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La battaglia della Meloria 1284 Interpretazioni di un evento

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INTRODUZIONE

Un isolotto o, meglio, un banco circondato da scogli a fior d’acqua nel Mar Tirreno, lungo nove chilometri e largo due, di fronte all’ antico Porto Pisano da cui dista per un breve tratto di mare. Questa è la Meloria, celebre per la battaglia del tre maggio 1241, più nota come battaglia dell’Isola del Giglio, che segna una grave sconfitta per i Genovesi ad opera della flotta pisana-imperiale; celeberrima per la battaglia del sei agosto 1284. Alcuni cronisti dell’ epoca vedono il disastro pisano della Meloria come punizione divina per la condotta di Pisa nella vittoria del 1241 (duemila tra morti e feriti, quattromila passeggeri tra i quali cento dignitari della Chiesa): tutti i prigionieri carichi di catene, ammucchiati nelle stive, senza alcun riguardo neanche per la veste talare, sono tradotti prima a Pisa e poi a Napoli dove sono chiusi nel Castel dell’Ovo. Ma le conseguenze dei due avvenimenti nel lungo termine furono diverse.

Per la storiografia tradizionale, la battaglia della Meloria è, in tutto il suo clamore, uno di quegli eventi perfetti per la scansione di un prima e un dopo: Pisa, prima fiorente repubblica marinara capace di marcare territori anche nel lontano Oriente, dopo città sopraffatta da Genova, rivale marittima e da Firenze, rivale terrestre. D’altronde l’evento è così sconvolgente e impressionante nelle sue dimensioni di perdita di vite umane e di naviglio, che gli stessi contemporanei ci lasciano la sensazione, nelle cronache, di un disastro immane e di irrecuperabilità di quanto era andato perduto.

Vedremo come i pisani, malgrado possano facilmente prevedere l’esito infausto dello scontro, si azzardino ugualmente nell’impresa, chi e cosa rappresenta per la economia di Pisa la città di Genova, quali furono gli sviluppi della battaglia, perché ci si attarda tanto nella stipula della pace, perché non c’è la ricostruzione di una flotta mercantile, chi sono coloro che si giovano di tale situazione segnando così, in realtà, un periodo post bellico di notevole sviluppo pur con caratterizzazioni divergenti da quelle del prima.

Esiste, quindi, un prima e un dopo Meloria, ma il 6 agosto 1284 non è l’inizio di una parabola in discesa, bensì la scansione convenzionale dello sviluppo di un processo economico e commerciale per questa parte del territorio toscano. Un evento perfetto per quella storiografia tradizionale deformata da una prospettiva che realizza il Medioevo come epoca di fragilità e sterilità e che osserva da lontano un periodo che si sta avviando

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verso lo scenario apocalittico delle pestilenze e delle carestie del trecento ma che, in realtà, è un atto di un’evoluzione già in essere e che riceve impulso decisivo dalla sconfitta.

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CAPITOLO PRIMO IL MEDITERRANEO 1.1 Il Tirreno, il palcoscenico nel teatro Mediterraneo

Nel Duecento, la rapida esplosione del traffico marittimo e, in primo luogo, di quello mediterraneo, è protagonista indiscussa del decollo del commercio nella Cristianità latina e dello sviluppo urbano. La riconquista del Tirreno è un evento fondamentale nella storia dell’Europa medievale: il Mediterraneo torna ad essere il centro economico e lo sarà fino a quando l’asse dell’economia mondiale non si sposterà verso nuovi territori, conquistati alla conoscenza proprio grazie alle risorse e alle ‘professionalità’ del Mediterraneo.

Il Tirreno, quindi palcoscenico di sviluppo ma, per ciò stesso, anche di contrasti, di duelli tra le città costiere che si affrontano in continue guerre di corsa e in ricorrenti periodi di guerra dichiarata, sopratutto quando, pur mantenendo il commercio occidentale come fulcro della loro operatività, rivolgono lo sguardo anche al Mediterraneo orientale1. Non sorgono solo potenze: nascono anche reti di vie di comunicazione per terra e per mare, compaiono tecniche raffinate per l ‘impiego di denaro in investimenti pubblici e privati legati al mare2.

E’ proprio a fine Duecento che una lunga epoca di incremento demografico in tutti i paesi dell’ Europa tocca il suo apice. Si raggiungono nuovamente conglomerazioni urbane di non poco rilievo e la loro popolazione sovrabbondante comincia ad emigrare specie verso il Levante, quindi nei paesi attorno al bacino orientale del mare interno e nelle regioni intorno all’Egeo e al Mar Nero. Dappertutto si trovano emigrati da molte regioni dell’Occidente: la maggior parte di tutti questi emigranti sono mercanti ma si muovono anche artigiani, pescatori e paesani. Questa emigrazione duecentesca è molto differente dall’emigrazione delle epoche precedenti del Medioevo verso il Levante: è l’espansione coloniale e commerciale di Venezia e Genova a provocare un flusso di emigranti verso il Levante alimentato da questo rigurgito di manodopera e di nuove energie3.

1M. Tangheroni, Il Mediterraneo bassomedievale, in Storia Medievale, AAVV Roma, 1998

pp.472-475

2M. Tangheroni, Commercio e navigazione nel Medioevo, Bari, 1996, p.280

3 E.Ashtor, Il retroscena economico dell’urto genovese pisano alla fine del Duecento, in Genova,

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C’è anche un altro fattore essenziale per lo sviluppo dei paesi dell’Europa meridionale nel Duecento e per i rapporti tra le grandi repubbliche marinare, oltre quello demografico, ed è il flusso d’oro che scorre in quell’epoca dal Sudan occidentale verso il mar Tirreno e soprattutto verso Genova, prima che in altri centri commerciali dell’Europa meridionale. Lo sviluppo del commercio richiede una crescente disponibilità di moneta il che all’epoca significa una maggiore disponibilità di metalli pregiati (oro e argento).

A richiedere tale disponibilità non è solo il commercio, ma l’intera economia; canoni in natura e prestazioni d’opera tendono ad essere sostituiti da rendite in denaro e, quando i grandi operatori mercantili ideano tecniche per il trasferimento non materiale del denaro, ormai l’esigenza di disporre di contante si è già diffusa largamente in tutti gli strati della società, anche contadina. Questo causa, insieme alla crescita demografica, una spinta di tipo inflazionistico che favorisce operazioni speculative laddove l’informazione arriva più veloce.4

L’acquisto di grandi quantità di oro sudanese rende possibile ai Genovesi riprendere la coniazione di monete d’oro dopo che la loro regolare emissione è stata sospesa in Occidente per alcuni secoli. A Genova si conia il “Genovino” dal 1252 contemporaneamente al fiorino. L’aumento della produzione di metalli preziosi arricchisce le nazioni mercantili e rafforza la concorrenza fra esse. Venezia, da parte sua, riesce a fare un’ effettiva concorrenza ai Genovesi attraverso un continuo approvvigionamento di argento in regioni in cui non si impiegano le monete d’oro.5

Il considerevole aumento della produzione industriale è il fenomeno dello sviluppo economico che più impatta sui rapporti economici tra le nazioni più progredite dell’Occidente e accresce la concorrenza tra le repubbliche marinare: le industrie tessili aumentano nel Duecento notevolmente la produzione di vari articoli, di pannilana, di tessuti di lino,di cotone e di seta, che vengono smerciati nell’Africa del nord, nel Levante musulmano e greco e nei paesi attorno al mar Nero. E l’accrescimento delle industrie tessili come delle altre, solleva anche il problema del rifornimento di materie grezze di cui una cospicua parte doveva essere importata dal Levante e,anche questo fattore spinge una concorrenza sempre più accanita tra le nazioni mercantili.

