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3. Verità e comunità

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3. Verità e comunità

3.1. La preghiera

Dopo essersi interrogato sulla possibilità di conoscere il Tutto e sulla possibilità di esperire il miracolo, Rosenzweig s’interroga sulla possibilità di imperare il Regno1. L’indagine è condotta nell’Introduzione alla terza ed ultima parte della Stella e prende avvio dalla preghiera. Abbiamo già visto come con la preghiera l’uomo si rivolge a Dio dopo essere stato chiamato per nome. Ora egli può e deve pregare: può perché il dialogo è già stato istituito da Dio; deve perché prega per l’avvento del Regno. Ma l’uomo non prega anche per necessità? La preghiera è, infatti, qualcosa che l’uomo compie quotidianamente, è una parentesi nella vita reale, veicolo di un desiderio2. Dunque il singolo uomo prega anche per le proprie necessità. Emerge la problematica della possibilità della tentazione attraverso la preghiera che Rosenzweig intreccia con la libertà umana:

Dio vuole per sé soltanto gli uomini liberi. Per discernere tra uomini liberi e quanti hanno un’anima di servi […] non solo Dio deve non fare nulla di vantaggioso ma deve addirittura nuocere. E così non gli resta altra soluzione: egli deve tentare l’uomo; non soltanto deve nascondergli la sua signoria, ma deve anche ingannarlo a riguardo […], così che questi abbia l’occasione di credere e di confidare in lui per davvero, cioè in libertà3.

Da una parte l’uomo tenta Dio nella preghiera, dall’altra Dio tenta l’uomo mettendo alla prova la sua fede per far sì che l’affermazione «io credo in questo Nome» possa avvenire nella più completa libertà. Questa tentazione è importante anche per l’uomo stesso: il pensiero che Dio lo possa semplicemente tentare gli fa mantenere salda la fiducia anche nei momenti più difficili, perciò chiede a Dio di

1 Rosenzerig per scandire la partizione triadica del testo utilizza tre verbi: Erkennen, Erleben,

Erbeten. Per approfondimenti si veda E., Baccarini, Pluriverso. Il «nuovo pensiero» di Franz

Rosenzweig, in «Teoria», XXVIII, 1 (2008), Terza serie III/1, ETS, pp. 72-75.

2 «I desideri sono i messaggeri della fiducia» scrive in una lettera a Eduard Strauss (F. Rosenzweig,

Ebraismo, Bildung e filosofia della vita, Giuntina, Firenze, 2000, p. 97).

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non indurlo in tentazione. In definitiva la preghiera è «tesa tra queste due possibilità»4. È chiaro che la tentazione dell’uomo è di segno diverso: essa non può essere uguale a quella che Dio esercita sull’uomo, «altrimenti il creatore non sarebbe creatore ed il rivelatore non sarebbe rivelatore»5. È solo nella redenzione che si apre la possibilità per l’uomo, in quanto libero, di tentare Dio attraverso la preghiera. Infatti l’uomo è creato senza il suo volere e allo stesso modo gli giunge la rivelazione, mentre non può essere redento senza la sua volontà. Il fatto che Dio lo induca in tentazione, dunque, è il presupposto stesso della libertà dell’essere umano e la relazione che si instaura fatta di libertà e fiducia si estende anche al mondo.

L’uomo teme la tentazione da parte di Dio e nello stesso tempo sa di avere la forza di tentare Dio stesso. Questa forza che proviene dall’uomo diviene possibile perché la preghiera è ciò che istituisce il rapporto tra l’atto d’amore, che si direziona verso tutto ciò che è vicino, e «la vita mutevole del mondo»6. Mentre l’atto d’amore è cieco e cerca il prossimo a tentoni, la preghiera è una richiesta di illuminazione e «così essa libera l’amore dal suo esser-legato al senso del tatto proprio della mano e gli insegna a cercare ciò che gli è prossimo con gli occhi»7. L’atto d’amore non ha una determinazione precisa e anche se non si può mai prevedere dove, giunge sempre a compimento. Nella catena ininterrotta del mondo, l’amore si direziona sempre da qualche parte. Infatti «non c’è alcun atto di amore del prossimo che cada nel vuoto»8 perché l’atto d’amore si direziona verso ciò-che-è-vicino, facendo sì che il prossimo venga sempre trovato9. In questo senso Rosenzweig afferma che gli effetti dell’amore, a differenza degli atti finalizzati, possono essere visti come effetti collaterali.

4 Ivi, p. 275. 5 Ibidem. 6 Ibidem.

7 Ivi, pp. 275-276. Rosenzweig riprende qui Salmo 13 versetto 4: «Guarda, rispondimi, Signore,

mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte».

8 Ivi, p. 276. 9 Ivi, p. 278.

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La preghiera che l’essere umano rivolge a Dio per quanto «è inserita nella preghiera dei molti per la venuta del regno»10 rimane sempre la preghiera del solitario, di un’anima che nella sua solitudine prega affinché Dio la aiuti. Per tal motivo «la preghiera istituisce l’ordine umano nel mondo»11 in cui il prossimo non viene tralasciato, ma oltrepassato affinché venga illuminato il mondo intero. Perciò «essa pone l’istante, ed in esso l’atto appena compiuto e la volontà appena risoltasi, cioè il passato-prossimo ed il futuro-prossimo di questo unico istante solitario, nella luce del volto divino»12. Infatti ogni singola anima risvegliata dall’amore di Dio istituisce un suo ordine e dunque vi sono molti ordini perché ogni anima prega in solitudine. Detto altrimenti, l’anima «non giunge a liberarsi dall’isolatezza del suo punto di vista e di conseguenza la sua preghiera non si libera dall’obbligo di istituire un proprio ordine del mondo»13. Questo ordine umano che si viene a costituire non si confonde con quello divino, ma «nell’atto del pregare è all’opera un particolare rapporto con il tempo: il futuro escatologico viene tratto entro il presente, l’eterno è paradossalmente ricondotto nell’istante. Ciò significa che la preghiera è sempre esaudita perché, se compiuta in modo giusto, in essa si realizza l’irruzione dell’eternità nel tempo»14. Vi è, infatti, un pericolo insito nella preghiera: essa illumina l’atto d’amore che, dacché si rivolgeva al prossimo, ora con un balzo può dirigersi direttamente verso l’oggetto illuminato, ma nel compiere questo balzo rischia di scavalcare il prossimo. La preghiera così può sortire effetti magici: «essa può intromettersi nell’ordine divino del mondo. Può dare all’amore la direzione verso qualcosa che non è ancora maturo per l’amore, non è ancora maturo per essere vivificato»15 e perciò «corre il pericolo di preferire al prossimo il successivo»16. Questo tipo di preghiera, per così dire anticipatrice, scavalca il prossimo per il successivo e forza la venuta del

10 Ivi, p. 276. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 275. 13 Ivi, p. 276.

14 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 73. 15 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 279. 16 Ibidem.

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regno. I tiranni che la compiono sortiscono il paradossale effetto che «invece di accelerare la venuta del regno, al contrario la ritardano»17. Perciò in esergo all’introduzione si legge «in tyrannos!»18, in polemica con tutti i tiranni del regno dei cieli che ritardano la venuta del Regno. Infatti il campo «prematuramente seminato non porta alcun frutto; solo quando sarà venuto il suo tempo (ed il tempo verrà anche per quel campo) sarà fecondo»19.

