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Morte, frammenti, eccezionalità 3

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Nel seguente capitolo, l’opera di Joel-Peter Witkin verrà analizzata ad un livello di lettura più profondo: sulla base della rappresentazione di temi ricorrenti quali la morte, la fram-mentazione e i corpi “eccezionali”1.

La rappresentazione delle suddette tematiche nelle fotografie di Witkin non è univoca: cadaveri, visioni frammentarie, anomalie fisiche e comportamentali sono da intendersi come unità minime di complesse costruzioni corali, dove l’equilibrio raggiunto dai vari elementi è giocato su rapporti talvolta di stridente contrasto, talaltra di complementarità integrata. La predilezione di Witkin verso tematiche tipiche dell’estetica del brutto2 trova spiegazione nel forte autobiografismo con cui il fotografo ha caratterizzato – da sempre – buona parte della sua opera. Nel corso di molteplici interviste Witkin ha dichiarato di aver sviluppato, fin da bambino, una particolare sensibilità verso esperienze di vita defi-nibili scioccanti e certamente poco comuni.

Il primo episodio è legato alla morte della terza sorella gemella ancora durante la gravi-danza. Witkin definì quest’esperienza come la conoscenza aprioristica della morte ri-spetto alla vita3. In termini iconografici questo concetto si traduce con la presenza ricor-rente di feti morti all’interno di molte delle sue opere, come: Androgyny Breastfeeding a Fetus (1981) [fig. 1]; Counting Lesson in Purgatory (1982) [fig. 2]; Woman as the Measure of all Things (1982) [fig. 3]; Portrait of the Holocaust (1982) [fig. 4]; Woman with Appendage (1988) [fig. 5].

La rappresentazione del feto si accompagna a quella dei cadaveri, che vengono quasi sempre presentati attraverso una fotografia che da un lato opera nella direzione dello spa-zio discorsivo delle opere d’arte, dall’altro subisce l’eco delle pratiche documentaristiche medico-scientifiche del XIX secolo e della fotografia post mortem dello stesso periodo. L’interesse per la rappresentazione dei corpi privi di vita è collegabile ad un secondo fatto traumatico, il già citato episodio occorso all’età di sei anni, quando Witkin bambino fu testimone della decapitazione accidentale di una sua coetanea. L’episodio incoraggiò Witkin ad interrogarsi sulla morte e a riconoscerla come parte integrante della vita, se-condo un’idea che domina tutta la sua produzione artistica, che, sebbene caratterizzata da

1 Si chiarirà più avanti il significato del termine “eccezionale”.

2 Vedi Rosenkranz, Johann Karl Friedrich, Estetica del brutto, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2004 [ed.

orig.: Ästhetik des Häßlichen, Königsberg, Bornträger,1853].

3 Fonte: Joel-Peter Witkin: An Objective Eye, Dir. Thomas Anthony Marino, Perf. Joel-Peter Witkin,

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accostamenti visivi antitetici, è lontana da una concezione dualistica della realtà. In Witkin la concezione aristotelica e modernista di unità viene decostruita, in favore di una visione dov’è possibile riscontrare la coesistenza degli opposti. È venendo incontro a que-sta logica che si compie il gioco forza visivo tra repulsione e attrazione, bello e brutto, vivo e morto, ciò che segue la norma costituita e ciò che la sfugge, carnalità e spiritualità, edonismo e masochismo ascetico.

Altro elemento autobiografico significativo è la figura della nonna disabile4, con cui Witkin trascorse gran parte della sua infanzia. L’esperienza segnò profondamente il foto-grafo, lasciando in lui una spiccata sensibilità sulla tema della disabilità. È con questa testimonianza diretta e tratta dai ricordi d’infanzia, che Witkin fornisce un ulteriore stru-mento d’analisi della sua opera: «Mia nonna aveva una gamba sola. Al mattino, appena sveglio, io sentivo l’odore della sua gamba incancrenita. Mentre la maggior parte dei bambini si sveglia sentendo il profumo del caffè, io mi svegliavo sentendo quell’odore acre provenire dalla gamba di mia nonna. Avendo vissuto personalmente l’esperienza di un familiare che ha subito una sfida fisica così importante, ho avuto la possibilità di sta-bilire una connessione più diretta e sublime tra il ruolo sociale che queste persone hanno nel mondo e il loro universo interiore»5.

Come si vedrà più avanti, Witkin non affronta il tema della disabilità sotto la prospettiva della denuncia sociale: nella sua opera il corpo disabile viene onorato come simbolo di bellezza, di pura espressione divina. Lo sguardo che Witkin riserva ai disabili è di pro-fonda ammirazione, tanto da trasformarli in “feticcio”.

4 Vedi capitolo 1.

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3.1 La morte

Fin dalle sue origini, la tecnica fotografica è stata legata al tema della morte, soprattutto da un punto di vista teorico e letterario. Propongo, di seguito, una riflessione sui momenti della teoria della fotografia che ritengo significativi per comprendere lo sviluppo del tema della morte nell’opera artistica di Joel-Peter Witkin.

3.1.1 La fotografia come rappresentazione della morte

Nel 1978 l’intellettuale statunitense Susan Sontag scrisse: «Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo»6. La riflessione di Sontag dà voce a una tradizione appercettiva del legame tra realtà, morte e rappresentazione fotografica vista come registrazione spettrale della vita. Già gli scritti del 1931 di Walter Benjamin attribuirono alla prima fotografia la capacità di «dare ai suoi prodotti un valore magico […] il qui e ora con cui la realtà ha per così dire infiammato il carattere dell’immagine; il bisogno di trovare il luogo quasi invisibile dove, nell’apparizione di quell’attimo ormai lontano, si annida ancora oggi il futuro, e in modo talmente eloquente che noi, guardando indietro, siamo in grado di scoprirlo»7. Se-condo Benjamin la fotografia degli esordi trova un punto di contatto con il tema della morte non soltanto in funzione della sua presenza in luoghi del ricordo (come cimiteri o vecchi album di famiglia), ma soprattutto a partire dal concetto di “aura”, ovvero la per-cezione dell’oggetto d’arte come lontano, irripetibile e unico.

A questa posizione si affianca quella opposta sulla fotografia, come processo di riprodu-cibilità tecnica che permette di avvicinare le cose alle masse, partecipando al passaggio dal “valore cultuale” al “valore di esponibilità”, ovvero il parametro di diffusione dell’opera d’arte con la conseguente perdita dell’aura. La posizione teorica di Benjamin

6 Sontag, Susan, Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi, 1978 [ed. orig.:

On Photography, London, Penguin Books, 1977], p. 15.

7Benjamin, Walter, Piccola storia della Fotografia, Milano, Skira Editore, 2014 [ed. orig. Kleine

Ges-chichte der Photographie, Die Literarische Welt, a. VII, n. 38, September 18 1931, pp. 3-4; n. 39,

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si ripete in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1935), dove, ap-profondendo il concetto di “valore di esponibilità della fotografia”, Benjamin fa riferi-mento all’idea di “aura”: «Nel culto del ricordo dei cari lontani o defunti il valore cultuale dell’immagine trova il suo ultimo rifugio nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura»8.

Nel celebre saggio La camera chiara, il critico francese Roland Barthes sottolineò più di chiunque altro la vicinanza dei due argomenti, soffermandosi su quella «cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto»9. È infatti grazie alla sua ca-pacità di immortalare una condizione fisica momentanea rendendola visivamente fruibile per tutto il tempo di durata del supporto fotografico, che il momento reale può essere mostrato come già trascorso, eppure fruibile da chiunque.

Dal legame con la spettacolarizzazione della “morte” che Barthes definisce «smania di rendere vivo»10 un momento vissuto, deriva la riflessione sul processo logico che,

se-condo il critico francese, avvicinerebbe la fotografia all’arte, mediante il teatro: «non è attraverso la Pittura che la Fotografia perviene all’Arte, bensì attraverso il Teatro […] se la Fotografia mi pare più vicina al Teatro è attraverso un singolare relais […]: la Morte. Sappiamo qual è il rapporto originale che lega il Teatro al culto dei Morti: i primi attori si distaccavano dalla comunità interpretando la parte dei Morti: truccarsi significava de-signarsi come un corpo vivo e morto al tempo stesso […] per quanto viva ci si sforzi d’immaginarla […] la Foto[grafia] è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti»11. Su un piano puramente teorico, è possibile leggere le immagini di Witkin alla luce di queste riflessioni. Inoltre, affidando alla fotografia il compito di divenire espressione della sua interiorità artistica, il fotografo statunitense opera una scelta non casuale. Seguendo questa logica esistenziale, Witkin stabilisce un parallelo tra il processo vita-morte e quello fotografico, che permette di immortalare, quindi fermare il divenire del reale: non soltanto dal punto di vista tecnico-teorico, ma anche sul piano dei contenuti, che nel caso specifico del fotografo statunitense toccano tematiche legate al rapporto tra

8 Ivi, p. 15.

9 Barthes, Roland, La camera chiara. Note sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980 [ed. orig.: La chambre

claire: Note sur la photographie, Paris, Seuil, 1980], p. 11.

