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CAPITOLO 3 IL SISTEMA PREVIDENZIALE PUBBLICO ITALIANO

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CAPITOLO 3

IL SISTEMA PREVIDENZIALE PUBBLICO ITALIANO

3.1 Introduzione

Nel capitolo precedente ci siamo occupati di dare delle informazioni preliminari circa l’ambito in cui si colloca il sistema previdenziale, la teoria dal quale il sistema trova fondamento, l’obiettivo che questo si pone, come nel secolo scorso l’idea di assistenza nei confronti dei cittadini abbia trovato terreno fertile negli ordinamenti dei vari paesi, e come i vari sistemi siano stati (e possano essere) realizzati soppesando i relativi rischi e benefici.

Più di ogni altro il sistema previdenziale è stato, nell’ambito del sistema di welfare, l’argomento oggetto di numerose discussioni ed è questa l’area nella quale si sono visti i cambiamenti più importanti nel secolo di recente conclusosi. Numerosi sono stati gli allarmi lanciati da parte dei principali enti europei sulla necessità di intervenire, anche tutt’oggi, con radicali riforme: la crisi finanziaria, il dover tener conto dell’indebitamento nazionale e della necessità di garantire dei redditi alle persone che hanno cessato l’attività lavorativa, richiedono necessariamente interventi che siano, se non risolutivi, almeno efficaci1.

In questo capitolo, volendo far riferimento al sistema previdenziale italiano, è opportuno segnalare le tappe che ne hanno caratterizzato l’evoluzione, da cui dipende indiscutibilmente la spesa destinata a questa voce nel bilancio dello Stato, per comprenderne il trend e poter fare previsioni future e confronti con altri ordinamenti.

3.2 Dalla nascita del sistema previdenziale agli anni ‘70

L’attuale ordinamento previdenziale italiano muove i primi passi dopo l’unità d’Italia con l’affermarsi della rivoluzione industriale. Prima della rivoluzione industriale gli anziani erano a totale carico della famiglia ed ai poveri provvedevano le congregazioni di carità oppure la beneficenza pubblica e privata.

Il sistema previdenziale pubblico in Italia nacque nel 1898 con la Legge 17 luglio n. 350 che istituì la “Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, cui potevano iscriversi i dipendenti privati volontariamente; l’assicurato al raggiungimento del sessantacinquesimo anno d’età riceveva una “rendita vitalizia” calcolata capitalizzando i contributi versati (il sistema era quindi fondato sul principio della capitalizzazione), ed era previsto il riscatto del capitale a favore dei familiari in caso di morte e liquidazione anticipata in casi di invalidità (cosiddetta “gestione IVS”, invalidità, vecchiaia e superstiti). Tale

assicurazione divenne progressivamente obbligatoria nei confronti di determinate categorie di lavoratori fino al 1919 in cui l’obbligatorietà dell’assicurazione di invalidità e vecchiaia e di disoccupazione fu estesa a tutti i lavoratori dipendenti privati, operai e impiegati.

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Le riforme delle pensioni: un’analisi comparata tra Italia, Germania, Svezia e Regno Unito - http://www.cgil.tn.it/importdoc/doc/avid-garlata-e-riforme-delle-pensioni.pdf

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61 Dal 1933 al 1935 la Cassa nazionale venne riorganizzata in quattro gestioni (invalidità e vecchiaia, disoccupazione, tubercolosi, maternità) e denominata INPS, Istituto nazionale della

previdenza sociale; nel 1939 venne istituita la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato o pensionato (vedova e orfani), e abbassata a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne l’età per la pensione. Negli anni ’30, quindi, con l’estensione delle prestazioni ai familiari dell’assicurato, il sistema cominciò a coinvolgere categorie di cittadini diverse dai lavoratori dipendenti: il processo di incremento delle prestazioni e l’ampliamento della platea dei beneficiari è da considerarsi una rilevante conquista sociale se pur, come rovescio della medaglia, sia accompagnata da una notevole crescita della spesa pubblica.

L’ampliamento della copertura nei confronti di nuovi gruppi sociali avvenne, tuttavia, soprattutto nel secondo dopoguerra e fu accompagnata da una profonda trasformazione del sistema, diretto al sostegno dei più bisognosi, facendo venir meno il collegamento fra contributi pagati dagli assicurati e le prestazioni erogate dal sistema: per l’aumento dei contributi pensionistici venne infatti stabilito per la prima volta nel 1943 un maggior onere a carico dei datori di lavoro (2/3 contro 1/3 a carico dei lavoratori; dal 1947 metà a carico dei datori di lavoro, 1/4 a carico dello Stato e 1/4 a carico dei lavoratori); nel 1945, a seguito dell’inflazione bellica e della conseguente perdita di potere di acquisto delle pensioni, fu deciso il passaggio al sistema a ripartizione, pur mantenendo una componente minima del sistema a capitalizzazione, e l’indicizzazione delle prestazioni al costo della vita.

Oltre al Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti (FPLD), furono successivamente costituiti presso l’INPS, tra il 1957 e il 1966, tre fondi speciali per lavoratori autonomi, quali i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, gli artigiani e i commercianti, i cui contributi erano esigui rispetto al trattamento minimo loro riservato, tanto da far registrare fin da subito saldi negativi per tali gestioni; per ogni categoria di liberi professionisti iscritti agli albi doveva essere istituita per legge una specifica cassa o Ente Previdenziale2.

Nel 1968, con il D.P.R. 27 aprile n. 488, si passò al calcolo della prestazione non più su tutta la storia lavorativa ma sulla base delle retribuzioni medie del triennio precedente il pensionamento introducendo il metodo retributivo in luogo di quello contributivo; con la Legge 30 aprile 1969, n. 153, si abbandonò completamente il sistema a capitalizzazione, furono introdotte le prestazioni a favore di cittadini non assicurati in qualità di pensione sociale (più comunemente denominata “pensione minima”) per coloro che avessero raggiunto l’età di sessantacinque anni e furono istituite le pensioni di anzianità per coloro che, pur non avendo raggiunto l’età pensionabile, avessero versato trentacinque anni di contributi.

2Le tappe dell’Evoluzione storica della previdenza in Italia - https://riformaprevidenziale.files.wordpress.com/2007/.../pagina-storia-previdenza.doc

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62 la Legge n. 153/69, quindi, segnò il passaggio al sistema di gestione a ripartizione, e prevedeva una pensione retributiva, cioè una prestazione calcolata in relazione alla retribuzione percepita e non in ragione dei contributi versati.

La modalità di calcolo della pensione, in base a questo assetto, era la seguente: P = rp n r

P = pensione

rp = retribuzione pensionabile, calcolata come media delle retribuzioni di n anni di lavoro n = numero degli anni di lavoro/contribuzione

r = aliquota di rendimento, che esprime quanto rende un anno di contribuzione

In base a questa formula, con una carriera lavorativa di 40 anni si maturava il diritto ad una prestazione pensionistica pari all’80% della retribuzione pensionabile: P = rp·40·2% = 80% retribuzione pensionabile.

Tale modalità di calcolo, affidava il suo equilibrio sul rapporto tra attivi e pensionati: l’equilibrio finanziario di un sistema a ripartizione come regge infatti sull’equivalenza tra le entrate date dal totale dei contributi (C) e le uscite, la spesa pensionistica SP secondo la formula seguente:

C (entrate) = SP (uscite)

che può essere riscritta come

L · y . τ (entrate) = R · p (uscite) dove

τ è l’aliquota di contribuzione (quella che rende possibile il pareggio tra entrate e uscite); L il numero dei contribuenti;

y il reddito medio dei lavoratori; p la pensione media;

R il numero dei pensionati.

Negli anni ’70 la spesa pensionistica, che divenne, a seguito delle riforme, di entità sempre più rilevante, contribuì ad appesantire la già difficile situazione economica-finanziaria caratterizzata dallo shock petrolifero, dall’iperinflazione e da deficit sempre più crescenti.

Nel 1975, la Legge n. 160 introdusse un’importante innovazione riguardante l’indicizzazione della prestazione: gli importi dei benefici dall’entrata in vigore di tale legge non venivano più adeguati soltanto all’indice dei prezzi al consumo, e quindi al costo della vita, ma anche alla dinamica salariale dei lavoratori dell’industria (la cui crescita è più accentuata di quella dei prezzi). Tale adeguamento fu poi esteso anche ai dipendenti statali e degli enti locali.