4 M.Tangheroni, Commercio e navigazione nel Medioevo, p.288

5 E.Ashtor, Il retroscena economico dell’urto genovese pisano alla fine del Duecento, Genova 1984

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I mercanti italiani e, anzitutto, i ceti dirigenti delle grandi repubbliche marinare non sono soltanto degli esportatori di tutti questi manufatti, ma anche i fornitori di materie grezze: fin dal 1270 le industrie laniere d’Italia cominciano ad impiegare lana inglese e nel rifornimento di questa pregiata materia grezza i mercanti genovesi svolgono un ruolo di prim’ordine, così come nel rifornimento di seta cinese e persiana, emergendo come i più attivi fra i mercanti italiani nel commercio con Persia e Cina. Genova primeggia anche nel rifornimento di allume, una materia grezza di prim’ordine per le industrie tessili. La stessa Venezia non le è paragonabile per qualità e quantità dei carichi.6

1.2 La navigazione. Le repubbliche marinare italiane.

Il grande progresso della navigazione nel secondo Duecento è un altro aspetto dello stesso fenomeno, cioè l’aumento degli scambi commerciali. E’ reso possibile anche grazie all’impiego di metodi nautici più progrediti: l’inizio della navigazione regolare tra Mediterraneo e Inghilterra è l’effetto più spettacolare del progresso delle scienze nautiche. I Genovesi tengono il primo posto fra le repubbliche marinare d’Italia anche se preceduti dai Catalani. I Genovesi non sono soltanto i più intraprendenti mercanti dei paesi mediterranei, ma anche coloro che impiegano i metodi commerciali più progrediti se non addirittura nuovi, come la lettera di cambio e l’assicurazione. Dappertutto i Genovesi esercitano il commercio regionale ed il commercio di lunga distanza: in Sicilia sfruttano la loro posizione favorevole (sostenuti come sono prima dagli Svevi e poi dai nuovi padroni aragonesi) e i porti siciliani servono ai genovesi anche da punti di smistamento e di tappa per i loro viaggi verso i paesi magrebini e il Levante. La maggior parte del commercio regionale di Cipro è in mano genovese: da Cipro i Genovesi inviano in altri paesi frumento, orzo e ciambellani, esportano cotone verso Tunisi e Bugia, vi caricano spezie indiane da trasportare verso l’Occidente. Anche nella regione del mar Nero e dell’Egitto i Genovesi godono di ottime condizioni per il loro commercio, compreso quello degli schiavi che rifornivano ai Mamlucchi.7

In questo scenario, Pisa e Genova fino alla fine dell’ XI secolo, operano spesso congiuntamente, almeno finché gli interessi nel Mediterraneo Orientale non le fanno

6 E.Ashtor, Il retroscena economico dell’urto genovese pisano alla fine del Duecento, p. 57 7 E.Ashtor, Il retroscena economico dell’urto genovese pisano alla fine del Duecento, p. 59

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scontrare. Insieme a loro, altre protagoniste si contendono il primato, e nel mentre, le due città marittime combattono più o meno unite contro islamici e saraceni.

E’ la stessa struttura economica del commercio marittimo e, in special modo, mediterraneo che permette ai crociati talvolta di vincere, altre volte almeno di consolidare le nuove conquiste installando propri domini territoriali nelle città costiere siriane e palestinesi - ma sempre con l’aiuto fornito in navi, armi, approvvigionamenti e denari (prima dai Genovesi dal 1097, poi dai Pisani dal 1098 e dai Veneziani dal 1100,) e si dimostra talmente solida ed evoluta da essere la prima a dare, coi suoi grandi mercanti, una risposta adeguata attraverso straordinarie innovazioni tecniche e finanziarie alla catastrofe demografica delle epidemie di peste e alla cosiddetta crisi del’300. 8 Le crociate offrono nuove possibilità di penetrazione, di insediamento permanente e di conquista nei paesi del Levante, con la nuova prospettiva finale di poter contrastare bizantini e arabi nel favoloso commercio con le ‘Indie’ e l’Asia. Genova, Pisa e Venezia per questa loro collaborazione nelle crociate, ricevono in concessione quartieri, fondachi, chiese, mercati, e poi anche consolati in tutte i principali porti crociate e in alcune città dell’entroterra. Inizia così l’impero marittimo italiano che in certe regioni durerà fino alla fine del Medioevo: le città marinare consolidano a seguito di ciò le basi per un’ulteriore espansione nelle due grandi capitali del commercio orientale, Costantinopoli e Alessandria. A Costantinopoli sono addirittura favorite in questo, dalla politica imperiale tendente ad affidare la difesa marittima dei territori bizantini alle flotte italiane: è così che, fin dal sec. XII, Pisani, Genovesi e Veneziani, o con la forza o con la diplomazia, si assicurano il possesso di quartieri commerciali e strappano facilitazioni doganali ed altri privilegi.

È invece, la distruzione a opera dei Veneziani della flotta da guerra e della marina mercantile egiziana nel 1123 al largo di Ascalona, a rendere l’Egitto dipendente dai cristiani per materiale bellico e attrezzature navali. Una volta stabiliti saldi legami con la ‘Romania’ e l’Ultramare’ e avuti in concessione fondachi ad Alessandria e al Cairo, con l’ Egitto che importa, per via d’acqua a basso prezzo prodotti asiatici e si sostituisce così alla rotta siriana, gli italiani da metà sec XII dominano tutti i traffici marittimi est ovest, moltiplicando così occasioni di bottino e proventi del commercio dei pellegrini e dei crociati.

8R. Romano, La storia economica dal secolo XIV al Settecento, in Storia d’Italia, AAVV, Torino

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7 1.3 Il fattore politico e il Mediterraneo geografico

Le opportunità offerte dal nuovo panorama non sono però disponibili con omogeneità: ne approfitta maggiormente chi gode di una posizione naturale adeguata, coloro che costruiscono vie di comunicazioni e che hanno accesso a una più vasta area nell’entroterra e nel territorio circostante. Decisive anche le condizioni politiche ed ecclesiastiche. Chi sa approfittare delle proprie condizioni favorevoli ha ascese rapidissime, molto più di coloro che commerciano nell’entroterra, perché il mare apre spazi infiniti e potenzialità di sviluppo senza confini. La concorrenza è per questo spietata e spesso a rapide ascese seguono altrettanti rapidi declini.9

Per parte della storiografia10decisivo in questa fase protocolonialista (e qui il termine colonialismo non è usato nell’accezione moderna di accaparramento di territori oltremare, ma piuttosto come sistema di quartieri commerciali consistente in una rete di punti di appoggio da usare come basi di flotte per la penetrazione commerciale nell’entroterra), è non solo il movimento delle crociate, ma la costituzione politica dei comuni autonomi, governati da un ceto superiore impegnato nei commerci, fenomeno unico all’epoca nel panorama internazionale. E questo fattore sopravvive nel post Meloria, assicurando, pur in un cambio generazionale di protagonisti, una fase di sviluppo ulteriore alla città.

Geograficamente, il Mediterraneo medievale appare come uno spazio intessuto di porti, di tanti porti con città e poche città portuali vere e proprie. Traffici economici intensi e importanti attività cantieristiche che non sempre, però, generano meccanicamente la spinta per una revisione dell’assetto urbano. Il porto si afferma, si sviluppa, specializza e diversifica le sue attività, si attrezza con strutture complesse e spesso rimane staccato dalla città, un crocevia di traffici incapace di scalfire oltre la superficie la realtà urbana, ma i cui benefici si proiettano in aree più vaste, locali o regionali.11Alcuni scali fungono da piattaforma di distribuzione e smistamento, altri, più rilevanti per la coesione degli scambi in aree regionali o subregionali all’interno di sistemi portuali complessi, restano semplici approdi. E dal XIII secolo in appositi bacini o darsene, circondati da scali o da magazzini e officine, vengono costruite e riparate le galee. Nasce in quest’epoca il patronus

9 M. Mitterauer e J. Morrissey, Pisa nel Medioevo, Roma 2007, p. 94 10M. Mitterauer e J. Morissey, Pisa nel Medioevo, p.163

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dell’imbarcazione, il moderno ‘armatore’, esperto delle cose di mare ma anche degli affari mercantili, responsabile della gestione commerciale e amministrativa della nave: ritroveremo questo personaggio nel post Meloria. 12

Nella sua politica di espansione Pisa, già nel XI secolo, attiva lungo la rotta costiera e la rotta insulare molti strumenti per perseguire interessi economici: eliminazione dei potenziali concorrenti commerciali, monopolio del commercio nelle regioni dipendenti ed esclusione delle popolazioni locali, imposizione di trattati commerciali che agevolano i propri mercanti nell’accesso a nuovi mercati, scambio ineguale dei propri beni commerciali contro materie prime a buon mercato, creazione di zone di protettorato, costruzione di basi navali per controllare le zone marittime di influenza. Solo le potenze marittime che possono contare sul ricorso alla forza militare riescono a crescere a sufficienza nei commerci13.