10 Ivi, p. 33. 11 Ivi, p. 32-33.

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la morte e la vita. È il caso, ad esempio, delle nature morte, di cui si parlerà più avanti. In Witkin il momento trascorso, quindi “morto”, si traduce in nascita e immanenza della traccia fotografica: «Non faccio il mio lavoro per creare disagio […] Fotografo la morte perché è parte della vita! Guardo alla morte perché penso che vivere su questa terra, su questa superficie, è una parte dell’esistenza e la morte è l’altra parte, e noi impariamo costantemente da questo processo»12. In Witkin la creazione dell’opera si compone di una prima fase, dove attraverso la tecnica del disegno il fotografo ordina le sue visioni defi-nendone la composizione finale, e di una seconda fase, dove ha luogo il momento foto-grafico, che consegna all’“eternità” le sue visioni crude e grottesche. Witkin dice che la sua «arte è un lavoro sacro, dal momento che ciò che faccio è il mio modo di pregare»13. La camera oscura diviene quasi un santuario, dove pregare coincide con la creazione dell’immagine, in profonda solitudine: «Durante la fase dello sviluppo lavoro da solo: inizio prendendo confidenza con gli strumenti e le sostanze chimiche, metto un negativo nell’ingranditore e la camera oscura si trasforma in una specie di santuario, un rifugio dove hanno luogo fenomeni magici. Dopo aver portato l’immagine del negativo alla di-mensione desiderata e averla messa a fuoco, vaporizzo una soluzione di acqua e agenti chimici sulla lastra di vetro o sulla carta trasparente che ricopre l’ingranditore. Questo passaggio del processo ha luogo nell’oscurità.

Nel momento dell’esposizione, esercito pressione sul foglio trasparente e a volte lo lacero, per fondere meglio le tonalità e gli spazi dell’immagine. Dopo l’esposizione, l’ingrandi-mento viene immerso in un bagno di prodotti chimici necessari per lo sviluppo dell’im-magine e per poterla guardare alla luce del giorno. Durante questa fase modifico l’imma-gine attraverso dei segni sul negativo, l’esposizione, la diffusione della luce o ulteriori trattamenti chimici sulla carta […] La fase finale è la stampa: un’immagine virata e sta-bilizzata, che è possibile riprodurre e dove la forma e il contesto intorno al soggetto tra-scendono verso una rappresentazione idealizzata che coinvolge emozioni contrastanti in chi la guarda. A questo punto spero non soltanto di mostrare la follia delle nostre vite, ma

12 A Darker Light, Joel-Peter Witkin interviewed by Andres Serrano, in Blind Spot, n.2, New York, 1993,

p. 65.

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anche che quest’opera sia guardata come una prospettiva sulla storia di un’epoca dispe-rata»14.

Un esempio concreto può essere fornito dall’analisi dell’opera Glassman (1995) [fig. 6], che ritrae il cadavere di un uomo seduto su una struttura in metallo che lo sorregge. Una lunga cicatrice corre lungo il torace dell’uomo, di cui ignoriamo l’identità, rivelando i segni dell’autopsia. Lo sguardo fisso rivolto verso l’infinito conserva il ricordo di una vitalità ormai svanita, cedendo il passo alla morte. Come osserva la studiosa Erika D’Amico: «L’immagine di Glassman riesce in una operazione ai limiti del paradosso: rendere presente la morte. Di fatto quando la morte sopraggiunge noi siamo assenti nell’immediato istante in cui essa invece è presente, nel corpo non v’è coscienza di questa presenza»15. Secondo la studiosa, il titolo dell’opera contribuisce ad avvalorarne la chiave di lettura: “glassman”, che letteralmente vuol dire “vetraio”, oltre ad essere un’indica-zione autobiografica (il padre di Witkin era vetraio di professione), rimanda al campo semantico di “glass” (vetro) e di “to glass” (specchiare). Inoltre in francese “glas” vuol dire “rintocco funebre”. Glassman descriverebbe quindi la condizione di un vetraio «in-trappolato […] tra lo strato di vetro e la lamina di metallo che comunemente compongono lo specchio, ha il compito dell’opera da museo, è un corpo in una teca che “mostra” la morte, e ne serba il ricordo. L’obbiettivo lo “immortala” e il vetro lo riflette e lo pone in una bacheca che offre allo spettatore il disgusto narcisistico di una fusione con lo spec-chio»16. Secondo D’Amico Glassman risulterebbe quindi intrappolato in senso stretto e figurato: sul piano nominale, su quello del contenuto e su quello materiale, attraverso l’utilizzo del supporto fotografico incorniciato (bacheca) che lo imprigiona rendendolo inerme agli occhi dello spettatore, che non può fare a meno di provare un profondo senso di disgusto e rigetto davanti all’immagine. Rimane oscura l’interpretazione dell’aspetto narcisistico, che non può certamente essere preso in considerazione soltanto in funzione dell’iconologia dello “specchio”.

Altro esempio del coinvolgimento tra processo fotografico e morte, è il trittico Portraits from the Afterworld: Countess Daru, Monsieur David, Madame David (1994) [fig. 7].

14 Witkin, Joel-Peter, Eugenia Parry, Joel Peter Witkin. Photographies de Joel-Peter Witkin, Paris, Delpire

Editeur, 2012, p. 183, [t.d.r.].

15 D’Amico, Erika, Corpografie. Urti di senso tra Witkin, Mapplethorpe e Serrano, Milano, Costlan Editori,

2006, p. 23.

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L’opera consiste in tre d’après che Witkin realizzò guardando a tre ritratti realizzati da Jacques-Louis David: Portrait of Countess Daru (1810) [fig. 8]; Self Portrait (1794) [fig. 9] e Portrait of Madame David (1813) [fig. 10].

Le tre opere di Witkin sembrano mostrare gli effetti del tempo sui corpi dei soggetti di David. È come se la fotografia riuscisse non soltanto a mostrarci una persona morta, ma anche a svelarcene il processo di deperimento: attraverso la putrefazione del corpo umano. La visione del trittico witkiniano potrebbe richiamare alla mente l’opera di Oscar Wilde The Picture of Dorian Gray: il ritratto che mostra i segni del tempo in maniera irreversibile. Witkin sovverte la logica decadente, consegnando i suoi personaggi all’eter-nità attraverso la “morte” fotografica.

La Countess Daru witkiniana dialoga con il suo prototipo ottocentesco attraverso ogni dettaglio: nella posa, nel costume, nei gioielli e perfino nel decoro del pomello della sedia a forma di sfinge, che, come osserva il critico Germano Celant, al pari dell’angelo: «è una figura doppia o quanto meno ambivalente, è esperienza tipica della leggenda religiosa o del mito arcaico. È eterna bellezza, prodigio ed eroe, innocenza e purezza, ma anche [la-trice] di messaggi e di novelle […] è mediatore tra universi opposti, vive una situazione bipolare tra umano e animale, quanto tra umano e divino»17.

Analogamente, la Madame David di Witkin [fig. 11] si pone in relazione con quella di David, eccetto che per l’inquadratura, che si allarga fino ad una figura quasi completa: la stessa riservata al ritratto di Monsieur David, che in Witkin si distacca completamente dalla fonte originaria. L’autoritratto di David infatti viene spogliato di ogni altro attributo: sarebbe impossibile individuarne la relazione se non fosse per il titolo e per la tavolozza di colori che il pittore tiene in mano in onore alla sua arte, che potremmo definire eterna, a tal punto da risultare l’unica cosa che la fotografia registra come immutata davanti all’azione erosiva del tempo e della morte.

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3.1.2 La morte come (s)oggetto fotografico

Dal punto di vista contenutistico, Witkin ci mostra la morte attraverso la rappre-sentazione di cadaveri, frammenti anatomici e simboli iconografici mutuati dalla tradi-zione storico-artistica del passato, soprattutto del XVII secolo. Witkin fa sì che la morte entri nella dimensione diegetica del fotografico, divenendone al tempo stesso oggetto e soggetto.