Per evitare di incidere sulle prestazioni (Rp) occorreva portare τ ad un livello tale da soddisfare l’equilibrio tra entrate e uscite per fare tornare il sistema in equilibrio

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63 τ =

L’aumento delle aliquote contributive ha infatti rappresentato il principale provvedimento utilizzato dai governi per tentare di riequilibrare il sistema, ma fattori sia esogeni che endogeni hanno nel tempo fatto venir meno tale equilibrio e hanno generato la crisi del modello retributivo. L’equilibrio entrò in crisi per:

 Fattori esogeni

- Miglioramento della speranza di vita della popolazione (fa aumentare R) - Crisi economica e delle retribuzioni (incide su y)

- Aumento disoccupazione (fa diminuire L)

- Declino tasso di fertilità + allungamento della vita media (tende a fare diminuire L)  Fattori endogeni

- Aumento della generosità delle prestazioni e l’abbassamento dell’età pensionabile (fanno aumentare sia p che R, e diminuire L).

Alla luce della nuova struttura sociale che si andava creando si percepiva sempre più la necessità di un intervento riformatore.

3.3 Gli anni ottanta e l’esigenza di una riforma

Fu a partire dagli anni ’80 che si cominciò a parlare di crisi del sistema pensionistico e della necessità di una riforma: nel 1981 il FPLD continuava ad avere un saldo positivo ma il peso della gestione assistenziale era sempre più significativo, a causa soprattutto dall’aumento dei trattamenti minimi e delle pensioni di invalidità. L’INPS attribuiva inoltre alla contrazione

dell’occupazione e all’aumento dell’evasione contributiva, l’aggravarsi degli squilibri del sistema. Oltre a suggerire la distinzione tra prestazioni previdenziali, legate al versamento di contributi, e prestazioni assistenziali, che prescindono da ogni tipo di versamento, l’INPS

chiedeva un intervento legislativo in grado di correggere il deficit patrimoniale. La Commissione Castellino sosteneva l’esigenza di una riforma e ne indicava le linee guida:

a. Modificare le principali condizioni di pensionamento come ad esempio l’età minima e i requisiti contributivi;

b. Riesaminare e contenere gli interventi assistenziali;

c. Riconsiderare i casi tutelati, in particolare quelli che danno luogo al cumulo di più trattamenti.

A queste indicazioni non seguirono tuttavia alcuna effettiva realizzazione e i numerosi progetti di riforma formulati da quasi tutti i Ministri del Lavoro e della Previdenza sociale che si sono susseguiti nel decennio successivo non hanno avuto seguito. Le giustificazioni attribuite al ritardo delle riforme sono da attribuirsi sostanzialmente alla struttura del sistema pensionistico e nel funzionamento del sistema politico nel nostro paese: in presenza della frammentazione del sistema pensionistico interventi correttivi generalizzati avrebbero determinato necessariamente

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64 un peggioramento differenziato per le varie categorie di lavoratori e pensionati e dato l’accentuato utilizzo della spesa per le pensioni quale strumento di acquisizione di consensi, questo avrebbe contribuito ad accrescere fortemente l’opposizione di quelle più colpite. La politica pensionistica tendeva quindi a basarsi su criteri di mediazione e di massimo consenso ed ad evitare provvedimenti che, per migliorare i conti della finanza pubblica del futuro, riducessero i consensi nel presente3. E’ in funzione di questa logica che negli anni a seguire si assistette solo all’emanazione di norme fra loro disorganiche e non certo funzionali al contenimento del deficit: la legge finanziaria del 1981 aumentò i trattamenti minimi e con la Legge n. 155 fu reintrodotto il prepensionamento a favore dei lavoratori licenziati a causa della crisi economica.

Nel 1982 fu introdotto l’importante istituto del “TFR”, Trattamento di Fine Rapporto, quale

indennità di anzianità, calcolata come valore accumulato di quote annue ottenute dividendo per 13,5 la retribuzione dell’anno e rivalutando ogni anno le quote passate con un tasso pari all’1,5% più il 75% del tasso di inflazione4

.

Nel 1983 furono introdotte norme volte a regolare la concessione delle pensioni di invalidità e la concessione di un sussidio minimo nei confronti di coloro che percepivano altri redditi.

Nel 1984 e 1985 vennero presi due provvedimenti che generarono effetti opposti: con l’intervento del 1984 si ebbe un ridimensionamento delle pensioni di invalidità grazie alla revisione dei requisiti per l’assegnazione e alla diminuzione delle fattispecie, e con quello del 1985 vennero aumentate alcune prestazioni a carattere assistenziale.

Dal 1985 si cominciarono a registrare saldi negativi non solo per ciò che riguardava l’assistenza ma anche riguardo alla previdenza e nel 1986, nell’ottica della razionalizzazione della spesa, con la Legge n. 88 si arrivò alla separazione fra gestione assistenziale a carico dello Stato, attraverso l’istituzione della Gestione Interventi Assistenziali e di Sostegno alle Gestioni Previdenziali (GIAS), dalla funzione previdenziale, a carico delle singole gestioni grazie ai contributi di lavoratori e datori di lavoro.

Nel 1989 vennero ristrutturati gli istituti previdenziali accorpando in un’unica gestione INPS tutte le forme previdenziali temporanee diverse dalla pensione (disoccupazione, garanzia per il Tfr, cassa integrazione guadagni, tubercolosi etc.).

Alla riforma non seguirono tuttavia né una significativa revisione degli interventi assistenziali, né di quelli volti a correggere gli squilibri della parte previdenziale.

3 Franco D., Marè M., Le pensioni: l’economia e la politica delle riforme - http://www.rivistapoliticaeconomica.it/lug_ago02/197_276.pdf

4 Le tappe dell’Evoluzione storica della previdenza in Italia - https://riformaprevidenziale.files.wordpress.com/2007/01/pagina-storia-previdenza.doc.

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3.4 Le riforme degli anni ‘90

Abbiamo visto che nel corso degli anni ’80 i tentativi di riformare il sistema pensionistico risultarono fallimentari. All’alba del 1992, il Governo Amato, nell’emergenza economica del momento, caratterizzato dalla grave crisi politico istituzionale che di fatto aveva azzerato i partiti tradizionali travolti dalla cosiddetta “tangentopoli” e dalla crisi valutaria, varò la prima vera riforma del sistema previdenziale, che finalmente si muoveva nella direzione di un contenimento della spesa con l’obiettivo di dare certezza alle giovani generazioni e stabilità al sistema pubblico. Iniziò così finalmente il ciclo delle riforme, di cui si discuteva ormai da quindici anni. Appariva ormai evidente che, a causa dell’evoluzione demografica e della maturazione progressiva delle gestioni previdenziali, la spesa per le pensioni presentava una dinamica prospettica insostenibile, tanto da prevedere che, in assenza di correzioni, avrebbe raggiunto nel 2030 valori prossimi al 25% delPIL. Nell'intento quindi di perseguire gli obiettivi del riordino dei costi e di adeguamento del sistema previdenziale alla nuova struttura sociale, caratterizzata dal generale invecchiamento della popolazione e dall'allungarsi delle aspettative di vita, la Legge Delega 421/1992 e il D.Lgs. 503/1992, noto anche come “riforma Amato”, rappresentano la prima e concreta riforma del sistema. La riforma realizzata dal D.Lgs. n. 503/92 ha operato sull’intero sistema e cioè da un lato sullo stock delle pensioni in pagamento e dall’altro sia sui requisiti occorrenti ai lavoratori attivi per ottenere le prestazioni, sia sui livelli delle prestazioni stesse, incidendo, in particolare, sui lavoratori neoassunti e per quelli con meno di 15 anni di contribuzione. Si realizza così per la prima volta una riforma equitativa che distribuisce i sacrifici su tutte le generazioni presenti nel sistema, sia per i già pensionati, sia per i lavoratori attivi5. Più precisamente la Riforma opera lungo tre direttrici:

1. l'età pensionabile: per le pensioni di vecchiaia di competenza dell'INPS venne innalzata da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini (vedi tabella 3.1).

Periodo di riferimento Uomini Donne

Dal 1°gennaio 1994 al 30 giugno 1995 61°anno 56°anno Dal 1°luglio 1995 al 31 dicembre 1996 62°anno 57°anno Dal 1°gennaio 1997 al 30 giugno 1998 63°anno 58°anno Dal 1°luglio 1998 al 31 dicembre 1999 64°anno 59°anno

Dal 1°gennaio 2000 in poi 65°anno 60°anno

Tabella 3.1 – Innalzamento graduale dell’età pensionabile per le pensioni di vecchiaia Fonte – D,lgs. n. 503/1992 Tab. A

2. i requisiti di contribuzione minimi: gli anni contribuzione necessaria diventarono da 15 a 20 (vedi tabella 3.2).