12M.Tangheroni, Commercio e navigazione nel Medioevo, Bari 1996, p.228 13M.Mitterauer e J. Morrissey, Pisa Nel Medioevo, pp. 107

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9 CAPITOLO II

PISA 2.1 Pisa, la protagonista ‘isolata’

Pisa, nasce anfibia tra la palude e la terra ferma: “Circondata dai suoi fiumi, cinta da impraticabili paludi, l’antica città marinara era costruita a non più di 4 km dal mare aperto, a sfida dei pirati. La laguna lambiva le sue mura. L’Arno era sbarrato, al suo uscire dalla cinta fortificata, da catene e da steccate, gli isolotti dinanzi alla foce erano fortificati, e torri a gradini, come in Asia e in Egitto, proteggevano la rada. Da settentrione a levante, l’imbocco della breccia scavata dal Serchio fu munito di fortificazioni che facevano perno sulla fortezza di Lucca, al argine della conca paludosa del Serchio, posto avanzato verso l’interno, a difesa dalle incursioni delle genti predatrici delle montagne. In tal modo quella che era allora l’unica città di un’Italia preistorica può volgere le spalle al continente ed affacciarsi al mare e alle sue isole”14.

Inizia così, dalla geografia per intrecciarsi ben presto con la storia, la ’solitudine’ di Pisa: la cosiddetta strada dell’ambra, l’unica che attraversando la penisola italiana dal delta del Po a quello dell’Arno e del Serchio, collega, tramite Pisa, il Mediterraneo occidentale coi paesi settentrionali. L’espansionismo etrusco aggira il territorio della città quando si scontra con il suo spirito guerriero. Ancora Borchandt “Pisani rimasero, e non si fecero etruschi, malgrado la valanga rasenica; pisani furono, e non italiani, malgrado l’invasione indo-europea; né si germanizzarono nonostante le calate dei Longobardi e dei Franchi. Pisani rimangono e non diventano toscani, resistendo alle istanze appassionate del secolo guelfo e nazionale; così come mai si erano lasciati romanizzare, ad onta della guarnigione romana, del pretorio, del circo e dell’impero.”La cittadinanza romana è ottenuta da Pisa molto tardi (89°a.C.), forse quando non si può fare a meno di concedergliela e Pisa deve così barattare le sue libertà municipali con l’onore di “ città imperiale con stato di colonia” con il suo territorio ormai ridotto a soli tre quarti di quello lucchese. Si sta così preparando l’odio secolare contro la città vicina.

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2.2 Interpretazione secondo il modello di J.Hicks

Qui pare opportuno, per chiarire ulteriormente le caratteristiche particolari della città Pisa, soffermarsi sul suo essere città stato, secondo il modello di sviluppo proposto in termini generali da John Hicks : nella società tradizionale ci sarebbero coltivatori, soldati, amministratori, artigiani, ma non commercianti, nessuno che svolga un’attività specializzata nel commercio e anche qui, a Pisa, ci sono solo stadi preliminari di commercio privo di specializzazione. Per Hicks è fondamentale l’esperienza delle città stato dove troviamo un nucleo centrale costituito da un corpo di commercianti specializzati dediti al commercio con l’estero (motore principale dello sviluppo) che hanno relazioni con altri mercanti di altre città stato con profitti inizialmente alti e tendenza del commercio ad aumentare. Si spiega, così, la rapida crescita economica di Pisa con alti livelli di investimenti contemporaneamente anche in opere religiose civili e nell’edilizia privata, nonché in flotte. Per Hicks all’inizio il mercante probabilmente opera come pirata o come brigante (per avere qualcosa da commerciare), ma non è detto, può darsi ci siano vie più ‘normali’ come scambi episodici che tendono a divenire abituali, alle fiere e ai mercati locali, all’offerta del surplus agricoli -nasce così un intermediario detentore di scorte, cioè di beni acquistati per essere rivenduti meglio dopo – dando vita ad una continuità nello spazio e nel tempo del mercato; c’è poi lo scambio legato al dono a livello di sovrani e ai signori feudali, che dà vita alla figura del mercante funzionario che modificherà la sua condizione di dipendenza in una attività commerciale indipendente.

Importante è il passaggio successivo: per avere la protezione della proprietà, e quindi anche dei contratti che possono essere forniti dagli stessi mercanti, sempre che abbiano già acquisito un qualche legame o connessione di carattere sociale, bisogna pensare ad un livello molto alto dei profitti. Si spiega così la rapida crescita economica di Pisa e i connessi livelli di investimento in opere religiose e civili, e nell’edilizia privata, nonché le grandi flotte allestite per le spedizioni militari. Con la rivoluzione commerciale il livello alto dei profitti porta ad un’espansione dei commerci: si ampliano gli orizzonti geografici per i Pisani ma c’è anche l’aumento dei protagonisti attivi degli scambi. A questo punto, con più concorrenza, ci dovrebbero essere meno profitti anche per i produttori, da cui una diminuzione degli investimenti e un tasso di crescita rallentato. In effetti, ciò accade ma provoca adeguate risposte soprattutto nella diversificazione del

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commercio (ricerca di nuovi oggetti di scambio e nuovi canali di traffico:il mercante diventa innovatore). 15

2.3 Pisa ghibellina e l’Impero

La politica imperiale di Pisa e quella dell’imperatore nei confronti della città e, attraverso questa, della Toscana, pur con il passare dei secoli ed il mutare delle dinastie non subiscono alcun cambiamento. Ciò ha una unica spiegazione: che Pisa, di questa politica, non fosse l’oggetto ma il centro stesso, il punto di partenza. Dagli Upezzinghi fino ai Gherardesca, sono i Pisani a tenere nelle loro mani la politica imperiale, servendosi degli imperatori tedeschi per i loro fini; ed esclusivamente Pisa è l’organo attraverso cui il cieco dominio tedesco è costretto a vedere l’Italia, a orientarsi in essa a valutarla; è l’occhio che trasmette l’immagine dell’Italia al cervello racchiuso nel cranio straniero. Ecco dunque i diplomatici pisani collegare l’impero con l’Italia e formare una specie di stato maggiore italiano in seno al consiglio del sovrano tedesco; ecco Pisani come corrieri fra l’altro Italia e la Germania, come rappresentanti dell’impero all’estero chiamati ovunque a dare ragguagli, come cancellieri imperiali, come misi dominici, marchesi quasi capo di gabinetto. Se i grandi dignitari imperiali tedeschi, capaci solamente di una politica di gretta astuzia, sono educati ad una visione politica di ampiezza mondiale, e alla comprensione dello spirito complesso dei problemi italiani si deve per due secoli all’infaticabile opera dei consiglieri pisani.16

A fine XII Pisa è una città in cui molto è già accaduto specie in relazione al mare: si sono consolidate le costanti di fondo della politica estera pisana, con la sua tradizione filo imperiale, con il suo isolamento in Toscana, con la centralità del Mediterraneo occidentale e della Sardegna in particolare per quel che riguarda la sua sfera di azione marittima e conseguentemente l’incomponibile rivalità con Genova. I nomi di guelfi e ghibellini tardano ancora qualche decennio ad apparire, ma la scelta ghibellina di Pisa ben si comprende: essa costituisce semplicemente una continuazione della precedente politica, cui Pisa rimane sostanzialmente fedele fino ad inizio del XIV sec, anche oltre la morte dell’ alto Arrigo, la cui venuta tante speranze suscita nella città che lega ormai almeno dai tempi del Barbarossa le sue fortune alle fortune imperiali. Di conseguenza l’essere

15Hicks J.,Una teoria della storia economica, Torino 1971 16 R.Borchandt, Pisa, solitudine di un impero, pp.8

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ghibellino si identificherà nei cronisti, negli statuti, nei documenti, nella coscienza popolare con l’essere buoni Pisani, guelfo diverrà sinonimo di nemico, di traditore.

Quello di Pisa è un guelfismo anomalo: appare tardi, quando già per decenni le lotte politiche interne nelle città italiane sono articolate per contrapposizioni di fazioni e famiglie guelfe e ghibelline. A Pisa, dove pure ci sono le lotte di fazione, fin da inizio del Duecento forti e continue, non vi è traccia di una parte guelfa.17

2.4 Pisa economica e Pisa capitalista

Pisa vanta, quindi, una posizione geografica strategica: scalo del Tirreno, importante per il suo collegamento con l’entroterra tosco emiliano e con basi nelle isole (Elba e arcipelago toscano, Sardegna) e città protetta dalla sua distanza dalla costa, con un porto marittimo che non influenza quindi l’abitato. Città di mare, quindi, non per l’esistenza di infrastrutture marittime ma perché associata ad una funzione commerciale marittima. Nel 1200 è centro di immagazzinamento di beni di ogni tipo e sbocco a mare dell’entroterra toscano, specie di Firenze: la popolazione vive o di rendita, lucrando sui servizi di trasporto lungo l’Arno e sull’appalto dei diritti doganali o sfrutta l’abbondanza di materie prime per le attività manifatturiere. Questo bifrontismo ne è la grandezza ma ne sarà anche la rovina: il mare è fattore decisivo della sua storia ma intanto deve guardarsi le spalle dalla vicina Lucca e poi da Firenze e dalle altre città toscane.

