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stampa sembrava sfocarsi; come se da qualche parte nella trama della carta, da

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Academic year: 2021

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(1)

Uno

Stamattina sul giornale ho visto una fotografia di Julia. Stava davanti all'ingresso di casa sua ad Highgate, dove riceve i pazienti: una donna alta, avvolta in una specie di scialle indiano. Nel punto in cui doveva esserci il suo viso l'immagine era sfocata, eppure ho notato l'impostazione sicura delle sue braccia e ho potuto immaginare la sua espressione: attenta in modo professionale, materna, con quel sorriso ampio e freddo che conoscevo da quando avevo undici anni. In primo piano una ragazzina scheletrica avanzava incerta verso di lei da una limousine parcheggiata sul marciapiede: Miss Linzi Simon, artista amata dalle famiglie e giovane star, vittima di disturbi alimentari.

Le terapie di Julia e la pubblicità che ricevevano ci rendevano coscienti del fatto che persone di ogni età potevano decidere di morire di fame. Signore di ottantacinque anni si avviavano alla fine delle loro vite sorseggiando tè; neonati con poche ore di vita distoglievano le loro teste dai biberon e spingevano via il seno. Come in Africa non possono mantenersi in vita grazie ai sacchi di grano che inviamo, i nostri specialisti nel morire di fame non possono essere sostenuti da bottiglie e provette. Devono decidere di nutrirsi. Devono sceglierlo. Incapace di curare la fame – forse non interessata, non per tutti ha grande importanza – Julia cura i figli dei ricchi, il cui malessere è curabile. Non c'è dubbio che i suoi pazienti vadano da lei per evitare i severi psichiatri degli ospedali privati, dove ai bambini vengono sequestrati spazzolini, spazzole e vestiti e restituiti indietro per un certo numero di calorie ingerite. In questo modo spezzando i loro spiriti, salvano la loro carne.

Questa mattina mi sono ritrovata a fissare tanto intensamente la pagina, che la

stampa sembrava sfocarsi; come se da qualche parte nella trama della carta, da

qualche parte nel suo intreccio,

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potessi trovare un filo che mi conducesse attraverso tutta la mia vita, da dove ero prima a dove sono oggi. 'Psicoterapeuta Julia Lipcott', diceva la scritta. Ah, ancora Lipcott, mi sono detta. Anche se, naturalmente, potrebbe essere sposata. Visto che non avrebbe mai cambiato la sua biancheria per un uomo, dubito che avrebbe potuto cambiare nome.

La storia dietro la fotografia diceva che Miss Simon era stata malata per due anni. Chiacchiere in realtà; è sorprendente quello che il Telegraph pubblicherebbe.

Lo sguardo della star era aperto, meravigliato, fisso come quello di un pesce che si trovasse improvvisamente a lottare sulla terraferma.

Era l'anno dopo lo scandalo Chappaquiddick, l'anno in cui io e Julia per la prima volta andammo via di casa. Per tutta la primavera sognai il disastro e ricordai i sogni al mio risveglio: il tessuto polmonare e l'acqua, i capelli che galleggiavano e quel terribile freddo. Quell'estate a Londra le temperature schizzarono oltre i diciotto gradi, ma a casa il tempo era il solito: pioggia la maggior parte dei giorni, nebbia all'alba sui nostri sporchi canali e sere fredde e umide nei prati dei pub di campagna dove andavamo con i nostri ragazzi: e dopo il sesso, nell'oscurità dei campi umidi. A giugno ci furono le elezioni e vinse il partito conservatore. Non fu colpa mia; non ero abbastanza grande per votare.

A luglio ci fu uno sciopero degli scaricatori, e una temporanea scarsità di cibo fresco. Il ministro dell'agricoltura apparve al telegiornale e disse: “Quello che le casalinghe dovrebbero fare questa settimana è guardare in giro e comprare i prodotti che sono meno cari.”

Quando mia madre lo sentì, si tolse una pantofola e la scagliò contro il

televisore. Volò oltre e atterrò dietro, tra i cavi e i fili ingarbugliati. “Cosa pensa

che faccia la gente?” domandò. “Che vada giù al mercato a dire, 'Cosa c'è di caro

oggi, me ne dia due libbre va bene? E una porzione del suo miglior caviale già che

ci siamo. Oh no, non è abbastanza caro! Per favore tenga il resto.'”

(3)

Mio padre si tirò su dalla sedia e andò a raccogliere la pantofola. La restituì: “Il principe azzurro,” disse, identificandosi in lui.

Mia madre grugnì, e forzò il piede venoso a rientrare nel feltro.

Non appena uscirono i risultati dei miei esami iniziai a fare i bagagli. Non avevo molti vestiti e quelli che avevo erano privi di frange alla moda o stampe a mosaico. I giornali dissero che il colore predominante dell'autunno sarebbe stato il viola. Sono abbastanza grande per ricordare l'ultima volta che è andato di moda:

quanto faceva sembrare le donne ostili e quanto fu imbarazzante per loro, una volta che la moda del momento svanì, ritrovarsi con quei cimeli che stipavano i loro guardaroba. Quel colore era soltanto una manipolazione dell'industria della moda perché, a parte i prelati, nessuno lo sceglierebbe spontaneamente. Le donne sono cadute in trappola troppo spesso; ecco perchè non abbiamo il viola adesso.

Tranne, naturalmente, la purple prose

1

.

*

Veloce, prima che mi dimentichi … Il bagliore delle luci sulle mattonelle bianche, il lamento cupo e lo sferragliamento che provenivano dall'oscurità, somigliavano più alle chiamate delle navi in partenza che al rumore dei treni; e infine la voce dell'annunciatore all'altoparlante. Tirai fuori una mappa dalla tasca, la ripiegai formando un quadrato e la guardai come se l'avessi fatto tante volte durante un viaggio; il mio cuore vacillò un po' e piccole scintille di inquietudine mi percorsero le costole, piccole fiamme saltellanti lungo le ossa. Ero una bambina e non ero mai stata da nessuna parte fino a quel momento.

1 Purple prose: termine inglese che indica una prosa scritta in modo particolarmente elaborato ed ornato. È una prosa sensualmente evocativa oltre le esigenze del contesto. Possono essere impiegati determinati effetti retorici come il pathos per manipolare il lettore. È un gioco di parole, “purple” significa viola anche se il significato di purple prose non ha niente a che vedere con il colore.

(4)

Raccolsi la valigia che stava trascinando via il mio braccio dal resto del corpo, e iniziai a barcollare in avanti con essa, attraverso il tardo pomeriggio; sulle piazze di Londra stavano già cadendo foglie scricchiolanti.

Quando arrivai allo studentato, una donna – la custode – mi portò di sopra in ascensore. Aveva un mazzo di chiavi. “Se lo avesse lasciato là,” (intendendo il mio bagaglio) disse con un gesto impaziente e misterioso “il portiere glielo avrebbe portato su.” A quel punto, dovette tenere il dito premuto sul pulsante APRI mentre io mi destreggiavo a uscire dall'ascensore. Dovevo starle dietro trascinando la valigia come un arto deformato.

La mia stanza doveva essere al terzo piano, il cosidetto blocco C. La donna mi accompagnò lungo un ampio corridoio, il parquet le scricchiolava sotto i piedi. Si fermò davanti a una porta con la scritta C3, il mazzo di chiavi tintinnò e ci lasciò entrare. Una volta dentro consultò la sua lista. “Mac, Mac, Mac,” disse. “Miss Mc Bain.” Lì, appuntato sul foglio prima che lei lo consultasse, intravidi di sfuggita una fotografia, la fotografia in bianco e nero richiesta dallo studentato. Mia madre me l'aveva scattata nel cortile di casa: ero appoggiata ai mattoncini rossi, come qualcuno che aspetta un plotone d'esecuzione. Credo che mia madre non avesse mai usato una macchina fotografica prima di allora. Era una giornata chiara ma nella fotografia i miei lineamenti erano avvolti nella nebbia e la mia espressione era scioccata.

“Dunque,” disse la donna “lei era alla scuola diurna nel, vediamo, nel Lancashire?” Era vero. Ero da qualche parte nell'elenco, schedata, nel cuore di quel grande edificio oscuro. A un certo punto nel corridoio sentii odore di zuppa.

Dall'altra parte della strada, in un altro edificio, spuntarono delle luci.

La donna consultò ancora una volta la sua lista. “E due sue compagne di classe

stanno arrivando, giusto? Miss Julianne Lipcott e … ”

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Strizzò gli occhi sul foglio e lo spostò leggermente dalla luce come se in quel modo si eliminassero un po' di czs e di djs che frusciavano e si mischiavano insieme, a formare un cognome che conoscevo da quando avevo quattro anni e quindi non era per me più strano di Smith o Jones – in realtà lo era meno. Lo pronunciai per lei e dissi gentilmente, “Noi la chiamiamo Karina.”