5Giornatanazionaledellaprevidenza.it - Le riforme Amato e Berlusconi -

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Periodo di riferimento Anzianità

|Dal 1° gennaio 1993 al 31 dicembre 1994 16

Dal 1° gennaio 1995 al 31 dicembre 1996 17

Dal 1° gennaio 1997 al 31 dicembre 1998 18

Dal 1° gennaio 1999 al 31 dicembre 2000 19

Dal 1° gennaio 2001 in poi 20

Tabella 3.2 – Innalzamento graduale dei requisiti assicurativi e contributivi per la pensione di vecchiaia Fonte – D.lgs. n. 503/1992 Tab. B

3. la retribuzione media pensionabile: l’indicizzazione delle pensioni fu slegata dalla scala mobile salariale e agganciata all’indice dei prezzi al consumo (inflazione) fornito dall’Istat, la base pensionabile per i privati e pubblici fu equiparata e aumentata gradualmente all’intera vita lavorativa (dalla media degli ultimi 5 anni per i lavoratori dipendenti, e dall’ultimo mese per i pubblici, agli ultimi 10 anni di attività, da 10 a 15 anni per i lavoratori autonomi), i salari sono rivalutati annualmente dell’1% in termini reali (inferiore alla crescita media dei salari).

Per la variazione dei primi due requisiti, così come mostrano le tabelle 3.1 e 3.2, si stabilì una certa gradualità, spalmando la loro completa attuazione su un arco di tempo compreso tra il 1993 e il 20006. Si stabiliva infatti che la quota di pensione corrispondente all’anzianità contributiva acquisita fino al 31 dicembre 1992 venisse calcolata secondo la previgente normativa e la quota di pensione maturata con i contributi successivi fosse computata secondo i dettami della nuova disciplina.

L’intervento che produsse maggior risparmio per le casse dello Stato, sia nel breve che nel lungo periodo, fu indubbiamente la sostituzione dell’indicizzazione delle pensioni ai salari con quella ai prezzi. Dal lato delle entrate, inoltre, la riforma aumentò le aliquote contributive. A breve distanza dalla riforma del pilastro pubblico del sistema pensionistico, Amato propose la prima legge organica delle forme di previdenza complementare (D.Lgs. n. 124 del 28 aprile 1993), il c.d. secondo pilastro, che consentì di iniziare a progettare i fondi pensione anche in Italia7. Nel 1993, infatti, nacquero i fondi pensione (individuali o collettivi), lasciando ai lavoratori la scelta di aderire su base volontaria.

La riforma Amato, pur avendo il merito di aver interrotto la tendenza di spese pensionistiche fuori controllo, lasciò insoluti alcuni problemi, quali la sostenibilità di lungo periodo del sistema, il basso tasso di partecipazione alla forza lavoro, la disparità di trattamento all’interno e fra generazioni, il sottodimensionamento della previdenza integrativa. Inoltre, il periodo di transizione assai lungo ha eroso, di fatto, gran parte degli effetti positivi della riforma sul bilancio pubblico.

6 Borsaitaliana.it - Le riforme da Amato ad oggi – La riforma Amato -

http://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/normativa/le-riforme-da-amato-ad-oggi/le-riforme-da-amato-ad-oggi.htm 7Giornatanazionaledellaprevidenza.it – Op. cit., pag. 65

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67 Successivamente con il D.lgs. 479/1994, in attuazione della delega conferita dalla Legge 24 dicembre 1993, n. 537, in materia di riordino e soppressione di enti pubblici di previdenza e assistenza, sono stati determinati alcuni principi comuni e generali per la gestione delle forme di previdenza e assistenza obbligatorie; ai già operativi INPS e INAIL sono stati affiancati altri due enti pubblici: l’Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (INPDAP), per gestire la previdenza dei dipendenti del settore pubblico, che così accorpa i preesistenti enti gestori ai quali questi compiti erano affidati8.

Nel corso del 1994, il primo Governo Berlusconi, introdusse dei correttivi al sistema pensionistico, inserendoli nella legge finanziaria, tra cui la riduzione per tutte le gestioni del coefficiente di proporzionamento al 2%; infatti in molte gestioni quali quella dei dipendenti pubblici, dei dirigenti di azienda, dei ferrovieri (che successivamente sarebbero stati confluiti anch’essi nell’INPS) e di altri fondi speciali gestiti dall’INPS (autoferrotranvieri, elettrici, telefonici, fondo volo ecc) per ogni anno lavorato si consideravano coefficienti che arrivavano fino al 2,8% e che di fatto consentivano pensioni addirittura superiori alla retribuzione da attivi. Il tasso di sostituzione (ovvero, il rapporto tra la prima pensione e l’ultima retribuzione) assumeva valori anche superiori al 110% e quindi risultava un forte incentivo ai pensionamenti in età giovane. Questa importante innovazione prevedeva anche una rimodulazione dei coefficienti (come aveva fatto in precedenza Amato) che decrescevano dal 2% all’1% in funzione delle fasce di reddito. L’insieme di queste norme garantiva una maggiore sostenibilità finanziaria alle gestione che già presentavano evidenti squilibri finanziari e rendeva più equo il sistema delle prestazioni tra le diverse generazioni. Con questi provvedimenti si iniziò così una attività di semplificazione e riduzione degli enti gestori migliorandone l’efficacia e riducendo gli alti costi di gestione. Si introdussero nuove regole di governance negli enti pubblici maggiori (tra cui INPS e INPDAP) prevedendo, a seguito degli smottamenti politici e gestionali seguiti a tangentopoli, la distinzione tra gli “organi” incaricati della gestione e quelli del controllo. Ma la situazione finanziaria della previdenza restava ancora grave soprattutto per i bassi limiti di età per il pensionamento; non riuscendo a varare ulteriori riforme, anche a causa della situazione politica che si stava deteriorando nell’ambito della maggioranza e delle forti proteste sindacali, Berlusconi diede incarico a una Commissione di esperti di elevato livello di predisporre uno studio e delle proposte per riformare il precario sistema previdenziale; ancora una volta venne chiamato a presiedere la commissione il professor Onorato Castellino, maestro riconosciuto che già in passato aveva guidato una Commissione di studio. Il lavoro della Commissione, che dovette concludere in tempi brevi i propri lavori a causa dell’incombente crisi di Governo, gettò le basi per la successiva grande riforma Dini9.

8 Giornatanazionaledellaprevidenza.it – Op. cit., pag. 65 9 Ibidem

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68 Ed è quindi la riforma successiva, la Legge n. 335 dell’ 8 agosto del 1995, e conosciuta come “riforma Dini”, a rappresentare una vera e propria innovazione, tanto da essere stata adottata anche da altri paesi, come ad esempio la Svezia. Questa aveva obiettivi più ambiziosi: essa mirava non solo a rallentare ulteriormente la dinamica della spesa, ma anche a riordinare gli effetti distributivi del sistema e a ridurre i disincentivi all’offerta di lavoro. La riforma operava rendendo più stretto il collegamento fra contributi e prestazioni: in particolare il criterio su cui si basava il nuovo sistema introdotto dalla legge Dini è quello a ripartizione, ma le pensioni venivano determinate sulla base del criterio della “contribuzione definita”10

il quale prevede che la rata pensionistica sia proporzionale ai contributi versati e inversamente proporzionale alla vita residua attesa. Nello specifico la riforma introdusse i seguenti cambiamenti:

a. le pensioni di vecchiaia sono determinate sulla base delle contribuzioni versate nell’arco dell’intera vita lavorativa, capitalizzate in base ad una media mobile di 5 anni del tasso di crescita del PIL in termini reali e dell’età di pensionamento. Al pensionamento, l’ammontare della pensione è dato dal prodotto del montante contributivo (corrispondente alla somma dei contributi versati) per il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età in cui il lavoratore accede al trattamento pensionistico, rideterminato ogni 10 anni sulla base dei cambiamenti dell’attesa di vita e di un confronto fra i tassi di crescita del PIL e dei redditi imponibili per le contribuzioni sociali; Età Coefficienti % 57 4,720 58 4,860 59 5,006 60 5,163 61 5,334 62 5,514 63 5,706 64 5,911 65 6,136

Tabella 3.3- Coefficienti di trasformazione definiti dalle legge Dini (legge n. 335/1995)

b. le contribuzioni sono proporzionali alle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e ai redditi dei lavoratori autonomi: l’aliquota per il computo delle contribuzioni accreditate è elevata dal 27,7% al 33% per i primi, dal 15% al 20% per i secondi;

c. Gli individui, siano essi uomini o donne, possono andare in pensione fra i 57 e i 65 anni, sempre che la pensione sia pari ad almeno 1,2 volte la pensione minima.