Le folte foreste toscane che ne circondano il territorio, facilmente utilizzabili attraverso le vie d’acqua del Serchio e dell’Arno, riforniscono la città di legname sia per le costruzioni e la cantieristica che per la metallurgia e l’industria conciaria delle pelli di animali.

Il porto di mare si integra a vicenda con quello fluviale: Pisa si presenta così come lo sbocco delle popolazioni, delle ricchezze e delle energie della Toscana, ma la sua importanza trascende la regione. Dal porto domina una vastissima area geografica e commerciale (per tutti si ricordino i Porto Pisano sulle rive settentrionale del mare d’Azov e sulla costa meridionale dell’Asia Minore): a fine Duecento, il commercio è in grado di mettersi al servizio delle grandi città e delle industrie18.

17 M. Tangheroni, La situazione politica pisana alla fine del Ducento tra pressioni esterne e

tensioni interne, in Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento, Genova 2014, p. 88

18D. Herlihy, Pisa nel Duecento. Vita economica e sociale di una città italiana nel Medioevo, Nistri

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L’ accomuna a Venezia il problema dell’interramento a causa dell’Arno che mette a rischio con un poderoso trasporto di pietrisco, il funzionamento del porto minacciato anche dallo scarico delle zavorre da parte delle navi in prossimità delle coste. In più deve combattere contro la malaria. E’ probabilmente il voler arginare questo problema e il fatto che la città si trovasse sulla terraferma, protetta da solide mura, a far considerare in ultimo l’interramento della laguna un vantaggio che permette anche un recupero di terreni agricoli nuovi. In questo scenario, si collocano le grandi opere idrauliche imposte dai magistrati, per mantenere le acque sempre correnti e la consuetudine di lasciare la città durante l’estate.

Con il termine ‘capitalisti’ Herlihy, definisce19 quei gruppi di famiglie che, apparsi a Pisa nel 1250, conquistano ben presto una posizione dominante, divenendo molto più numerosi e attivi delle vecchie famiglie aristocratiche pisane pur non essendo legati alle famiglie mercantili né alla rivoluzione mercantile del periodo precedente. Le molteplici attività a cui si prestano una volta arrivati in città, mostra come dispongono di tanti capitali da potersi espandere in più attività senza avere legami con una di origine particolare. Sono capaci di arrivare in città con un passato rurale e di conquistare posizioni di primo ordine: si tratta di piccoli commercianti originari della campagna capaci di promuovere quella simultanea rivoluzione dell’economia rurale e urbana da cui nacque l’industrializzazione. La manifestazione collettiva della loro consapevolezza, del loro atteggiamento psicologico è il ‘governo popolare’. Il commercio diventa un pilastro del processo dello sviluppo urbano ma questi uomini si volgono anche al mare, quasi tutti culminano la propria carriera con la carica di Console del Mare. Il commercio d’oltremare non provoca questo mutamento economico ma lo segue; non prende parte alle lotte combattute nelle campagne e nelle città, in cui è deciso l’esito della rivoluzione economica, le cui radici dunque sono altrove: di questo conflitto del ‘200 il commercio è la preda non il campo di battaglia.

2.5 Ceti sociali e storiografia

La lunga consuetudine di fiancheggiamento della politica imperiale e la partecipazione in prima persona dei massimi esponenti del ceto dirigente alle spedizioni, ha non solo creato rapporti giuridici (fidelitates, privilegia…) ma anche tradizioni familiari

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alle quali è data, pur nel succedersi delle generazioni e delle situazioni, la massima importanza. Rancori, odi, obblighi di vendetta rafforzano il peso di queste tradizioni nelle scelte di volta in volta da compiere. Non bisogna però dimenticarsi che pur sempre si parla di Pisa, di pisani, di pisani cives, una permanenza e esistenza comunque di interessi comuni anche se non uguali per tutti.

I nobili sono i milites, coloro che sono deputati per tradizione familiare e condizione sociale alla difesa armata della città.20

Anche la storia dell’aristocrazia consolare che tra fine XI e XII secolo costituisce il ceto dirigente di Pisa, così come la singola storia delle famiglie che la compongono, non si può capire senza far riferimento al mare. Pisa nel XI secolo è già una grande potenza mediterranea, militarmente ed economicamente parlando. In questa fase, nella quale tanto rapidi ed alti devono essere i profitti e in cui il commercio ha in parte il carattere di intermediazione tra aree di sviluppo commerciale minimo, Pisa dimostra una grande forza di attrazione. All’unità tipica della Tuscia fra città e comitato, e alla conseguente duplice vocazione rurale e cittadina dei signori laici, va aggiunto dunque questo fattore che ebbe forza unificante del ceto dirigente che già nella seconda metà del sec XII si presenta con caratteri ed interessi sostanzialmente comuni.

Così scrive Gabriella Rossetti circa formazione e caratteri di una classe di governo:“Un gruppo misto e solidale … sono in varia combinazione signori rurali e fideles episcopi, feudatari imperiali e iudices, fondatori di chiede e titolari di privilegi marchionali: natura e differenze originarie (se vi furono) risultano stemperate e infruttuoso lo sforzo di enucleare un carattere preminente … sono - da sempre - da quando ci è dato conoscerli Pisani homines” 21. E ugualmente Alma Poloni “La riconoscibilità sociale di un gruppo tanto eterogeneo era assicurata innanzitutto dalla condivisione di valori e stili di vita legati all’esercizio delle armi e al comando militare, in particolare nei ranghi della cavalleria comunale. Un altro importante fattore di coesione solo in apparenza di natura diversa dal servizio nella milizia, era rappresentato dalla pratica del commercio marittimo”22

20 E. Salvatori, La popolazione pisana nel Duecento. Il patto di alleanza di Pisa con Genova

Pistoia e Poggibonsi del 1228, Napoli 1994

21G. Rossetti, Ceti dirigenti e classe politica in Pisa nei sec XI e XII, AAVV, Pisa, 1979,

pagg.XXXII e segg.

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Vediamo, pertanto, che sin dall’inizio sono le famiglie dell’aristocrazia consolare a guidare l’espansione politica e militare di Pisa nel Mediterraneo: le lontane ambasciate vengono affidate a gente parimente esperta, anche per pratica d’affari, dei problemi e delle situazioni e le flotte consegnate a chi è oltremodo esperto di mare. Per Pisa la funzione militare ha forse maggiore rilevanza per mare che per terra: tanto assidua è la partecipazione ai traffici e alla politica mediterranea della quasi totalità delle famiglie nobili pisane, così costante è la loro partecipazione alle spedizioni e alle guerre marittime: il pesantissimo contributo in morti e prigionieri dato dalle famiglie nobili in occasione della Meloria non è un episodio isolato.

2. 6 L’aristocrazia consolare e la nobiltà

Per Giocchino Volpe, la natura dell’aristocrazia consolare si modifica man mano che cessa di abbeverarsi alle sorgenti continue della vita marinaresca: sarebbe un tratto caratterizzante il passaggio dall’aristocrazia consolare del XII alla nobiltà del XIII secolo23. I consoli del XII secolo sarebbero, quindi, gli eredi legittimi di quegli arditi navigatori che hanno spazzato via dal Mediterraneo occidentale prima e con più vigore dei genovesi, i pirati arabi della Spagna, della Sicilia, dell’Africa.

Volpe imposta anche il tema dei rapporti città/contado sia come azione del contado su la città, sia come azione del comune cittadino sul contado, sui legami e le correnti scambievoli tra la città e il contado e caratterizza così l’ aristocrazia consolare: ha grandi attitudini di governo, è capace di rappresentare quasi da sola la organizzazione navale, modellata su quella dei consorzi gentilizi, capaci tutti di armare, per proprio conto e con propri membri, una o più navi che sono insieme strumenti di battaglia navale contro i nemici del comune e mezzo di commerci, ceto sociale ardito, ricco, attivissimo. Ma tale immagine idilliaca di una quasi sostanziale all’inizio assenza di conflitti interni, e l’idea di ceto omogeneo rischia di nasconderne la complessità: lo stesso Volpe successivamente dimostrerà la natura sociale e non etnica di questi gruppi ma isolandoli troppo nel contado e nella difesa dei loro diritti signorili. Volpe insiste, quindi, sull’importanza del rapporto tra Pisa ed il mare qualificando la Pisa del XII secolo come comune marittimo per eccellenza,

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mentre per Tangheroni è rischioso presentare Pisa come un esempio di tipica città comunale italiana24.