“Sì, capisco. Ma chi di voi condividerà la stanza? Non abbiamo camere per tre ragazze.”

Dormitori, ecco cosa dovrebbero essere. Provai a immaginarci in fila su letti bianchi, Carmel, Karina e Julianne: le nostre mani raccolte in preghiera.

“Visto che è arrivata prima farebbe meglio a scegliere,” disse la custode. “A chi resterà sola verrà trovata un'altra compagna.” Inarcò un sopracciglio. “Forse, preferirebbe essere lei? Forse non vuole condividere la stanza con nessuna delle due?”

Realizzai che sul mio viso doveva essersi formata un'espressione timida e dubbiosa. “Miss Lipcott,” dissi veloce. “Miss Lipcott per favore.”

Come osai? Non era tanto che volevo la compagnia di Julianne o pensassi che lei volesse la mia. Le sarebbe stato indifferente; se le avessero domandato chi voleva come compagna di stanza avrebbe detto, “Ci sono uomini?” Ma che cosa avrebbe detto se di fronte alla mia noncuranza, o crisi di nervi, si fosse trovata a svegliarsi ogni giorno nella stessa stanza di Karina?

La custode scavalcò la mia valigia, attraversò la stanza e tirò le tende. Erano grigie con una riga più scura, e si abbinavano alle coperte dei due letti singoli, che stavano uno di fronte all'altro lungo la stessa parete. Mi sorrise, indicandomi la stanza, l'armadio, il lavandino, due tavolini e due sedie. “Avrà la prima scelta quindi, no?” Mi mise in mano una chiave; attaccato c'era un grande portachiavi in legno, con su scritto C3. “Farà bene a chiudere la porta quando esce dalla stanza.

Consegni le chiavi alla reception quando lascia l'edificio.”

(6)

Poggiò le sue liste su un tavolo, raccogliendole insieme e fermandole con una graffetta. “Posso cogliere l'occasione, Miss McBain, di farle i miei migliori auguri per la sua carriera universitaria? Se ha qualche problema, qualche domanda, venga a trovarmi – a un orario comodo per entrambe, naturalmente.” La custode se ne andò, chiudendo la porta silenziosamente e lasciandomi alla mia nuova vita.

Mi massaggiai il gomito. Sembrava sconnesso, irrecuperabilmente strappato.

Dovrei stare qui? Nella mia testa si formò la visione della casa che avevo lasciato, della stanza banale, del bagliore del carbone elettrico, là dove avevo compiuto gli studi, dove avevano preso forma le mie ambizioni, che mi avevano portato in questa stanza. Scoppiò in me una forte nostalgia: non erano fiamme d'apprensione, ma qualcosa di più sconfortante ancora, un'angoscia che pervadeva tutto il mio corpo, come qualcosa che saltellasse in un pozzo. La valigia giaceva riversa in un angolo, davanti alla porta. Mi abbassai, accovacciandomi, pronta a fare l’ultimo sforzo, sostenendomi sulle ginocchia; le lacrime, come se stessero aspettando l’aiuto della forza di gravità, presero a scorrere sul mio viso formando strisce irregolari sulla manica del mio nuovo impermeabile beige.

Mi raddrizzai e aprii un’anta dell’armadio. Sei grucce metalliche appese alla sbarra urtarono una contro l’altra. Mi tolsi il cappotto e lo appesi. Sentivo che in qualche modo era stato rovinato dalle mie lacrime, come se l'acqua salata sciupasse le cose nuove. Non potevo permettermi di sciupare i miei vestiti.

L’ora batté e, poiché non avevo l’orologio – viaggiavo senza neanche una normale attrezzatura – contavo i rintocchi. Mi sedetti sul letto vicino alla finestra.

Sarebbe stato mio così come lo sarebbe stata la più grande delle due scrivanie, quella maggiormente illuminata. Sarebbe stato più naturale per me, e forse anche più facile, prendere il tavolo e il letto peggiore, ma sapevo che Julianne mi avrebbe detestato per ogni dimostrazione di rinuncia.

Così mi sedetti sul letto. Le mie dita scorrevano picchiettando sulla ruvida

coperta a strisce.

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Le lenzuola sotto di essa erano inamidate e scricchiolanti come la carta: infilate strette e ben salde nella struttura del letto come a legare un pazzo. Non sembrava esserci traffico giù in strada. Una lampadina illuminava dal suo semplice paralume di carta. Un silenzio intenso. Il tempo sembrava essersi fermato. Mi sedetti e mi guardai i piedi. Alcuni versi di una poesia cominciarono a fluire nella mia testa. 'Poi scoppiamo di Natale il botto, uno per uno contiene un motto / E lei ascoltava mentre io li leggevo, finché sua madre disse non deve.'

2

Potevo sentire il mio respiro seguire il suo solito andamento: dentro e fuori. Avevo diciotto anni più un mese. Mi chiedevo se sarei mai cresciuta o sarei andata avanti solo sedendo in questa stanza. Ma dopo un po’ di tempo l’orologio batté ancora. 'E oscuro come l'inverno era il flusso / Dell'Iser, che scorre rapidamente.'

3

Mi alzai e iniziai a mettere i miei vestiti nel cassetto e i miei libri sugli scaffali.

Sono cresciuta in una piccola città, figlia unica di genitori anziani. Quando sono nata la nostra città, basata sulla produzione di cotone, era entrata in una fase di declino; i tessuti economici provenienti dall'Estremo Oriente stavano iniziando a invadere i mercati e quelle fabbriche che lottavano ancora con macchinari antiquati per i quali non valeva la pena il costo del rimpiazzo; anche gli operai erano invecchiati e nel tempo in cui mi ero fatta grande erano diventati una sorta di parodia di loro stessi, l'idea meridionale del Nord. Sotto la fabbrica, mura con mattoncini color prugna, macchiati di nero a causa del fumo e della continua pioggia, uomini tarchiati arrancavano nelle loro salopette, le teste rasate e i cappelli piatti; e donne dall'aria adirata, con foulard a quadri sul capo, calze elastiche e scarpe come barche. Oltre i camini delle fabbriche si stagliava il profilo delle colline.

2 Citazione da W.S. GILBERT, “Ferdinando and Elvira”, in The Bab Ballads, 1919, traduzione mia.

3 Citazione da T. CAMPBELL, Hohenlinden, traduzione mia.

(8)

Le strade della nostra città erano allineate da casette a schiera in mattoncini, interrotte da negozietti locali che non facevano credito, da pub nei quali la gente affermava di non aver mai messo piede, da annerite chiese anticonformiste, la cui frequenza diminuì con l'avvento degli anni Sessanta. Ci fu un tempo in cui queste chiese avevano appesi all'esterno dei cartelli in legno, sui quali era affisso un logoro avviso riservato, che annunciava gli orari di servizio, le scuole domenicali e i nomi dei predicatori in visita. Ma venne un giorno in cui questi avvisi furono rimpiazzati da manifesti imbrattati da colori sensazionali: IL CRISTIANESIMO NON HA FALLITO, SEMPLICEMENTE NON È MAI STATO SPERIMENTATO. Il cinema della città chiuse e fu trasformato in un supermercato dal design stravagante, l'istituto tecnico chiuse i battenti, fuori uso per diciotto mesi a causa delle sue finestre in frantumi, poi riaprì come salone d'esposizione di pneumatici.

Mia madre, essendo stata licenziata per esubero del personale al magazzino tessile, andava fuori a fare le pulizie nelle case. Avvenne un cambiamento riguardo alla nostra osservanza religiosa: il sacerdote, che adesso si voltava per guardare in faccia la gente, parlava un linguaggio gergale, corrotto, che tutti potevano capire. Opera manuum ejus veritas et judicium. Le opere delle Sue mani sono verità e giudizio.

Mio padre era un impiegato; l'ho scoperto abbastanza presto nella vita data

l'abitudine di mia madre a ripetere, “Tuo padre non è solo un impiegato sai.” Ogni

sera completava un cruciverba. Qualche volta mia madre leggeva i libri della

biblioteca o sfogliava riviste, che chiamava lo stesso 'libri', ma più spesso

lavorava a maglia o cuciva, la testa piegata sotto la classica lampada. Il suo lavoro

era delizioso: la sua composizione, il disegno del suo ricamo.

(9)

Le nostre federe erano ricamate a mano, bianco su bianco, con rose irregolari da cui spuntavano steli, con mazzolini di fiori in cestini intrecciati, con nastri tra ghirlande e graziosi nodi. Mio padre aveva un cardigan a treccia per ogni giorno della settimana, doveva scegliere di indossarli. Tutti i miei sottogonna, ritagliati e cuciti da lei, avevano una base di pizzo sull'orlo – e ancora, a partire dall'orlo, dalla parte sinistra – dei motivi che rappresentavano l'innocenza: un botton d'oro o un gattino.