Nel corso di questa seconda analisi è possibile cogliere dei riferimenti alla pratica fotografica dei pionieri della fotografia18 in voga tra la fine del XIX e gli inizi del XX

secolo, ossia la ritrattistica post-mortem. Le origini di questo genere fotografico sono da far risalire a Parigi, insieme ai primi dagherrotipi. I cadaveri dei defunti venivano foto-grafati in atteggiamenti della quotidianità, per perpetuarne il ricordo. A causa dell’alta mortalità neonatale e infantile dell’epoca, le fotografie post-mortem rappresentavano l’unica immagine che i genitori potevano avere dei loro figli. Il fotografo era solito aprire gli occhi dei piccoli cadaveri, lavarne il corpo, truccarne il viso e attendere almeno 7-8 ore dal decesso per favorirne l’inserimento in un contesto scenografico arricchito da ele-menti ricorrenti anche nelle immagini di Witkin: tende, decorazioni floreali, oggetti d’uso quotidiano e anime in ferro per facilitarne una posa naturale sostenendone il peso. I ritratti potevano essere singoli o di famiglia ed erano quasi sempre curati nello schema compo-sitivo finale, nelle pose e nelle espressioni.

Nell’opera di Joel-Peter Witkin, la vicinanza alle fotografie post-mortem di epoca vittoriana si evince dalla scelta delle pose e dagli espedienti utilizzati per interagire con la rigidità dei cadaveri che il fotografo recupera dalle morgues, soprattutto quelle messi-cane, dove la legislazione sul trattamento dei corpi di defunti non identificati, non segue rigidi protocolli. Le immagini che Witkin realizza con soggetti riferibili alla morte sono ritratti, nature morte e crocifissioni, tuttavia è possibile trovare qualche riferimento alla morte anche all’interno di composizioni corali, come nel caso dei retablos.

Una delle opere più note e controverse nella produzione del fotografo statunitense è The Kiss (1984) [fig. 12], la prima opera veramente nota del fotografo, quella che, in

18 La prima fotografia della storia del medium che ritrae un uomo morto è in realtà un falso fotografico e

risale al 1840, quando Hippolyte Bayard, inventore della tecnica di stampa fotografica positiva diretta, si auto-immortalò nei panni di un uomo annegato, con l’intento di mostrare il suo dissenso rispetto al mancato riconoscimento del ruolo da lui ricoperto nell’invenzione fotografica.

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seguito alle denunce del senatore Helms, assicurò a Witkin una grande visibilità media-tica.

Nel 1982 Witkin ottenne il permesso dalla Medical School of New Mexico di fotografare alcune parti di cadaveri riservate agli studi anatomici. Il fotografo fu colpito dalla testa mozzata di un uomo, che era stata tagliata longitudinalmente in due parti quasi simmetriche19. Dovendo rispettare il limite del prestito di ventiquattro ore, Witkin ne im-piegò ben dodici per ottenere lo scatto finale. Dopo aver scartato la testa dall’involucro di formaldeide che la ricopriva, provò ad avvicinare le due metà. Le labbra si unirono in un bacio e il fotografo pensò: «Ecco la soluzione più elegante a questo problema!»20.

In The Kiss amore e morte si incontrano in un’immagine tanto intensa da far pas-sare in secondo piano i dettagli anatomici dei tessuti, i nervi e i vasi sanguigni, portando in primo piano l’eco visivo del bacio iconico che si scambiarono Erich Honecker e Leonid Brezenev – ex leader comunisti della Germania Est e dell'Unione Sovietica – per la cele-brazione dei vent’anni dalla caduta della cortina di ferro. La fotografia che documenta il gesto fu scattata nel 1979 dal fotografo francese Regis Bossu [fig. 13] e servì successiva-mente come riferimento per l’opera [fig. 14] che l'artista russo Dimitri Vrubel realizzò in seguito alla caduta del Muro di Berlino, sul lato est, accompagnando l’immagine dalla didascalia scritta in cirillico e in tedesco: “СРЕДИ ЭТОЙ СМЕРТНОЙ ЛЮбВИ” / “MEIN GOTT HILF MIR DIESE TÖDLICHE LIEBE ZU ÜBERLEBEN” (“Dio mio, aiutami a sopravvivere a questo amore mortale”). Il bacio fraterno socialista che consiste tradizionalmente in un abbraccio e un bacio reciproco sulle guance o sulla bocca, deriva dai rituali della Chiesa Ortodossa, con cui Witkin era in contatto fin da bambino. Nello specifico, quello tra Honecker e Brezenev fu un bacio simbolico, che venne assunto come una delle immagini più note sul periodo della Guerra Fredda: un bacio che sigillava ac-cordi politici stretti in tempi di grande incertezza.

19 Nel corso di alcune interviste, Witkin chiarisce che non fu lui a sezionare la testa. Stando alle sue

dichia-razioni, il fotografo non apporta mai interventi invasivi sui cadaveri umani che inserisce nell’allestimento dei suoi tableaux fotografici: la sua azione si limita alla messa in posa fotografica [fonte: Joel-Peter Witkin:

An Objective Eye, Dir. Thomas Anthony Marino, Perf. Joel-Peter Witkin, Eugenia Parry, Baudoin Lebon,

Scalped Productions, 2013, Docu-film].

20 Joel-Peter Witkin: An Objective Eye, Dir. Thomas Anthony Marino, Perf. Joel-Peter Witkin, Eugenia

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Durante il periodo della realizzazione di The Kiss, Witkin aveva trovato altro ma-teriale per le sue serie fotografiche nei depositi del dipartimento di medicina della Univer-sity of New Mexico: resti di braccia, gambe, feti umani, etc. Le concessioni per l’utilizzo del materiale cessarono un sabato, quando, nel bel mezzo del turno di servizio21, Witkin ricevette una telefonata dal dipartimento universitario: erano stati trovati alcuni feti umani all’interno della camera oscura che l’università gli aveva messo a disposizione. Il foto-grafo venne intimato a consegnare il lavoro fatto; inoltre, per evitare il licenziamento del professore che aveva autorizzato il progetto e la revoca dei fondi per la borsa di studio, fu costretto a consegnare i negativi di The Kiss, che andarono distrutti. La prima e unica edizione dell’opera consiste in quindici stampe fotografiche: ad oggi non esistono altre stampe – in formato originale – dell’opera.

Insieme ai negativi di The Kiss, Witkin ne consegnò altri, di nature morte realiz-zate con i resti umani e animali che il dipartimento di medicina gli aveva messo a dispo-sizione. Dai primi anni Ottanta, fino alla prima metà della decade la produzione di Witkin è infatti costellata di opere estreme, con soggetti che sembrano provenire da una dimen-sione infernale e costruzioni visive tormentate e inquietanti, dove al tema della morte può essere accompagnato da quello della perversione sessuale: è il caso di opere come Mother and Child (1979) [fig. 15]; Sanders Wife (1981) [fig. 16]; Eunuch (1983) [fig. 17] e Au-toerotic Death (1984) [fig. 18].

Accanto a questo genere di produzione, il tema della morte trovò spazio in una poetica meno estrema, dove risulta evidente la ricerca di un equilibrio tra morte e bellezza. Gli still life fotografici di questo periodo sono un omaggio all’arte dei grandi pittori del passato. Harvest (1984) [fig. 19] appare come il riflesso fotografico dell’universo visivo manieristico di Giuseppe Arcimboldo, dove gli elementi vegetali danno vita a bizzarre teste antropomorfe. Harvest è molto vicina alla composizione dell’Estate (1563) [fig. 20]: la ricorda nella tipologia di elementi vegetali scelti, nella loro composizione, perfino nel dettaglio del carciofo in basso a destra. Witkin non limita la composizione all’inserimento di vegetali, ma li accosta ad un elemento organico di forte impatto emotivo e concettuale: la testa di un uomo morto dall’identità ignota e quindi universalmente riconoscibile come

21 Al tempo Witkin aveva 41 anni. Frequentava il corso di fotografia della University of New Mexico di

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allegoria di un “memento mori postmoderno”, dove la morte non è intesa come fine as-soluta di tutte le cose, ma, in linea col principio ciclico delle stagioni, rappresenta una fase della vita.

A proposito delle nature morte in Witkin, Germano Celant osserva: «Ritraendo le spoglie mortali dell’essere umano in forma di natura morta, l’artista non vuole rinunciare al corpo e alla carne, ma non vuole che esse siano percepite secondo moti convulsi e irragionevoli. Componendole come vasi di fiori o come decorazioni naturali ne sovverte la relazione macabra, aspira a sublimarle, a farle uscire dalla loro condizione vile e de-forme per designare una natura vivente che rimane trasposizione allegorica del memento mori […] ma è pure figurazione tragica, meditazione sulla realtà della vita […] è un’im-magine allegorica della vita, della sofferenza e della redenzione»22.