C’è quindi un momento giusto ed uno sbagliato che conduce al contrario di ciò a cui si tende. Non si tratta di cosa si chiede a Dio nella preghiera in quanto «non c’è alcun contenuto di preghiera che in sé sia sbagliato»20. Dunque Rosenzweig non condanna la preghiera egoistica perché Dio dona all’uomo la sua parte già prima che l’uomo glielo chieda attraverso la preghiera. In questo senso la preghiera è già esaudita. Ma l’uomo che non riconosce la preghiera come già esaudita prega fuori tempo «e mentre prega per il suo “essere proprio”, che già gli è stato concesso nella creazione e nella rivelazione, gli sfugge irrimediabilmente l’istante in cui dovrebbe pregare per il suo “prossimo”»21. Dunque la condanna di Rosenzweig è nei confronti di coloro che dimenticano il prossimo e che anzi lo rinnegano: l’altro così non è considerato come un “egli”, ma solo come ille. Di conseguenza negano la redenzione: «infatti, che altro sarebbe la redenzione se non questo: che l’ “io” apprende a dire “tu” a “lui”»22 e nel farlo traggono «avanti il futuro che viene, esitante, trascinato, prima che questo futuro sia divenuto il prossimo istante presente e come tale sia divenuto maturo per l’eternizzazione»23.

17 Ivi, pp. 279-280.

18 Ivi, p. 273. Inizialmente come motto per l’esergo della Parte Terza Rosenzweig aveva optato

per «in doctores!», poi per «in clericos!» e solo nella stesura definitiva si legge «in tyrannos!» (L. Bertolino, Il nulla e la filosofia, cit., p. 21) Tale dicitura è stata rinvenuta da Rosenzweig in un album di Hegel risalente al periodo giovanile di Tubinga (F. Rosenzweig, Hegel e lo Stato, cit., p. 34).

19 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 280. 20 Ivi, p. 281.

21 Ivi, pp. 282-283. 22 Ivi, p. 282. 23 Ivi, p. 279.

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Dunque la preghiera può accelerare o ritardare la venuta del Regno, ma è chiaro che questa temporalità non riguarda Dio unico-eterno che, in quanto tale, non ha bisogno del tempo. Egli «ne ha bisogno come redentore del mondo e dell’uomo, e non già perché occorra a lui, ma perché sono il mondo e l’uomo ad averne bisogno»24. Per tal motivo, mentre per Dio «il futuro non è anticipazione»25; per l’uomo ed il mondo, che vivono nel tempo, il futuro si dà solo come anticipazione nel presente. Perciò «solo la preghiera elevata nel tempo opportuno non ritarderà la venuta del regno»26. In definitiva, ad accomunare i vari tipi di preghiera scorretta è «la loro incapacità di cogliere il rapporto tra l’uomo e Dio come un rapporto tra un essere che è nel tempo e nello spazio e un essere che rimane trascendente rispetto a questi, pur avendo con essi una necessaria relazione»27.

Rosenzweig prende Goethe come esempio emblematico «della possibilità o meno di una salvezza profana»28, ma anche lui, vedremo, mette in opera una preghiera scorretta. La sua preghiera è rivolta alla fortuna per aiutarlo a portare a compimento con le sue stesse mani l’opera giornaliera29. Che tipo di preghiera è questa in cui si prega il proprio destino? È una preghiera che viene sempre esaudita perché «nel momento in cui viene pronunciata, essa s’intreccia col destino del mondo e non fallisce il bersaglio, non è mai prematura né troppo matura»30. Goethe è l’uomo della vita: «al tempo stesso il grande pagano ed il grande cristiano»31. È Goethe stesso che si definisce come l’unico cristiano, anche se tale definizione non è intesa in senso dogmatico. Infatti «essere cristiano non

24 Ivi, p. 280. 25 Ibidem. 26 Ivi, p. 283.

27 I., Kajon, Critica della tirannia in Franz Rosenzweig, in «Archivio di filosofia», LIX (1991) n. 1-3,

p. 237.

28 P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, Franz Rosenzweig 1886-1929, Studium, Roma, 1989, p. 148. 29 «Fai che l’opera giornaliera delle mie mani, o alta fortuna, io possa portarla a termine» (F.

Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 283).

30 Ivi, p. 285. 31 Ivi, p. 291.

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significa aver accettato questo o quel dogma, bensì porre la propria vita sotto la signoria di un’altra vita, quella di Cristo e, una volta avvenuto questo, condurre avanti la propria vita solo come un effetto della forza che da là affluisce»32. Con “destino” Rosenzweig intende il corso della vita a cui l’uomo è soggetto in quanto microcosmo, perciò la preghiera nei confronti della fortuna, com’è il caso del giovane Goethe, è «una preghiera assolutamente di fede, e cioè di una fede creaturale»33, è la preghiera dell’incredulo, ma è anche la preghiera, di ogni cristiano, seppur non l’unica 34. La preghiera di Goethe «afferra il preciso istante del momento giusto, del tempo favorevole, del tempo di grazia»35 e perciò è sempre esaudita. Ma Goethe è l’uomo della vita e quindi anche se crea un tempo vivo «non può raggiungere ed aprirsi a quell’eterno di cui, pure, la temporalità stessa abbisogna quale suo sostegno»36. Infatti «ciò che è temporale necessita del sostegno dell’eterno»37. Se bastasse solo la preghiera che giunge al momento opportuno, non troppo presto e non troppo tardi, la venuta del regno di Dio «non sarebbe né accelerata né ritardata, ma (beninteso se fosse possibile pregare soltanto quest’unica preghiera) sarebbe addirittura arrestata»38.

32 Ivi, p. 285. 33 Ivi, p. 291.

34 Rosenzweig suddivide la storia della chiesta a partire dagli apostoli riprendendo la Filosofia

della rivelazione di Schelling: la chiesa «di Pietro simbolizza il principio dell’autorità (ossia la

Chiesa cattolica e romana), Paolo rappresenta il principio della libertà e dell’indipendenza della Chiesa petrina (incarnando la Riforma), mentre la Chiesa giovannea simbolizza il principio della Chiesa dello spirito, destinata a compiersi al termine dell’evoluzione storica e ad unificare in essa tutte le due precedenti» (P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, cit., pp. 151-152). Alla Chiesa petrina medievale subentra quella paolina: è in questo momento che comincia la prima scissione tra verità di fede e verità di ragione. Dicotomia che si acuisce con la teologia protestante e la filosofia idealistica. È ancora una volta il 1800 il secolo in cui si apre un nuovo tempo per il cristianesimo ovvero «l’era giovannea annunciata da Schelling: in essa ogni popolo era come posto al centro del suo compimento grazie alla fede ritrovata nel proprio destino storico […]. L’era giovannea rappresentava, in tal senso, il compimento della “temporalità della vita” realizzata in modo emblematico da Goethe» (Ivi, p. 153).

35 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 295. 36 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 76. 37 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 296. 38 Ibidem.

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Perciò c’è bisogno di qualcos’altro che la preghiera del singolo non può garantire, nemmeno quella di Goethe, «il più vitale tra i figli degli uomini»39. C’è bisogno dunque di una preghiera che, compiuta in modo giusto, garantisca l’ingresso dell’eternità nell’oggi, perché, come abbiamo già visto, l’eternità è un oggi, ma è anche più che oggi. Dunque nella preghiera «deve aggiungersi una forza di accelerazione»40 che permetta di anticipare il futuro all’oggi. Questo oggi non è però transeunte, ma è l’attimo che appena svanisce ritorna, è «un attimo “che sta”»41: è l’ora. Essa è «in sé ricca di istanti e tuttavia sempre di nuovo identica a se stessa»42. L’ora è un prodotto umano e quindi appartiene al mondo della redenzione: così «l’uomo trasforma i tempi che la creazione ha imposto alla sua vita secondo il modello dell’ora da lui istituita, nella quale egli si redime dalla trasitorietà dell’attimo»43. Infatti gli istanti nell’ora non sono più transeunti, ma ritornano in eternità. Pertanto è la ripetizione delle ore sulla terra, e quindi dei giorni e degli anni, a fare da garante all’eternità nel tempo e di conseguenza «l’uomo, entro la comunità degli uomini, avverte la sua eternità terrena; entro la comunità e non come singolo»44. È in forza di questo passaggio che al singolo si apre la dimensione comunitaria, ovvero la pratica del culto che si ripete nell’anno liturgico ed in cui il tempo non è più il «tempo privato, ma è il tempo di tutti»45. In particolare, la settimana rappresenta l’alternanza per eccellenza. Essa inizialmente era fondata sul movimento del cielo, ma ora è un prodotto puramente umano in quanto scandisce l’alternanza tra giorni di lavoro e lo Shabbat, il sabato del riposo, ma è anche molto più di questo: la settimana «è parabola terrena dell’eterno […], essa non solo metaforicamente, ma effettivamente introduce l’eterno nell’ “oggi”»46.