Posso dire che mia madre non era, di per sé, molto carina. Aveva la mascella marcata e una voce alta e potente. I suoi capelli stavano diventando grigi ed incolti ed erano raccolti da una forcina che spuntava. Quando si accigliava, una nuvola passava sopra la città. Quando inarcava le sopracciglia – e lo faceva spesso, sorpresa ad ogni ora da ciò che Dio si aspettava che lei sopportasse – sulla sua fronte spuntava il percorso tranviario di una piccola città. Era aggressiva, dogmatica e scaltra; il suo parlare era pericolosamente diretto, oppure contorto in modo sbalorditivo. I suoi occhi erano grandi e svegli, verdi come il verde bottiglia, senza sfumature di giallo o nocciola, senza nessun compromesso tipico di chi ha gli occhi verdi. Raramente quando rideva io sapevo perché, e non ero più saggia quando piangeva. Le sue mani erano grandi, nodose e incallite, fatte per impugnare un fucile, non un ago.

Io e mio padre eravamo biondi, magri e silenziosi, i nostri lineamenti erano fini

e regolari; il colore dei nostri occhi cambiava sotto luci differenti. Ero una piccola

inglese, mia madre diceva: splendido. Questo fatto mi faceva raggelare, di un gelo

sempre più profondo; volevo credere di appartenere a un altro Paese. Mia madre e

mio padre avevano entrambi lasciato l'Irlanda quando erano ancora nel grembo

delle loro madri e i loro accenti quotidiani, tipici delle campagne del nord, erano

perfetti come il mio. Mio padre sembrava un inglese a tutti gli effetti, sarebbe

potuto passare per un conte o per il suo lacchè. Il suo corpo sottile si piegava in

strane posizioni, come se fosse montato e combinato da corpi di persone diverse.

(10)

Le sue gambe erano lunghe e sembravano estensibili e i suoi piedi erano piccoli e senza pace; quando entrava in una stanza sembrava volteggiare e seguire un tracciato, come un insetto innocuo, il ragno ballerino.

4

Era abitudine dei miei genitori, a turno, di chiudersi nella loro camera; e quando succedeva, mia madre menzionava, ad alta voce e in modo polemico, nomi di strane città. Veniva menzionata Colchester, un'altra volta toccò a Stroud e poi c'era un posto che mia madre nominava strascinado le parole come Kingston – upon – Hull. In seguito realizzai che quelli erano i luoghi nei quali avremmo potuto vivere se mio padre avesse accettato l'offerta di una promozione. Ma per una ragione o per l'altra non l'ha mai fatto. Quando ero adolescente mi portarono in camera separatemente, e mi dissero tra i denti – mentendo in entrambi i casi – chi se ne sarebbe andato e chi no, chi avrebbe distrutto l'occasione dell'altro. Era al di là delle mie capacità dare un senso a tutto questo: intrappolarli in una stanza insieme e fare loro mettere le cose in chiaro, sputare la verità riguardo alla situazione. Forse sapevo già che non c'era verità da essere detta, le loro bugie erano collegate, dipendevano l'una dall'altra.

D'estate, quando ero piccola, prendevamo l'autobus per i sobborghi della città e passeggiavamo per le colline, girovagando per i sentieri battuti dai cavalli all'aria aperta, nel verde. Eravamo oltre il profilo dei camini delle fabbriche; come angeli, scorrevamo le vette delicate.

Una volta che inizi a ricordare – non è così? – un'immagine salta fuori dall'altra;

scorrono nella tua testa in tutte le direzioni, come animali scorrazzanti che escono allo scoperto. Il ricordo non è un nastro, non è un film che puoi spostare avanti e indietro secondo la tua volontà: è il bagliore di una pelliccia accarezzata, il fruscio della seta tra le dita, la spessa consistenza dei capelli o delle ossa.

4 Il ragno ballerino è un insetto molto comune nelle abitazioni. La sua caratteristica principale è quella di avere zampe esili e lunghissime. In inglese daddy longlegs, significa letteralmente

“papà gambe lunghe”. L'autrice gioca metaforicamente sulla somiglianza delle zampe esili di

(11)

È un'immagine offuscata, presa in movimento: come in una delle istantanee della mia famiglia, scattate prima che le macchine fotografiche diventassero a prova di errore così che qualsiasi sciocco potesse cogliere il momento.

Ricordo questo.

Ho sei anni, e sono stata malata. Dopo la malattia sto tornanado a scuola. È una mattinata primaverile, l'acqua gorgoglia dalle tubature, c'è un vento pungente.

Sono ancora instabile, non abituata ad uscire e devo tenere stretta la mano di mia madre mentre lei mi guida fino al cancello della scuola. Forse non ci voglio andare; non lo so. C'è un unico albero nel parcogiochi della scuola, e lo spostamento delle nuvole e le chiazze che crea il sole attraverso le sue foglie è come il sentimento che sento dentro, a tratti intenso, a tratti leggero. È tutto nuovo per me. I miei occhi sono chiari e freddi, come fossero stati immersi in acqua gelata.

In classe l'aria è calda e opprimente. Odora di umido, di lana e del nostro latte

per la ricreazione, cotto dentro le bottiglie vicino ai tubi del termosifone, che

diventa glutinoso e coagulato. Forse d'estate, quando andavamo in vacanza,

questo odore spariva? Nel dettaglio: il gesso odorava di gelso, o penso che la

parola 'gesso' sia come la parola 'gelso', a causa della consistenza che entrambe

sembrano condividere, assieme alla friabilità e alla granulosità. I righelli sanno del

loro legno, della loro vernice e del sale e della carne della mano che li ha

riscaldati: se li poggi sotto il naso puoi sentire la divisione di ogni tacca, così che

ogni frazione di centimentro ha un segmento misurato di profumo. La mia

insegnante sbraitava – i suoi occhi spalancati su di me – che in tutto il tempo in

cui ero stata malata avrei dovuto imparare a disegnare una linea retta. Ma quello

dopo; questa mattina c'è un elemento di dolcezza e una luce tremolante. È come se

la mia insegnante avesse dimenticato chi sono, e che, l'ultima volta che mi ha

visto, avesse minacciato di picchiarmi per aver cantato. La mia rinascita aveva

risvegliato in lei una vaga bontà.

(12)

“Vediamo,” dice guardandosi intorno nella classe. “Dove ti vorresti sedere?”

Il lusso della scelta. Le mie dita si arrotolarono nel palmo come serpenti. Lo so dove vorrei sedermi: vicino a qualcuno che dimostrasse con un certificato di non avere insetti tra i capelli. Uova, dice mia madre, sono le uova che trovi, ma io non posso immaginare delle uova che non siano quelle delle galline. Mentre mi raschiava il cuoio capelluto con il pettine d'acciaio, rimarcava sempre che i pidocchi sono democratici, vanno dai ricchi come dai poveri – sebbene noi, penso, non conosciamo nessuno che sia ricco – e che a loro piace, decisamente preferiscono le teste pulite a quelle sporche. Io rientro nella categoria delle teste pulite, e mia madre me lo dice affinchè io non guardi dall'alto in basso le vittime degli insetti, né li derida, né li canzoni.

Mi guardo intorno nella stanza. Sotto i maglioni – che potevano essere bordeaux o grigio melange – i maschi indossano camicie grigie, con i colletti che spuntano fuori, attorcigliati e contorti come se avessero infilato i loro menti dentro e li avessero masticati. Indossano cinture elastiche a strisce, con fibbie simili a due serpenti in lotta. I loro capelli sono tagliati dritti davanti alle loro fronti, o rasati più di una barba corta. Quando vanno a casa, con il tempo brutto – che, va detto, capita la maggior parte delle volte – indossano passamontagna di lana, e un ragazzino ha un accessorio anche più terribile, un passamontagna di pelle, una pelle nera e spessa come quella di una lucertola, stretto al suo cranio e allacciato sotto al mento con una fibbia annerita. Quando guardo i maschi vedo peli e grugni, facce schiette che si contorgono e fanno smorfie. Fanno sempre penzolare la lingua e si attorcigliano le orecchie, o si asciugano il naso con il palmo della mano, ruotando con violenza la cartilagine. I loro arti, non ancora pelosi, sono flessibili come l'argilla rossa, come una bambola che avevo chiamato Bendy Toy;

posso quasi sentire l'odore della gomma e la piega che davo alle sue gambe senza

ossa. Penso che non mi siederò vicino a un maschio.

