeguato interesse per la reale rispondenza allʼaspetto tecnico, per

poi diventare espressive di un idea, o meglio della “funzione” della velocità, di dinamismo.

(26)

2.3 TRE DIVERSI APPROCCI AL DESIGN

Tralasciando giudizi sulla giustificabilità di una simile operazione, era ormai chiaro che il razionalismo dei processi industriali non poteva più essere il fattore determinante nella produzione di serie e che le logiche funzionaliste che muovevano l’industria, cioè la convinzione che l’essenza dell’oggetto si risolvesse nella sola funzione pratica per la quale era stato pensato, non erano più in grado di interpretare una realtà sempre più complessa. La fiducia quasi esclusiva nelle cosiddette

“logiche funzionaliste” aveva senso nel periodo in cui il perno del sistema capitalista era l’industria stessa. In questa circostanza, infatti, il

“sistema” era alimentato dalla semplice produzione, e questa acquisiva senso e giustificazione se l’oggetto prodotto rispondeva pienamente ad una precisa funzione d’uso. In poche parole, l’oggetto doveva rispondere ad un’utilità pratica per giustificarne la produzione, e la produzione costituiva il principale fattore di alimentazione e rigenerazione del sistema capitalista. Come anticipato, tuttavia, queste logiche non erano più in grado di interpretare una realtà sempre più complessa, nella quale il motore del sistema neocapitalista non era più l’industria, bensì il mercato, e il mercato rappresentava una forza in grado di produrre e alimentare bisogni nuovi e più complessi, che comprendevano l’irrazionale, l’emozione e i sogni. Questa nuova condizione richiedeva oggetti che non fossero più «prodotti anonimi, didattici, fondati sulla logica della produzione di serie [...] ma prodotti fondati sulla logica dei consumi [...], capaci di creare concorrenza e seduzione. Prodotti che privilegiassero la propria carica espressiva»

37

. Era quindi la logica dei consumi a fondare il nuovo statuto dell’oggetto;

la sua carica espressiva, come anche la sua capacità di veicolare

37

A. Branzi, Il design italiano 1964-1990, Milano, 1996, pp. 40-41.

(27)

messaggi personali, “simbolici”, erano i nuovi eroi di un racconto sull’oggetto narrato in primo luogo dal mercato.

E contro questa logica si scagliava la critica militante. L’obiettivo era il mercato, e i meccanismi pubblicitari e di marketing di cui questo si serviva per incrementare le vendite e, quindi, il consumo di massa. Così facendo, tuttavia, l’attenzione si indirizzava alla società dei consumi, e al limite ai mass media ad essa asserviti, lasciando in secondo piano i quesiti concernenti la vera natura dell’oggetto. Ciò non toglie che fosse proprio quest’ultimo, e il rapporto ambiguo instaurato con esso, a costituire il perno della critica volta a sottolineare le contraddizioni della società capitalistica e industriale, mentre al disegno industriale si imputava un ruolo di primo piano nella riduzione dell’oggetto a «sistema alienante di segni»

38

, sottoposto alla «pura logica del profitto»

39

.

Già Tomas Maldonado, agli inizi degli anni ’60, argomentava che il disegnatore industriale non deve limitarsi ad adottare un modello matematico per la risoluzione dei suoi compiti progettuali, ma deve porsi anche il quesito dell’impatto dei suoi progetti nella società, introducendo il principio della responsabilità del progettista. In altri termini, se è vero che per il designer risultava indispensabile adottare un metodo per venire a capo di problemi progettuali particolarmente complessi, è altrettanto vero che egli non doveva attribuire a questo un valore assoluto, esaurendo il proprio compito nel suo utilizzo

40

. Difatti, essendo il metodo un modello di analisi e risoluzione di problemi posti in

38

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., p. 268

39

Ibidem.

40

T. Maldonado, Il disegnatore come risolutore di problemi, in International Design Conference in Aspen, 1961; ora in T. Maldonado, Avanguardia e razionalità, Torino, 1974, pp. 125-128.

Maldonado distingueva tra razionalisti e intuizionalisti, cioè tra chi riteneva il metodo più importante

dei risultati e chi, al contrario, considerava più importanti i secondi, avanzando in seguito la

convinzione che entrambe le posizioni risulterebbero sbagliate, perché fondate su una

considerazione parziale e quindi incompleta del disegno industriale, che non prestava attenzione ai

vari gradi di complessità strutturale e funzionale degli oggetti, cioè alle diverse realtà del disegno

industriale.