39 Ibidem. 40 Ibidem. 41 Ivi, p. 298. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Ivi, p. 299. 45 Ivi, p. 300. 46 Ibidem.

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Dunque la preghiera giusta, corretta, è quella cultuale che consiste nell’invocazione di tutti per la venuta del regno e solo grazie a questo tipo di preghiera possono sussistere anche le preghiere più limitate. La preghiera cultuale «non è rivolta al proprio destino bensì direttamente all’Eterno»47: essa lo afferra facendolo penetrare nell’attimo e perciò la preghiera è anche «la forza che trascina oltre la “soglia”, fuori dal mistero, muto dalla nascita, della crescita individuale della vita, e fuori dal miracolo, dotato fin dalla nascita di linguaggio, dell’amore, avanti verso la silente illuminazione della fine pienamente adempiente»48. La preghiera cultuale conduce oltre la soglia nel sovra-mondo redento.

La liturgia assume il ruolo di organon, al pari della matematica, linguaggio muto del pre-mondo, e della grammatica, linguaggio vivo del mondo reale. Ma la liturgia in quanto gesto che anticipa nell’attimo l’eterno non possiede la contemporaneità al pari delle due scienze precedenti: essa è appunto «silenziosa anticipazione di un mondo che splende nel silenzio del futuro»49. La liturgia è paragonata da Rosenzweig ad un volto che senza proferire parola diviene eloquente50. Questo silenzio del volto che però con lo sguardo è già espressione è dunque diverso dal mutismo del pre-mondo: lì i segni non sono ancora parola, qui «è il silenzio del comprendere giunto a compiutezza»51. Infatti la parola è educazione al silenzio comunitario e «l’inizio di questa educazione è che l’uomo impari ad ascoltare»52.

47 Ivi, p. 302. 48 Ibidem. 49 Ivi, p. 303.

50 Levinas riprenderà la tesi che l’espressione del volto d’altri è già linguaggio: essa parla prima di

proferire verbo. È una epifania con cui il volto d’altri si mostra e mi comanda di non ucciderlo, di riconoscerlo in quanto altro e dunque come qualcosa di non afferrabile dall’io. È questa la base dell’etica di Levinas: «il principio è possibile solo come comando» (Totalità ed infinito, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano, 2012, p. 207). D’altronde il debito di Levinas nei confronti di Rosenzweig è attestato dall’autore stesso che nella Prefazione a Totalità ed infinito scrive che la

Stella della redenzione è un testo «troppo spesso presente […] per poter essere citato» (Totalità ed infinito, cit., p. 26).

51 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 304. 52 Ivi, p. 317.

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Rosenzweig riprende i versetti 1-9 di Genesi 11: prima della confusione delle lingue da parte di Dio, gli uomini potevano capirsi con un solo sguardo, ma una volta dispersi gli uomini e confuse le lingue c’è bisogno della parola come mediatrice perché il gesto non è più intendimento immediato. È in questo senso che la liturgia «non è la parola comune, ma il gesto comune»53: essa non lascia che la parola sia mediatrice tra gli uomini, ma diviene più che parola. Nel gesto liturgico i popoli non sono più divisi dalle loro lingue, bensì uniti da un silenzio eloquente.

Il gesto liturgico, la preghiera comunitaria dei credenti, «completa la preghiera dell’incredulo»54 che abbiamo visto essere la preghiera del singolo che prega per il proprio destino e per portare a compimento l’opera delle sue mani. Essa non era sufficiente da sola, e così ora non è sufficiente il gesto liturgico da solo. Detto altrimenti, la preghiera del credente si esplica nella comunità e la preghiera dell’incredulo nella solitudine, ma «la verità divina vuole essere implorata con entrambe le mani. A chi si rivolge a lei con la doppia preghiera del credente e dell’incredulo essa non si negherà»55. Al pari del rinvio reciproco di filosofia e teologia, qui Rosenzweig connette l’incredulo e il credente nel momento in cui il primo «pregando per il proprio destino e aprendosi quindi al destino del mondo, mantiene intatto il legame colla sfera della vita e col paganesimo sempre risorgente, da cui anche la fede deve trarre alimento»56; mentre d’altra parte «solo la comunità dei credenti è in grado di realizzare ciò che l’incredulo chiede: il compimento dell’opera delle sue mani»57. La prospettiva comunitaria dunque non soppianta quella del singolo, ma la completa perché è lo stesso uomo che si presenta davanti a Dio: da una parte carne e sangue, l’«incredulo figlio del mondo»58, dall’altra il figlio credente. La preghiera comunitaria unisce i due e, giungendo all’unisono, viene mostrata la verità divina.

53 Ivi, p. 304. 54 Ivi, p. 301. 55 Ivi, p. 305.

56 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., pp. 76- 77. 57 Ivi, p. 77.

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3.2. Comunità eterne

Rosenzweig prende in considerazione due tipi di comunità, la vita eterna e la via eterna, al fine di mostrare come entrambe, nonostante le dovute differenze, riescano a riportare l’eternità all’oggi. Queste comunità sono rispettivamente l’ebraismo ed il cristianesimo, perciò il tentativo di instaurare un dialogo tra loro risulta sicuramente come un gesto precursore vista la spinta assimilazionista della Germania dell’epoca.

La comunità della vita eterna è innanzitutto la comunità di sangue, ovvero quella in cui la vita eterna si realizza come generazione e testimonianza al tempo stesso. Infatti «il rendere testimonianza avviene nel generare»59: con la figliolanza la generazione futura è una testimonianza del passato. Questa testimonianza si realizza anche con la pratica del rinnovo del nome del proprio avo. È così che la discendenza prende forma e dunque «procede da nonno a nipote»60. Nel sangue viene offerta «alla speranza nel futuro una garanzia nel presente»61 e al contempo la sicurezza dell’eternità. Perché la generazione, la figliolanza, la discendenza permettono l’estendersi del tempo e quindi l’anticipazione del futuro come già-presente. Anche se la discendenza è presente in tutti i popoli, solo il popolo ebraico, si basa esclusivamente sulla discendenza sanguigna poiché non ammette la conversione. Inoltre mentre gli altri popoli rimangono ancorati «al saldo suolo della terra»62, alla loro patria, il popolo ebraico invece vive fin dalla sua nascita un esodo: «la sua storia, com’è narrata nei libri sacri, inizia con il comando divino di uscire dalla terra della sua nascita e di recarsi in una terra che Dio gli mostrerà»63. Essere un popolo è per Rosenzweig molto di più che essere insediati in un paese64:

59 Ivi, p. 307. 60 Ibidem. 61 Ibidem. 62 Ivi, p. 308. 63 Ivi, p. 309.

64 È per questo motivo che nella lettera a Hedwig Cohn-Vohssen del 7 luglio 1918, Rosenzweig

spiega che a suo avviso il sionismo è solo una via delle tante e possibili vie. Perciò consiglia loro di essere «più ebrei» (F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., pp. 294-295).