(13)

Guardo le femmine e loro guardano me, svariate espressioni di indifferenza o di dispetto sui loro visi. I loro capelli sono saldamente attorcigliati in robuste trecce, o tagliati corti sotto le orecchie; nel secondo caso sono separati da una parte e appuntati sulle loro teste con una grande molletta nera. Hanno una selezione di maglioni blu scuro, alcuni usurati dai troppi lavaggi e ristretti, con i bottoni nel buco sbagliato. Alcune hanno gonne a pieghe, o uniformi simili al cartone nero-blu, come inchiostro solido; altre hanno una tunica sotto il maglione, una tunica cadente, morbida e chiara. Penso, come il minore dei mali, che mi siederò vicino ad una femmina.

Ma qui ci sono due problemi. Uno è che sono stata via così a lungo che non ho un amico. L'altro è che mia madre ha ricamato un agnello saltellante e una fascia decorativa di fiori primaverili proprio sopra la gonna del mio vestito di cotone blu.

È un vestito celeste, e per il resto è semplice; li vedo guardare nel mio cielo. Allo stesso tempo vogliono e non vogliono. Non mi aspetto nessuna pietà.

Mi dondolo sul posto. L'orlo del vestito sfiora la tenera pelle dietro le mie ginocchia.

“Beh … deciditi,” dice la mia insegnante.

Si dice che la specialità di Miss Whittaker, che insegna nell'ora successiva, sia quella di picchiare gli alunni dietro le ginocchia. Le bacchettate sulle mani erano decisamente passate di moda.

Mi guardo intorno e vedo Karina. C'è una sedia vuota vicino a lei. Solleva il suo ampio viso alla luce e mi fa un sorriso gentile. Indossa un maglione giallo e morbido, del colore di un pulcino appena nato in un libro illustrato. Le sue trecce sono spesse e legate con nastri bianchi annodati in fiocchi appariscenti. Dalle trecce e tutto intorno alla testa risalta una raggiera formata da piccoli fili di capelli, biondissimi, vibranti. Il suo viso sembra un sole.

“Là per favore.” Dico.

Compiaciuta, Karina inizia a riorganizzare le sue cose sul tavolo:

(14)

sistema il righello, la matita, la scatola di cartone nella quale (alla nostra tenera età) teniamo i fogli a righe per scrivere e quelli a quadretti per le somme.

Il giorno seguente, quando arrivò Julianne, ero sdraiata sul letto a fumare una sigaretta. “Mio Dio!” disse, e una volta entrata strillò. “I tuoi capelli! Mio Dio!”

Mi sedetti, sorridendo gravemente. I miei capelli, che alla fine del semestre arrivavano fino alla vita, adesso erano tagliati a zero, appena un paio di centimetri più lunghi. Scorgendomi dalle vetrine dei negozi in quest'ultima settimana, avevo avuto un momento di confusione nell'affrontare l'estranea che sembrava sempre alle mie spalle; ero io. La mia testa era leggera e piena di possibilità, come un dente di leone.

Julianne attraversò la stanza, raccolse il mio pacchetto di sigarette e ne portò una alla sua carnosa bocca rossa. “Perchè l'hai fatto? Hai i pidocchi? O è un simbolo?”. Si vide riflessa nello specchio. Portò in alto la sua grande mano per toccarsi i capelli, una matassa serica color del miele. “Questo specchio è inutile,”

borbottò.

“Piegati.”

Piegò le ginocchia. “Inutile. Non è la cima della mia testa che devo vedere, è tutto il resto.”

“Forse dovremmo appenderlo in un altro modo.”

“E spaccare un pezzo di quel muro del cavolo.”

In mezzo alla stanza c'era un tavolino rettangolare, collocato al centro del

tappeto di cotone a righe, a sua volta al centro del pavimento lucido. Julianne

provò la solidità del tavolino con la mano e poi ci saltò su. Un pezzo di lei

apparve nello specchio: le sue ginocchia, i collant colorati, il fruscio della sua

gonna corta. Il tavolino cigolò. “Attenta!” Dissi. Distese una mano con il palmo in

avanti come fosse un oratore. Eravamo imbottite di cultura, sazie: “Fai un

discorso,” suggerii.

(15)

“La Gallia è divisa in tre parti,” profferì in latino.

“Questo non è un discorso.”

“Cartagine deve essere distrutta.” Analizzò la sua riflessione. “Non male.”

Scese giù, trionfante.

“La tua valigia,” chiesi. “Dov'è?”

“L'ho lasciata al portiere.”

“Oh, mio Dio!” Pensai al mio braccio slogato. “Adesso te la porterà su e dovrai dargli una mancia. Sarà imbarazzante.”

“Non devi dare la mancia a questo tipo di … ” Si bloccò. Fece un sorrisetto.

Sapeva come sarebbe andata. Adesso eravamo libere, a goderci la compagnia l'una dell'altra, indipendenti e uguali, libere di essere stupide o intelligenti a nostro piacimento. “Sento odore di zuppa,” disse.

“Ho paura di sì.”

“Gesù.” Disse con un senso di disgusto.

“Ti ricordi quando Laura a scuola ricevette quel messaggio per le cucine e mise su il cavolo alle nove e mezza?”

Un altro disgusto totale si abbattè negli occhi di Julianne. “Non parleremo della nostra accademia,” disse. “Ma devo dire che almeno alla fine della giornata ci lasciavano tornare alle nostre case, per mangiare e farsi un bagno.”

“Abbiamo spazi comuni.” Dissi.

“Ci sono specchi?”

“Cosa?”

“Ci sono specchi lunghi? Nel bagno?”

“No. Solo tubi. E vapore. L'acqua è calda. Ci sono mattonelle bianche, non troppo spaccate, e la polvere abrasiva sul ripiano per quando ce n'è bisogno.”

“Non capisco come ti aspetti di farcela. Farti un bagno senza uno specchio.”

Rimasi in silenzio. Non mi era mai sembrato essenziale. Non era importante

affatto. “Sono solamente lungo il corridoio,” dissi.

(16)

“Tre bagni uno accanto all'altro. Non c'è ragione per cui debba descriverteli.”

“Mi piace che tu mi descriva le cose,” disse con aria imbronciata. “Le descrizioni sono il tuo punto forte. Dio solo sa perchè vuoi studiare Legge. Per vanità suppongo. Vuoi mostrare la tua spaventosa super onnicompetenza distruttrice.” Si guardò intorno. “Vedo che hai preso il tavolo migliore. Il letto migliore.”

Si sedette sul suo letto e iniziò a fare un sorrisetto sciocco. “Ai capelli,” spiegò.

“Dai Carmel, come pretendi di lasciarti la vecchia campagna alle spalle? Una ragazza come te, cresciuta con tutti i vantaggi … i tappeti di stoffa, le paperelle volanti sul muro …”

“Veramente non avevamo nessuna paperella volante. Anche se mia zia ce l'aveva.”

“Forse no, ma mi aspetto che tu abbia uno di quei set per i caminetti, no? Con pinzette e palette dorate?”

Sorrisi mio malgrado.

“Rasata,” disse. “Sarebbe questa la parola? Tosata. Rapata.” Alzò il dito. “Sai quanto mi inquieta quella tua testa? Sedere anno dopo anno dietro la tua treccina disordinata con i nastri tagliati alla fine a forma di V, come si fa nelle ghirlande …

“Non lo sapevo.”

“ … e poi arrivare qui, signorina, a Londra, in una stanza di questo studentato, dove siamo confinate per il piacere di Sua Maestà … Che cosa credi? Che ci lascerebbero andare via di casa e prendere un appartamento?”

“Insieme?”

“Perché no?”

“E come la mettiamo con i miei modi da ceto medio?”

Soffiò il fumo verso di me. “Desidero dirti una cosa: ecchecavolo!”

“Ah è così?”

(17)

“Sarebbe carino se noi parlassimo e ci comportassimo come in un romanzo di Edna O'Brien. Ci donerebbe.”

“Sì, ci starebbe bene,” dissi. “Non abbiamo una lezione chiamata Le ragazze di pochi mezzi”

5

“Parla per te. Figlia di una donna delle pulizie.” Julianne si strofinò gli occhi e ricominciò a ridere quasi subito.

Le raccontai delle poesie che scorrevano dentro la mia testa. Disse, “Hai bisogno di essere portata fuori. Dovremmo andare a vivere. Potremmo andare a qualche festa delle associazioni studentesche o fare altro, ne apparteniamo anche noi adesso. Ci prendiamo una bottiglia o due di Guinness, no? Per tirarci su.”

Pensai che di notte si sentiva il rumore delle feste. Avrei potuto mordere la lingua segreta del mio cervello che lo diceva. Perché pensavo di essere in procinto di prepararmi per la battaglia di Waterloo? Julianne faceva sembrare tutto normale ma per me non lo era. Casa sua era sempre aperta; se lo desiderava poteva tornare là il prossimo weekend e tuffarsi nel suo letto agghindato nella camera a lei familiare. Io non sarei potuta tornare fino a Natale – e a quel punto avrei potuto reclamare una rimborso dalle autorità locali. I suoi genitori, mi aveva detto, si erano offerti di accompagnarla in macchina, vederla sistemata, controllare la sua camera e aggiungere un tocco o due di lusso; ma lei preferì separarsi completamente sul treno per Euston, e inoltre loro dovevano rendersi conto che il suo alloggio era condiviso, e che io del resto avrei potuto concedermi qualche tocco di lusso anche da sola.