Per Gabriella Rossetti 25sono proprio le famiglie dell’aristocrazia consolare a guidare l’espansione politica e militare di Pisa nel Mediterraneo, che conserva, comunque tratti propri di una concentrata, rapida esplosione, anche se ciò non esclude, evidentemente una prima fase di più lento sviluppo. E’ difficile negare l’importanza genetica del mare, delle attività militari ed economiche sul mare, capaci, anche di autoalimentarsi in progressione continua e di esercitare sulle forze del territorio, a cominciare dalle grandi e medie casate signorili, una singolare capacità di attrazione. Il vero comune denominatore delle diverse componenti l’aristocrazia consolare è proprio la pratica di governo e non la qualità di patrimonio, la provenienza o l’ambito economico degli investimenti. E’ una classe sociale di estrazione non omogenea, coinvolta da interessi economici diversi, sai fondiari che mercantili, accomunata però dalla partecipazione alle cariche istituzionali del Comune, da una discreta agiatezza e da un modus vivendi che tendeva sempre più a distinguersi da quello tenuto dal resto della popolazione.26

Per E. Cristiani La nobiltà e la struttura della nobiltà si formano in questi anni e la separazione tra nobiltà e alta borghesia non è né netta né invalicabile.27

Herlihy 28 vede nella nobiltà duecentesca l’espressione degli interessi immobiliari, che sarebbero stati colpiti a morte dalla politica dei governi popolari, espressione del capitale immobiliare dopo il 1254. Tale tesi spiegherebbe le ragioni della presunta decadenza economica della nobiltà nella seconda metà del ‘200, ma, in realtà, se guardiamo all’Ordine del Mare, esso ha piena competenza autonoma su tutte le attività marittime, commerciali e militari, e ha quasi esclusivamente alla sua testa, nei primi decenni del secolo, famiglie della vecchia aristocrazia consolare, che ora fanno parte chiaramente della nobiltà: gli avanzi della aristocrazia consolare si sono fusi con le famiglie della borghesia marinaresca proprio soprattutto nell’Ordine del Mare. Decine e decine di documenti attestano la partecipazione di membri di famiglie nobili ad attività

24Tangheroni M., La prima espansione di Pisa nel Mediterraneo, in Il Mare, la terra, il ferro,

AAVV Pacini Editore,Pisa, 2004.

25G. Rossetti G., Ceti dirigenti e classe politica in Pisa nei sec. XI e XII,pp. 109-164. 26 G Rossetti, Storia familiare e struttura sociale, in "La cultura", XIV 1976, pp 352

27 E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa dalle origini del podestariato alla signoria di

Donoratico, Bologna 2000, p.64

28M. Herlihy, Pisa nel Duecento. Vita economica e sociale di una città italiana nel Medioevo,Pisa

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marittime in tutto il Mediterraneo e per tutto il XIII secolo, e i nomi delle famiglie nobili la cui attività nei traffici mediterranei è documentata escludono l’allontanamento, come ceto, dell’aristocrazia consolare dalla vita marinaresca.

2.7 Pisa politica

Nel tutto bisogna tener conto che la realtà sociale è così complessa e dinamica da apparire come un inestricabile groviglio. Inoltre per la Pisa nel ‘200 esistono gravi problemi legati alla quantità e natura della documentazione: manca quasi totalmente la documentazione pubblica, la tradizione cronistica è esile, c’è una complessità stratigrafica delle redazioni statutarie, i protocolli notarili sono tardivi. Il termine magnates appare tardi e raramente, mentre i nobili vengono sovente identificati con il termine milites che ci rimanda alla funzione militare, divenuta tradizione familiare di ceto. Per i comuni è necessario non rinunciare ai servizi che i nobili in quanto milites possono offrire in quella situazione di continuo pericolo in cui si trova Pisa con alterne vicende fra crescenti difficoltà che le si aprono davanti, specie dopo il tramonto della potenza sveva.

La rapida accelerazione della crescita economica, nei primi decenni del Duecento, non è affiancata da un’altrettanto efficace evoluzione della politica. E’ così che, in un primo tempo, si afferma ai vertici del Comune una communitas che, ispirata agli antichi ideali comunicatori cittadini, tenta di ristabilire un legame tra la comunità e i suoi governanti e, nel mentre, si fonde con le ambizioni delle frazioni economicamente e socialmente più avanzate, ancora escluse dalla gestione del potere. Il favore che le riserva l’imperatore nel quadro dell’Italia settentrionale, i vantaggi che accompagnano tale centralità e l’adesione alla politica ghibellina dell’intera cittadinanza danno il senso a quella parentesi di latenza del movimento popolare e di concordia interna. Una volta morto Federico II nel 1250 i mercanti, arricchitisi sfruttando le mille opportunità offerte dal rafforzamento del ruolo del porto pisano, ma relegati ai margini della politica, coagulano attorno a sé le rivendicazioni di chi vede una classe aristocratica incapace di gestire il ruolo che mantiene stretto per sé: in meno di due anni il baricentro della politica comunale si sposta verso il popolo, il quale, non si limitano alla critica ma si azzardano a voler conquistare il potere per gestirlo in prima persona e imponendo propri uomini al vertice del Comune.29

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Non è il popolus a identificarsi in alternativa ai nobiles, bensì questi a estraniasi dal populus come ceto dirigente che prende coscienza di una propria identità nel momento in cui il monopolio del potere che esso detiene viene minacciato, insieme ad riti, privilegi, consuetudini, abitudini e modi di imporre la propria volontà: il popolus si muove contro questo sforzo di mantenere il controllo della politica cittadina cui si accompagna per altro la lotta tra le fazioni nobiliari. Questa si coagula attorno alle due grandi famiglie dei Visconti e dei conti della Gherardesca, diverse per origine ma ormai non più per struttura familiare o diversificazione economica. La quasi totalità delle famiglie dirigenti appartenenti al popolo ci appaiono impiegate in attività commerciali e i loro membri qualificati come mercatores. Questo ha messo fuori strada la storiografia pisana sul trecento, come Herlihy, che vi ha voluto vedere dalla seconda metà del XIII sec una profonda trasformazione in senso industriale.

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CAPITOLO TERZO GENOVA 3.1. Genova, la Superba

L’immagine della Genova medioevale lasciata dai contemporanei, è quella di una città di notevole imponenza e magnificenza di palazzi, chiese, ville, giardini nonché di gloria per l’estensione delle sue presenze oltremarine. L’Anonimo Genovese, vissuto proprio nel periodo a cavallo di quello qui esaminato, si presenta lui stesso come stupito da come possa la sua città tener testa alla prima potenza marittima, Venezia: «Genova ha una grande forza e non c’è da meravigliarsi se voi non la potete valutare sentendone parlare da lontano: io stesso che ci sono nato non saprei dire adeguatamente né descrivere la sua condizione tanto è nobile e potente». Conclude affidandosi all’evidenza per dare spiegazione di così tanta grandiosità: è ‘la porta di Lombardia’, un varco fondamentale, ma ben difeso, cinta com’è da stretti valichi e da alte montagne e aperta solo sul mare e sull’area portuale. 30

Siamo nell’età della massima espansione genovese, quando il mercante Benedetto Zaccaria, il cui genio strategico brillerà alla Meloria, arriva con le sue navi alle Fiandre, quando il porto quadruplica, in un secolo, i suoi traffici, e Genova, dopo la vittoria contro i Pisani, batte i Veneziani a Lavazza (1294) e Curzola (1298).

Una città cresciuta senza territorio ma protesa a spazi illimitati, periferica ad ogni istanza nazionale ma aperta a costanti esperienze internazionali. La rapida ascesa di Genova nel Medioevo si deve ad una volontà che, dopo secoli di lenta e chiusa economia agraria, si apre al richiamo del Mediterraneo. Questo si traduce nell’abbandono dei vecchi schemi economici e politici e quindi nel lasciare terra, castelli ma anche la sicurezza di un’onorevole sussistenza per tentare vie nuove. Per i Genovesi vuol dire sciogliere le catene serrate da un territorio arido è ostile e cercare, rischiando, strade diverse. E’la rivincita del mare sulla terra, della città sulla campagna, lo sviluppo di un’attenta combinazione tra rivoluzione commerciale e rivoluzione comunale che sarà germe del futuro capitalismo europeo e mondiale.31 Tipico quindi panorama medievale dove urbanizzazione e diffusione dei rapporti commerciali si rafforzano a vicenda.