10 Franco D., Marè M. – Op. cit., pag. 64

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69 d. Le pensioni di anzianità vengono erogate al raggiungimento di 40 anni di contributi a qualsiasi età o di 35 anni di contributi con almeno 57 anni di età; si prevede comunque un posticipo del pensionamento di anzianità, rispetto alla maturazione dei requisiti fissati dalla legge, operato tramite il meccanismo delle decorrenze (c.d. “finestre di uscita”) aventi scadenza trimestrale;

e. Il periodo contributivo minimo richiesto per l’erogazione della pensione di vecchiaia è fissato in 5 anni. La pensione minima viene soppressa e la tutela degli anziani con redditi modesti è affidata completamente al sistema assistenziale.

f. La cumulabilità delle pensioni dirette e a superstiti è sottoposta a limiti di reddito; g. Si incentiva il ricorso alla previdenza complementare11.

Anche in questo caso segue una lunga fase di transizione in cui persistono per i lavoratori più anziani molte delle regole precedentemente vigenti, per loro favorevoli. L'attuazione della riforma avviene infatti gradualmente in fasi differenti e coinvolge i lavoratori secondo gli anni di servizio come segue dividendoli in tre categorie:

 I “fortunati”: lavoratori con più di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 sono soggetti all’accesso e al calcolo della pensione secondo le regole del vecchio sistema retributivo.

 I meno fortunati”: lavoratori con meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre

1995 sono soggetti al calcolo della pensione con il c.d. “calcolo misto” (retributivo per

la parte di pensione relativa alle anzianità maturate prima del 1996, contributivo per quelle maturate successivamente) e accedono alle prestazioni secondo le regole del sistema retributivo (a meno che non optino per il contributivo integrale). Per loro è prevista sia la pensione di anzianità sia quella di vecchiaia.

 Gli “sfortunati”: lavoratori neoassunti al primo gennaio 1996 e quelli che optano per il nuovo sistema sono soggetti all’applicazione integrale delle nuove regole di accesso e del metodo di calcolo contributivo. In questo sistema è prevista soltanto la pensione di vecchiaia.

Calcolate con il sistema contributivo, le pensioni vennero condannate a essere meno generose di quelle del passato, infatti per gli ultimi la pensione risultava pari al 50% circa della loro ultima retribuzione. Emerse dunque un dato obiettivo: per avere una pensione equivalente a quella pre-riforma Dini, dopo il rinnovamento del sistema sarebbe stato necessario lavorare più a lungo o accumulare più risparmio. Questo progetto di riforma fece emergere per le nuove generazioni, che avrebbero subìto i tagli più severi in merito alla pensione pubblica, la necessità di fare ricorso alla previdenza integrativa12.

11 Franco D., Marè M. – Op. cit., pag. 64 12 Borsaitaliana.it – Op. cit., pag. 66

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70 La riforma Dini, per quanto innovativa, lasciò irrisolte alcune questioni, tanto da rendersi necessari ulteriori interventi correttivi. Negli anni successivi, a seguito del monitoraggio degli effetti, emersero i punti critici e le distorsioni che avrebbero potuto minare il raggiungimento degli obiettivi prefissati, sia nel breve che nel lungo termine. Ciononostante con la c.d. “riforma Prodi”, la legge n. 449 del 27 dicembre 1997, furono attuati alcuni aggiustamenti che ebbero effetti positivi nel breve periodo accelerando la fase di transizione. In particolare la riforma Prodi si caratterizzò per:

a. l’inasprimento dei requisiti d’età per l’ottenimento della pensione di anzianità,

mitigando la disparità nelle regole per le pensioni di anzianità tra dipendenti pubblici e dipendenti privati;

b. l’omogeneizzazione delle contribuzioni per le diverse categorie professionali;

c. la sospensione temporanea dell’indicizzazione all’inflazione per le pensioni che superano almeno 5 volte la pensione minima (circa 3.000.000 di lire);

d. l’estensione dei soggetti contribuenti, includendo anche i lavoratori para-subordinati.

3.5 Gli interventi degli anni 2000

Negli anni più recenti i governi che si sono succeduti alla guida del Paese hanno quasi costantemente messo mano al sistema pensionistico, con interventi assai diversi per natura, dimensioni ed efficacia, ma nei quali si possono cogliere quattro linee direttrici fondamentali:

1. Proseguire il processo di omogeneizzazione delle regole, accelerando ulteriormente la fase di transizione delle riforme precedenti;

2. Perequare le pensioni più basse e gli assegni sociali;

3. Innalzare il tasso di partecipazione alla forza lavoro delle coorti di lavoratori più anziani e controllare la dinamica della spesa di lungo periodo;

4. Completare la disciplina concernente lo schema pensionistico privato.

La Legge Delega n. 243 del 2004 (comunemente detta “riforma Maroni”) e il D.Lgs. n.

252 del 2005 approvati dal governo Berlusconi rappresentarono l’ultimo atto di un processo di

riforma iniziato nel 199213. Come quelle precedenti, la riforma Maroni si poneva l’obiettivo di ridurre, per quanto possibile, la spesa pensionistica. La manovra si muoveva lungo le seguenti direttive:

a. L’incentivo alla prosecuzione dell’attività: limitatamente al periodo 2004-2007, la riforma Maroni cercò di contenere la spesa pensionistica anche proponendo incentivi economici (c.d. “bonus”) per quanti avessero deciso di continuare l’attività lavorativa pur essendo in possesso dei requisiti assicurativi e anagrafici per il diritto al godimento

13 Storia delle pensioni in Italia: le riforme della seconda repubblica - http://www.youtrend.it/2011/12/18/storia-delle-pensioni-in-italia-le-riforme-della-seconda-repubblica/

(12)

71 della pensione di anzianità; chi volontariamente restava a lavoro avrebbe trovato in busta paga i contributi che il datore avrebbe dovuto versare all’INPS.

b. Il ritocco e l’innalzamento dell’età pensionabile: lasciando invariato il requisito contributivo di 35 anni, modificò l’età minima per accedere alla pensione di anzianità, spostandola da 57 a 60 anni dal 2008, a 61 dal 2010 e a 62 dal 2014.

Anno Lavoratori pubblici e privati Lavoratori autonomi iscritti all'INPS

2008 60 61 2009 60 61 2010 61 62 2011 61 62 2012 61 62 2013 61 62

Tabella 3.4 – Lo scalone previdenziale di Maroni Fonte - Istituto poligrafico e Zecca dello Stato

Le disposizioni relative all’età pensionabile incontrarono nel corpo sociale una consistente resistenza: molti, infatti, non consideravano né equa né logica l’introduzione di una differenza di tre anni lavorativi (c.d. “scalone”) tra chi avrebbe maturato il diritto alla pensione il 31 dicembre del 2007 e chi lo avrebbe fatto il 1° gennaio del 2008. Alle sole lavoratrici, in via sperimentale fino al 2015, si dava la possibilità di accedere alla pensione di anzianità dal 1° gennaio 2008 a 57 anni (58 per le autonome) con 35 anni di contributi qualora queste avessero optato per il calcolo contributivo.

Invariati rispetto a quanto già stabilito dalla riforma Dini, invece, rimasero i parametri per l'accesso al pensionamento indipendentemente dall’età anagrafica, ossia 40 anni di contribuzione.

