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Applicazioni informatiche per la gestione degli archivi archeologici e bioarcheologici.

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Academic year: 2021

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Applicazioni informatiche per la

gestione degli archivi archeologici e

bioarcheologici.

Sviluppo di standard documentativi e di una piattaforma

multimediale di raccolta ed elaborazione dei dati di scavo e

laboratorio.

Dottorato in Scienze dell’Antichità e Archeologia

XXXII CICLO

Candidato: dott. Francesco Coschino Relatore: prof.ssa Valentina Giuffra

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Sommario

INTRODUZIONE ... 7

1. Documentare il passato ... 14

1.1. Potenziale documentativo archeologico ... 16

1.2. Breve storia dei metodi di documentazione ... 21

1.3. Ermeneutica della documentazione archeologica ... 27

2. Verso nuovi standard ... 33

2.1. Dal cartaceo al digitale ... 36

2.2. Modelli catalografici ... 44

2.2.1. Regesto ragionato ... 44

2.3. Codifica degli standard ... 75

2.3.1. Standard britannici ... 77

2.3.2. Standard nordamericani ... 92

2.3.3. Standard europei ... 111

2.3.4. Standard italiani: i modelli ICCD ... 122

2.3.5. Tavole ... 128

2.3.6. Crediti ... 153

2.4. Normalizzazione dei dati ... 154

2.4.1. Definizioni operative ... 155

3. ArcheoDB ... 166

3.1. Logica ... 168

3.2. Architettura ... 172

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3

3.2.2. CSS 3 ... 179

3.3. Codice ... 182

3.3.1. PHP ... 184

3.3.2. Script API e plugin ... 195

3.4. Database ... 202

3.4.1. Logica ... 204

3.4.2. Deontologia ... 212

3.5. PHP+MySQL ... 214

3.6. Interfaccia utente ... 225

3.7. Elenco dei testi consultati ... 228

4. Contenuti ... 230

4.1. La struttura del programma ... 233

4.2. Le schede ... 238

4.2.1. Scheda di Sito (SI) ... 238

4.2.2. Elenco dei Siti... 255

4.2.3. Scheda di Saggio Stratigrafico (SAS) ... 256

4.2.4. Scheda di Ricognizione (RCG) ... 267

4.2.5. Schede di Unità di Scavo ... 280

4.2.6. Elenco delle Unità di Scavo ... 351

4.2.7. Scheda Osteologica ... 352

4.2.8. Scheda di Inventario Osteologico ... 398

4.2.9. Schede di Archivio e Magazzino (TMA) ... 401

4.2.10. Scheda di Reperto (RA-N) ... 405

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4

4.2.12. Cronologie ... 425

4.2.13. Scheda di Restauro ... 430

4.2.14. Archivio dei rilievi ... 435

4.2.15. Archivio delle immagini e dei documenti ... 444

4.2.16. Archivio Multimediale ... 446

4.2.17. Diario di Scavo ... 448

4.3. Pannelli di controllo ... 451

4.3.1. Pannello di controllo dei Siti/Ricognizioni ... 451

4.3.2. Pannello di controllo delle Aree e dei Saggi ... 452

4.3.3. Pannello di controllo delle Unità di Scavo ... 453

4.3.4. Pannello di controllo dei Reperti e del Magazzino ... 455

4.4. Ricerche e report ... 457

4.4.1. Ricerca tra i siti ... 458

4.4.2. Ricerca tra le unità di scavo ... 459

4.4.3. Ricerca tra i record di magazzino ... 459

4.4.4. Report ... 460

4.5. Impostazioni ... 462

4.5.1. Gestione degli utenti, dei ruoli e delle autorizzazioni ... 462

4.5.2. Gestione delle API ... 463

4.5.3. Gestione del Database ... 464

4.6. Prototipi cartacei ... 465

5. Case Studies ... 484

5.1. Il progetto Badia Pozzeveri ... 486

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5.1.2. La vicenda storica ricostruita dalle fonti scritte ... 487