30Anonimo Genovese, De condicio e civitate Ianue, lo que do con que dal domino de Brixia, trad.

F. Toso,La letteratura in genovese, vol. 1, Genova, 1999.

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3.2 Un comune ‘originale’. Le famiglie a Genova.

Genova medievale è, quindi, tipicamente una città tra quelle che il medioevo europeo inaugura come ‘luogo centrale’ di un territorio regionale: crea interdipendenze metropolitane e,soprattutto sviluppa una funzione ‘reticolare’ di punto d’incontro con altri ‘nodi caldi’ del sistema economico mondiale cosicché, mentre modifica profondamente il mondo che la circonda, il mondo con cui viene a contatto trasforma profondamente la sua fisionomia. Creatrice di valori laici e di forme di autogoverno, Genova, con la sua originale espressione comunale di città-stato governata da uomini d’affari, vede l’affermazione definitiva di un’economia di mercato. La formula ‘comunale’ rivoluzionaria rispetto alla maggiore rigidità politica, economica e sociale del sistema precedente vede nelle violente lotte di fazione, un veicolo fondamentale di proposte ideologiche innovanti in politica, in economia e in cultura.32

La storia gloriosa e difficile della grande potenza marittima, mercantile e finanziaria, si svolge per secoli nonostante le variabili istituzionali, sull’intreccio sapiente di alleanze familiari; sulla saldezza di strutture patriarcali e consortili: la città-stato rimane sempre un trust di consorzi familiari che nell’ultimo trentennio del Duecento, a fronte degli attacchi di Pisa, di Venezia, e della Corona Aragonese, con un’espansione che va ormai dal lontano Oriente alle isole atlantiche, quando altri consolidano sistemi monarchici o danno vita a signorie da principati, trova invece una formula ad hoc, tutta genovese.

Nascono gradualmente veri e propri lignaggi artificiali, gli ‘alberghi’. Potenti per numero di famiglie aderenti, dotati di immensi privilegi, si radunano sotto un solo cognome in zone confinanti, vivono di alleanze matrimoniali, guidati da capofamiglia, mantenendo inalterato un antico modello che lascia lo spazio solo a sistemi societari e aziendali interni al grande blocco familiare, organizzando gli itinerari di ognuno dei componenti dalla nascita alla morte. Tale particolare configurazione sociale si esprime anche nella costituzione urbanistica della città: a Genova non è mai esistita una gran piazza centrale, con gli edifici del potere civile e religioso, ma piccole piazze consortili delle famiglie più potenti e dei mercati specializzati: la città duecentesca si caratterizza per una struttura urbanistica determinata dalla dialettica del potere delle consorterie, articolato su base territoriale in nuclei omogenei. Queste curiae, insieme alla cattedrale (unica vera

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platea pubblica polifunzionale di una città che difetta di spazi collettivi), ai mercati e alla Ripa sono i luoghi deputati della vita associata, mentre si diffonde una dinamica abitativa su base di mestiere (contrade dei fabbri, lanaioli, scudai, ecc.) e di provenienza (le colonie di Lucchesi, Fiorentini, Romani, ecc.), che, insieme al fenomeno insediativo mendicante, completa la saldatura fra nucleo antico e cerchia muraria.

3.3 I Doria e Benedetto Zaccaria

Tra le famiglie più illustri, i Doria, che un’attività tradizione familiare vuole aver partecipato in ben trecento alla battaglia della Meloria, dove brilla anche Benedetto Zaccaria. I Doria hanno i loro uomini e le loro navi, guerreggiano abitualmente come capitani e ammiragli per tutto il Mediterraneo contro Pisa, Venezia, in Corsica e Sardegna ma anche contro Genova, quando ce ne è necessità. Come quando, per difendere il sistema di affari, navi ma anche debito pubblico in cui hanno investito immensi capitali (le ‘compere’ garantite sulle imposte comunali poi confluite nel bando di San Giorgio, associazione dei creditori del Comune, organismo che li vede come Protettori), si scagliano contro l’assalto di agguerriti ‘populares’, riescono a svincolarlo dall’aristocrazia guelfa che si era impadronita del potere ai tempi di Federico II, sostenendo un ‘capitano del popolo’ ghibellino (Guglielmo Boccanegra) e infine facendosi essi stessi ’capitani’ insieme con gli Spinola loro alleati. La diarchia dura per più di dieci anni a fronte di altri due clan importanti, i Fieschi e i Grimaldi. Il loro potere economico non sarà scalfito neanche dalla soluzione ‘dogale’ con al quale il popolo tenta di scardinare il potere delle vecchi famiglie, compresi i Doria, escludendoli dalle cariche. L’esito è comunque di evitare il regime signorile e rinforzare il modello genovese con homines novi, fedeli imitatori dei precedenti.33

La tradizione ci tramanda che, tra le prime navi a compiere negli anni Settanta del Duecento il tragitto verso le Fiandre, ce ne siano state alcune appartenenti al famoso Benedetto Zaccaria, da poco giunto a monopolizzare lo sfruttamento delle allumiere di Focea.

Benedetto Zaccaria è celebrato da Roberto Lopez nel suo libro “Benedetto Zaccaria, ammiraglio e mercante” come un’icona del modello genovese che diventa modello culturale occidentale. Membro dell’alta borghesia mercantile della città, guadagna

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fama e denaro come comandante al servizio di Bisanzio, di Genova, e dei re di Castiglia e di Francia. Oltre a vincere numerose battaglie sotto varie bandiere, Zaccaria scrive in francese un piano per il blocco dell’Inghilterra, porta a termine delicate missioni diplomatiche ed è, in diversi momenti, pirata nell’Egeo, crociato in Siria, governatore di un porto andaluso e signore di un’isola greca.34Rappresenta la proposta di un sistema politico, economico e sociale che unisce libertà creativa e spinta individuale ad una salda struttura familiare d’impianto patriarcale: si compone così la rete sicura e affidabile che sorregge l’aristocratico Benedetto, guerriero e mercante, diplomatico, uomo di mare, titolare di feudi e signorie in Oriente e Occidente. La storica Gabriella Airaldi vi vede la radice del ‘capitalismo familiare’ perfettamente funzionante nell’età della ‘globalizzazione’.

3.4 Capitalismo a Genova

Nella formazione e nell’espansione del capitalismo, l’operatività genovese svolgerebbe due ruoli significativi: crea un modello specifico e funziona da tramite privilegiato verso il resto del mondo.35 Il modello genovese riunisce il massimo della conservazione e dell’innovazione: da un lato rigidità e centralità della famiglia, dall’altro un’ambiziosa espansione unita a una raffinata specializzazione economica.

Non è però l’attività mercantile a qualificare l’identità dei genovesi, quanto piuttosto la ricerca e la capacità di investimento che li porta alle spedizioni crociate, a ottenere concessioni in oltremare, fondaci in terre islamiche: ogni volta agiscono prima di tutto in qualità di membri di un ceto aristocratico antico o recente. Nel mentre è l’esercizio delle cariche comunali che ne indica il censo: la decisione di fare di Genova il porto dell’Europa Occidentale, anche su pressioni di importanti partner europei, è agevolata dal ruolo delle alleanze familiari e societarie, cioè da una struttura sociale fedele a caratteri precedenti, pur se appena modellata sui canoni iniziali di una pseudo “rivoluzione comunale”.

La città diventa la porta (iaua) tra la terra e il mare ma legarsi ad una politica di orizzonti ‘aperti’ richiede un costante rafforzamento del complesso economico iniziale e ciò si realizza grazie al sistema di alleanze familiari costantemente riproposte e allargate a necessità. Il sistema modifica poco la struttura sociale, non delega niente ad un generico

34R. Sabatini Lopez, Genova marinara nel Duecento: Benedetto Zaccaria, ammiraglio e mercante,

Genova 2004 p.177.

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‘mercante’ ma mantiene piuttosto nelle mani di un élite di sforzi familiari le redini di un potere economico e politico difficile da controllare. Il ceto dirigente aderisce al vero elemento innovante dell’epoca della rivoluzione economica, ma resta rispettoso di tutti i poteri precedenti che vengono inglobati in funzione dell’espansione economica che ha bisogno di vie di terra e di mare libere e controllate.