Si prevedeva inoltre la riduzione da 4 a 2 delle finestre di uscita, quindi con decorrenze aventi scadenza semestrali anziché trimestrali, per chi maturava i requisiti del pensionamento di anzianità, con il conseguente ulteriore innalzamento dell’età pensionabile e il differimento medio dell’erogazione del trattamento di 9 e 15 mesi dal raggiungimento dei requisiti minimi, rispettivamente per i lavoratori dipendenti e autonomi.

c. L’incentivo alla prosecuzione dell’attività: limitatamente al periodo 2004-2007, la riforma Maroni cercò di contenere la spesa pensionistica anche proponendo incentivi economici (c.d. “bonus”) per quanti avessero deciso di continuare l’attività lavorativa pur essendo in possesso dei requisiti assicurativi e anagrafici per il diritto al godimento della pensione di anzianità; chi volontariamente restava a lavoro avrebbe trovato in busta paga i contributi che il datore avrebbe dovuto versare all’INPS.

d. L’incentivo al ricorso alla previdenza complementare: veniva concesso a ciascun lavoratore dipendente la possibilità di scegliere se destinare il proprio TFR maturato a partire dal 1° gennaio 2007 alle forme pensionistiche complementari (fondi negoziali

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72 collettivi, fondi aperti collettivi o individuali, forme individuali assicurative) o mantenerlo presso il datore di lavoro. Nelle intenzioni della riforma, questa apertura alle forme di pensione integrativa rappresentò una spinta decisa a compiere un passo ritenuto quasi necessario: con il sistema contributivo, infatti, è possibile stimare che le pensioni dei lavoratori ammontino a circa il 52% dell’ultimo stipendio e che, dunque, il ricorso a qualche forma pensionistica complementare diventi fondamentale14.

Nel luglio 2007, il protocollo sul Welfare firmato dalle organizzazioni sindacali e il governo Prodi intervennero sul nodo riguardante lo “scalone” di Maroni: a fine 2007, con l’adozione della Legge 24 dicembre 2007, n. 247, nota come “riforma Prodi-Damiano”, furono modificate le disposizioni contenute nella Legge n. 243/2004 che sarebbero dovute entrare in vigore a partire dal 1° gennaio 2008 e che avrebbero comportato l’immediato innalzamento da 57 a 60 dell’età anagrafica. Si parlò di “abolizione dello scalone” ma in realtà con le nuove regole non venne abbattuto del tutto tale sistema, fu sostituito da un meccanismo di aumento graduale dell’età pensionabile nell’arco di 4 anni destinato a produrre il medesimo effetto15

. Tale sistema, in vigore dal 1° luglio 2009 e definito il “sistema delle quote”, prevedeva che il pensionamento potesse avvenire al raggiungimento di una quota ottenuta dalla somma tra età anagrafica ed anzianità contributiva (come mostrato in tabella 3.5 ad esempio per poter ottenere il pensionamento nel 2011 era necessario raggiungere la quota 96, e di conseguenza, dovendo necessariamente aver raggiunto 60 anni di età, erano necessario aver contribuito per 36 anni).

Lavoratori dipendenti pubblici e privati

Lavoratori autonomi iscritti all'INPS Somma di età anagrafica e anzianità contributiva Età anagrafica minima per la maturazione del requisito indicato in colonna 1 Somma di età anagrafica e anzianità contributiva Età anagrafica minima per la maturazione del requisito indicato in colonna 2 2009 dal 01/07/2009 al 01/12/2009 95 59 96 60 2010 95 59 96 60 2011 96 60 97 61 2012 96 60 97 61 dal 2013 97 61 98 62

Tabella 3.5 – Sistema delle quote – Legge n. 247/2007

Inoltre, fu stabilito che l’aggiornamento del coefficiente di trasformazione doveva essere effettuato non più ogni dieci anni ma ogni tre, tenendo conto:

-

delle dinamiche delle grandezze macroeconomiche demografiche e migratorie;

14 Borsaitaliana.it - Le riforme da Amato ad oggi – La riforma Maroni -

http://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/normativa/le-riforme-da-amato-ad-oggi/maroni.htm 15 Ibidem

(14)

73

-

delle diverse aspettative di vita connesse al tipo di attività svolta;

-

dell’incidenza dei percorsi lavorativi, anche al fine di verificare l’adeguatezza degli attuali meccanismi di tutela delle pensioni più basse e di proporre strumenti di solidarietà e garanzia per tutti i percorsi lavorativi.

I nuovi coefficienti di trasformazione, in vigore dal 1° gennaio 2010, comportarono inevitabilmente, a causa dell’innalzamento dell’aspettativa di vita, una riduzione del livello della prestazione che si protrae per più tempo, traducendosi però nell’immediato in un peggioramento delle condizioni del pensionato, tanto che in molti l’hanno definita un’”ingiustizia sociale”.

Età

Coefficienti definiti dalla legge Dini

% Coefficienti rideterminati dalla legge n. 247 / 2007 % Variazioni % 57 4,720 4,419 -6,38 58 4,860 4,538 -6,63 59 5,006 4,664 -6,83 60 5,163 4,798 -7,07 61 5,334 4,940 -7,39 62 5,514 5,093 -7,64 63 5,706 5,297 -7,87 64 5,911 5,432 -8,10 65 6,136 5,620 -8,41

Tabella 3.6 - Coefficienti di trasformazione definiti dalla legge Dini (legge n. 335 / 1995) e coefficienti rideterminati dalla legge n. 247 / 2007

Come mostra la tabella, infatti, rispetto ai valori indicati dalla riforma Dini del 1995, i nuovi coefficienti fanno registrare una riduzione che, a seconda dell’età di accesso alla pensione, varia da un minimo del meno 6,38% per chi può accedere alla pensione a 57 anni ad un massimo di meno 8,41% per chi si ritira a 65 anni.

Infine la “riforma Sacconi”, la Legge n. 122/2010 e D.Lgs. n. 78/2010, introdusse ulteriori cambiamenti relativi all’età di pensionamento. Secondo tale riforma, a partire dal 2015, l’età di pensionamento non sarebbe più stata fissa e certa bensì dipendente dall’aspettativa di vita media: questa doveva essere aggiornata periodicamente tenendo conto appunto degli andamenti demografici e dipendendo dalle revisioni delle tavole demografiche proiettate. Si prevedeva un primo aggiornamento nel 2015, il successivo nel 2019 e poi ogni 3 anni, in modo da allineare il meccanismo di revisione dei requisiti anagrafici con quello di revisione del coefficiente di trasformazione. Si prevedeva inoltre l’inasprimento del regime delle decorrenze, le “finestre d’uscita”, aumentando ulteriormente il differimento del momento del pensionamento: per coloro che avrebbero maturato i requisiti minimi a seguito del 1° gennaio 2011, la decorrenza della pensione, sia di vecchiaia che di anzianità, veniva fissata dopo 12 mesi per i lavoratori dipendenti o 18 mesi per i lavoratori autonomi. Venne infine anticipato l’allineamento dell’età

(15)

74 per accedere alla pensione di vecchiaia per le donne operanti nel settore pubblico con quello degli uomini.

Con la Legge n. 111/2011, detta anche “riforma Sacconi-Tremonti”, si intervenne circa: a. l’età di vecchiaia delle donne nel settore privato: si prevede che nel periodo 2020/2032

(anticipato al periodo 2014/2026 con la Legge 148/2011) l’età per accedere alla pensione di vecchiaia per le donne operanti nel settore privato venga gradualmente allineato a quello degli uomini (e delle donne del settore pubblico).

b. L’adeguamento dei requisiti d’età alle variazioni della speranza di vita: la revisione delle tavole dei requisiti di età precedentemente previsto per il 2015 venne anticipato al 2013, determinando un ulteriore incremento del requisito d’età per l’accesso al pensionamento.

c. L’accesso al pensionamento anticipato: per i lavoratori che accedono al pensionamento anticipato con 40 anni di contributi indipendentemente dall’età, il posticipo del pagamento rispetto alla maturazione del requisito tramite il meccanismo delle decorrenze venne ulteriormente incrementato di 3 mesi a partire dal 2014.

d. Blocco dell’indicizzazione: per il biennio 2012/2013 e limitatamente alle pensioni di importo complessivo superiore a 5 volte il trattamento minimo INPS, l’indicizzazione

dei trattamenti pensionistici al tasso d’inflazione non fu concessa16

.

3.6 La riforma del 2012

A fine 2011 l’accelerazione della crisi finanziaria e il repentino cambio dell’esecutivo condussero in pochissimi giorni all’emanazione di un nuovo decreto in cui era contenuta un’organica riforma del nostro sistema previdenziale

.