Altro lavoro legato al periodo è The Result of War: The Cornucopian Dog (1984) [fig. 21]. Lo schema compositivo dell’opera è molto semplice: dalla pancia aperta del cadavere di un cane fuoriesce una varietà di frutta e ortaggi. Già dal titolo è evidente il richiamo alla cornucopia classica, simbolo molto utilizzato nella storia dell’arte per rap-presentare l’abbondanza e la fertilità ma Witkin sostituisce il corno classico con il cada-vere di un cane, implicando nuovi significati. Come deduciamo dal titolo, il cane, simbolo di amicizia e fedeltà, è morto a causa della guerra. I suoi occhi però rivelano un’espres-sione vitale: chiusi in una fessura che esprime indignazione.

L’opera rientra tra quelle realizzate durante la prima metà degli anni Ottanta, at-tingendo dalla scuola di medicina della University of New Mexico. Le restrizioni ottenute in seguito, offesero profondamente Witkin: come uomo e come fotografo. Il suo lavoro era stato frainteso, la sua ricerca artistica confusa con perversione e ritenuta disonesta. Dopo un primo periodo di disorientamento nel quale l’artista si allontanò dal tema della morte, seguì un cambiamento: dai primi anni Novanta Witkin iniziò a cercare i suoi ca-daveri a Città del Messico, dove fu più semplice ottenere i permessi per accedere all’obi-torio e ottenere in prestito cadaveri e resti umani.

Lo spartiacque tra le due fasi della produzione artistica fu contraddistinto dalla realizza-zione di opere come il trittico Agonistes of the Eternal Wait (1990) [fig. 22], Feast of Fools (1990) [fig. 23]; Queer Saint (1991) [fig. 25] e Still Life (1984) [fig. 26], che fu

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realizzato in Messico e raffigura una natura morta composta da pochi, essenziali elementi: un pesce morto, un grappolo d’uva nera, una forma di pane, una pesca e infine il fram-mento della gamba sinistra di una donna che era stata vittima di un incidente con un au-tobus. Il fotografo fu affascinato dall’idea che, mentre la donna continuava a vivere da qualche altra parte nel mondo, la sua gamba fosse rimasta lì, come tragico testimone di un incidente tra centinaia che succedono ogni giorno in Messico tra l’indifferenza della gente.23 L’intenzione di Witkin fu da subito chiara: aveva necessità di rendere straordina-ria una cosa ordinastraordina-ria, di restituire la dignità a quella gamba deturpata, onorandone la bellezza.

La realizzazione dell’opera fu un’esperienza molto forte dal punto di vista sensoriale, a partire dall’acre odore che emanava dal frammento di gamba, che Witkin recuperò nel magazzino di un obitorio gestito da un medico messicano che aveva disposto vari resti umani in un cassetto pieno di pus e di liquidi del processo di putrefazione: «Quando tenni per la prima volta in mano la gamba capii che si trattava di ciò che per lei [la donna che aveva perso la gamba durante un incidente] era la distanza tra sé e la terra. L’idea di mettere degli oggetti su uno sfondo bianco, distinguendoli dal buio, aveva fatto venir notte prima che fossi in grado di scattare la foto. Andai in un piccolo ristorante tedesco vicino al mio albergo. Dopo aver ordinato, misi in grembo il tovagliolo bianco, eccezio-nalmente pesante e capii che il bianco del tessuto sarebbe stato lo sfondo della scenografia […]. Presi un taxi per il mercato per comprare tutto ciò che serviva per una Vanitas che sapevo sarebbe stata la celebrazione allegorica della bellezza, la perdita della sua [della donna] e il mio ritrovamento di essa»24.

Da un punto di vista stilistico, la natura morta di Witkin potrebbe essere avvicinata ad alcune del pittore spagnolo Francisco de Zurbarán, noto per le sue rappresentazioni reli-giose e autore prolifico di nature morte come Naturaleza muerta con limones, naranjas y una rosa (1633) [fig. 27]. La tecnica di chiaroscuro di Zurbarán, caratterizzata da una definizione netta dei volumi sembra rivivere nell’opera di Witkin, donando equilibrio compositivo ed eleganza agli elementi interni, una visione chiara e cristallina e i volumi ben definiti nel loro spazio.

23 Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=TAIX4P2b06g ,accesso del 17/1/2016.

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Il genere ritrattistico è un altro espediente attraverso cui Witkin rappresenta la morte: i soggetti di alcune opere sono cadaveri disposti in posizione orizzontale. L’allusione più immediata è quella dell’obitorio, dove il cadavere viene sottoposto all’indagine autoptica; allo stesso modo Witkin ci invita ad assumere il punto di vista del medico e posare lo sguardo sull’evidenza della morte, intrecciando ancora una volta la storia della ritrattistica fotografica funeraria con quella della medicina forense, che fin dalla fine del XIX secolo approfittò delle potenzialità dello strumento fotografico per immortalare i decessi, corre-dando di immagini le casistiche di studio.

Il rapporto pubblicato nel 1870 dal dottor Maxime Vernois sul Bulletin de la Société de Médecine Légale de Paris segnò l’inizio di un grande interesse europeo sull’argomento, soprattutto in seguito alla teoria esposta l’anno precedente dal dottor Bourion25. Per tutto

il XIX secolo il confronto sensoriale con i cadaveri venne accettato come parte naturale dell’esistenza. Erano molte le occasioni dedicate alla loro cura e osservazione: dalla pre-parazione casalinga delle salme all’esperienza più diretta nelle camere mortuarie. In epoca contemporanea la camera della morte è stata lo scenario di partenza per Andres Serrano, che nel 1992 realizzò la serie Morgue: una raccolta di fotografie dove sono rap-presentati primi piani o dettagli di cadaveri e i titoli delle immagini riportano la causa del decesso. Serrano non conferisce al tema della morte alcun valore simbolico: si limita a riportare in maniera quasi scientifica la condizione dei cadaveri che appaiono come ad-dormentati, ritratti attraverso una luce piatta e omogenea che ci riconduce all’atmosfera scientifica della sala operatoria. Opere come Infectious Pneumonia (1992) [fig. 28], Rat Poison Suicide (1992) [fig. 29] e Blood transfusion resulting in AIDS (1992) [fig. 30] sono molto lontane da Witkin, che non richiama la morte soltanto didascalicamente (come fa Serrano), ma la significa attraverso la costruzione di scene rumorose e piene di contrasti visivi, facendo ampio uso della simulazione: i suoi cadaveri assumono un valore allego-rico come nel caso di Cadaver with Necklace (1980) [fig 31]; Dubuffet (1981) [fig. 32]; 26 Year Old O.D. (1982) [fig. 33]; Corpus Medius (2000) [fig. 34] e Myself as a Dead Clown (2007) [fig. 35], opera dove l’artista si “autoimmortala” nei panni di un cadavere in avanzato stato di decomposizione e che, nonostante tutto, riesce ancora ad esibire un inquietante sorriso. La parte superiore della testa è coperta da un buffo copricapo con due

25 Nel 1869 il Dottor Bourion sostenne una tesi secondo cui l’immagine dell’assassino potesse essere

regi-strata dalla retina della vittima in un’immagine permanente per qualche ora, similmente che nel processo fotografico.

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protuberanze arrotondate e dall’aspetto metallico (realizzate in carta d’alluminio), quasi a voler evidenziare ancora una volta la possibilità di ibridazione tra organico e inorganico. Gli occhi e il naso sono coperti da una fasciatura che nella forma ricorda le maschere dei medici della peste durante il XVII secolo [fig. 36]. L’elemento è riscontrabile in altre opere di Witkin, come in Woman Breastfeeding an Eel (1979) [fig. 37], dove una donna di profilo e con i seni scoperti e ritratta mentre allatta un’anguilla, suggerendo un proba-bile debito nei confronti della Cleopatra di Piero di Cosimo, che nel Ritratto di Simonetta Vespucci come Cleopatra (1480) [fig. 38], rappresenta Simonetta Vespucci nelle vesti della regina egizia, a seni scoperti e con un aspide intorno al collo.

3.1.3 Memento mori: una ricerca iconologica diacronica

Nei tableaux che Witkin dedica al tema della morte è possibile individuare alcuni ele-menti iconografici che l’artista mutua dalla tradizione visiva barocca, arricchendoli in virtù degli stessi principi che stanno alla base del processo citazionistico visivo di cui si è parlato nel corso del precedente capitolo.