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ad esempio con vena antisionista contesta che a Gerusalemme sarebbe più ebreo che in Germania65.

Lo stesso vale per la lingua dei popoli: essa è legata al destino del vivente e dunque anch’essa è soggetta alla morte. La lingua è temporale perché nel tempo è soggetta a cambiamenti. Il popolo ebraico invece acquisisce la lingua dei paesi in cui risiede, dimenticando quella di provenienza. La lingua ebraica non è come tutte le altre lingue: è lingua santa e in quanto tale non è una lingua destinata all’uso quotidiano, essa è fuori dal tempo e perciò non soggetta alla morte anzi «impedisce che il popolo eterno viva totalmente in sintonia con il tempo»66. Dunque mentre la lingua di tutti gli altri popoli è temporale, cangiante e mutevole, la lingua santa è utilizzata soltanto per rivolgersi a Dio nella preghiera e perciò non rientra nella vita quotidiana e scavalca la temporalità.

Rosenzweig descrive negli stessi termini la legge al fine di mostrare come, con essa, la lingua e il sangue, l’acquisizione dell’eternità per il popolo ebraico avvenga a discapito della temporalità. Il popolo ebraico si pone così fuori «da ogni temporalità e storicità della vita»67: la legge della Torah rimane immutata, essa non si rinnova; l’esodo dall’Egitto deve essere sentito come se ognuno vi avesse preso parte; la lingua è scritta. Dunque «nel popolo di Dio l’eterno è già qui, in mezzo al tempo. Nei popoli del mondo vi è pura temporalità»68.

Ma il popolo ebraico non vive forse anche nel tempo in quanto popolo che insieme a tutti gli altri popoli abitano il mondo? Vi è quindi una cesura tra il tempo e l’eterno, tra il mondano ed il sacro. Rosenzweig nella scrittura di queste pagine vi si immedesima: il popolo ebraico diventa un “noi” nel momento in cui sentimentalmente ripercorre le differenze con gli altri popoli:

Tutto ciò a cui i popoli del mondo ancoravano la loro vita ci è stato strappato da molto tempo; a noi terra lingua usanza e legge già da molto tempo sono state recise dall’ambito del “vivente” e da “vive” sono state elevante per noi

65 F. Rosenzweig, Ebraismo, Bildung e filosofia della vita, cit., p. 88. 66 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 311.

67 Ivi, p. 313. 68 Ivi, p. 341.

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11 a “sante”; ma noi viviamo ancora e viviamo eternamente; la nostra vita non è più intrecciata a nulla di esteriore, noi abbiamo gettato radice in noi stessi, privi di radice nella terra e perciò eterni erranti, e tuttavia profondamente radicati in noi stessi, nel nostro proprio corpo e sangue. E questo radicamento in noi stessi, ed in noi stessi soltanto, ci è garanzia della nostra eternità69.

È questo un passo sicuramente molto sentito da Rosenzweig dopo la diatriba interiore che lo ha portato a scegliere di non convertirsi al cristianesimo e a rimanere ebreo. È chiaramente l’affermazione dell’impossibilità di un’assimilazione, nel momento in cui ebrei si è nel sangue e nella carne. Ma nello stesso tempo è anche l’affermazione di una non completa estraneità o diversità, nell’ottica secondo cui la diversità non è qualcosa da eliminare, bensì rappresenta l’occasione per un arricchimento. Il popolo ebraico è infatti separato dagli altri popoli, ma «ogni confine ha due facce. Mentre qualcosa si delimita, diventa così anche limitrofo a qualcos’altro. Proprio in quanto un popolo è un singolo popolo è un popolo tra i popoli. Il suo isolarsi significa al tempo stesso unirsi»70. La scissione è dunque funzionale all’unione e non è qualcosa di eliminabile perché la contraddizione, la molteplicità, fa parte della vita. In tal senso Rosenzweig critica coloro che cercano di fissare tale molteplicità con un’essenza definita una volta per tutte.

Proprio con l’intento di parlare della vita, Rosenzweig afferma che è il ciclo dell’anno liturgico ad assicurare al popolo eterno la sua eternità. Per tal motivo si sofferma sulle varie feste che lo scandiscono, tra tutte soprattutto il sabato. Emerge lo specifico ruolo dell’ascolto. Abbiamo visto, infatti, che esso fa parte di un processo educativo che parte con la parola di cui esso rappresenta il momento successivo propedeutico al silenzio. L’uomo attraverso la parola impara ad ascoltare, ma qui è in gioco un ascoltare di segno diverso rispetto a quello che si dà in un dialogo: qui non vi è possibilità di replica. Ebraicamente l’ascoltare

69 Ivi, p. 314. 70 Ibidem.

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comunitario è «la lettura pubblica della parola della scrittura»71, è esegesi. La costituzione della comunità dell’ascolto nell’anno liturgico è «scandito passo passo e i passi di questo cammino sono i sabati»72. Infatti i sabati sono tutti uguali, ma diverse sono le pericope da leggere e proprio la loro diversità percorre tutto l’anno liturgico: «nello svolgersi della sequenza dei sabati l’anno si compie come una corona»73. Il sabato ebraicamente è la festa del giorno del riposo perché è «la festa in ricordo della creazione» al pari del settimo giorno di Dio. Ma proprio perché il sabato è festa di riposo a fondamento dell’anno liturgico esso è anche «il primo segno della rivelazione; infatti è qui […] che compare per la prima volta nella scrittura, il nome rivelato di Dio»74. E proprio perché unisce creazione e rivelazione, esso è anche redenzione perché il sabato è anche la festa del compimento.

Lo Stato è l’istituzione temporale che cerca di imitare questa ciclicità dell’anno liturgico. Esso cerca di «conferire eternità ai popoli nel tempo»75 dando una fissazione attraverso la legge a ciò che nella vita è invece mutevole e cangiante. Infatti «tra conservazione e rinnovamento la vita pone un dissidio apparentemente inconciliabile. Essa vuole soltanto mutare»76. È dunque chiaro che lo Stato non riesce ad imitare appieno il popolo che è eterno in se stesso: il tempo c’è, continua a scorrere e perciò «il movimento vince. Non t’immergi due volte nella stesa onda del fiume»77. Il diritto, che inizialmente sembra essere durevole, e la vita che invece rimane mutevole, si separano e lo Stato «svela il suo vero volto»78: la violenza. Con essa lo Stato impone istante dopo istante i nuovi costumi, «ma non come avviene nel popolo eterno, in modo da rendere eterno l’istante in un

71 Ivi, p. 319. 72 Ibidem. 73 Ibidem. 74 Ivi, p. 322. 75 Ivi, p. 341. 76 Ibidem. 77 Ivi, p. 342. 78 Ibidem.

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costume stabilito una volta per tutte ed in una legge immutabile. Bensì afferrando da padrone l’istante, e poi di nuovo ogni istante successivo, e plasmando a proprio piacere e secondo le proprie capacità»79. Per tal motivo lo Stato non può che esercitare perennemente violenza: lo Stato riesce a far divenire l’istante una piccola eternità, introduce una epoché nell’incessante deflusso della vita, ma appunto la vita scorre e il vecchio istante viene soppiantato da nuovi istanti che infrangono i precedenti e lo Stato deve cercare nuovamente di fissarli attraverso guerre e rivoluzioni. Queste pause nel tempo, le epoche, rappresentano la storia universale. Per tal motivo il popolo eterno deve rimanere estraneo sia allo Stato che alla storia universale80, deve guardare al di là di essi perché per quanto la storia universale «affermi sempre di nuovo come vera la sua recentissima eternità, noi –scrive Rosenzweig– continuiamo ad opporre a tutte queste affermazioni la tranquilla, muta, immagine del nostro esserci la quale costringe sia colui che vuole vedere sia colui che non vuole vedere a riconoscere che l’eternità non è nulla di recentissimo»81. Nel popolo eterno arde un fuoco che si nutre da sé, esso «brucia silenzioso ed eterno»82 e perciò non ha bisogno di violenza per essere alimentato.