Con la Legge n. 92/2012, nota come “riforma Fornero”, parte del Decreto Legge “Salva Italia” varato dal Governo Monti a fine 2011, si impose il sistema contributivo per tutti i lavoratori, anche per coloro che, in ragione della riforma Dini del 1995, stavano calcolando la propria pensione con il più generoso sistema retributivo. Si stabilì quindi che la pensione sarebbe stata così calcolata in base ai versamenti effettuati dal lavoratore e non dagli ultimi stipendi percepiti. La riforma Fornero ha di fatto accelerato di qualche anno il passaggio al sistema contributivo previsto dalle precedenti riforme che invece prevedevano il graduale slittamento da un sistema all’altro. Nello specifico prevede:

a. L’estensione del calcolo contributivo anche ai lavoratori assoggettati al calcolo retributivo, precedentemente esclusi (coloro che vantavano almeno 18 anni di contribuzione al 31/12/1995). Dal 1° gennaio 2012, quindi, il metodo contributivo è diventato l’unico metodo di calcolo per la prestazione pensionistica e, ad esclusione dei fortunati che sono già in pensione, che continueranno a godere del privilegio del

(16)

75 retributivo calcolo retributivo, anche chi prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero avrebbe avuto una pensione calcolata per intero con il metodo retributivo si è visto ricalcolare l’assegno con il contributivo per la quota di anni di lavoro che ancora gli restano. Insomma il metodo retributivo sopravvive ancora, ma riferito a un minor numero di anni e per un numero di lavoratori sempre più esiguo. In sostanza si creano tre situazioni differenti: per i più giovani che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, anno di entrata in vigore della riforma Dini che per prima introdusse il sistema contributivo, la pensione verrà tutta calcolata con il metodo contributivo. Per gli altri invece conta l’anzianità di servizio maturata alla data del 31 dicembre 1995 (vedi anche paragrafo 3.8.5). Anzianità al 31/12/1995 Calcolo fino al 1995 Calcolo dal 1996 al 2011 Calcolo dal 2012

– nessuna — Contributivo Contributivo

– meno di 18 anni Retributivo Contributivo Contributivo – 18 anni o più Retributivo Retributivo Contributivo

Tabella 3.7 – Estensione del calcolo contributivo

b. Il regime delle decorrenze (“finestre d’uscita”) viene abolito e, in generale, sostituito con un corrispondente incremento dei requisiti minimi d’età e/o contribuzione per l’accesso al pensionamento;

c. L’innalzamento dell’età pensionistica di uomini e donne, stabilendo nuovi requisiti per la pensione di vecchiaia: sono necessari per tutti almeno 20 anni di contribuzione e 66 anni di età per gli uomini dipendenti privati e pubblici e donne del pubblico impiego, 62 anni per le donne del settore privato, 63 anni e 6 mesi per donne lavoratrici autonome; in questi ultimi due casi l’età sarà gradualmente innalzata a 66 anni e 3 mesi nel 2018; in sostanza la totale equiparazione sarà raggiunta nel 2018 anziché entro il 2026, come previsto dalla normativa precedente;

d. Il canale del pensionamento di anzianità con il requisito congiunto di età anagrafica e anzianità contributiva viene abolito e sostituito dalla pensione “anticipata” per cui si prevede il pensionamento al raggiungimento di 41 anni e 3 mesi di lavoro per le donne o 42 anni e 3 mesi per gli uomini; in questo caso sulla quota di pensione calcolata con il metodo retributivo si applica una penalizzazione del 1% a 61 anni e del 2% a 60, a cui si aggiungono ulteriori 2 punti percentuali per ogni anno di anticipo rispetto ai 60 anni; inoltre il requisito contributivo per l’accesso al pensionamento indipendentemente dall’età, viene periodicamente adeguato in funzione delle variazioni delle speranze di vita a partire dal 2013, come già previsto per il pensionamento di vecchiaia;

(17)

76 e. A partire dal 2021, l’adeguamento di tutti i requisiti del sistema pensionistico avverrà ogni 2 anni, anziché ogni 3, e a tale diversa periodicità è applicata anche alla concomitante procedura di aggiornamento del coefficiente di trasformazione;

f. L’aumento dei versamenti contributivi per gli artigiani, i commercianti, i lavoratori agricoli e i lavoratori autonomi, gradualmente incrementate dal 20% del 2011 al 24% del 2018.

g. Il taglio delle rivalutazioni delle prestazioni pensionistiche che superano tre volte il trattamento minimo (circa 1.400 euro mensili);

h. L’istituzione di un “contributo di solidarietà” a carico degli iscritti e dei pensionati (con pensione pari o superiore a 5 volte il trattamento minimo) degli ex-trasporti, elettrici e telefonici e del fondo volo per il periodo 2012-2017;

i. Il blocco dell’indicizzazione al tasso di inflazione per il biennio 2012/2013 per le pensioni di importo complessivo superiore a 3 volte il minimo (circa 1.400 euro mensili);

j. L’incorporazione di INPDAP e ENPALS presso l’INPS17.

Tra gli “effetti collaterali” della riforma Fornero è da segnalare il rilevante problema causato ai cc.dd. “esodati”, che ha riguardato diverse decine di migliaia di persone, cioè i lavoratori che avevano sottoscritto accordi aziendali o di categoria che prevedevano il pensionamento di vecchiaia anticipato rispetto ai requisiti richiesti in precedenza. Complice l’innalzamento dell’età del pensionamento, costoro sono rimasti senza più stipendio e senza ancora una pensione. Per questi soggetti è intervenuto successivamente il Governo per garantire loro uno “scivolo” per questa fase di passaggio.

I critici della riforma hanno inoltre sottolineato come la manovra non sia riuscita a contenere la spesa pensionistica in Italia, pari a oltre il doppio della media europea in proporzione al PIL, salita dal 15% nel 2011 ad oltre il 17% nel 201518.

3.7 Gli interventi dal 2012 ad oggi

La Legge n. 147/2013, la legge di Stabilità del 2014, è intervenuta come segue, prevedendo:

a. L’introduzione di un contributo di solidarietà: per il periodo 2014-2016 ai titolari delle cc.dd. “pensioni d’oro” è stato imposto un contributo di solidarietà crescente (dal 6% al 18%) da calcolarsi sulla parte eccedente il trattamento minimo che superi l’importo annuo da 14 a 30 volte.

b. L’introduzione di un nuovo sistema di indicizzazione: il tasso di inflazione, quale moltiplicatore per la rivalutazione, viene considerato in misura decrescente al crescere

17 Centro Studi e Ricerche di Itinerari previdenziali – Op. cit., pag. 30

18 Il Sole 24 ore – Cosa prevede la riforma Fornero - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-01-20/cosa-prevede-riforma-fornero-164237.shtml?uuid=ABFbuxgC

(18)

77 dello scaglione in cui si colloca il trattamento percepito, considerato per l’intero importo e non per la parte eccedente la soglia garantita.

Importo dei trattamenti per scaglioni Indicizzazione al tasso d’inflazione %

Inferiore a 3 volte il minimo 100

Compreso fra 3 e 4 volte il minimo 95 Compreso fra 4 e 5 volte il minimo 75 Compreso fra 5 e 6 volte il minimo 50

Superiore 6 volte il minimo 45

Tabella 3.8 – Nuovo sistema di indicizzazione del trattamento pensionistico al tasso d’inflazione

La Legge n. 190/2014, la legge di Stabilità del 2015, modifica la “Monti-Fornero” come segue:

a. La penalizzazione stabilita dalla riforma Fornero operata nei confronti dei soggetti che hanno avuto accesso al pensionamento anticipato prima di aver raggiunto i 61 anni d’età, viene soppressa con decorrenza nei confronti di chi matura il requisito contributivo entro il 31/12/2017.

b. La limitazione delle pensioni d’importo elevato, stabilendo che a seguito dell’estensione del calcolo contributivo l’importo complessivo pensionistico non può superare quello che sarebbe stato liquidato con l’applicazione del calcolo vigente prima della riforma Fornero. In sostanza, coloro che continuano a lavorare dopo aver accumulato i 40 anni di contribuzione, non possono ottenere una pensione d’importo superiore all’80% della media degli ultimi stipendi.