Respinsi l'autocommiserazione: per quanto le parole di Julianne, nel loro insieme, sembrassero fatte apposta per esortarti. Mi sentivo già nostalgica, e povera, ma più per la preoccupazione che per la reale povertà del mio portamonete; il mio braccio destro, il mio arto tormentato, sentiva di non poter sostenere il peso di una borsa piena di libri scolastici.

5 Romanzo di M. SPARK, Girls of Slender Means, 1963.

(18)

Se solo iniziasse la scuola: l'inchiostro, i raccoglitori, la determinazione dietro occhi insonni, il passo cadenzato dei sorveglianti. Questo era quello per cui ero venuta qui: per trovare la mia strada, per guadagnarmi da vivere.

Bussarono alla porta. Julianne balzò attraverso la stanza. Era il portiere che portava la sua valigia. “La metta lì!” canticchiò. Si sgranchì la braccia – Lady Bountiful, la compiaciuta dama di carità. C'era una torta di prugne nella sua borsa da viaggio, fatta in casa e riposta in una teglia. Sapeva come gestire la sua vita, come andare via di casa. Pensai a suo padre, il dottore; ai suoi tre fratelli, che a scuola praticavano lacrosse. Avere fratelli è un vantaggio nella società moderna;

dà alle ragazze la capacità di disprezzare facilmente gli uomini. La pelle di Julianne sembrava curata; era, nell'insieme, più adatta all'avventura, più disposta al cambiamento.

“Julianne,” dissi, “non hai accennato ad un fatto ovvio.”

Sgranò gli occhi. “Quale ovvio, qual è il fatto ovvio?”

“Sai, intendo Karina.”

“Risparmiami,” disse Julianne.

“Non è ancora qui, almeno per quanto io … ”

“Quello che vuoi. Risparmiami.”

“Mi hanno domandato se volevi condividere la stanza con lei.”

Julianne mi fissò. “In nome di Dio, come hanno avuto quest'idea?”

Sorrisi dentro di me. “Hanno solo chiesto. Penso si tratti di una formalità.”

“Spero tu abbia chiesto di metterla molto lontano, al più basso, più alto … ”

“In realtà è nella stanza accanto.”

“Non mi starai dicendo che hai permesso loro … ”

“No. Ok. Sto mentendo. È in questo corridoio. C21.” Dato che avevo visto la matita della custode scorrere rapidamente sulle liste assegnando numeri e stanze.

“Abbastanza lontano.”

“Con chi?”

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“Con un'estranea.”

“Come deve essere. Un'estranea, così deve essere. Se mi avessi giocato qualche scherzetto,” disse “e lasciato con Karina, non ti avrei mai più parlato.” Pensò un momento. “Ti avrei rincorso per strada con un uncino speciale e lacerato le tue calze migliori. Avrei preso dei Durex e scritto sul pacchetto 'Per Niall da Carmel, in anticipo', e li avrei tirati fuori dal pacchetto e bucati con uno spillo, poi ripiegati e riposti, e chiuso ermeticamente il sigillo e inviati per posta al tuo ragazzo e sulla busta avrei scritto SCUBA.”

“Hai finito adesso?”

“Sigillato Con Un Bacio d'Amore.” Disse.

Volevo difendere Karina e dire, ma saremo amiche con lei? Lo siamo? Ma non potevo. Suonava troppo infantile. Come se non avessimo mai voltato pagina.

Raccolsi il mio pacchetto di Players e lo lanciai sul letto di Julianne. “A te. Ho smesso di fumare.”

Restò a bocca aperta. “Ma se hai appena iniziato.”

“Persino nelle mie abitudini risulto mutevole.”

Julianne rise. Indurì i tendini, rimise in circolazione il sangue. Rings on her fingers and bells on her toes. Anelli alle mani e campanelle alle dita dei piedi.

6

6 Citazione da WESTON AND BARNES, I've Got Rings On My Fingers, 1909, traduzione mia.

La canzone popolare racconta di un irlandese, Jim O'Shea, un naufrago che si ritrova nelle Indie Orientali dove viene nominato Capo Panjandrum dai nativi perché amano i suoi capelli rossi e il suo sorriso irlandese.

(20)

Due

Non seppi mai di quale nazionalità fosse Karina: o, meglio, di quale mescolanza di nazionalità. “Sono inglese,” diceva con aria di sfida. Forse questo feriva i suoi genitori. Quando aveva circa dieci anni volevano mandarla a scuola di sabato, cosicché avrebbe potuto imparare a leggere e scrivere nella sua lingua nativa, e apprendere canzoni e danze popolari ed avere costumi nazionali.

Risolutamente, ostinatamente, vi si oppose. “Indossare uno stupido grembiule!”

Fu tutto ciò che disse. “Indossare una stupida cuffia!”

Mi affligge adesso essere così poco chiara: i suoi genitori erano polacchi, ucraini o estoni? Loro stessi non condividevano una lingua nativa e questo spiegherebbe perché le loro comunicazioni familiari si tenessero spesso in un inglese rudimentale. Mi ricordo di loro come persone informi, silenziose, che indossavano numerosi strati di abiti di lana. Lavoravano entrambi in fabbrica, facevano lavori che non richiedevano capacità verbali, in stanze dove il frastuono delle macchine era così alto che parlare era comunque impossibile.

La casa di Karina si trovava giusto di fronte alla mia, nella solita strada, proprio in Curzon Street. Le case in Curzon Street erano fatte di mattoncini rossi, come quelle delle strade intorno. Quando si entrava c'erano un ingresso, un salotto e dietro una cucina della stessa grandezza. C'erano due camere da letto e nessun bagno. Il gabinetto era fuori nel cortile. Quando ero piccola, l'uomo che ritirava l'affitto veniva ogni venerdì e se ne stava in piedi occupando l'ingresso mentre venivano consegnati i soldi e veniva registrata una voce nel nostro libretto di ricevute dell'affitto. Circa ogni anno la proprietaria veniva a controllare la sua proprietà. Possedeva l'intera Curzon Street, ogni casa, e anche l'intera Eliza Street.

Portava un pesante strato di cipria rosa, un'elegante lobbia con una piuma ed un

cappotto ed una gonna che la gente definirebbe un travestimento.

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“Hai visto quella maschera?” Diceva mia madre. Lo diceva ogni anno. Non specificava cosa la sorprendesse del travestimento: solo “Hai visto quella maschera?” Poi un anno, durante un violento scoppio emotivo aggiunse, “Avrei potuto farla io stessa. Per una ghinea. A macchina.”

Fino a quando ebbi circa nove anni io, mia madre e mio padre ci lavammo a turno nel lavello di cucina con una saponetta rosa che mia madre teneva in un piatto smaltato, e dividevamo un asciugamano che appendevamo a un gancio nella credenza sottostante. Le mattine scorrevano lente a causa della vergogna. Mia madre andava per prima; nel tempo in cui mi urlavano di scendere, i misteri del suo seno venivano preservati dietro un rapido abbottonarsi di perle, soltanto la pelle ruvida e arrossata della sua gola, suggeriva che si era strofinata mezza nuda appena un minuto prima. In piedi di fronte allo specchio, passava sul naso il suo piumino da cipria; distribuiva una polvere diversa da quella della nostra proprietaria, e la guardavo spennellare in giù e da destra a sinistra, abile e senza pietà come un uomo che rimuove la calce dai mattoni, occultando le parti a chiazze con una copertura color cachi, ed eliminando l'eccesso con i bordi del piumino. Sedevo al tavolo della cucina, qualche volta rabbrividendo, i piedi penzolanti a mezz'aria sotto l'orlo della camicia da notte; guardavo mio padre radersi. La sua bocca era coperta dal sapone, la sua faccia inclinata come se stesse comunicando con i santi; l'umiliante fetore femminile della saponetta rosa trapelava dalla pelle delle sue spalle lentigginose. Poi la proprietaria cedette alla pressione di installare bagni e sistemi di acqua calda per i suoi inquilini. Metà della mia camera sparì dietro un divisorio e diventò una cabina fredda e bianca. Il primo giorno dopo che l'installazione fu terminata, entrai nella vasca vestita – senza che ci fosse l'acqua ovviamente – solo per vedere che sensazione dava. Era gelata, smaltata, scivolosa; un freddo verniciato che penetrava nelle mie ossa.