Rosenzweig prende in considerazione anche il cristianesimo: nella figura della stella che si viene delineando l’ebraismo rappresenta il nucleo, fuoco che arde al centro; il cristianesimo, l’altro grande monoteismo, rappresenta i raggi che dalla stella si sprigionano. Essi, a differenza del nucleo, sono la via attraverso il tempo grazie ai quali la fede in Dio raggiunge i popoli lontani. La via del cristianesimo deve condurre attraverso il tempo, ma comunque deve essere una via eterna. Detto altrimenti, «deve divenire signora del tempo»83 mediante una scansione delle epoche. Infatti «gli eventi dominano il tempo, incidendo in esso le loro tacche. Ma evento si dà solo all’interno di un’epoca, l’evento sta tra un “prima” e un

79 Ibidem.

80 È anche questa una dichiarazione antisionista. Esso infatti «vuole essere una ricetta per tutti.

Soltanto ricetta. Non si può dare una ricetta per l’essere ebrei e neppure…per l’essere uomo» (F. Rosenzweig, Ebraismo, Bildung e filosofia della vita, cit., p. 87).

81 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 344. 82 Ibidem.

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“dopo”»84. Questo “tra” di cui parla Rosenzweig sembra essere un riferimento a qualcosa che è avvenuto nel passato, ma se invece si ponesse il presente come qualcosa di «epocale / ciò che costituisce un’epoca [epochemachend]»85, allora il tempo diventerebbe “ora”, cioè «sarebbe teso entro l’eternità»86. A riportare l’eterno nell’ “ora”, cioè a fare del presente un’epoca, è stato il cristianesimo, nel momento in cui sancisce come passato «il tempo precedente alla nascita di Cristo»87, mentre tutto ciò che ad essa è successivo è il presente, il “tra”, l’epoca, in attesa della seconda venuta. In tal modo «il tempo è divenuto un’unica via, ma una via il cui inizio e la cui fine si trovano al di là del tempo e quindi una via eterna»88.

Dunque una delle differenze principali che Rosenzweig traccia tra i due monoteismi è che l’ebreo si sottrae al tempo, il cristiano invece «lotta contro la corrente del tempo»89: tra l’inizio e la fine, egli è collocato nel punto centrale. I due monoteismi hanno un punto importante in comune: l’eternità. In un parallelo tra il punto e la linea, che rispettivamente rappresentano l’ebraismo ed il cristianesimo, l’eternità è simboleggiata, a titolo di esempio, come l’infinito geometrico:

Vita eterna e via eterna sono diverse come sono diverse le infinità di un punto e di una linea. L’infinità di un punto può consistere soltanto nel non essere mai cancellato; così esso permane nell’eterna autoconservazione del sangue che continua a generare. L’infinità di una linea invece viene meno appena non è più possibile prolungarla; essa consiste infatti in questa possibilità di prolungamento ininterrotto90.

84 Ivi, p. 347. 85 Ibidem. 86 Ibidem. 87 Ibidem. 88 Ibidem. 89 Ivi, p. 348. 90 Ivi, p. 350.

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Da questa considerazione scaturisce l’altra grande differenza tra i due monoteismi: il proselitismo. Infatti «il cristianesimo, come via eterna, deve espandersi sempre di più […]. La cristianità dev’essere missionaria»91. Perciò mentre la vita eterna continua attraverso il sangue e quindi la generazione che unisce nonno e nipote; la via eterna invece si prolunga solo attraverso l’acqua battesimale «che, scorrendo dall’uno all’altro, deve fondare la comunità della testimonianza»92. Attraverso la testimonianza di fede la comunità diventa una perché si acquisisce la consapevolezza che la fede «è la fede in qualcosa»93 e questo qualcosa è la «via che conduce dal Cristo venuto al Cristo che ritornerà»94. Emerge dunque una differenza anche nel concetto stesso di “fede” nel momento in cui per il cristiano è testimonianza, fede che diviene il contenuto di un sapere, mentre per l’ebreo la fede è nel suo stesso sangue e ciò fa dell’ebreo un credente immediato, ovvero la sua fede è già presente fin dalla sua nascita perché trasmessa nel sangue e senza la mediazione. Tale immediatezza è anche il motivo principale che spinge Rosenzweig a non convertirsi al cristianesimo: il popolo ebraico è già presso il Padre95 e lo è fin dalla nascita in quanto popolo eletto96.

Proprio per questa differenza, nella Stella Rosenzweig ammette che il cristianesimo ha bisogno della parola per diffondersi: «la parola prende per mano il singolo e lo guida alla via che lo porta alla comunità»97. Per tal motivo la fede cristiana «non può mai essere sazia di parole, non può produrre mai abbastanza parole. Dovrebbe davvero avere mille bocche. Dovrebbe parlare tutte le lingue»98.

91 Ibidem. 92 Ibidem. 93 Ivi, p. 351. 94 Ibidem.

95 «Nessuno viene al Padre - è però diverso se uno non ha più alcun bisogno di venire al Padre,

perché è già presso di Lui. E questo è il caso del popolo d’Israele (non del singolo ebreo)» Lettera a R. Ehrenberg 31 ottobre 1913 (F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 288).

96 «Devo “convertirmi”, laddove sono “eletto” per nascita?» chiede Rosenzweig all’amico Eugen

Rosenstock in una lettera dell’ottobre del 1916 (F. Rosenzweig, E. Rosenstock, La radice che

porta, cit., p. 93).

97 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 367. 98 Ivi, p. 351.

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Perciò l’importanza del cristianesimo è il suo tracciare la via nel mondo: la fede cristiana unisce i singoli in un’azione comune per rendere testimonianza della via eterna. L’uomo viene consacrato al mondo cristiano attraverso il battesimo. Rimane un singolo, ma si avverte come intero grazie ad una doppia unità: egli è «insieme figlio del mondo e figlio di Dio»99 e nell’arco dell’anno esperisce il regno della chiesa e quello del mondo «come un’unità che sempre ritorna»100. L’uomo singolo è unito nella cristianità a tutti gli altri sulla base della fraternità: «la fede comune nella via comune è il contenuto sulla base del quale essi, da uomini che erano, divengono fratelli»101. A fondare la fraternità è Cristo: egli è inizio e fine della via e dunque anche centro. Ma tale fraternità non è fondata sull’«uguaglianza di tutto ciò che ha un volto d’uomo»102. Dunque a dispetto di quel che si pensa essa non è un’unione basata sul riconoscimento del nostro stesso essere uomini. La fraternità è invece concordia di uomini che hanno tutti volti diversi dagli altri, ma alla base c’è pur sempre un volto e perciò si vedono l’un l’altro e si riconoscono come fratelli: «la chiesa è la comunità di tutti coloro che si vedono l’un l’altro»103. Questo riconoscimento supera la temporalità perché avviene simultaneamente tra gli uomini: essi sono tutti contemporaneamente posti al centro della via «tra eternità ed eternità»104. In definitiva nell’atto cristiano l’amore per il prossimo deve superare solo lo spazio che separa, mentre nell’atto giudaico lo spazio è già superato perché «il nipote e l’avo si guardano […], sono la vera incarnazione del popolo eterno»105. Dunque nel cristianesimo l’attimo indica l’eternità nel fratello più vicino, nell’ebraismo invece «in coloro che ci sono più lontani nel tempo»106.