Il Decreto Legge n. 65/2015, convertito in Legge 109/2015, emanato in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il “blocco” dell’indicizzazione per il biennio 2012/2013 delle pensioni superiori a tre volte il minimo ha sostanzialmente riformulato le regole come segue:

Indicizzazione al tasso d’inflazione % Importo dei

trattamenti Anni 2012/2013 Anni 2014/2015 Anno 2016 Inferiore a 3 volte il

minimo 100 100 100

Compreso fra 3 e 4

volte il minimo 40

20

(del 40% dell’indice Istat)

50

(del 40% dell’indice Istat) Compreso fra 4 e 5

volte il minimo 20

20

(del 20% dell’indice Istat)

50

(del 20% dell’indice Istat) Compreso fra 5 e 6

volte il minimo 10

20

(del 10% dell’indice Istat)

50

(del 10% dell’indice Istat) Superiore 6 volte il

minimo - - -

(19)

78 Arrivando ai giorni nostri la Legge di Stabilità per il 2016 ha previsto:

a. E’ stata prorogata per tutto il 2017 la soppressione delle penalizzazioni introdotti dalla riforma Fornero per coloro che decidono di andare in pensione prima dei 62 anni di età vantando tuttavia i requisiti di anzianità contributiva per la vecchiaia anticipata;

b. E’ stata prorogata “l’opzione donna”, ossia la possibilità per le lavoratici di andare in pensione a 57 anni e 3 mesi (un anno in più per le autonome) e 35 anni di contributi qualora queste scelgano per il meno favorevole calcolo contributivo.

c. Per i lavoratori dipendenti del settore privato con contratto a tempo pieno che maturano entro il 31 dicembre 2018 il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia (66 anni e 7 mesi nel 2016), in accordo con il datore di lavoro e per un periodo non superiore a 3 anni, è data la possibilità di ridurre l’orario di lavoro tra il 40% e il 60%, ricevendo mensilmente in busta paga una somma pari alla contribuzione previdenziale ai fini pensionistici a carico del datore di lavoro (23,81% della retribuzione esente da tassazione) relativa alla prestazione lavorativa non effettuata. Per i periodi di riduzione della prestazione lavorativa è riconosciuta la c.d. “contribuzione figurativa” a carico della fiscalità generale, consentendo così al lavoratore part-time di ottenere la pensione senza alcuna penalizzazione19.

Per completezza è opportuno infine segnalare un intervento che non nasce quale riformatore del sistema pensionistico ma che amplia la platea dei beneficiari delle pensioni di reversibilità: trattasi della Legge 20 maggio 2016, n. 76, più comunemente conosciuta come “Legge Cirinnà”, dal nome della senatrice che ha proposto il discusso disegno di legge. Infatti, dopo mesi di discussioni e polemiche l’11 maggio 2016 il ddl Cirinnà, intitolato “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, ha ottenuto l’approvazione alla Camera e la nuova legge introduce l’unione civile tra omosessuali quale specifica formazione sociale e disciplina la convivenza di fatto sia gay che etero. Da quella data il nostro Paese è diventato il 27° Paese europeo che riconosce legalmente le coppie omosessuali e regolamenta le convivenze al di fuori del matrimonio20. La conquista sociale che l’Italia con questo intervento ha ottenuto ha una portata rilevante per ciò che riguarda il riconoscimento di diritti fondamentali a chi ne era privato per il proprio orientamento sessuale e accorcia le distanze con il resto d’Europa che da tempo ha una legislazione a riguardo. Indipendentemente dalla rivoluzione sociale e culturale che ciò comporta, ne consegue, per ciò che ci interessa, che tra i diritti oggi riconosciuti vi sia l’estensione della pensione di reversibilità anche alle coppie omosessuali. Tale aspetto continua a rappresentare oggetto di discussione anche a seguito dell’approvazione della legge, nel

19 Centro Studi e Ricerche di Itinerari previdenziali – Op. cit., pag. 30

20 Unioni Civili: cosa dice la legge Cirinnà? Testo completo e novità - https://www.forexinfo.it/Unioni-Civili-decreto-Cirinna-testo-legge-punti-importanti

(20)

79 tentativo di prevedere quanto questa costerà per le casse dell’INPS. Ad oggi è complicato poter fare delle previsioni sulla base delle coppie gay dichiarate in quanto bisogna considerare che tanti potrebbero aver rinunciato al coming out per questioni di riservatezza ma sulla base dell’esperienza degli altri stati europei con legislazione e demografia simile alla nostra sarà più semplice avvicinarsi al dato reale21.

Infine, è proprio di questi giorni la proposta da parte del governo Renzi di inserire nella Legge di Stabilità del 2017 una riforma per rendere più flessibile il pensionamento anticipato. Il progetto sperimentale, che durerà fino al 2018, conosciuto come APE, dall’acronimo Anticipo

PEnsionistico, vede il coinvolgimento di banche e di assicurazioni e consentirebbe al lavoratore di andare in pensione in anticipo (a 63 anni) con delle varianti a seconda del soggetto che vuole aderire al pensionamento anticipato. Si parla infatti di:

 APE volontario: l'operazione coinvolgerà i lavoratori dipendenti (anche del pubblico impiego), autonomi e parasubordinati in possesso di 63 anni di età e 20 anni di contribuzione a partire dal 1° maggio 2017 e a cui manchino non più di tre anni e 7 mesi al perfezionamento della pensione di vecchiaia che dovranno però accettare delle penalizzazioni future. Tali penalizzazioni riguardano il fatto che l'operazione sarà attuata con prestiti da parte di banche e assicurazioni, che dovranno poi essere restituiti

con rate di ammortamento costanti dagli interessati, una volta conseguita la pensione

fino al completo rimborso del capitale e degli interessi alle banche tramite un prelievo che durerà vent’anni22. L’intera operazione sarà comunque gestita direttamente

dall’INPS che si occuperà sia dell’erogazione del prestito al pensionato in 12 mensilità (non è quindi prevista l’erogazione della tredicesima), sia del rimborso delle somme anticipate attraverso delle trattenute sull’assegno nel momento in cui il soggetto avrà maturato definitivamente i requisiti per l’accesso alla pensione di vecchiaia23.

Il Dcpm in esame prevede inoltre un limite all’ammontare erogabile calcolato come percentuale della pensione mensile certificata dall’INPS che varia a seconda del periodo per cui è richiesto l’anticipo: il tetto massimo sarà del 95%, 90% o 85% dell’importo rispettivamente nel caso di anticipo di uno, due o tre anni. L’obiettivo di porre un limite alla richiesta di prestito e di non prevedere la tredicesima è quello di abbattere il più possibile l’onere del rimborso ventennale che scatta con il pensionamento ordinario, sapendo che l’incidenza media annua sarà del 4,6-4,7%24

.

21 Unioni civili, pensione di reversibilità estesa a coppie gay: ecco quanto ci costerà - https://www.forexinfo.it/Unioni-civili-pensione-di

22 PensioniOggi.it - L'anticipo Pensionistico (APE) - http://www.pensionioggi.it/dizionario/ape

23 Blogfinanza.com – Pensione anticipata nel 2017: oggi si può con l’APE - http://www.blogfinanza.com/riforma-pensioni/15391-pensione-anticipata-ape/

24 Il Sole 24 ore – Ape, anticipo fino all’85% della pensione - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-11-13/ape-anticipo-fino-all-85percento-pensione-104014.shtml?uuid=ADMEaSuB

(21)

80  APE sociale: tale operazione riguarda i lavoratori che:

a. abbiano maturato almeno 30 anni di contribuzione e che siano: - Disoccupati senza il diritto ad ammortizzatori sociali;

- Invalidi;

- Soggetti con parenti di 1° grado o conviventi disabili.

b. Abbiano maturato 36 anni di contribuzione e che siano contribuenti in costanza di lavoro (almeno gli ultimi 6 anni) che svolgono attività usuranti e gravose. A tale riguardo sono state identificate come categorie di lavori pesanti che hanno accesso all’APE sociale, oltre a quelle che già erano classificate come attività usuranti:

- edilizia, - marittimi,

- alcune categorie di infermieri, - scavatori,

- facchini, - macchinisti,

- autisti di mezzi pesanti,

- maestri scuole dell’infanzia25

.

Nel caso di APE sociale il pensionato non avrà nessuna penalizzazione: l’erogazione delle somme anticipate avviene sempre grazie al prestito bancario, con la differenza che questo sarà rimborsato dallo Stato e non dal soggetto che ne ha usufruito.

 APE imprese: è un’operazione che si applica come incentivo al prepensionamento nell’ambito di ristrutturazioni aziendali. In questo caso è l’azienda in fase di riorganizzazione aziendale ad agevolare l’uscita del lavoratore dal mercato del lavoro e si farà carico del rimborso del prestito alle banche. Lo Stato in questo caso interviene pagando un’assicurazione a garanzia del rischio di morte del soggetto26

.