(28)

astratto, e quindi avulso dalla realtà circostante, poteva esso stesso condurre l’operatore e la sua attenzione lontano dai bisogni effettivi della società, rendendone anche più semplice l’assoggettamento alle logiche della produzione industriale e quindi del mero profitto, magari a sua insaputa.

Sempre Maldonado affermava ancora, nel 1965, che i buoni progetti portati avanti dai designer, così come i buoni propositi che li muovevano, da soli non bastavano a garantire un’effettiva incidenza sulla realtà. L’ingresso dei designer nei «centri decisionali del mondo produttivo»

41

generò in loro solo l’illusione di poter esercitare, grazie ai loro buoni progetti e propositi, un «influenza sul mondo delle merci», contribuendo in realtà a perpetrarne la celebrazione

42

.

Era questa una delle accuse generali mosse ai disegnatori industriali e al design, insieme a quella di soffocare e provocare una limitazione pressoché totale della creatività soggettiva in favore di un funzionalismo puro. Per queste ragioni, al fine di scagionarsi dalla accuse rivolte, i protagonisti dell’industrial design furono costretti a cimentarsi nel tentativo di definire con maggiore precisione la natura dell’oggetto e la propria responsabilità di fronte ad esso

43

.

La contestazione nei confronti di una simile condizione esplose in Italia con particolare evidenza in occasione della Triennale di Milano del 1968, ma prima di approfondirne i contenuti, può essere utile gettare un rapido sguardo su quanto emerse dalla Triennale precedente, che aveva scelto come tema fondamentale il “Tempo libero”. Nel discorso

41

T. Maldonado, Noi e il mondo delle merci, in “Ulm”, 14-16, 1965; ora in Maldonado, Avanguardia e razionalità, cit., p. 200.

42

Ibidem.

43

Per esempio, si rivalutò la prevalenza del valore dʼuso rispetto al valore di scambio, cercando di

rispondere a tesi, come quelle di Fritz Haug, volte a dimostrare come il design e la forma estetica

da esso apportata mirassero solo ad aumentare il secondo, senza un analogo miglioramento del

primo. Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 266-268. Cfr. Bürdek, Design. Storia, teoria e

pratica, cit., p. 67.

(29)

inaugurale tenuto dall’allora presidente Dino Gentili, si affermava che il

«Tempo libero può significare, è vero, maggiori consumi: noi affermiamo che tempo libero deve significare consumi più selezionati [...] con la volontà di ricercare un equilibrio nuovo e più compensativo tra gli uomini, che trovi la creazione di una maggiore giustizia sociale»

44

. Queste parole furono poi riecheggiate dall’intervento del Ministro per la ricerca scientifica, il senatore Carlo Arnaudi, che mise i visitatori in guardia dai pericoli di una società industrializzata «in cui anche il momento libero tende ad essere industrializzato ed in cui il consumo di puro prestigio tende ad appiattire tutte le classi eguagliandole non nella libertà, ma in una sudditanza al bisogno fatto di angosce, di instabilità economica e psichica»

45

. Lo slancio critico che aprì teoricamente l’esposizione non ebbe tuttavia pieno riscontro nella realtà dei lavori, che dimostrarono una visione meno critica e pessimista della società industriale e dei consumi. Nei suoi prodotti, infatti, sembravano riconoscersi non solo i segni del proliferare di miti fasulli, ma anche possibilità eccitanti

46

.

Quando una serie di interventi, come il saggio di Maldonado del 1965, sostenne l’ipotesi che queste “possibilità eccitanti” non fossero altro che illusioni, e che quindi restassero solo i “miti fasulli”, allora si diffuse il dissenso. Questo, in occasione della XIV Triennale, si manifestò nell’occupazione delle sedi espositive da parte di artisti e designer i quali, presa coscienza del loro inserimento nelle maglie delle strutture capitalistiche, denunciarono il ripiegamento della loro attività all’interno di processi di pura mercificazione nonché la dipendenza della ricerca da un mero calcolo produttivo e consumistico. Ne conseguì un

44

Triennale di Milano, T13: Tredicesima Triennale di Milano, Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dellʼarchitettura moderna: catalogo guida, Milano, 1964, p. 8

45

Ivi, p. 9.