La collocazione geografica di Genova, sugli itinerari giusti per l’area padana e l’impero tedesco, favorisce questo progetto. La mobilità dei Genovesi e l’incrociarsi internazionale delle loro merci e dei loro capitali segue un andamento regolare ugualmente efficace in tutto il mondo conosciuto grazie sia all’arcaicità del sistema che ne garantisce fortuna e durata sia all’antichità del lignaggio. Il genovese rifugge per lo più dall’assumere su se stesso responsabilità dirette, diversifica attentamente gli investimenti per aree, oggetti e zone: ciò gli permette di non indebolire mai il vivace rapporto economico con Islam e Bisanzio e, al tempo stesso, garantisce centralità e rispondenza dell’azione genovese all’esigenze di un sistema europeo che trova nel porto ligure e in quei mercanti-banchieri il suo polmone economico.

Caffaro disegna con parole precise l’ambito geografico che i genovesi intendono tutelare attraverso la guerra, unico viatico per il cavaliere-mercante protagonista di un mondo in cambiamento: l’azione genovese di monopolio e di protezione è svolta tra Roma e Barcellona, Pisa ne è esclusa come se il rapporto tra Europa Cristiana e Islam sia prerogativa dei soli genovesi, visione confortata da molti atti diplomatici dell’epoca.36

3.5 Genova nel Mediterraneo. La cultura mercantile a Genova

La situazione dei Genovesi nel commercio del bacino occidentale del Mediterraneo è stranamente meno vantaggiosa che nel Levante perché contrastata da altre nazioni mercantili e da rapporti non favorevoli con i sovrani di altri paesi. Le posizioni dei Genovesi nel regno degli Angiò nel sud Italia sono minacciate dai Fiorentini e dai Veneziani, ambedue in ottimi rapporti con i sovrani francesi. I mercanti e banchieri fiorentini spadroneggiano nell’economia di Napoli, dove troviamo anche Senesi, Lucchesi e Pisani con un importante ruolo nella vita commerciale e bancari e i Veneziani che riescono a conservare le loro posizioni nella vita commerciale della Puglia.

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Genova, dominata dai ghibellini, è avversaria degli Angioini e deve sopportare le conseguenze della loro politica. A Messina c’è un’antica e fiorente colonia di mercanti pisani: malgrado che siano molto favorevoli alla causa degli Svevi e non abbiano buoni rapporti con gli Angiò, mantengono sotto di loro, e poi con la dominazione aragonese, un intenso commercio in Sicilia. Nella guerra del Vespro Pisa è dalla parte degli Angiò, mentre Genova sostiene gli Aragonesi e gode della loro protezione nella Sicilia, ottenendo licenze di esportare notevoli quantità di frumento dall’isola. I Genovesi malgrado i loro sforzi, non riescono a escludere Pisa dal commercio della Provenza e della Linguadoca, pur vicina territorialmente.

Al nascere del tredicesimo secolo le posizioni di Genova nel bacino occidentale e centrale del Mediterraneo sono minacciate anche dall’espansione catalana. Lo sviluppo economico generale, la grande fioritura del loro commercio e la loro potenza navale spingono i Genovesi ad uno forzo che possa assicurar loro la supremazia commerciale nei paesi del Mediterraneo occidentale.37

La cultura mercantile arriva a fare del mercante genovese che deve destreggiarsi e saper scegliere tra merci buone ed invendibili, il simbolo dell’uomo che deve scegliere tra vizi e virtù (Anonimo CXLV vv 147-163). Genova si conferma come uno dei centri più vivi della cultura duecentesca.

Genova, politicamente instabile e poco sensibile nei confronti della mera attività intellettuale, non è congeniale agli uomini di lettere. I letterati e gli scienziati prendono il via di un volontario esilio; restano a Genova solo i grammatici e i tecnici di diritto che trovano terreno fertile nell’ambiente mercantile e cercano di migliorare la loro posizione sociale ponendosi al servizio del potere come funzionari scribi o come pubblici lettori.

Diversamente che altrove, a Genova c’è la ‘scuola’ ma manca la corte come elemento di coagulo e di attrazione per i letterati. I Fieschi, la famiglia che più delle altre ha avuto vocazione e titoli per aspirare ad una leadership politica, riesce solo saltuariamente ad imporsi in ambito cittadino e ad assumere quell’influenza e quel ruolo anche culturale che riescono ad avere almeno per un cinquantennio alla corte papale.

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25 3.6 Città e abitanti. Il mondo genovese.

Il processo socio-urbanistico conferisce a Genova la fisionomia caratteristica, con una potente cinta muraria, con le consorterie nobiliari attestate in zone strategiche e in prossimità del porto, con le comunità artigiane raccolte in piazzette o in contrade limitrofe, con le enclave forestiere fissate presso una potente famiglia o una chiesa. La collettività appare come una comunità ibrida in cui coesistono nobili e popolari, naturalizzati e forestieri, imprenditori e artigiani, con una comune vocazione al guadagno, pur con una netta separazione dei ruoli.

La classe dirigente è infatti formata dai “senor merchanti” ai quali si rivolge di preferenza l’Anonimo, nonostante la diversa estrazione familiare o sociale e l’appartenenza a questo o a quello schieramento di fazione. Tutti i genovesi sono infatti mercanti, prima ancora che cittadini: anche senza un’ apposita associazione o una coazione corporativa, ogni atto, ogni manifestazione pratica o speculativa è regolata da questa essenza che sta alla base del modello culturale che opera nella società. A seconda delle circostanze l’uomo ligure può diventare politico, uomo di lettere, pastore d’anime, soldato; ma la sua vera vocazione è la mercatura, che ha reso Genova città ricchissima, al punto che sarà la più tassata dell’Italia settentrionale da parte dell’imperatore Enrico VII. Piccolo e grande commercio, modesti prestiti o grandi attività bancaria, commercio locale o internazionale, in una parola la “mercanzia”, sembra il vertice promozionale dell’etica cittadina e gli statuti puniscono il Genovese che dilapidi le ricchezze paterne; sono disprezzati coloro che vivono esclusivamente sulla terra,siano questi i rustici arricchiti che non hanno “misura, ni cortesia, ni bontae”, o i montanari e gli uomini dell’interno ai quali vengono attribuiti i pochi insuccessi militari.

La religione, il costume, la cultura, la vita di relazione,la moralità collettiva appaiono condizionate da questa mentalità mercantile che si ammanta di fasto e ostenta ricchezza. A difesa dei loro interessi commerciali i Genovesi subiscono vari interdetti e continuano a trafficare in materiale bellico proibito coi saraceni nonostante il Devetum Alexandrina; praticano normalmente l’usura palliata soprattutto nei ambi e del resto gli statuti considerano usuraio solo chi l’esercita sfacciatamente, de quo sit publica vox et fama (Statuti di Pera lib II n.XXX; contro gli usurai lib II, XXIX, XXXI). Solo in punto di morte si ricordano dei mole o illecite alata e cercano di acquistarsi il paradiso praticando un’intensa beneficenza con lasciti per chiese, monasteri, ponti, ospedali, infermi, carcerati,

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schiavi o per il riacquisto della Terrasanta. Ma eredi e congiunti se ne dimenticano subito … Più che nella cattedrale, un tempo certo e simbolo della città, cui continua ad andare la devozione dei Genovesi, i membri dell’aristocrazia si fanno seppellire nelle chiese gentilizie, mentre gli emergenti o i nobili di toga si rivolgono alle ampie ed accoglienti chiese degli ordini mendicanti ove erigono cappelle e sontuose sepolture familiari. Il proliferare di questi edifici, come l’antica consuetudine di conservare nelle chiese gentilizie gli stendardi strappati ai nemici, testimoniano sia la coscienza di stirpe ed il viver opulento, sia il carattere individuale della devozione, la mancanza di quel “cristianesimo civico” che identifica la città con la cattedrale, il comune con il santo patrono. Non si esita a destinare all’opera del molo e del porto il decenum sui legati testamentari fino ad allora devoluto alla fabbrica del duomo, assimilando quasi la costruzione del porto alla altre attività, quali è reazione di ponti e costruzione di strade, ritenute opere gradite a Dio e per ciò beneficate nei testamenti. Anche l’istruzione assume a Genova un carattere consono alla vocazione mercantile della città. Con lo spirito pratico che è loro congeniale e con l’ attenzione rivolta a fatti e problemi concreti, i Genovesi mirano ad apprendere ad necessitatem ad acquisire non un’istruzione fine a sé stessa, ma una preparazione di base necessaria ad inserirsi nell’attività produttiva, in genere come paio, scriba o mercante.