99 Ivi, p. 385. 100 Ibidem. 101 Ivi, p. 353. 102 Ivi, p. 354. 103 Ibidem. 104 Ibidem. 105 Ivi, p. 355. 106 Ibidem.

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È a partire da tutte queste differenze che Rosenzweig traccia l’ultima e forse anche la più significativa: la croce rappresenta l’inizio della via eterna, che per l’uomo è anche il centro, perciò la fede cristiana spinge verso l’inizio, «verso il primo cristiano, il crocefisso»107: non a caso il giorno prediletto è la domenica, festa dell’inizio della settimana; la stella di David rappresenta invece la speranza giudaica che spinge verso la fine dei tempi: infatti il loro giorno è il sabato, festa del riposo, del compimento.

Il tentativo che Rosenzweig mette in opera nell’ultima parte della Stella è dunque quello della possibilità di un dialogo tra ebraismo e cristianesimo, nel momento in cui entrambi, con le dovute differenze, portano avanti la stessa verità monoteistica. L’ebraismo, infatti, rappresenta il nucleo di fuoco della stella, «un’immagine della verità eterna ed ultima, un fuoco che viene custodito gelosamente nella conformità della vita ebraica ai dettami della Torah e nel gesto rituale e liturgico»108. Il cristianesimo invece rappresenta i raggi che dalla stella si diffondono, ovvero l’opera missionaria che permette alla verità di incarnarsi «nelle istituzioni umane, nella vita dei popoli e nella vicenda temporale complessiva dell’intera umanità»109. Vi sono però dei pericoli insiti nel cristianesimo che riguardano le figure del Tutto: Dio, mondo e uomo. Rosenzweig nella chiesa d’oriente, «fedele alla sua origine in Giovanni e nei padri greci»110, vede il pericolo del concetto di Spirito: esso giuda la cristianità e spegne il paganesimo al prezzo di «una spiritualizzazione di Dio, che non solo dimenticherebbe Dio stesso per lo Spirito, ma che […] finirebbe anche, inebriata dalla speranza di contemplare Dio e dalla pienezza dello Spirito, col perdere il contatto con il mondo nella sua continua crescita e con l’anima nel suo rinnovarsi nella fede»111. La Chiesa del settentrione invece, «fedele alla sua origine in Paolo e nei padri tedeschi»112, cela il pericolo «di una divinizzazione dell’uomo e di una

107 Ivi, p. 356.

108 F. P. Ciglia, Scrutando la «Stella», Cit., p. 173. 109 Ibidem.

110 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 410. 111 Ibidem.

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umanizzazione di Dio»113 nel momento in cui le figure del prete e del santo, che frenano la molteplicità delle figure del paganesimo, da figure separate si unificano in quella del Figlio di Dio, con il pericolo di vedere in quest’ultimo, e non in Dio, la verità. Infine la chiesa del meridione, «fedele alla sua origine in Pietro e nei padri latini»114, che per evitare le divisioni pagane le riduce tutte ad un’unica divisione: ordine del mondo e sovramondano, la via dello Stato e la via della chiesa, il cui pericolo è «la divinizzazione del mondo o la mondanizzazione di Dio»115. In tal modo Dio rischia di diventare Tutto in Tutto, e non più «Uno al di sopra di tutto»116. Questi pericoli sono derivati dal fatto che il cristianesimo, come i raggi della stella, irradiandosi verso l’esterno deve fare i conti con il paganesimo, al contrario dell’ebraismo che rappresenta invece il nucleo e perciò «non sa nulla dell’oscurità che circonda all’esterno la stella»117.

Rosenzweig pone però dei pericoli anche per la vita giudaica: chiuso nel suo nucleo, l’ebraismo rischia di annullare la realtà pagana del mondo. Annullamento che si esplica in tre modi, innanzitutto come negazione del mondo nel momento in cui chiede la redenzione per sé, ovvero per il popolo giudaico e non per tutto il mondo. Poi come disprezzo del mondo perché se si avverte l’ebraismo come un resto, cioè l’uomo giudaico come «uno scampato, un interno il cui esterno è stato afferrato e strappato via dalla corrente del mondo, mentre lui stesso, o ciò che rimane di lui, resta sulla riva»118, rischia di sentirsi come l’unico uomo vero, l’unico «creato originariamente ad immagine di Dio»119 disprezzando il resto del mondo. Infine nell’ebraismo c’è il pericolo di una mortificazione del mondo nel momento in cui si considera la legge, che in quanto tale appartiene al mondo, come soltanto legge giudaica e con essa pretende «di poter regolare od anche

113 Ibidem. 114 Ivi, p. 412. 115 Ibidem. 116 Ivi, p. 413. 117 Ivi, p. 415. 118 Ivi, p. 416. 119 Ivi, p. 418.

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soltanto di poter giudicare l’esserci rinnovato ad ogni istante e la crescita silenziosa delle cose»120.

Rosenzweig sembra minimizzare i pericoli dell’ebraismo rispetto a quelli del cristianesimo perché «l’ebreo non può affatto discendere nel suo intimo senza che questa sua discesa fino al più intimo sia per lui al tempo stesso una salita all’Altissimo»121. Perciò i pericoli enunciati per l’ebraismo sono pericoli che riguardano il singolo e non il giudaismo in generale. Questa fondamentale differenza con il cristianesimo permette a Rosenzweig di ripercorre l’intera Stella:

Quei tre modi di distaccarsi dall’esterno e di inoltrarsi nell’interno, esercitati nei confronti di Dio, uomo e mondo, il fatto che egli ponga il suo Dio, il suo uomo, il suo mondo come il Dio, l’uomo e il mondo in generale, quel triplice ardere del suo sentimento ebraico non è affatto un punto estremo […]. Non sono come Dio, mondo e uomo nel paganesimo, tre punti irrelati e non coordinati; tra questi tre elementi ultimi del sentimento circola invece una corrente che li unisce, quindi un percorso paragonabile a quello in cui gli elementi del paganesimo entravano nella connessione che dalla creazione attraverso la rivelazione porta alla redenzione; ed in questo collegamento la componente in apparenza solo-giudaica di questo triplice sentire, ciò che apparentemente era angusto, escludente e particolaristico si unisce di nuovo a comporre l’immagine unica della stella della verità che illumina ogni cosa122.

Tra il singolo “io” e l’adempimento della legge «si gioca nulla meno che il processo di redenzione che abbraccia Dio, il mondo e l’uomo»123 perché il singolo perde la sua posizione particolaristica e si unifica nell’Uno. Ciò che era angusto, particolaristico e solo-ebraico «si trasfigura nella verità che redime il mondo»124, nella stella della redenzione. In questo senso la discesa nell’intimo che compie

120 Ibidem. 121 Ivi, p. 419. 122 Ivi, pp. 419-420. 123 Ivi, p. 422. 124 Ibidem.

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l’uomo ebraico è anche un’ascensione. Bisogna ora vedere in che modo Rosenzweig concepisce questa verità.