3.8 Il pensionamento a normativa vigente

27

In linea con uno schema comune alla maggior parte dei Paesi europei, il sistema pensionistico italiano prevede ad oggi in sostanza, due canali di accesso al pensionamento: il pensionamento di vecchiaia con un requisito contributivo minimo di 20 anni, ed il pensionamento anticipato con un età inferiore a quella di vecchiaia ma con requisiti contributivi più stringenti. Come abbiamo visto sono poi in continuo aggiornamento i requisiti minimi per l’accesso al pensionamento in base alle prospettive di vita e il continuo adeguamento delle aliquote contributive al fine di contenere la spesa pensionistica.

25PMI.it – APE sociale: ecco gli esclusi http://www.pmi.it/economia/lavoro/news/134689/ape-sociale-gli-esclusi.html 26 Blogfinanza.com – Op.cit., pag. 79

(22)

81

3.8.1 Pensionamento di vecchiaia

Nel sistema pensionistico italiano, l’età minima per il pensionamento di vecchiaia è pari a 66 anni e 7 mesi per gli uomini e le donne del settore pubblico e per gli uomini del settore privato e autonomi, 66 anni e 1 mese per le donne del settore autonomo e 65 anni e 7 mesi per le donne del settore privato, con un salto di ben 22 mesi che poco si concilia con i normali tempi previsti da tutte le riforme (massimo 1 anno ogni 18 mesi); quest’ultimo requisito viene gradualmente incrementato e pienamente allineato a quello degli altri lavoratori, a partire dal primo gennaio 2018 (vedi tabella 2.10). Sempre nel 2018, il requisito minimo di età per l’accesso all’assegno sociale sarà elevato di un anno e, quindi, equiparato al requisito minimo di età per il pensionamento di vecchiaia. Oltre al requisito di età, l’accesso al pensionamento di vecchiaia richiede un requisito minimo di contribuzione di almeno 20 anni e, nel solo regime contributivo, la maturazione di un importo minimo di pensione non inferiore a 673 euro mensili del 2015 (pari a 1,5 volte l’assegno sociale nello stesso anno), indicizzato con la media mobile quinquennale del PIL nominale. Quest’ultimo vincolo viene meno al raggiungimento di un’età superiore di 4 anni a quella prevista per il pensionamento di vecchiaia (70 anni e 3 mesi nel 2015, 70 anni e 4 mesi nel triennio 2016-2018). I suddetti requisiti sono adeguati nel tempo in funzione delle variazioni della speranza di vita. Attorno al 2020 il requisito minimo di età per la pensione di vecchiaia raggiungerà i 67 anni per la generalità dei lavoratori.

3.8.2 Pensionamento anticipato

La possibilità di pensionamento con età inferiore a quella prevista per la pensione di vecchiaia (c.d. “pensionamento anticipato”) è consentita al raggiungimento di un requisito contributivo minimo pari, nel 2016 a:

-

42 anni e 10 mesi per gli uomini;

-

41 anni e 10 mesi per le donne.

Il suddetto requisito contributivo è indipendente dall’età ed adeguato nel tempo in funzione delle variazioni della speranza di vita. Per i lavoratori iscritti per la prima volta al sistema pensionistico pubblico a partire dal 1996 (cioè i lavoratori interamente assoggettati al regime contributivo), è previsto un ulteriore canale di accesso al pensionamento anticipato. Essi possono accedere al pensionamento con un età inferiore a quella prevista per il pensionamento di vecchiaia, fino ad un massimo di 3 anni, se in possesso di almeno 20 anni di contribuzione ed un importo minimo di pensione non inferiore a 1.256 euro mensili nel 2015 (che corrisponde a 2,8 volte l’assegno sociale nello stesso anno). Tale importo è indicizzato in funzione della media mobile quinquennale del PIL nominale. Il vincolo di un importo minimo di pensione relativamente elevato sostituisce, di fatto, il requisito contributivo minimo di 35 anni previsto dalla normativa precedente per l’accesso al pensionamento anticipato nel regime contributivo. Il valore soglia è stato determinato al fine di garantire, in media, l’equivalenza nell’età di accesso

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82 al pensionamento e preservare il livello di adeguatezza delle prestazioni garantito dalla legislazione previgente.

3.8.3 Adeguamento dei requisiti minimi alla speranza di vita

A partire dal 2013, il requisito minimo di età per il pensionamento di vecchiaia (e per il pensionamento anticipato nel regime contributivo), nonché il requisito contributivo minimo, indipendente dall’età, per il pensionamento anticipato in tutti e tre i regimi, vengono adeguati ogni 3 anni in funzione della variazione della speranza di vita a 65 anni, rilevata dall’Istat nel triennio precedente. A partire dal 2019, il suddetto adeguamento è previsto a cadenza biennale anziché triennale.

Tale procedimento è pienamente coerente con quello previsto per l’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione (art.1, co. 6 della legge n. 335/1995, come modificata dalla legge n. 247/2007) la cui periodicità è stata resa biennale a partire dal 2019, per motivi di coerenza. L’adeguamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento rappresenta un ulteriore rafforzamento dei meccanismi endogeni al sistema pensionistico (fra cui la revisione dei coefficienti di trasformazione nel sistema di calcolo contributivo) atti a contrastare gli effetti negativi dell’invecchiamento demografico sugli equilibri finanziari del sistema pensionistico. Inoltre, l’adeguamento dei requisiti di accesso al pensionamento produce un innalzamento del livello medio dei trattamenti pensionistici, contribuendo al miglioramento dell’adeguatezza delle prestazioni, specialmente nell’ambito del sistema di calcolo contributivo. Di seguito si riportano le tabelle con i requisiti minimi di età e di contribuzione per l’accesso al pensionamento di vecchiaia, al pensionamento anticipato e all’assegno sociale, calcolati sulla base dell’evoluzione della speranza di vita sottostante la previsione demografica, ipotesi centrale, recentemente prodotta dall’Istat, con base 2011. Ovviamente, gli adeguamenti effettivi saranno quelli stimati a consuntivo dall’Istat secondo il procedimento previsto dalla normativa vigente. Tuttavia, la legge n. 214/2011 prevede una clausola di garanzia per coloro che maturano il diritto alla prima decorrenza utile del pensionamento a partire dal 2021 in base alla quale il requisito minimo di vecchiaia non potrà essere inferiore ai 67 anni.

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* Per le dipendenti pubbliche il requisito anagrafico di 61 anni è stato disposto dalla legge n. 122/2010, in seguito alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 13 novembre 2008 (causa C-46/07) che ha riconosciuto al regime Inpdap, l’ente di previdenza dei pubblici dipendenti, natura di regime professionale ed ha quindi ritenuto non legittima la diversa età pensionabile richiesta alle donne.

** La riforma Monti-Fornero stabilisce che qualora l’incremento dato dalle variazioni demografiche non dovessero arrivarci, a partire dal 2022 l’età del pensionamento non può comunque risultare inferiore a 67 anni di età.

*** I valori indicati dal 2019 in poi sono adeguati alla speranza di vita sulla base delle stime fornite dall’ISTAT.

Tabella 3.10 - Evoluzione dell’età pensionabile

Fonte: Rapporto n.3 anno 2016 – Il bilancio del sistema previdenziale italiano28

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N.B. Tra parentesi il requisito alternativo che prescinde dall’età anagrafica.

Per categorie tutelate si intendono i dipendenti qualificati come operai (e qualifiche equivalenti) e i cosiddetti “precoci”, ossia coloro che hanno versato almeno un anno intero di contributi effettivi, derivanti da attività lavorativa, prima dei 19 anni di età, i quali sino al 2005 hanno beneficiato di requisiti più accessibili.

** I requisiti richiesti erano pari a 20 anni (19 anni sei mesi ed un giorno) per i dipendenti dello Stato e 25 anni (24 anni sei mesi ed un giorno) per i dipendenti degli enti locali e Asl. In entrambi i casi era prevista una riduzione di 5 anni a favore delle donne coniugate e/o con prole a carico.

*** In presenza di un minimo di contribuzione effettiva di almeno 20 anni (non sono considerati utili i contributi figurativi) e a condizione che l’ammontare mensile della pensione sia almeno pari a 2,8 volte l’assegno sociale.

**** I valori indicati per il 2016-2018 sono adeguati alla speranza di vita accertata dall’ISTAT e stabilita dal DM 16dicembre 2014 (in g.u. del 30 dicembre 2014).

***** I valori indicati dal 2019 in poi sono adeguati alla speranza di vita sulla base delle stime fornite dall’ISTAT.

Tabella 3.11 - Requisiti richiesti per la pensione di anzianità (o anticipata) Fonte: Rapporto n.3 anno 2016 – Il bilancio del sistema previdenziale italiano29

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