Pure il ruolo del notaio nella società genovese è particolare: utile al ceto dirigente come alle classi subalterne, agli uomini di governo come agli operatori commerciali, non è qui oggetto di quell’odio-amore che suscita nella società fiorentina, forse perché a Genova tende ad imporsi e ad emergere non solo in virtù dello stato professionale, ma con un personale e costante impegno nell’attività mercantile al pari degli altri cittadini.

Interesse e denaro giocano un ruolo di primo piano anche nella vita privata, prima di tutto nelle scelte e nelle strategie matrimoniali. La buona riuscita del matrimonio è subordinata al possesso, da parte della donna, di buoni natali, onesti costumi, bell’aspetto e dote adeguata, perché solo a queste condizioni la donna “è presa a nome di Dio”.

All’uso e allo sfoggio delle ricchezze si accompagna un’iniqua distribuzione fiscale; il denaro non viene investito in edifici pubblici, ma in dimore private urbane ed extraurbane o in cappelle funebri; le ricchezze sono impiegate non per fini collettivi ma come status symbol, a vantaggio del singolo, della famiglia o del gruppo che è stato abile a procacciarsele. 38

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CAPITOLO QUARTO GENOVA E PISA 4.1. Due città uguali e diverse

E’ nel XI secolo, mentre il progresso di Venezia e Amalfi sposta il centro della potenza economica e navale dai paesi bizantini ed arabi del Mediterraneo a quelli cattolici, che entrano in lizza le due città portuali della parte “barbarica” dell’Italia, Pisa e Genova. Nel corso del X secolo il loro territorio e’ oggetto di frequenti saccheggi da parte di predoni arabi che non risparmiano neanche le città. Guidate dalla nobiltà urbana, Pisa e Genova contrattaccano, cacciano i musulmani dalla Corsica e dalla Sardegna, li inseguono fino nelle loro basi spagnole ed africane. E’ nel corso di tale lotta che la struttura delle due città cambia fisionomia, si costruiscono flotte, si conquistano ingenti bottini che vengono a loro volta reinvestiti nella costruzione di nuove navi.39

Come Venezia, anche Genova e Pisa collaborano alle Crociate e alle altre spedizioni oltremare, non come città vassalle, ma come Stati pienamente indipendenti ed è proprio la flotta che rappresenta l’arma più potente per conquistare l’indipendenza dai signori feudali, impresa che non riesce, se non i tempi molto più lunghi, alle città italiane dell’interno che non riescono a fronteggiare altrettanto efficacemente una cavalleria superiore alla propria fanteria.40

4.2 Politica commerciale estera

Come per Pisa, anche per Genova fine essenziale nella politica delle conquiste all’estero non è il controllo politico diretto ma la possibilità di libero accesso ai mercati. Prova di ciò l’ammontare dei dazi e pedaggi che Genova riscuote dai commercianti, le facilitazioni di cui la città gode e, ancora una volta, determinante la circostanza che qualunque nave italiana può essere impiegata per la guerra come per il commercio, con quindi un’azione diplomatica intrecciata fortemente ad una forza delle flotte che, nel mar Mediterraneo, si dimostrano invincibili.

Anche nelle rivalità tra porti occidentali le azioni guerresche si mescolano spesso con la concorrenza commerciale: Genova punta sulla prontezza con quale riesce ad

39S. R. Lopez, La rivoluzione commerciale nel Medioevo, Einaudi Editore, 1975, p. 84 40S. R. Lopez , La rivoluzione commerciale nel Medioevo, p. 90

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inventare o ad adottare nuove e ardite tecniche mercantili, ma a cui poi deve comunque affiancare un’azione militare riuscendo, alla fine, se non ad imporre il proprio controllo sugli spazi più vasti del Mediterraneo occidentale, comunque a sottomettere l’intera Liguria, a vincere contro Pisa nel dominio della Corsica e di parte della Sardegna, a contenere la vigorosa Barcellona, protetta dal suo supremo signore feudale, il Re d’Aragona.41

La felice collocazione di Pisa nel Tirreno, a metà strada tra Roma e Genova, tra Firenze e le Isole, le consente una discreta disponibilità di merci, capace d’influire sull’incremento delle attività manifatturiere. Mentre a Genova lo strumento principale del commercio rimane a lungo il contratto notarile e il modello quello della società di mare temporanea, alcune famiglie pisane sviluppano un’organizzazione societaria a lungo raggio, con filiali lungo le principali rotte del commercio, secondo il modello della compagnia mercantile e bancaria strutturata sulle necessità imposte dal ciclo produttivo, dal perimetro, quindi, delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Una funzione che le deriva dal ruolo di grande magazzino che ha acquisito.42

I mercanti toscani fanno di Pisa la loro base principale per il commercio marittimo e punto d’appoggio per la penetrazione commerciale nelle fiere settentrionali. Le relazioni tra Pisa e Federico II influiscono sulla presenza dei mercanti pisani nel regno meridionale, dove i mercanti pisani godono di un trattamento di favore nei territori sottoposti al controllo imperiale. 43

Per Genova invece il panorama è diverso. La città soffre dell’isolamento impostole dalla geografia appenninica, la sua struttura urbana, la diffusione al suo interno di un’economia incentrata sulla proprietà navale e l’investimento spingono verso l’immagazzinamento di modeste quantità di merci che sostano nel porto per il breve tempo del pagamento dei dazi doganali. Sono soprattutto i capitali ad attirare, sia per il loro reimpiego nel commercio sia per investirli nella riqualificazione urbana secondo criteri squisitamente privatistici. La Genova della seconda metà del Duecento è contraddistinta, più che Pisa, dal rapido accumulo di capitale. Per questo possiamo considerare Genova una delle principali protagoniste della fioritura economica di questo periodo: prova ne sono

41 S.R. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, pp.128

42A. Musarra, 1284 La battaglia della Meloria, Laterza editore, Bari 2018, p. 15.

43A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche, ETS Editore 2004,

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l’introduzione dei nuovi ritrovati finanziari quali la lettera di cambio e l’assicurazione marittima, già noti a inizio Trecento.

4.3 Il Popolo a Pisa e a Genova

Così come a Genova è l’aristocrazia a sostenere le rivendicazioni del popolo, viceversa a Pisa il Popolo giunge al potere operando una radicale sostituzione del ceto dirigente cittadino.

In particolare, a Pisa, il Popolo compare in concomitanza con la fine del conflitto che attorno al 1250 contrappone la città a una coalizione guidata da Firenze: è il podestà di Pisa nel 1254 affiancato da un Consiglio maggiore ad affidare a due giudici il compito di concludere la pace con Firenze, Lucca, Genova e San Miniato e, appena qualche giorno dopo, conferisce a un altro procuratore, il popolare Gualterotto Sampante, l’incarico di ricevere dai Genovesi la ratifica della tregua appena conclusa. Ciò a dimostrazione che le forze popolari sono ormai così affermate da imporre un proprio uomo per una funzione così delicata. Nel corso della seduta compaiono per la prima volta gli Anziani del Popolo che rappresentano la nuova parte politica. Tale presenza è da far risalire all’attribuzione al recente cambiamento di regime dei successi bellici di Firenze e alla contestuale presa d’atto dell’incapacità dell’aristocrazia, polarizzata attorno ai Gherardesca e ai Visconti, di gestire la cosa pubblica.44

Nel mutamento di regime realizzatosi a Genova, nel 1257, con l’elezione del primo capitano del Popolo Genovese, il Popolo ha un ruolo rilevante ma ancora all’interno dei tradizionali schieramenti guelfo e ghibellino, ormai solo nominalmente corrispondenti alla pars Imperii e alla pars Ecclesiae, e pilotati dall’aristocrazia. L’inimicizia tra le principali famiglie aristocratiche – Fieschi e Grimaldi filo papali e Doria e Spinola filo svevo anti angioino – perdura ancora a lungo: il capitanato Doria-Spinola del periodo esaminato, assicura a Genova velocità di decisione e capacità di persuasione della cittadinanza, mentre Pisa si trova non raramente frenata dai numerosi passaggi consiliari.45

44A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano:

il Popolo a Pisa (1220-1330) ETS Editore, Pisa, 2004 p 131.

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