L'affitto era aumentato ma, poco tempo dopo, la proprietaria iniziò a vendere le

sue case. Se ne sarebbe voluta liberare alla svelta poiché il prezzo da lei richiesto

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era solo di cinquecento sterline. I miei genitori andarono in camera da letto e bisbigliarono tra di loro. Dall'asse del pavimento del piano superiore provenne un pesante tonfo. Gironzolai intorno alla finestra del nostro salotto, ammirando i cani che andavano e venivano; speravo di poter avere un cane ma mia madre diceva che il limite preciso della sua tolleranza sarebbe stato un gatto piccolo e perfettamente addomesticato. Tesi le orecchie alle parole 'Kingston-upon-Hull'.

I miei genitori scesero giù dopo due ore. Le guance di mia madre avevano assunto un colorito vivo. “Stiamo per diventare proprietari di casa,” disse.

I genitori di Karina non avevano cinquecento sterline quindi continuavano ad affittare la loro casa al nuovo padrone.

“Tu pensi di essere così chic,” disse Karina. “Pensi di essere così benestante.”

Ogni giorno io e Karina andavamo a scuola insieme. Trotterellavamo lungo Curzon Street, verso il centro della città, girando a sinistra in fondo a Eliza Street, al pub che si chiamava Ladysmith. La maggior parte delle strade aveva un pub all'angolo, a cui di solito veniva dato il nome dei figli più giovani della regina Vittoria, o di generali morti, o di vittorie nelle guerre coloniali; eravamo troppo giovani per saperlo. Viaggiavamo in discesa, guidate dai camini delle fabbriche dalla strana architettura italianeggiante – mattoni gialli e rosa e sporchi – e dovunque si affacciavano paesaggi anneriti, strade ferroviarie sugli argini e terreni incolti, danni causati dalla guerra e fumo; alla fine di Bismarck Street guardavamo in giù verso i camini fumanti delle case sottostanti, schierate nelle loro file, marciando sempre più giù verso la torbida valle.

Passavamo l'Irish club e il fioraio, con i suoi piccoli garofani bianchi e rosa tesi

dentro i secchi, e i tappezzieri chiamati Elvina's che mostravano dalle vetrine

calze di Bear Brand e gonne a pieghe simili a concertine di stoffa e cappelli a

forma di torta su teste di manichino. Passavamo oltre il pasticcere, o meglio, non

riuscivamo a passare oltre; la vetrina attirava Karina. Metteva i pugni nelle tasche

e si appoggiava all'indietro, i piedi distanti; sembrava radicata, inamovibile.

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Le torte erano impilate su impalcature di scaffali spioventi, disposte su centrini rosa e imbiancate da cascate di zucchero a velo. C'erano i millefoglie, con i loro leggeri strati di pasta sfoglia incollati insieme dalla spessa crema pasticcera, che si scioglieva come fosse una lingua gialla. C'erano traboccanti sfogliatelle di marmellata e rigonfie Eccles cake, tagliate per mostrare il ricco ripieno di frutti di bosco. C'erano crostate di marmellata grandi quanto un semaforo e torte di mirtilli dalle quali traboccava succo come fosse sangue nero.

“Guarda quei pasticcini,” diceva Karina. “Guarda.” Io mi giravo di lato per vedere la sua faccia intenta. Qualche volta compariva la punta della sua lingua, e scorreva lentamente in alto verso il suo naso piatto. C'erano pasticcini di pan di spagna a forma di grossi funghi guarniti da glassa rosa e mezza ciliegia candita.

C'erano piramidi di cocco e tortini sottili e squadrati al cioccolato a forma di casa, rifiniti con una grande rotella di marzapane avvolto nel cioccolato, solida come la canna di un cannone.

Aspettavo che Karina ne scegliesse uno, che andasse dentro e lo comprasse, perché sapevo che i suoi genitori le davano i soldi ogni giorno, almeno tre penny e qualche volta anche sei. Ma dopo aver esaminato le torte per un po', dopo averne discusso, dopo aver speculato sul loro possibile gusto e sulla loro consistenza fino a che la mia bocca si riempiva di saliva, Karina si chiudeva nel silenzio, si voltava con un qualcosa di ostinato nel viso, un qualcosa di confuso e di afflitto, un'espressione troppo difficile per me da identificare. E così andavamo a scuola.

Passarono due anni, meno contrassegnati da risultati scolastici che da mode

passeggere. Ci fu la moda dello yo-yo e il trend dei giochi di carta. Passavano

intere settimane in cui non facevamo niente tranne implorare della semplice carta

rigida da piegare, spiegazzare per costruire cose che chiamavamo 'Qua qua',

incorporei becchi della taglia di una mano che chiudevi a scatto sui nasi della

gente. C'erano epidemie di salto con la corda e nuove rime, nuove rime e fusioni e

miscugli con le vecchie:

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'Giornale di Manchester, notizie serali Ecco un gattino con gli stivali.

Scocca l'una, Scoccan le tre,

L'orologio ha un dito che indica proprio te.

Mamma mamma sono malato, Via dal dottore e sarà tutto passato.

Dottore dottore Guarirò?

Certo che no e anch'io non so … '

7

Karina era una saltatrice efficiente. I suoi piedi rimbombavano sul pavimento.

Su, giù le sue ginocchia arrivavano fino al petto; la sua faccia non aveva alcuna espressione.

Passammo per le mani di Miss Whittaker che ci picchiò dietro le ginocchia

come tutti quanti avevano previsto che avrebbe fatto, dalle mani di suor Basil, la

cui cattiveria era attenuata dalla distrazione. Me la immagino sempre con il

braccio alzato, la manica nera calata, mentre con il gesso scrive alla lavagna nel

suo corsivo fluido la parola 'Problemi'. E sotto, una consegna complicata, una

consegna espressa a parole, come un tema, senza i segni del più o del meno: una

consegna discorsiva, senza un metodo di lavoro suggerito: “Se un uomo compra

mele del valore di una sterlina e tre penny, e pere del valore di due sterline e otto

penny e dà al negoziante dieci sterline in contanti … ”. Questi problemi erano

sempre sulla frutta, sul carbone, sul perimetro dei campi, su viaggi in treno. Se

Karina comprasse un millefoglie del valore di quattro penny, e un pasticcino al

cioccolato del valore di tre penny, quante ragazze passerebbero un bel momento?

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Fui contenta quando il salto con la corda finì. In mezzo alle rime la mia mente divagava e i miei piedi prendevano la loro strada; le ragazze che facevano girare la corda stabilivano le rime e io non potevo scegliere. Fui contenta quando toccò alle biglie perchè avevo le mie biglie in una borsa bianca e sporca, chiusa con un cordoncino che mi aveva dato mio nonno, e ogni cosa datami da mio nonno era migliore di una medaglia benedetta dal Papa. Le facevo rotolare verso altre biglie con accurata precisione, come se stessi rigirando un occhio freddo all'interno del suo possessore. La mia biglia preferita era di un colore freddo, iris, grigio ardesia, con una minima traccia di blu. Nella mia mente chiamavo questa biglia 'Connemara'.

Karina indossava ancora nastri bianchi per fermare le sue treccie corte e spesse, ma il suo vestito era diventato uguale a quello che adesso adottavano le altre ragazze: una gonna, una maglia e una camicetta alla moda che doveva essere bianca ma che appariva gialla sotto le luci della classe e sotto nuvolosi cieli aperti.

La sua gonna a pieghe era azzurro intenso, superiore al blu scuro, mi disse. Era sistemata da qualche parte sotto le sue ascelle dato che Karina non aveva vita. Era una ragazzona, diceva la gente – e lo diceva con approvazione – una ragazzona e sempre molto pulita. Non avevamo lavatrici e, dato che i bagni e l'acqua calda erano molto nuovi, la pulizia era una virtù solida e di chi aveva grande volontà.

Una donna con ogni vizio possibile poteva essere assolta con una frase forzata come questa: “Lei è molto pulita, lo posso dire.” Descrivere qualcuno come 'non pulito' era un'accusa più tremenda che essere descritto semplicemente come 'sporco'. La sporcizia poteva essere un fenomeno transitorio, ma il non essere puliti era una malattia spirituale.

Forse, nel quartiere in cui vivevo che andava oltre il linguaggio, la madre di

Karina l'aveva capito, perchè c'era una certa qualità nello strofinare e nello

sfregare la testa rotondetta della figlia e i suoi grandi denti bianchi e squadrati. La

pelle di Karina era come una pesca rosa che sembrava riempirsi fino a esplodere;

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se avessi toccato la sua guancia avresti sentito come un frutto maturo pronto ad essere spaccato. Era alta una testa più di me, le sue spalle erano larghe e la sua ossatura grande e rozza.

In seguito Julianne era solita dire, “Karina è una contadina. Beh non è così? In Inghilterra non abbiamo contadini. Perchè no? Complessi fattori socio-economici.

Ma in Europa essere un contadino è normale. E Karina è normale. Per una contadina.”