Un primo elemento iconografico ricorrente è il teschio che, unitamente allo scheletro, indirizza la lettura di alcune opere verso un’innegabile memento mori. Nel periodo della Controriforma, il teschio rappresentò uno dei simboli più diffusi per la rappresentazione allegorica della morte, soprattutto nei generi della natura morta e della ritrattistica. È da qui che Witkin trae quest’elemento: come forma semplice o nella variante articolata dello scheletro.

In Poet: From a Collection of Relics and Ornaments (1986) [fig. 39] la natura morta è composta da tre resti umani: un avambraccio, la parte finale di una gamba e due parti di un teschio smembrato. La seconda parte del titolo rimanda all’universo del culto cattolico e di quello ortodosso, dove le reliquie rappresentano gli ultimi frammenti di una persona morta venerata. Il loro culto fu contrastato in epoca post tridentina, ma è tradizionalmente legato ad una sorta di intermediazione tra il mondo reale e quello spirituale. I resti umani di cui Witkin fece uso per la creazione della sua opera appartengono a persone non iden-tificate: potrebbero essere “le ossa e la carne” – parafrasando la terminologia legata al culto delle reliquie, ex ossibus e ex carne – di ognuno di noi; assumendo un valore uni-versale, l’uso dei resti umani in Witkin suggerisce che non è più possibile intendere il

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termine “relics” (“reliquie”) in senso proprio, ma è possibile assumerne un senso lato: la natura umana delle reliquie ci ricorda che apparterranno a ciascuno di noi.

Sul finire degli anni Ottanta, Witkin realizza Teatro di Morte (1989) [fig. 40], un esempio di natura morta dove un teschio dialoga con altri elementi tipici del memento mori dell’estetica witkiniana: il feto e la testa decapitata. La scena è incorniciata da alcuni segni chiari, ottenuti dall’uso degli acidi sulla pellicola e da un sipario sulla sinistra, altro sim-bolo ricorrente nella poetica del fotografo americano, funzionale all’intento di inscrivere la morte dentro una dimensione “spettacolare”26.

Come già visto, il feto e la testa (umana o animale) decapitata sono espressioni autobio-grafiche che costituiscono alcuni leitmotiv iconici non necessariamente legati alla rappre-sentazione della morte in senso stretto. È il caso di Queer Saint (1991) [fig. 25], opera che fa parte della serie Love & Redempition e per la cui realizzazione Witkin utilizzò due dei suoi simboli di morte: la testa decapitata e lo scheletro. L’iconografia di riferimento è quella di San Sebastiano trafitto dalle frecce, ma, come osserva D’Amico: «Witkin lo estranea dalla santità, ne fa una figura del caos: un freak»27. Come si evince dal titolo, infatti, ci troviamo davanti alla rappresentazione di uno “strano santo”, laddove il termine “queer” implica una serie di significati legati a diversi contesti socio-culturali e politici: con riferimento alla cultura inglese e americana, il termine, ebbe larga diffusione a partire dagli anni Sessanta in Inghilterra, dove veniva utilizzato con connotazione dispregiativa nei confronti degli omosessuali, mentre durante gli anni Novanta entrò a far parte del linguaggio comune col significato di “strano”, “bizzarro”. È durante questi anni che la filosofa post-strutturalista Judith Butler scrive: «Queer trae la sua forza proprio dall’in-vocazione reiterata che lo avvicina alle espressioni di accusa, patologia o insulto. Si tratta di un appellativo attorno al quale, nel tempo, le comunità omofoniche hanno stretto il loro patto sociale»28.

In tal senso è possibile un’interpretazione del termine “queer” nel campo della contesta-zione politica, con riferimento allo studio «del potere deformante ed espropriante che il termine attualmente possiede»29. In altre parole, con l’uso del termine si fa riferimento

26 Questo aspetto verrà trattato più avanti. 27 D’amico, Erika, Corpografie…, p. 38.

28 Butler, Judith, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Milano, Feltrinelli, 1996 [ed. orig.:

Bodies that matter. On the discursive limits of “sex”, New York, Routledge, 1993], p.68.

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alla messa in discussione delle categorie dell’identità che non bastano a fornire una defi-nizione del soggetto. Osserva D’Amico: «Così come San Sebastiano è il luogo di conver-genza di relazioni di potere non univoche (da un lato la fede cristiana dall’altro la devo-zione all’impero romano, ai pretoriani), il queer è l’affermadevo-zione che l’identità è un er-rore»30, poiché, come afferma Butler: «non c’è nessun soggetto identico a se stesso che ospiti o sostenga queste relazioni, non c’è un luogo in cui tali relazioni convergono (…) sarà, dunque, necessario affermare la contingenza del termine: lasciarlo distruggere da coloro che ne sono esclusi»31.

Queer Saint potrebbe essere letta come la rappresentazione degli opposti dentro un unico sistema di riferimento. L’iconografia della santità del martirio di San Sebastiano – e quindi della morte – si lega alla rappresentazione del profano e dell’abietto. Il capo rivolto in alto a sinistra porta una corona d’alloro: simbolo duplice dei cesari e del senato ro-mano32 e di Apollo, dio profano legato alla poesia. La benda sugli occhi mostra

l’impos-sibilità di volgere lo sguardo verso alcuna parte, tantomeno a Dio, poiché il santo è già morto e non nutre sentimenti di umanità e di pietà. La cravatta sullo sterno emerge come simbolo dissonante, con un probabile valore di distinzione – e definizione – sociale. La sua verticalità conduce lo sguardo verso il pene, che emerge tra le ossa del bacino come appendice morta, privo di qualsiasi funzione riproduttiva, eppure presente. Le mani del santo, tradizionalmente legate, sono qui intente a tirar fuori dall’addome l’intestino, co-stituito da una corda e una catena a contatto con la terra: insieme simbolo della tortura e della cloaca, come destinazione finale del corpo.

I fiori, gli elementi vegetali e la frutta, costituiscono un altro elemento della vanitas sei-centesca, in quanto simboli della caducità della vita. Witkin li integra quasi sempre nella composizione delle nature morte, accanto a cadaveri e frammenti di corpi umani e ani-mali, come nel caso di Feast of Fools (1990) [fig. 23], opera ispirata allo Still Life with Fruit and Lobster (1648-49) [fig. 24] del pittore olandese Jan de Heem. Racconta Witkin: «Nel 1990 mi trovavo in un ospedale di medicina legale del New Mexico. Un medico mi condusse nei sotterranei e aprì i cassetti per mostrarmi dei corpi. Ora, io sono stato in molti ospedali e ho visto molti cadaveri; la maggior parte dei cadaveri è poco interessante perché così come le persone sono noiose in vita, altrettanto lo sono da morti (ride). Il

30 D’Amico, Erika, Corpografie…, p. 40. 31 Butler, Judith, Corpi che contano…, p. 172.

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dottore, un piccolo uomo messicano, aprì per sbaglio un altro cassetto in cui c’erano parti di corpi, braccia, gambe, orecchie, che si mescolavano a parti di bambini, inimmaginabile l’effetto di questa brodaglia umana di pus e materia in decomposizione. Dissi a me stesso che ero lì per quello. Non riuscivo a guardare, era come guardare l’inferno! Allo stesso tempo mi chiesi se era davvero quella la strada per fare il mio lavoro, se era quello il modo per dar da mangiare alla mia famiglia. Ma ero molto eccitato, sapendo di poter trovare la bellezza nelle cose più vili e brutte. Fu realmente una sfida per me aver assistito a quello spettacolo… Tornai il giorno dopo sapendo di poter fare una foto e la foto fu The Feast of Fools»33. Feast of Fools si mostra come allegoria della caducità umana, dove arti umani, feti, bambini morti ed elementi simbolici della vanitas entrano in relazione tra loro, creando una visione barocca e infernale. In tal proposito, scrive Celant: «Ritraendo le spoglie mortali dell’essere umano in forma di natura morta, l’artista non vuole rinun-ciare al corpo e alla carne, ma non vuole che esse siano percepite secondo moti convulsi ed irragionevoli. Componendole come vasi di fiori o come decorazioni naturali ne sov-verte la relazione macabra, aspira a sublimarle, a farle uscire dalla loro condizione vile e deforme per designarne una natura “vivente” che rimane trasposizione allegorica del me-mento mori»34.

33 Celant, Germano, Joel-Peter Witkin, Milano-Rivoli-New York, Edizioni Charta-Castello di

Rivoli-Solo-mon R Guggenheim Museum, 1995 (catal. mostra, New York, Rivoli), p. 33.