5.1.3. Le emergenze monumentali e le tracce sepolte ... 489

5.1.4. Risultati ... 491 5.2. Il progetto HTCC ... 495 5.2.1. Introduzione ... 495 5.2.2. Lo scavo ... 497 5.2.3. Risultati ... 498 6. Conclusioni ... 501 7. Bibliografia ... 506

8. Indice delle figure ... 531

9. Indice delle tabelle e dei grafici ... 535

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INTRODUZIONE

Il presente elaborato si affianca e completa il progetto di dottorato dello scrivente, che è consistito nella creazione di ArcheoDB, una piattaforma web per l’inserimento e la ge-stione del dato proveniente da scavi stratigrafici archeologici e bioarcheologici1.

Il fine ultimo del progetto intende proporre una serie di nuovi parametri metodologici volti a standardizzare la moltitudine di informazioni raccolte a latere delle operazioni di indagine di contesti sepolti, integrando nuove prospettive funzionali alla gestione infor-matica del dato ai protocolli già esistenti e codificati negli anni dagli Istituti Universitari, Ministeriali e da altre esperienze scientifiche private. L’idea alla base della piattaforma rea-lizzata è fortemente legata alle nuove tecnologie, che ormai da oltre tre decenni si sono affiancate ai consueti metodi di documentazione, potenziandone, da un lato, l’efficacia epistemologica e consentendo, dall’altro, un accesso semplificato, rapido, universale e im-mediato all’informazione.

Il presupposto disciplinare-scientifico che sottende a tale prospettiva è definito, nell’am-bito delle nuove branche dell’archeologia processuale e post-processuale, come open data: una fruizione immediata e aperta del dato, che oltrepassi i confini dell’obsoleto approccio cartaceo.

In effetti, se l’archeologia da sempre genera informazioni, la raccolta di record su mi-gliaia di schede di carta rende la compilazione lunga, faticosa, ma soprattutto soggetta a un’elevata percentuale di disomogeneità e di errore.

Al contrario, il computer snellisce questo processo consentendo di gestire in maniera molto più efficace e versatile l’universalità del record archeologico; rende inoltre possibile

1 L’applicazione, come avremo modo di ripetere più volte nel corso della dissertazione, è

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anche l’implementazione di controlli di qualità severi in fase di immissione del dato e l’effettuazione di una vasta gamma di analisi analitiche (analisi statistica, analisi spaziali, analisi logiche ecc.) in fase di interpretazione (Fronza, 2003).

***

A fronte del crescente perfezionarsi delle tecniche di ricerca, ed in funzione dell’espo-nenziale aumento delle informazioni reperibili ed analizzabili in molti ambiti delle scienze storico-umanistiche, si sente sempre più urgente la necessità di sviluppare applicativi e piattaforme che implementino e migliorino la raccolta, la gestione, la conservazione, il recupero e la divulgazione dei dati. Così, anche nelle discipline archeologiche ed antropo-logiche sono sempre più richiesti protocolli in grado di standardizzare l’acquisizione e la gestione delle informazioni ricavate dal lavoro sul campo e in laboratorio: gli apparati catalografici prodotti ed ampliati senza soluzione di continuità dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del MiBAC si offrono come una eccellente base archivistica, tuttavia la ricchezza e la varietà delle indagini portate avanti dalle équipe universitarie e ministeriali conducono inevitabilmente ad una declinazione dei protocolli di archivio in funzione dell’oggetto di volta in volta indagato. Ciò ha comportato, negli anni, la diffu-sione di una notevole teoria di configurazioni e protocolli, spesso tra loro affini ma rara-mente compatibili. Le conseguenze sono talvolta state contraddittorie, poiché, ad una ri-marchevole varietà di modelli di archivi, che offrono lo spunto a interessanti confronti e opere di sintesi, spesso non ha corrisposto un efficace linguaggio comune capace di far parlare tra loro le informazioni raccolte e di creare una base documentale unitaria2.