Al primo approccio con il freddo, Karina emergeva da casa sua al mattino in rigidi stivali di camoscio con una cerniera al centro. Sulla testa indossava un cappuccio tartan simile a quello di un folletto, o a volte, un berretto di pelliccia con protuberanze simili ai piumini per cipria, che premeva sulle orecchie paffute.

Se nevicava, veniva a scuola con pantaloni attillati scozzesi sotto la gonna a pieghe e quella parte del pantalone che stava sotto le ginocchia si arricciava in spessi strati attorno ai suoi polpacci e veniva stipata negli stivali di gomma.

Aveva, all'età di otto anni – e forse questo è quello che ci ha unito – una spiccata indifferenza per l'opinione pubblica.

Che io sembrassi carina, che io sembrassi diversa: questo era l'obiettivo di vita di mia madre. Ricamava sulle mie gonne interi paesaggi stravaganti; sui miei colletti cuciva farfalle colorate e sui miei cardigan sistemava stelle e mezzelune.

Non avevo a che fare con pieghe blu scuro né azzurro intenso, con niente di

consueto, lavato, sbiadito o liso. Avevo delle fasce; dei sottogonna con cerchietti

che tintinnavano e ondeggiavano attorno ai miei polpacci. Avevo vespe che

volteggiavano sopra trifogli sullo sfondo di prati verdi, e una maglia lavorata in

modo particolare secondo il colore dei miei occhi. I miei capelli erano una sottile

cortina di ombra smorta; un indecifrabile grigio-oro, un colore senza nome. “Puoi

sedertici sopra?” Chiedevano a volte le ragazze: la loro contrastata ammirazione

metteva da parte, per un momento, l'invidia, la paura e il disprezzo.

(27)

Non si deve pensare che Karina fosse gentile riguardo ai miei abiti, o che fosse più dolce riguardo ai miei capelli di quanto non lo fosse stata Julianne nei nostri giorni a Tonbridge Hall. Penso ancora a quella mattina assolata e ventosa, quando avevo sei anni, e avanzavo verso la classe per prendere posto al banco vicino a Karina: invitata là dal suo sorriso sontuoso e dal suo maglione giallo.

Avevamo piccole sedie in miniatura; spostai la mia verso il tavolo e mi voltai verso Karina, sorridendo con piacere. Spuntò la mia mano, poi la punta delle mie dita, per toccare quella lana soffice color tuorlo d'uovo; ero convinta che sarebbe stata umida al contatto. “L'hai ricevuta come regalo di Pasqua?” Le domandai.

Karina rispose, “Non dire sciocchezze.”

Non tolsi subito le dita da lì.

“A Pasqua ricevi le uova.” Girò verso di me il viso con le fossette e l'indistinta aureola intorno ai capelli si immerse nel disco sobbalzante contro il muro della classe.

“Dove sei stata?” Chiese.

“Sono stata malata.”

“Sei debole,” disse.

“Non lo sono.”

“Sono i tuoi capelli. Così lunghi. Tutti giù lungo la schiena. La tua forza va a finire lì.”

“Non è vero.”

“Dove altro va allora?”

Tacqui. Riflettei su ciò che aveva detto. Scosse la testa e una sporgente treccia annodata si delineò per un istante contro il muro. “E venne la mucca, col corno ammaccato … ”

8

Ancora una volta le mie dita sgattaiolarono fuori per sfiorare la morbidezza della sua manica. Karina buttò giù la mano e mi colpì così duramente sulle dita che sentii l'equivalente di una leggera scossa elettrica:

8 Citazione da This Is the House that Jack Built, 1846, traduzione mia.

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un dolore piccolo ma ostinato, lancinante e profondo.

C'erano tre motivi per cui ogni giorno andavo a scuola insieme a Karina. Il primo, e il più semplice, era che speravo che per quanto strano potesse essere ciò che indossavo, Karina avrebbe indossato qualcosa di ancora più strano.

Il secondo era che mia madre diceva che dovevo.

Il terzo era che dovevo fare ammenda.

Non so se credete nel perdono. Mi ha sempre addolorato – sebbene Dio lo sappia, non ho più messo piede in chiesa dagli anni della scuola – il presupposto che i cattolici abbiano vite facili: che possano peccare come quando e dove vogliano, poi entrare un attimo nel confessionale ed eliminare l'elenco. Ho paura che non sia così semplice. Prima di tutto devi essere dispiaciuto del tuo peccato.

Secondo, devi fare del tuo meglio per non ripeterlo. Terzo, se c'è qualcosa che puoi fare per rimediare, devi farlo. Se rubi dei soldi devi restituirli. Se calunni una persona devi trascorrere il resto della tua vita a scrivere sonetti in elogio del suo buon carattere. Se ferisci i sentimenti di qualcuno devi provare a riparare i danni.

Il mio legame con Karina aveva a che fare con il perdono. Le avevo fatto un torto, l'avevo ferita, e questo torto era avvenuto durante il primo mese di scuola, quando avevo quattro anni.

Si dice che ci si ricordino i primi anni come illuminati dal sole. Forse è vero

per chi è nato al sud, che è più ricco e ha un clima migliore. Quello che io ricordo

meglio, è la grandine e il nevischio, e il nuovo entusiasmo quando iniziava a

nevicare veramente: venti nevralgici e ghiaccioli come stalattiti e nebbia

avvelenata in banchi fluttuanti grigio-giallastri. In una di queste emergenze

climatiche – non ci sono dubbi anche in più di una dato che tendono a sovrapporsi

– ci tenevano dentro durante l'intervallo, e dovevamo scaricare le nostre energie di

bambini giocando in uno spazio ristretto e in modo silenzioso all'interno della

nostra classe. E c'ero io, e c'era anche Karina.

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La classe della scuola materna non è affatto disposta come le altre: lì possiamo solo sbirciare all'interno, essendo scoraggiati dalle leggende delle spaventose percosse distribuite ai nostri predecessori. Ha il solito odore – di carbone, polvere e suore – ma anche di carne, tenera e dolce di noi bambini, della nostra pelle, dei nostri capelli e dei nostri stivali di gomma e quando penso a questo, penso alle lettere infinite nei nostri libri di lettura che parlano di un fratello e una sorella di nome Dick e Dora. Penso alla piega alla francese dei capelli della madre di Dick e Dora, al vestito di tweed indossato dal padre di Dick e Dora e dentro la mia bocca fluisce il sapore, oleoso e dolce, del succo d'arancia passato dallo Stato. Molto bene: ho quattro anni, sono in classe e c'è un armadietto basso che corre lungo tutta una parete. Ci sono i nostri disegni appesi sopra o almeno quelli che sono più figurativi che astratti.

Presumo siano le dieci e trenta. Non so ancora leggere l'ora. So come scandire 'e cinque, e dieci' e tutto il resto ma non ho ancora capito la relazione tra i numeri e le lancette. Ma concordiamo sulle dieci e trenta; sta piovendo e fa buio. Posso vedere la pioggia battere sul vetro della finestra in schizzi ben distinti, poi separarsi ed espendersi nel delta del Nilo, nonostante sia un fiume di cui ancora non conosca l'esistenza; guardo il delta diventare un oceano, un semplice rombo, un muro di suono. Sono seduta sull'armadietto dondolando le gambe. Avanti e indietro, avanti e indietro. Calzini fulvo chiaro e scarpe con le stringhe.

Karina passa. I suoi occhi celesti guardano dritto davanti a sé, e la sua espressione è distante ma implacabile. Ha un camioncino, un camion che tira con una corda. Il camion è rosso. Nella parte posteriore è inserita una bambolina, una bambolina bionda, grassoccia e piagnucolona, di plastica rosa e nuda. Che gioco!

Una bambola in un camioncino! Penso che sia stupido.

Prima che abbia il tempo di pensare a qualcos'altro il mio piede scatta. Il mio

piede scatta forzando il ginocchio. Il camion si solleva in alto, per aria.

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La bambola di plastica vola via e bam! Giù contro il pavimento della classe, giù sulla sua testa rosa e pelata. Morta.

Karina lascia cadere la corda del camion. Si volta lentamente. Si succhia le labbra, rosa come la sua faccia, tra i grandi denti squadrati. Poi le lacrime – grosse lacrime – iniziano a scorrerle giù sulle guance. Sono seduta con le gambe che ancora dondolano, come se fossero un meccanismo a parte sul quale non ho controllo. Karina mi minaccia: porta su il braccio senza alzare il gomito, facendo l'atto di colpirmi. Ha paura, so che ha paura. Si avvicina a me; il colpo piomba sulla mia spalla, lieve come una pacca, e una lacrima cade sulla mia mano, scottandomi. Mi sfrego la mano sul vestito e la lacrima se ne va.

Normalmente, se qualcuno mi picchia, lo picchio anch'io. Gli cavo gli occhi.