46

Branzi, Il design italiano 1964-1990, cit., pp. 104-105.

(30)

ripensamento del ruolo del designer, che si voleva svincolato dall’uso strumentale che ne faceva la struttura produttiva neocapitalista e libero di esprimere la propria soggettiva creatività.

Tutta la vicenda si tradusse infine nell’elaborazione di nuove e differenti istanze progettuali, che rendessero concreto lo spirito di contestazione.

La prima di queste posizioni mirava alla riduzione dell’oggetto alle sue elementari caratteristiche di puro strumento d’uso, per affermarne il diritto e la necessità di esistere al di là del consumo superficiale; la seconda invece esaltava proprio la trasformazione dell’oggetto in bene di consumo per smascherarne l’asservimento a logiche capitalistiche. La prima istanza negava i richiami del consumismo, la seconda li esagerava in chiave sovversiva; entrambe, comunque, contribuirono a formare il cosiddetto radical design, che già nel nome sottolineava la comune matrice utopistica delle posizioni coinvolte

47

.

Questa radicalità poteva esprimersi a sua volta in modi più o meno estremi; il primo si può spiegare nei seguenti termini: considerando il proprio ruolo nella realizzazione di prodotti d’uso individuale e collettivo, e valutando l’uso strumentale che la società capitalista e chi la governava facevano delle loro capacità, valutando cioè la trasformazione, da parte della classe dominante, di tali prodotti in merci funzionali ad alimentare la propria egemonia economica e politica, i designer decidevano di non produrre più alcun oggetto. Rifiutandosi di creare oggetti, essi rifiutavano di partecipare con la loro attività progettuale al sistema socio-industriale che avrebbe tramutato questi prodotti in merce, e dirottavano invece tale attività verso azioni più marcatamente ideologiche, comunicative e pedagogiche, rese poi

47

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., pp. 279-283.

(31)

programmatiche dai lavori di gruppi come Strum (abbreviazione di «per un’architettura strumentale»).

In occasione della mostra Italy: the New Domestic Landscape organizzata da Emilio Ambasz al M.O.M.A. di New York nel 1972, infatti, essi non presentarono un vero ambiente domestico, uno “spazio fisico”, ma si limitarono a utilizzare lo spazio espositivo messo a loro disposizione dal museo per distribuire documenti (Figg. 5 e 6, nella fattispecie si trattava di fotoromanzi, forma che permetteva di trattare grandi argomenti in modo sufficientemente sintetico) che spiegassero e indicassero ai visitatori della mostra cosa intendessero per design. In particolare, il gruppo portò al pubblico la propria idea del progetto inteso soprattutto come mezzo di partecipazione alla lotta politica volta a combattere la società capitalista e come strumento per comunicare alle masse, al “proletariato”, la propria condizione subalterna alla classe egemone e la necessità di formare organizzazioni politiche che lottassero contro questa subalternità per conquistare una maggiore equità e giustizia sociale. Anche Enzo Mari, dopo aver avvallato la tesi del design come attività politica e di comunicazione, confermava la preminenza dello scopo politico quando affermava che «la ricerca politica non può non essere riconosciuta di gran lunga prioritaria rispetto a qualsiasi altra ricerca, proprio perché volta a determinare le condizioni mediante le quali sia possibile realizzare ogni altra cosa»

48

. Era palese, dunque, la convinzione di non dover intervenire in un sistema sociale ritenuto ingiusto e di attribuire al progetto il ruolo di attore attivo nella destrutturazione di tale sistema.

48

E. Mari, “Proposte di comportamento” in E. Ambasz (a cura di), Italy: the New Domestic

Landscape, New York, 1972, pp. 263-265. In queste pagine, Mari affermava che ogni attività

umana, e quindi anche il design, è un aspetto della comunicazione fra gli uomini, dopodiché

proseguiva asserendo che la comunicazione è la componente più importante del rapporto sociale e

della sua evoluzione, e, ancora, che lʼevoluzione sociale è determinabile dalla lotta di classe. Ne

faceva conseguire, infine, che ogni azione rivoluzionaria, e quindi politica, è contemporaneamente

unʼattività di comunicazione. Sulla base di questo ragionamento, posso concludere che Mari

considerava lʼattività progettuale unʼattività insieme politica e comunicativa.