No-nostante i numerosi tentativi portati avanti da svariate equipe di ricerca, e gli altrettanto numerosi modelli di archivi proposti in ambito archeologico e bioarcheologico (si pensi ai

2 Passeremo in rassegna, all’interno del Capitolo II, i modelli usati come paradigmi per

impo-stare il nuovo linguaggio qui proposto. Tra questi si rimarca il luminoso esempio del sistema ODOS (v. p.42), sviluppato negli anni ’90 dal gruppo dell’Università del Salento (allora di Lecce) coordinato dal prof. Francesco D’Andria (D'Andria, 1997).

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grandi archivi digitali di scavi come Kaulonia o di Miranduolo3), manca in sostanza uno

standard universalmente accettato nella documentazione di scavo e di laboratorio4.

Di-verso è il discorso che riguarda la creazione di quell’immenso geodatabase del Progetto Mappa5, che tuttavia si discosta dal presupposto che sottende alla gestione diretta dei dati

di scavo, configurandosi piuttosto come piattaforma computazionale e diagnostico-pre-dittiva di contesti già indagati e non in fieri.

La situazione non è molto diversa in ambito europeo e nordamericano, laddove ad una abbondantissima serie di protocolli documentativi non corrisponde che un numero esiguo di tentativi riusciti di standardizzarne la compatibilità operativa (Pavel, 2010). Se si pensa ad esempio ai Codebook per l’acquisizione del dato osteologico sviluppati sin dagli anni ‘90 (per esempio dalla BABAO - British Association for Biological Anthropology and Osteoar-chaeology, dalla GHHP - Global History of Health Project6o da Buikstra e Ubelaker7), si

registra un unico tentativo di sintesi e di standardizzazione riconosciuto a livello accade-mico e costantemente utilizzato da più istituti di ricerca, ovvero l’Osteoware Software, un gestionale per la documentazione osteologica prodotto dalla Smithsonian Institution (Dudar, Ousley, Wilczak, & A., 2011).

3 Per un’analisi approfondita dei sistemi di archiviazione dei due siti si rimanda

rispettiva-mente a Parra, Arnese & Gargini (2004) e Valenti & Fronza (2018).

4 Un lavoro di sintesi è stato compiuto nel lontano 2001 da A. D’Andrea e F. Niccolucci con

i protocolli digitali Syslat (D’Andrea & Niccolucci, 2001).

5 Anichini F., Fabiani F., Gattiglia G., Gualandi M.L., Un database per la registrazione e l’analisi

dei dati archeologici, in MapPapers 1-II (Anichini, Fabiani, Gattiglia, & Gualandi, 2012)

6Steckel R.H., Larsen C.S. et al., Data Collection Codebook, OSU Press (Steckel, Larsen, Sciulli,

& Walker, 2006)

7 Buikstra J.E., Ubelaker D.H., Standards for Data Collection from Human Skeletal Remains

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Il presente progetto di dottorato ha avuto dunque come scopo quello di realizzare un apparato documentario globale e ragionato per la raccolta, la gestione e l’elaborazione dei dati provenienti da cantieri archeologici e bioarcheologici e da laboratori osteoantropolo-gici. Il presupposto principale è costituito dall’inedito tentativo di conciliare le informa-zioni strettamente archeologiche e stratigrafiche a quelle antropologiche, bioarcheologiche e tafonomiche, inserendole all’interno di un database centralizzato ed ancorandole a criteri spaziali georiferiti. Per tale scopo si tenterà di creare uno standard sistematico di cataloga-zione per tutte le tipologie di contesti archeologici, bioarcheologici e osteologici, in grado di definire criteri omogenei e condivisi a livello globale, in modo funzionale alla gestione informatizzata.