Ho quattro anni e sono famosa per essere una buona combattente. Do calci nelle reni. Nonno dice che questo non lo sopporteranno molto. Conosco le reni: le ho viste su un piatto. So che vengono dalla macelleria e immagino i miei nemici inerpicarsi per Bismarck Street con una borsa della spesa e, all'interno, le loro reni, avvolte nella carta insanguinata. Nella mia mente la gamba schizza in alto e dritta, su fino alle orecchie, è in questo modo che li colpisco, con la punta più estrema delle dita dei piedi; faccio loro rivoltare le reni.

Il macellaio scrive i prezzi sulla carta; li somma, il totale tremola e si deforma attorno al pacchetto. Quanto costano le reni? Non mi importa molto. Do calci anche negli stinchi; fanno parte della gamba. Non importa cosa fai, dice nonno, basta che non esiti; chi esita è perduto. Colpisci, colpisci duramente, fatti valere.

Ma ho lasciato che Karina se ne andasse perché sapevo che quello che avevo

fatto era sbagliato, prendere la sua bambola a calci in quel modo. Mi domandavo

in realtà perché non mi avesse colpito più forte, perché fosse così chiaramente

impaurita, ma penso che debba essere stato il movimento meccanico e senza pietà

del mio piede, che dondolava e tintinnava, che colpiva e calciava nella sua

scarpina per la scuola di John White.

(31)

Dov'era Julianne? Non là: dieci miglia lontana dal paese, alla sua scuola primaria privata. Me la immagino mentre gioca con forme di plastica dai colori brillanti su una lavagna magnetica: assemblando e manipolando mentre una suora dal viso dolce le sorride dall'alto, e arricchisce la sua dose di caramelle miste, dicendo

“piccola cara Julianne.”

*

Andai a casa e dissi a mia madre, “Karina mi ha picchiato.”

Mia madre mi mise seduta sul tavolo di cucina. Mi insegnò una canzone:

'Karina è buffa assai

Come una cipolla è il visino Come un pomodorino il nasino E come due stecchini ha le zampine.'

9

“Posso cantarla domani?” gridai, fuori di me dalla gioia.

“No,” disse mia madre. “Cantala dentro di te. Serve solo per aiutarti a stare meglio.”

Compresi perfettamente, se impari qualcosa di molto offensivo e impertinente, gran parte del piacere sta nel tenerlo per sé. “Ok,” dissi. Scalciai un po' con le gambe. Oh, in quei giorni ero una piccola anima felice e gioiosa.

9 Filastrocca popolare inglese dalle origini incerte, traduzione mia.

(32)

Questo fu il primo e ultimo scherzo che mia madre fece su Karina. A volte, nei due o tre anni successivi, si intratteneva con sua madre per strada, in qualche sorta di conversazione, dopo di che tornava a casa e gridava e menzionava carri bestiame. Ciò che la vita di quella giovane donna è stata, non è da prendere in considerazione, diceva, non è da prendere in considerazione. Mio padre andava via, portava fuori il kit da modellismo e costruiva il modellino di un bombardiere.

Quando questi areoplani grigi erano finiti, li metteva in esposizione su un piedistallo in plexiglas di plastica trasparente e sottile, che non dava l'impressione che fossero lì ma ti faceva credere che stessero volando.

Mia madre diceva, “Adesso che non vai più a scuola chiamerai lo stesso Karina non è vero?”

La maggior parte dei giorni Karina era già là in Curzon Street, aspettandomi e in cerca di me. Il suo braccio scivolava nel mio, creando quello che chiamavamo un legame. Mi lego a te, una donna diceva ad un'altra, facendo scivolare un braccio nell'altro. Era il modo, per le donne, di andarsene per strada. Credo che al giorno d'oggi, si penserebbe che siamo lesbiche.

Al giorno d'oggi. Ah, al giorno d'oggi.

Ventiquattro ore dopo l'arrivo di Julianne a Londra, io stavo mettendo i fogli nel raccoglitore ad anelli e lei stava sdraiata sul letto a leggere l'Evening Standard.

Bussarono alla nostra porta.

“S'inceda” disse Jule stentorea, continuando in tono solenne, “Penseranno sicuramente che sia Freud.”

Una voce disse, “Oh, possiamo?”

Due visi radiosi, uno dei quali brufoloso, spuntarono alla porta.

“Potete entrare completamente,” disse Jule. “L'invito è per un po' più delle

vostre teste.”

(33)

Così vennero dentro: Claire, di Bornemouth, una ragazza alta dal petto robusto e Sue, un passerotto con un profondo accento meridionale, che però non disse da dove veniva. Indossavano entrambe degli allegri pullover; sotto Claire portava una gonna ampia e Sue un pantalone in poliestere, dignitoso, il tipo di cose che comprano le mamme.

Era Claire che aveva i brufoli. Perlustrammo con gli occhi il suo viso in quello spietato modo che contraddistingue le ragazze a diciotto anni, per vedere se c'era una battaglia da poter combattere. Ma Jule mi fece un segno con la sua grande mano bianca come a suggerire una tregua. In nessun caso loro ci avrebbero fregato i nostri uomini e non c'erano uomini che probabilmente avrebbero potuto attrarre, non avremmo dovuto occuparci di tenerle lontane da loro.

Stavano in piedi sul tappeto di cotone, gli stinchi sfioravano il tavolino da caffè; sorridevano in modo tollerante ai nostri scaffali di libri, ai nostri Marx e Leonard Cohen e Herman Hesse, tolleranti nei confronti del portacenere di Jule e tolleranti nei confronti della lunga gamba sottile sotto la mia minuscola gonna. “Io sono al King's College,” disse Claire. “E Sue qui, lei è al Bedford. Tu sei a medicina vero Miss Lipcott?”

“Mm,” disse Julianne. “Ma ancora non ho dissezionato niente.”

“Però,” rise Claire, “hai chiaro quello che ti aspetta eh?” Spostò il piede; tutti i brufoli quasi iniziarono ad arrossarsi come se in quel momento stesse per giungere a qualcosa di delicato, forse imbarazzante. “Sentite,” disse, “siamo state in giro, noi siamo veterane sapete, per dare il benvenuto ai nuovi arrivati e il punto è, non è che siamo un gruppo organizzato, è informale, ma se vi facesse piacere unirvi a noi … vedete noi … stiamo insieme e … andiamo in chiesa.”

Aspettavo che Julianne dicesse qualcosa di molto sconvolgente, molto profondo e del tutto originale. Ma calò un sipario sui suoi stravaganti occhi blu.

Disse con voce grave, “Ma noi siamo cattoliche.”

(34)

Per tutto il giorno seguente e il giorno dopo ancora le ho guardate arrivare;

ragazze che non avrei mai immaginato; da Brighton, da Luton, e dalla graziosa Dundee di scottiana memoria. Ci devono essere state volte in cui mi fermavo e le fissavo, in modo schietto e sgarbato, dato che non conoscevo che ragazze del Lancashire. Che pensieri avevano? Come erano state le loro vite? Non potevo immaginarlo.

Disposi il mio equipaggiamento sulla scrivania. Penne. Fogli. Tutti ben allineati. La piccola cara Sue fece capolino alla porta. “Cosa? Già al lavoro?

Dov'è Julianne?”

“A sgranchirsi le ossa.”

“Tutta sola quindi?” Volteggiò intorno a me cinguettando.

“Io e Claire pensavamo di uscire per un boccone.”

“Grazie. Non ho fame.”

Volò via. Il suo viso lentigginoso, dagli occhi piccoli e brillanti rimase per un attimo nella mia mente; se si legasse ad un'altra compagna, più carina di lei invece che più ordinaria, potrebbe elevarsi nel mondo, sembrare meno goffa. Mi chiesi se avesse un ragazzo e se fosse normale o religioso. Mi chiesi anche che cosa avessero in comune lei e Claire, a parte Dio. Claire era un anno più grande e forse sentiva uno sventato istinto materno … Bucai i fogli e accatastai un'altra pila.

Carta bianca, vergine. I cerchietti di carta scivolarono sul pavimento come coriandoli perfetti. Mi inginocchiai e picchiettandoli li raccolsi uno per uno.

Julianne si era sgranchita le ossa e tornò a casa. Mettemmo un teschio sullo scaffale più alto, precisamente al centro. Il resto finì in una scatola di legno lucido che Julianne spinse sotto al suo letto. “Non dobbiamo annoiarci più,” disse. “Ogni notte che non abbiamo niente da fare, possiamo fare come Giulietta e colte da follia, prendere forse a baloccarci con le ossa dei nostri padri.”

10

“Non hanno qualcosa?” Dissi. “Queste ragazze?”

10 Citazione da W. SHAKESPEARE, Romeo e Giulietta, Milano, Fabbri Editori, 2003, p. 221,

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