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3.2

La frammentazione

Considerando l’opera di Joel-Peter Witkin alla luce della prospettiva postmoderna, non si può tralasciare uno dei caratteri più evidenti: la frammentazione. Sebbene i tableaux fotografici di Witkin siano il risultato di uno studio molto attento e metodico, dove la presenza di ogni elemento iconografico risponde ad una esigenza di significazione, sem-bra che gli schemi compositivi siano regolati da una sorta di anarchia visuale e concet-tuale.

In fotografia la frammentazione è imprescindibile: dietro ogni rappresentazione fotogra-fica c’è un “fuori campo” spaziale e temporale con il quale l’osservatore non ha modo di entrare in connessione. Il campo fotografico diviene quindi una sorta di “palcoscenico” dove il fotografo impone il suo punto di vista selettivo, certamente non totalizzante ri-spetto alla realtà. Le fotografie di Witkin catturano l’attenzione dell’osservatore e al tempo stesso lo conducono verso una sensazione di profondo straniamento, al fine di mo-strare una dimensione sacrale, Witkin stravolge la percezione consueta della realtà attra-verso lo scarto dalla norma – o da ciò che è ritenuto tale – inducendo l’osservatore a non identificarsi con la rappresentazione, ma di avvicinarla con spiccato senso critico e con inevitabile senso di disgusto.

Un secondo livello di frammentazione può essere colto da un punto di vista puramente iconografico: molte tra le immagini di Witkin pullulano di frammenti umani (braccia, gambe, piedi, teste), mentre in altre il corpo disabile costituisce un altro topos iconogra-fico significativo. In entrambi i casi, seppur in senso apparentemente complementare, la frammentazione del corpo umano prende parte alla narrazione compositiva dell’imma-gine in maniera ossessiva e compulsiva, tanto da divenirne motivo ricorrente e idealiz-zato.

Opere come Still Life with Mirror (1998) [fig. 41]; Still Life (1992) [fig. 42]; le già citate Poet- From a Collection of Relics and Ornaments (1986) [fig. 39]; Still Life (1984) [fig. 26] e Feast of Fools (1990) [fig. 23] costituiscono alcuni esempi e potrebbero essere av-vicinate agli studi anatomici [figg. 43-45] che Géricault realizzò nel 1818, durante la pre-parazione di Le Radeau de la Méduse (opera già incontrata nel precedente capitolo).

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L’interesse che spinse Géricault verso uno studio così approfondito delle anatomie umane era la ricerca della «natura innanzitutto»35. Secondo la testimonianza di Théodore Lebrun, che fu modello di Géricault nel 1818, il pittore era tanto interessato ad una resa naturali-stica, da cercare disperatamente il colore più adatto per rappresentare cadaveri che appa-rissero reali, “animati”36.

In Witkin la rappresentazione dei frammenti anatomici è funzionale alla ricerca iconogra-fica del memento mori, tuttavia la sua ricerca trova alcuni punti di contatto con Géricault: innanzitutto l’ossessione per la ricerca di cadaveri o frammenti di questi negli obitori; in secondo luogo l’attenzione per una descrizione minuziosa dei dettagli morfologici, che in Witkin si traduce con una certa vicinanza al tema del disgusto e dell’abietto; infine la traduzione delle forme umane in natura morta, raggiungendo uno stato di oggettivazione. Quest’ultimo aspetto è fondamentale sul piano della ricezione dell’opera d’arte: tanto gli studi anatomici di Géricault quanto le nature morte di Witkin rappresentano il corpo umano in maniera perfettamente riconoscibile. La sete conoscitiva dei due artisti e l’ori-ginalità della loro ricerca – che potremmo definire empirica – conferisce oril’ori-ginalità anche al soggetto rappresentato.

Altro espediente per la rappresentazione frammentaria è l’utilizzo del collage, tecnica che – eccetto in alcuni rari casi – Witkin utilizza analogicamente: letteralmente tagliando e incollando i frammenti di diverse pellicole fotografiche, fino a formare visioni chimeri-che. Alcuni esempi sono dati dalle opere History of the White World- Venus and the Mag-dalene (1994) [fig. 46], dove il personaggio biblico di Maria Maddalena viene rappresen-tato nei panni di una contorsionista nuda il cui volto è parzialmente “mascherato” con la fotografia di una porzione di volto della Venere di Milo.

Il soggetto di Cupid and Centaur in the Museum of Love (1992) [fig. 47] sembra provenire da una Wunderkammer seicentesca: dallo sfondo buio, incorniciato da un sipario, emerge una struttura scheletrica eterogenea simile ad un centauro cavalcato da una scimmia. La chimera è composta dallo scheletro di uno struzzo, unito ad uno umano e a quello di una “scimmia alata”. Come si nota osservando il disegno preparatorio [fig. 48], l’opera finale

35 Lebrun, Théodore, Lettre sur Géricault, 1836, in Torneux, Maurice, Particularités intime sur la vie de

Géricault, Paris, Bullettin de la Société de l’Historire de l’Art Français, 1912, pp. 56-60.

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fu semplificata parecchio rispetto al progetto iniziale. Witkin trovò gli scheletri nel ma-gazzino di un museo di scienze naturali, istituzione verso cui l’opera si indirizza con tono ironico: facendo riferimento all’abitudine diffusa tra il personale nel creare per gioco delle chimere durante i momenti di pausa dal lavoro37.

Night in a Small Town (2007) [fig. 49] è un’altra opera che rivela la presenza del collage. Nella realizzazione dell’immagine, che è una rappresentazione allegorica del rapporto tra la figura dell’artista e quella della musa, Witkin ricorse al ritocco digitale, che gli permise di creare la figura di un unicorno-musa facendo coincidere il corpo di un esemplare di cavallo tassidermizzato con il busto di una donna, come si nota dal bozzetto preparatorio [fig. 50]. Sulla parte destra dell’immagine troviamo una musicista intenta a suonare al pianoforte un pezzo del compositore Tomaso Albinoni.38

Sul piano concettuale alcune opere di Witkin sono frammentarie nella misura in cui creano dei cortocircuiti di senso che possiamo definire détournement. Il concetto fu introdotto dalla corrente situazionista durante la seconda metà del XX se-colo con riferimento ad un metodo di straniamento che consiste nell’integrazione tra crea-zioni artistiche precedenti e successive, al fine di dare origine ad un’opera nuova nel con-tenuto e familiare nella forma. Tecnicamente il détournement consiste in una dislocazione del significante dentro un nuovo significato, in quest’ottica potremmo servirci del con-cetto per definire ulteriormente i d’après di Witkin, che non si presentano soltanto come rifacimenti di opere già esistenti, come evidenziato nel corso del precedente capitolo, ma operano un vero e proprio slittamento di significato: dislocando i significati originali del linguaggio di riferimento e rimpiazzandoli con i significati di Witkin, senza esimersi dal creare nell’osservatore una sensazione di straniamento dovuta alla percezione della fram-mentazione del rapporto consueto tra significante e significato noto.

Woman with Small Breasts (2007) [fig. 51] di Witkin può essere considerata un esempio di détournement. Realizzata su carta con le tecniche di matita, collage e gouache, si distacca nettamente dalle altre opere di Witkin, infatti nasce come una sorta di bozza preparatoria all’opera fotografica Woman with Small Breasts (2007) [fig. 52], realizzata durante lo stesso anno. A prima vista, l’opera non può evitare di richiamare alla mente le

37 Fonte: Baudoin Lebon, incontro del dicembre 2015.

38 Per un approfondimento dell’opera vedi: https://www.youtube.com/watch?v=M-JulTmTHeU&t=225s ,

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locandine pubblicitarie dei freak show [figg. 53-56]: da un punto di vista stilistico, per il viraggio della tonalità dominante sui toni del porpora in contrasto con le tinte fredde dell’azzurro e per l’inserimento dei sipari laterali che proiettano l’immagine centrale nello spazio discorsivo dello spettacolo, ulteriormente avvalorato dalla presenza del pubblico nella porzione bassa dell’immagine. Sfugge alla logica il motivo per cui una donna con i seni piccoli – informazione aggiunta dal titolo – sia stata identificata come oggetto di meraviglia a tal punto da meritare di essere inserita in una costruzione grafica propria del freak show. L’osservatore si ritrova ad assumere un atteggiamento di indagine critica su quanto visto, raggiungendo lo straniamento.

L’opera Severed Leg Weathervane (2003) [fig. 57] può essere letta come altro esempio di détournement. Ancora una volta il soggetto rappresentato sembra provenire dall’universo dei freak show: una gamba senza corpo – probabilmente appartenuta a un individuo affetto da nanismo – porta un reggicalze e uno stivaletto, eco di un universo popolato da ballerine di cancan e spettacoli a pagamento. Non sappiamo bene se sia più straniante il fatto che la gamba svolga la funzione di una banderuola per il vento, o se la direzione del ginocchio, in controtendenza rispetto a quella del piede e della freccia. L’aspetto più rassicurante è dato dall’aggiunta del sipario: elemento “familiare”, che cir-coscrive ciò che vediamo dentro la dimensione della finzione spettacolare.