3.3. L’eternità della verità: la stella

A partire dal nulla del sapere di Dio Rosenzweg nella Stella ci ha condotti al Dio che ama. L’amore che noi esperiamo però non è il “che cosa” di Dio, non è cioè la sua essenza: «noi sperimentiamo che Dio ama, non che Dio è l’amore»125, nel senso che l’amore non è una sua determinazione per noi esperibile. Infatti nel nostro esperire noi comprendiamo che «Egli è Dio, ma non che cosa Egli sia. Il “che cosa”, l’essenza rimane celata»126. Abbiamo visto la critica di Rosenzweig alla ricerca dell’essenza che in queste dense pagine della Stella porta a compimento: non è l’essenza di Dio ciò che l’uomo esperisce, ma la rivelazione. Essa, dobbiamo brevemente ripercorrere, permette all’uomo di riconoscere Dio come creatore e redentore. Se solo «nella rivelazione dell’amore divino»127 si può scorgere la creazione e la redenzione, la ricerca di ciò che era prima della creazione, ovvero «quella vitalità di Dio in sé»128, diventa dunque una ricerca basata su «concetti vuoti e senza vigore»129. Anche per quanto riguarda «ciò che Egli sarà dopo la redenzione»130 l’essenza è preclusa. Dio «redime l’uomo nel mondo ed il mondo attraverso l’uomo»131 e contemporaneamente Dio redime anche se stesso perché «la redenzione lo libera dal lavoro alla creazione come pure dalla cura amorevole per l’anima. La redenzione è il suo giorno di riposo, il suo grande sabato»132. Nel cammino della rivelazione, iniziato con la creazione, tutto avviene nel nome di Dio, mentre una volta giunto alla redenzione si ha «la

125 Ivi, p. 392. 126 Ibidem. 127 Ibidem. 128 Ivi, p. 393. 129 Ivi, p. 392. 130 Ivi, p. 393. 131 Ivi, p. 394. 132 Ibidem.

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santificazione stessa del nome»133 ovvero il fatto che «la fine è senza nome, è al di là di tutti i nomi»134. Abbiamo già visto come nel nome di Dio «ogni nome entra nel suo Uno senza nome»135. Nel giorno-universale l’uomo e il mondo scompaiono, mentre Dio redentore diventa Uno e «al di là della parola risplende il silenzio. Dove all’unico nome non si contrappone più nessun altro nome, dove l’unico nome è solo / tutto-uno [all-ein] ed ogni creatura conosce e confessa Lui e lui soltanto, là l’atto della santificazione è giunto al riposo»136. Il nome di Dio non può essere pronunciato perché esso sopraggiunge nel futuro come silenzio. Nel presente però ci è concesso chiamarlo Signore inteso «come nome contrapposto ad altri nomi, come creatore di un mondo di essere, come rivelatore di un linguaggio di anime»137.

Anche in questo caso Rosenzweig sta compiendo una critica verso la ricerca dell’essenza e verso il concetto filosofico di verità: la santità non è tale perché è in contrapposizione al non-santo, ma al contrario «dove tutto è santo la santità stessa non è più santa, semplicemente c’è»138. È così che viene attestata la sua esistenza: il «semplice esserci dell’Altissimo»139. Nello stesso tempo viene attestata anche la verità, nel momento in cui essa «non si fa riconoscere, come pensano i maestri della scuola, per rapporto all’errore; la verità attesta se stessa, essa è una sola cosa con tutto il reale, non produce divisione nel reale»140. Detto altrimenti, essa non include al proprio interno anche il negativo141, perché è un tutt’uno con il reale e

133 Ibidem. 134 Ibidem. 135 Ivi, p. 247. 136 Ivi, p. 394. 137 Ibidem. 138 Ibidem. 139 Ibidem. 140 Ibidem.

141 Hegel include il negativo a partire dalla sostanza. Cioè «la sostanza, in quanto contenuto del

sapere, rappresenterebbe il vero», ma in realtà essa è «essenzialmente il negativo, sia come differenziazione e determinazione del contenuto, sia come semplice atto del differenziare, cioè come Sé e sapere in generale». Detto altrimenti, il falso o l’errore è una disuguaglianza tra il proprio sapere e la sostanza. Ma tale disuguaglianza «è l’atto del differenziare in generale» che

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dunque essa semplicemente c’è, esiste: «Dio è la verità. Verità è il suo sigillo, per il quale Egli viene conosciuto»142 come Uno.

Ritorniamo brevemente alla creazione: grazie ad essa «abbiamo appreso il senso del pre-mondo»143 ovvero la morte. Questo non vuol dire che il Dio del pre-mondo era morto, ma solo che, al pari dei morti di cui è signore, Egli è un nulla insieme ad altri nulla particolari: «infatti che cos’altro poteva essere l’essenza di un qualcosa anteriore al mondo, se non il nulla?»144 Al contrario con la redenzione viene mostrato il senso del sovra-mondo: la vita. Analogamente al pre-mondo, qui Dio è signore della vita, ma ciò non lo qualifica come vivente, ma solo «come ciò che è vivo»145. Ora, nel pre-mondo, lo abbiamo visto, vige il linguaggio che precede il linguaggio reale. Esso è un linguaggio muto che Rosenzweig esprime in simboli matematici. Nel sovra-mondo redento siamo invece oltre la parola e quindi oltre il “qualcosa” che in quanto tale appartiene al mondo. Detto in altri termini, se il nulla appartiene al pre-mondo e il qualcosa appartiene al mondo, cosa appartiene al sovra-mondo redento? La risposta di Rosenzweig è il Tutto. Se tale risposta può lasciare basito il lettore della Stella dopo la distruzione del Tutto in pezzi della Parte Prima, in realtà Rosenzweig specifica subito che si tratta di un Tutto diverso: «questo è il vero Tutto, non il Tutto che va in pezzi come avveniva nel mondo del nulla ma il Tutto unico, il tutto ed Uno»146. A questo punto bisognerebbe chiedersi quali sono le differenze tra il Tutto mandato in pezzi e il Tutto ed Uno, e la risposta ci giunge proprio dalla verità. Abbiamo visto che Dio è la verità. Essa è il suo sigillo, «lo scettro della sua signoria»147. Nello stesso tempo la verità è un tutt’uno con la realtà tanto da poter affermare «la realtà è la

ogni sapere compie ed è perciò funzionale all’uguaglianza tra il sapere e la sostanza, cioè alla verità (G. W. F. Hegel, Prefazione a Fenomenologia dello spirito, cit., p. 95). In definitiva Hegel asserisce: «la verità include dunque al proprio interno anche il negativo» (Ivi, p. 105).

142 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 391. 143 Ivi, p. 295.

144 Ivi, p. 395. 145 Ibidem. 146 Ivi, p. 396. 147 Ibidem.

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verità»148. Se si affermasse il contrario tramite un’inversione, cioè che la verità è Dio, «allora Dio sarebbe indifferentemente la realtà, sovra-mondo e mondo insieme, e tutto si confonderebbe nella nebbia»149. Contro esiti panteistici, Rosenzweig afferma che Dio è molto di più che la verità, essa è sì «l’ultima e l’unica cosa che si può affermare di Dio come sua essenza, tuttavia in Dio rimane ancora un sovrappiù al di là della sua essenza»150. È chiaro dunque che l’asserzione «Dio è la verità» ha uno statuto particolare rispetto a «la realtà è la verità» perché «in essa il predicato non è un concetto universale al quale il soggetto sia subordinato»151. Al contrario, l’idealismo aveva teorizzato che la verità è garante di se stessa, e quindi «nelle proposizioni essa potrebbe costituire soltanto il soggetto e non il predicato»152, avallando di conseguenza l’inversione della proposizione: la verità è Dio. Dunque se la verità è garante di se stessa l’idealismo pone la sua esistenza su un dato di fatto innegabile. Rosenzweig sottolinea che anche l’errore esiste ed è altrettanto innegabile: «esiste qualcosa di non vero»153. Ma allora perché si dà più peso all’innegabilità del dato di fatto della verità rispetto a quello dell’errore? Perché il dato di fatto della verità ci si presenta immediatamente come vero, proprio perché attesa la verità. Al contrario, quello dell’errore ci si presenta come non-vero, anche se rimane sempre un dato di fatto. Perciò Rosenzweig per attestare la verità decide di non fare affidamento sul dato di fatto, «ma sulla sua affidabilità»154: la verità ci si presenta come vera prima ancora dell’innegabilità del dato di fatto. Questa affidabilità è anche un atteggiamento di fiducia: «essa esige fiducia in lei come in un dato di fatto»155.