(32)

L’altro modo in cui si esprimeva la corrente radical, invece, si avvaleva di soluzioni meno estreme, che non negavano la possibilità del progetto di tradursi in oggetto. In tal caso, i designer e i gruppi coinvolti adottavano le due succitate istanze progettuali per proporre all’interno della stessa civiltà dei consumi nuovi prodotti, che rappresentavano sia l’invito a modelli di consumo più consapevoli e coscienti, sia l’introduzione di problematiche e temi nuovi e adeguati ai tempi, come la liberazione dal predominio della tecnologia, la creazione di un nuovo rapporto tra uomo e natura o il riconoscimento all’utente di spazi di maggiore creatività individuale.

Nuovi prodotti significavano anche linguaggi iconografici rinnovati, e questo alla lunga ottenne il favore del mercato, che vide nel rinnovamento delle forme un modo per andare incontro al mutamento dei gusti. Di conseguenza, diverse aziende di settore prestarono attenzione alle proposte dei designer impegnati in questo rinnovamento

49

. Se da un lato, quindi, queste ricerche vennero riassorbite all’interno della programmazione aziendale

50

e del sistema di produzione capitalista, dall’altro lato i designer coinvolti poterono utilizzare i canali di produzione e promozione dei prodotti per inviare messaggi alternativi. L’esempio della plastica moderna può essere illuminante in tal senso.

Questa, infatti, dal 1963 conobbe una notevole fortuna, perché i suoi aspetti tecnici si prestavano a soddisfare esigenze produttive nuove, votate ad una reale serialità e rapidità d’esecuzione rispetto al passato.

La sua diffusione e il successo sul mercato furono invece facilitati dalla possibilità di far passare questo materiale come elemento nuovo necessario a produrre oggetti nuovi per uomini moderni

51

. Infiltrandosi

49

Branzi, Il design italiano 1964-1990, cit., pp. 111, 140.

50

Vitta, Il progetto della bellezza, cit., p. 286.

51

Branzi, Il design italiano 1964-1990, cit., pp. 48-49.

(33)

in simili ingranaggi pubblicitari, era possibile per il designer proporre con questo elemento nuovo prodotti che favorissero comportamenti nuovi, responsabili o coscienti, o che rispondessero a una nuova idea delle relazioni umane e degli spazi abitativi, improntati a maggiore scioltezza e libertà.

In questo contesto si inseriva, ad esempio, la proposta di un sistema di contenitori cilindrici smontabili e impilabili in ABS (Acrilonitrile- Butadiene-Stirene)

52

avanzata da Anna Castelli Ferrieri per la “Kartell”

nel 1969/70: il mod. 4953 o Componibili (Fig. 7). Partendo dalla consapevolezza che il grande vantaggio dei nuovi materiali plastici era da ricercare nella facilità di connettere le parti, la designer aveva intuito che era possibile connettere i vari elementi senza l’ausilio di ulteriori sistemi di giunzione, viti o colle, arrivando, nel disegno finale, a stendere un progetto semplicissimo fondato sull’incastro. Da qui, dunque, la componibilità e l’impilabilità delle diverse parti di cui la famiglia dei Componibili, che poteva contare su circa 20 stampi di forma differente, era composta.

Al primo modello quadrato, la Ferrieri fece seguire la versione rotonda, che impediva alla gente di assecondare l’abitudine di addossare i mobili contro il muro e che per questo considerava più riuscita. La motivazione addotta per giustificare questo giudizio fondava sull’idea che in un simile progetto «era sottintesa l’idea di una certa libertà di composizione dello spazio domestico»

53

. Il raggiungimento di un simile risultato pratico, peraltro, seguiva le premesse teoriche già espresse dallo stesso architetto in occasione della presentazione per la mostra dell’arredamento dell’VIII Triennale di Milano del 1947, quando si

52

LʼABS è una resina termoplastica ottenuta per polimerizzazione di gomma butadienica con acrilonitrile e stirene, avente ottime proprietà tecniche. Essa infatti si presenta come materiale rigido e tenace anche a basse temperature, molto duro, resistente alle scalfitture e con elevata resistenza allʼurto, http://www.matrec.it/Materials/Material,mtid,1,mid,213,intLangID,1.html.

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Castelli, Antonelli, Picchi (a cura di), La fabbrica del design, cit., p. 353.

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