Il concetto di frammentazione in Witkin può altresì essere ricondotto al principio di “rot-tura asignificante” elaborato da Gilles Deleuze e Félix Guattari in riferimento al concetto di “rizoma”39. In botanica i rizomi sono particolari tipologie di radice, come lo zenzero,

che hanno la capacità di svilupparsi in condizioni sfavorevoli, grazie alla loro struttura morfologica, che presenta diverse riserve ramificate e connesse tra loro mediante dei nodi. Una caratteristica peculiare dei rizomi è la loro tendenza a svilupparsi per estensione oriz-zontale e mai in profondità. Proprio a partire da questa loro caratteristica, Deleuze e Guat-tari definiscono un nuovo modello semiotico, come variante ai modelli con struttura ad albero (ad esempio quello di semiotica strutturale proposta da Ferdinand de Saussure). La semiotica rizomatica non segue criteri logici gerarchizzati, ma rende possibile la connes-sione di «un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni

39Vedi: Deleuze, Gilles e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Castelvecchi, 1997

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molto differenti ed anche stati di non-segni. […] Rispetto ai sistemi centrici (anche poli-centrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema acentrico, non gerarchico e non significante»40. Il rizoma appare come una struttura non unitaria, dove il senso della frammentazione – o “rottura asignificante” – è posto con valore di arricchimento del significato: di ampliamento delle possibilità di significare del segno.

Scrivono Deleuze e Guattari a proposito del “principio di rottura asignificante”: «contro i tagli troppo significanti che separano le strutture o le suddividono. Un rizoma può essere rotto, spezzato in un punto qualsiasi, ma poi si riprende seguendo una delle sue linee e seguendone altre […] Ogni rizoma comprende linee di segmentarietà a partire dalle quali è stratificato, territorializzato, organizzato, significato, attribuito, ecc. […] ma anche linee di deterritorializzazione per mezzo delle quali fugge incessantemente. Vi è rottura nel rizoma ogni volta che linee segmentarie esplodono in una linea di fuga, ma la linea di fuga fa parte del rizoma. Si tratta di linee che continuano a rinviare le une alle altre. Per questo non può mai darsi dualismo o dicotomia, anche sotto la forma rudimentale del buono e del cattivo. Si produce una rottura, si traccia una linea di fuga, ma si rischia di ritrovare su di essa organizzazioni che ristratifichino l’insieme, formazioni che ridiano il potere a un significante, attribuzioni che ricostituiscano un soggetto. […] Il buono e il cattivo non possono essere che il prodotto di una selezione attiva e temporanea, da riatti-vare continuamente»41.

L’opera di Witkin non è estranea a questo tipo di logica: in virtù della sua tendenza a sviluppare temi vari e interconnettibili tra loro al di fuori del principio di propedeuticità, potrebbe essere definita “rizomatica”. In Witkin sacralità, sessualità, bellezza, repulsione, perversione, poesia, contemporaneità, tradizione storica, morte, vita, visione artistica e realtà convivono in un rimando continuo attraverso la rappresentazione visiva di imma-gini diverse ma mai disconnesse tra loro e sempre parte di un disegno ideologico coerente e aperto alle interpretazioni, anzi costruito per indurre all’osservazione critica. Al tempo stesso, la rappresentazione frammentaria del corpo umano nelle opere di Witkin può tro-vare un suo parallelo nella concezione dell’uomo come essere rizomatico: la condizione postmoderna fa entrare in crisi i valori di intero e gerarchico, in favore di connessioni

40 Ivi, p. 33 sgg. 41 Ivi, p. 42.

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produttive possibili in ogni direzione. Come dichiarò Witkin nel corso di un’intervista: «la mia opera è esposta a molti fraintendimenti […] perché la gente ha diversi bagagli culturali. Soprattutto in quest’epoca. Quando la gente vede qualcosa sente la necessità di attribuire un valore nominale […] La mia opera è ammirata da chi ha conoscenza storica. Opero su un livello che invita alla sfida: non si tratta di arte per compiacere. Non è arte creata per essere esposta sulla parete del soggiorno, dietro ai divani della maggior parte della gente. [la mia] è un’arte che informa, è molto simile a quella di uno scrittore»42.

3.3 Individui “eccezionali”

Nel corso del seguente paragrafo si analizzerà un altro aspetto ricorrente nella fotografia di Joel-Peter Witkin: la rappresentazione degli individui per i quali, in linea con le teorie di Rosemarie Garland-Thomson, propongo la definizione – arbitraria – di “eccezionali”43. In riferimento all’opera di Witkin, propongo di comprendere in questa categoria tutti gli individui che presentano anomalie anatomiche rilevanti, a tal punto da costituire oggetto al contempo interessante e perturbante per l’osservatore.

Le anomalie anatomiche e comportamentali riscontrate nei modelli di Witkin sono scin-dibili in quattro categorie: le mutilazioni degli arti, le deformazioni anatomiche estreme, le anatomie genitali particolari, i comportamenti particolari.

Tali individui, identificabili come freak o outcast, sono fotografati in vita e risultano par-ticolarmente apprezzati da Witkin, in quanto l’intento del fotografo è di «celebrare la loro unicità e la forza di cui hanno bisogno per affrontare la vita […] Non fotografo cose “perverse”, perché questo significherebbe la celebrazione di intenti perversi. Quello che celebro è il coraggio di vivere, specialmente il coraggio di vivere fino al compimento delle sfide che la vita ci pone. Quando la gente vede le mie opere trova sempre la conno-tazione negativa: pensano che io voglia approfittare delle situazioni: di chi si trova in

42 Blanch Andrea, Joel-Peter Witkin. The giver, in Muséemagazine, n. 12, 2015, p. 20. Consultabile al link:

http://museemagazine.com/magazine/musee-magazine-issue-no-12 , accesso del 12/08/2017, [t.d.r.].

43 Garland-Thomson, Rosemarie, Extraordinary Bodies. Figuring Physical Disability in American Culture

and Literature, New York, Columbia University Press, 1997. La definizione assunta è quella fornita dal

dizionario Treccani [fonte: http://www.treccani.it]: eccezionale agg. [der. di eccezione, sul modello del fr. exceptionnel]. – 1. a. Che costituisce un’eccezione, quindi straordinario, singolare, insolito: è stato uno spettacolo e.; ha una forza e.; si trovò a vivere in tempi[...].

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determinate condizioni, di chi vive una vita che terrorizzerebbe la maggior parte delle persone […] Tutto quello che voglio realmente fare è creare fotografie uniche. Questo è il criterio che governa tutta l’arte, indipendentemente dal medium. Io faccio questo da più di 40 anni: ogni giorno creo una rivoluzione dentro di me. È questo che fa un “donatore”: preferisco “donatore” ad “artista”. In un certo senso siamo come esposimetri: vogliamo misurare la nostra capacità di suscitare e smuovere le idee, che possono migliorare la vita e che sono potenti strumenti per guarire e condividere le scoperte fatte grazie alle nostre passioni. Io creo fotografie per me stesso e nessun altro. […] Voglio condividere ciò che amo, non mi interessa fare soldi. Ho avuto la possibilità di vivere del mio lavoro, ma non sono mai sceso a compromessi: capita di realizzare lavori che non espongo nelle mostre perché non potrebbero mai essere venduti. Io lavoro per me stesso: per onorare il mio obiettivo personale, il senso delle cose e l’amore»44.

3.3.1 Freak: attraverso un’estetica dello straniamento

Nel sistema linguistico inglese, la parola freak viene utilizzata con funzione aggettivale o sostantivale per descrivere circostanze, esseri viventi o inanimati considerati eccentrici, stravaganti e fuori dalla norma. L’Oxford Dictionary suggerisce una connotazione nega-tiva del termine: quando utilizzato per descrivere «una persona, un animale, una pianta o una cosa che non è fisicamente normale» o, ancora, «una persona che è ritenuta insolita per il modo in cui si comporta, appare o pensa»45. Il termine trovò largo uso durante la fine degli anni Sessanta del Novecento, riferendosi ai movimenti rivoluzionari non vio-lenti nati negli Stati Uniti d’America.