148 Ivi, p. 397. 149 Ibidem. 150 Ibidem. 151 Ibidem. 152 Ibidem. 153 Ivi, p. 398. 154 Ibidem. 155 Ivi, p. 399.

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«Dio è la verità» perché la verità stessa attesta che Dio è la sua origine. Ciò non «annulla il peso della responsabilità dell’uomo, che trova nel luogo e nel tempo della verità la possibilità della sua realizzazione, del suo in-veramento»156.

Accanto alla proposizione «Dio è la verità» Rosenzweig ne pone un’altra: «Dio è il nulla»157. Entrambe sono le uniche risposte che si possono dare alla domanda circa l’essenza di Dio: «Dio è il nulla» è l’unica risposta possibile nel pre-mondo perenne; «Dio è la verità» è invece l’unica risposta possibile nel sovra-mondo redento. «Qui inizio e fine risalgono dal loro nascondimento per entrare nella dimensione manifesta»158 ovvero nel mondo incessantemente rinnovato in cui Dio è vicinissimo. È così che il discorso si sposta dall’essenza ad una dimensione reale: «l’essenza di Dio, fosse verità oppure nulla, s’è dileguata nel suo agire completamente privo di essenza, totalmente reale, vicinissimo, nel suo amore»159. Inizio e fine sono immediati come lo è il centro ed in questo senso Rosenzweig afferma che «il Tutto, che un tempo si era frammentato, è di nuovo ricomposto tutto insieme»160. È chiaro che questo centro è la rivelazione divina ed il nostro accoglierla, «il nostro “è vero!”, il nostro “si” ed “amen”»161 si svela alla fine come «il cuore pulsante anche della verità eterna»162. Si crea così un legame a doppio filo che unisce la nostra verità con la verità di Dio: la verità che si origina da Dio è «l’essenza della verità in generale»163 e diventa la nostra verità una volta

156 P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, cit., p. 173. A proposito del termine “verità” è interessante

il confronto tra il significato del termine greco, Aletheia, e quello ebraico, ̓Emet: nel primo si «separa l’essenziale dal contingente, il soggetto dall’oggetto, e incontriamo comunque la verità riferita alla conoscenza. ̓Emet invece vuol dire anzitutto “fermezza”, “stabilità”, in riferimento a persona o cosa; in riferimento a parole dette o scritte significa “verità”, ma nel senso di “credibilità”, “certezza”»; mentre in riferimento a Dio è “fedeltà” (S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano, 1984, p. 23). Questa differenza in qualche modo sintetizza la differenza che pone Rosenzweig tra “Atene e Gerusalemme”.

157 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 401. 158 Ibidem. 159 Ibidem. 160 Ibidem. 161 Ivi, p. 403. 162 Ibidem. 163 Ivi, p. 404.

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pronunciato l’ «è vero!», ma essa è solo una parte della verità in generale e non potrebbe essere altrimenti. Bisogna dunque abbandonare l’idea di una verità intera e riconoscere «come verità eterna quella parte a cui ci si attiene»164. Non si tratta, chiaramente, di un trionfo del relativismo, ma del riconoscimento del valore del singolo uomo come ciò che esperisce la sua parte dell’intera verità che si origina da Dio e solo così, come abbiamo visto per il singolo uomo ebraico, tale verità investe il mondo intero, tocca l’eterno e trionfa sulla morte. Infatti «la morte aveva rinfacciato a ogni verità che essa era comunque legata ad un misero frammento di realtà e che già con questo negava la verità […]. E ora qui di fronte a lei sventola il vessillo di una verità che viene conosciuta come eterna […]; una parte dunque che invece di negare la verità intera la invera»165. L’inveramento avviene dunque attraverso la singolarità, il “qui” ed “ora”, e non attraverso un intero che ingloba i singoli. Anzi, l’intero stesso può essere contemplato solo a partire dalla parte nel momento in cui «la verità intera, proprio perché essa è intera e quindi può averne parte solo Dio, e solo per Dio può divenire una parte, l’uomo può contemplarla solo in Dio»166. Dunque mentre l’uomo la contempla Dio la esperisce direttamente: «per Dio è esperienza vissuta. “Dio è la verità” significa: egli la porta con sé, essa è parte di Lui»167.

L’uomo è creatura, egli è solo una parte e può contemplare solo una parte dell’intera verità, o, meglio, Dio ci dà quanta verità noi possiamo reggere come creature. In quanto creature «noi rimaniamo all’interno dei confini della mortalità»168, noi vogliamo restare, vivere: «l’ultimo trionfo sulla morte la vita l’aveva celebrato con quell’ “è vero!” con il quale essa convalidava/inverava la sua verità, quella che ha ricevuto e di cui è divenuta parte, come la sua partecipazione alla verità eterna. In questo “è vero!” la creatura si aggrappa alla parte che le è stata assegnata e di cui è divenuta partecipe. In questo “è vero!” essa

164 Ibidem. 165 Ivi, p. 404-405. 166 Ivi, p. 404. 167 Ivi, p. 406. 168 Ivi, p. 427.

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è creatura»169. Con l’ “è vero!” allora viene sancita l’unione tra la redenzione e la creazione: «la fine torna a reimmergersi nell’inizio»170, Dio che era divenuto manifesto torna nascosto. «Con la rivelazione anche la redenzione torna a sfociare a ritroso nella creazione»171 e dunque si ritorna alle prime parole della scrittura: «Dio creò». In esse già si cela la premonizione della fine e perciò Rosenzweig può affermare che in definitiva la verità ultima è verità creata. La verità si esprime nella figura della stella di David (Fig. C) in cui ciò che sta sopra e ciò che sta sotto non si possono scambiare. La figura è anche il Volto di Dio in cui l’uomo come vivente «non scorge altro che un volto uguale al proprio. La stella della redenzione è divenuta volto che mi guarda e da cui io guardo. Non Dio, ma la verità di Dio mi è divenuta specchio»172. Per questo motivo la verità è sigillo di Dio e dell’uomo che afferma con fiducia “è vero!” alla verità. La fiducia «è la cosa più semplice di tutte e proprio per questo la più difficile»173 da essa «crescono fede speranza e amore»174.

Nelle ultime pagine Rosenzweig mostra che l’intero percorso della Stella è un atteggiamento di fiducia che permette all’uomo di camminare in semplicità con Dio. Ma questa semplicità si traduce nella più estrema difficoltà, secondo l’espressione di Yehudah ha-Levy: «le mie parole sono troppo difficili per te, per questo ti suonano troppo facili»175. La fiducia è anche un modo con cui Rosenzweig critica ancora una volta la ricerca dell’essenza «perché ciò che è da contemplare non è la statica essenza di un Essere trascendente, ma il rimando agli “altri” volti»176. Non è l’essenza, ma la vita la conclusione ultima della Stella diametralmente opposta alla morte con cui invece il libro inizia. E appunto con la

169 Ivi, pp. 427-428. 170 Ivi, p. 428. 171 Ibidem. 172 Ivi, p. 434. 173 Ivi, p. 435. 174 Ibidem.

175 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 71. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 282. 176 P. Ricci Sindoni, Prigioniero di Dio, cit., p. 175.

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vita il libro si conclude rinviando al di là del libro stesso: la Porta «conduce dal libro al non-più-libro»177.

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