In riferimento all’opera artistica di Joel-Peter Witkin, è necessario valutare la centralità del termine freak in relazione ai cosiddetti freak show, spettacoli a pagamento traducibili in lingua italiana come “fenomeni da baraccone” negli Stati Uniti e nell’Inghilterra del XIX secolo. I protagonisti di questi spettacoli erano infatti animali o persone con malfor-mazioni fisiche congenite o dovute a rare malattie (gemelli siamesi, individui affetti da nanismo, gigantismo, ermafroditi etc.) e persone allenate ad eseguire numeri estremi (mangiatori di spade, di fuoco etc.). Oggi il freak show di epoca vittoriana è diffusamente

44 Blanch, Andrea, Joel-Peter Witkin. The giver…, pp. 20-21, [t.d.r.].

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riconosciuto come forma di spettacolo popolare e sopravvive adattandosi ai canali comu-nicazionali contemporanei: è il caso di alcuni format televisivi di origine nordamericana o britannica come “The Guinness World Records”, “Embarrassing Bodies”, “Body Biz-zarre” e “Extraordinary People”.

La frequente presenza dei freak nei tableaux di Witkin è dovuta innanzitutto all’espe-rienza personale e autobiografica del fotografo, che ebbe le sue prime esperienze fotogra-fiche e sessuali presso il Luna Park di Coney Island dove ancora oggi, con il fine di «di-fendere l’onore della cultura popolare americana»46, il freak show dell’associazione

Co-ney Island U.S. esercita il suo fascino col nome di “Circus Sideshow”47 e col parziale sostegno dei fondi pubblici erogati dal New York City Department of Cultural Affairs e dal City Council.

Negli Stati Uniti d’America e in Inghilterra il freak in quanto essere “strano” e “deforme” è da considerarsi un archetipo culturale strettamente legato all’immaginario popolare e a un filone della tradizione letteraria ottocentesca della gothic novel, che sulla scia delle riflessioni filosofiche sullo stato di natura di Jean-Jacques Rousseau, e di quelle in ambito scientifico di Charles Darwin sull’evoluzione della specie umana48, incentrò la narrazione sulla connessione tra la specie umana e la dimensione mostruosa dell’animalesco (alcuni esempi sono Frankenstein, The Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde e il francese Notre-Dame de Paris49).

A partire dagli anni Sessanta del XX secolo, la cosiddetta “Era Atomica”, segnata dalla radiofobia dilagante e la paura della contaminazione, si assiste ad una ripresa della rifles-sione sul corpo umano come luogo dove l’identità individuale si scontra con il controllo sociale. Durante la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta i nuovi modelli di essere mostruoso proposti da alcune correnti cinematografiche e artistiche furono gli outcast: individui deformi, orribili e mutanti, rappresentati come variante fuori controllo del “corpo sano” e socialmente “accettabile”. Inoltre, con il progressivo sviluppo in ambito

46 Fonte: http://www.coneyisland.com/programs/coney-island-circus-sideshow, accesso del 27/08/2017,

[t.d.r.].

47 Si tratta di spettacoli di secondaria importanza che affiancano lo spettacolo principale, in genere di natura

circense.

48 Riferimento al saggio di divulgazione scientifica The Origin of Species, scritto da Charles Darwin e

pubblicato per la prima volta nel 1859 in lingua inglese.

49 Shelley, Mary, Frankenstein or the Modern Prometheus, London, 1818; Stevenson, Robert Louis, The

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tecnologico, l’iconografia del corpo “mostruoso” si arricchì di protesi ed elementi tecno-logici, come frutto di una riflessione sul rapporto tra organico e inorganico: la scissione binaria tra ciò che è normale e ciò che è mostruoso cedette il passo alle nuove riflessioni sullo statuto del corpo: attraverso nuovi studi nell’ambito delle scienze sociali e giuridiche la deformità cominciò ad essere valutata sul piano ontologico, etico ed estetico.

Non sorprende che la prima fotografia di Witkin a rappresentare un esempio di corporeità “eccezionale” dati al 1976: Leo [fig. 58], un uomo di colore, dalla corporatura muscolosa, ma senza gambe, per via di una malformazione congenita. L’uomo fu inserito all’interno di una sorta di gabbia in ferro e il suo volto venne offuscato – in fase di sviluppo – al punto da renderne irriconoscibile l’identità. I reggicalze che indossa richiamano alla mente le cinghie utilizzate nella pratica sessuale del bondage: l’impressione generale che si ha osservando l’opera è quella di trovarsi davanti alla rappresentazione di una condi-zione di schiavitù animalesca.

Leo sembra emergere dagli scenari dei freak show ottocenteschi, suggerendo un paralle-lismo tra il rapporto padrone-schiavo e quello fotografo-modello. Come scrive la storica dell’arte Ann Millett-Gallant: «l’ombreggiatura fotografica rende la pelle di Leo ancora-più scura, suggerendone l’eroticizzazione e la soggiogazione come immagine di “diver-sità” razziale. Oppure, probabilmente, Leo deride lo stereotipo sociale che indica gli uo-mini non bianchi, in particolare afro-americani e messicani, come criminali e violenti […] Leo potrebbe essere un soggetto dell’oppressione sociale»50. In effetti, l’opera è da col-locare nella fase sperimentale della produzione artistica di Witkin, durante la quale l’obiettivo del fotografo era orientato verso la provocazione di reazioni emotive e la loro traduzione su pellicola.

Un altro esempio di rappresentazione feticistica e oggettivante del corpo umano disabile è Art Deco Lamp (1986) [fig. 59], il cui soggetto è una donna affetta da una grave deformità toracica. Il suo corpo nudo è mostrato di profilo e in posizione genuflessa, il volto è coperto da una mascheratura nera che, oltre ad oscurare lo sguardo, contribuisce ad un processo di disumanizzazione. Il corpo della donna è tanto feticizzato da fondersi con la forma di una lampada: il suo braccio sinistro suggerisce una possibilità di meta-morfosi, come in una versione moderna del mito di Dafne. Il corpo stabilisce una sinergia

50 Millett-Gallant, Ann, The disabled body in contemporary art, New York, Palgrave Macmillan, 2000, p.

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formale con una lampada in stile Art Déco, tendenza estetica che si sviluppò in Europa a partire dal terzo decennio del XX secolo, fino agli anni Trenta e che negli Stati Uniti d’America si prolungò fino agli anni Quaranta. Lo stile Art Decò si pose in relazione con il mito della macchina e del progresso tecnologico, caratterizzandosi da forme tenden-zialmente geometriche, come omaggio agli ingranaggi meccanici. Art Deco Lamp non è la rappresentazione di una lampada antropomorfa, risponde piuttosto alla necessità este-tica di adattare le forme “poco umane” di un corpo deforme in funzione della materia inorganica, rappresentata da una lampada.

3.3.2 Lo “sguardo fisso” e l’occhio scientifico

Davanti alle fotografie di Witkin l’osservatore prende parte ad un processo che la studiosa della disabilità Rosemarie Garland-Thomson ha definito “virtual staring”51, ovvero quello “sguardo fisso virtuale” rivolto alla riproduzione in immagine di qualcosa che riteniamo tanto curioso e inusuale da meritare un’osservazione prolungata. L’atto di “fissare” visi-vamente qualcosa è considerato una forma di comunicazione molto intensa, attraverso cui è possibile stabilire forti relazioni empatiche tra oggetto e soggetto dell’osservazione pro-lungata. Quando questo genere di osservazione si compie virtualmente, l’osservatore nuncia alla parte empatica e dinamica dell’azione, trasformandola in un momento di ri-flessione solitaria.

La cultura occidentale è ricca di esempi che contribuiscono ad avvalorare l’azione dello “sguardo fisso”: dal mito di Medusa, alle tradizioni mitologiche intorno alla figura di Satana, è sempre stato spiegato come un comportamento da esorcizzare. Il “non fissare le persone!” con cui le madri intimano i loro bambini è indice di quanto nella società con-temporanea lo “sguardo fisso” sia stato oggetto di regolamentazione. Si osserva in ma-niera fissa e prolungata quando si vuole dare senso ad una fenomenologia inesplicabile, nel tentativo di costruire una narrativa ricognitiva su qualcosa che appare incoerente: nell’immaginario comune lo “sguardo fisso" è spesso legato a qualcosa che giudichiamo strano e non pienamente familiare, quindi “perturbante”52. Analogamente, l’osservatore

51 Garland-Thomson, Rosemarie, Staring at the Other, in Disability Studies Quarterly, vol. 25, n. 4, 2005.

Consultabile al link: http://dsq-sds.org/article/view/610/787 , accesso del 12/07/2017.

52 In riferimento alla definizione di “perturbante” vedi Freud, Sigmund, Il perturbante, a cura di Cesare L.

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