Il prodotto finale è costituito da un pacchetto di schede per il censimento e la raccolta dei dati e di una piattaforma web impostata su un archivio globale ed accessibile dall’utenza. In particolare, le schede coprono tutti gli standard catalografici normati dal Ministero e arricchiscono quegli archivi per i quali non sono ancora stati sviluppati pro-tocolli centralizzati di documentazione, segnatamente quelli per la georeferenziazione GIS dei contesti. Per questo motivo è stata contestualmente sviluppata una piattaforma multi-mediale web ancorata ad un geodatabase relazionale in grado di raccogliere ed implemen-tare tutte le schede cartacee, consentendo di inserire i dati reperiti in modo uniforme e globale e di renderli disponibili ad un’utenza interna o esterna al gruppo di studio. Tale applicazione potrà essere sia private che multiclient, ovvero installabile su singoli device o in rete e perciò raggiungibile da un numero variabile di persone, sia online che offline. Al suo interno potrà ospitare dati alfanumerici, geografici, immagini, documenti, elabora-zioni tridimensionali, e file multimediali.

Le finalità sostanziali del progetto possono essere riassunte pertanto in cinque punti: 1) Creare uno standard di documentazione globale ed integrato per la raccolta e la

gestione dei dati archeologici e bioarcheologici.

2) Creare una base di dati globale compatibile e ad accesso multiplo e diffuso. 3) Rendere il processo di acquisizione sul campo ed in laboratorio più rapido e

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4) Consentire elaborazioni informatizzate multilayer ed incrociate.

5) Rendere i dati divulgabili ed accessibili ad un numero variabile di utenze. ***

Schematizzando, si presenta di seguito la struttura sinottica della piattaforma multime-diale di raccolta ed elaborazione dei dati.

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Seguendo lo schema, il progetto di ricerca si è dunque mosso sostanzialmente su tre direttive principali:

1) Il reperimento, confronto e sintesi dei protocolli editi e già in uso a livello mini-steriale e universitario in Italia ed all’Estero.

2) La creazione dell’apparato documentario oggetto della ricerca in senso stretto. 3) L’applicazione, sperimentazione e test del pacchetto di standard sviluppati.

Una prima fase del progetto è consistita nel reperire modelli di standard documentativi sviluppati da istituti universitari, enti governativi ed équipe di ricerca sia su territorio na-zionale che estero (con particolare attenzione alla Francia, alla Gran Bretagna e agli USA). Si è dunque proseguito con una disamina dell’edito e, ove possibile, con un confronto diretto con i gruppi di studio autori dei differenti protocolli. Il materiale reperito è stato studiato ed integrato e dunque sottoposto ad un tentativo di standardizzazione.

Una volta raccolto sufficiente materiale di confronto, lo sforzo metodologico si è mosso, nel concreto, all’interno dei seguenti presupposti:

- Integrare applicazioni precedentemente sviluppate dal candidato; - Creare applicazioni web e stand-alone utilizzando software terzi; - Sviluppare pacchetti di schede cartacee;

Le tecnologie utilizzate sono state varie e tra loro integrate. Nello specifico il lavoro si è impostato sulla creazione di un pacchetto di schede destinate a coprire le necessità docu-mentarie di svariati ambiti di ricerca. Alle consuete schede prettamente archeologiche (US, USM, RA, SI) sono state affiancate matrici catalografiche destinate alla raccolta di dati bioarcheologici (USk, USs, Schede osteologiche), ai rilievi, al magazzino ed al restauro in situ; a queste schede da cantiere si è aggiunto un intero pacchetto di archivi per il censi-mento dei dati antropologici da laboratorio, seguendo i principi già elaborati dallo scri-vente nella stesura del progetto di tesi magistrale8. Gli archivi sono stati in seguito

8 Nell’occasione è stato sviluppato un software stand-alone per la gestione del dato

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digitalizzati ed inseriti all’interno di una piattaforma Web 3.0 impostata su un database relazionale. A partire da questo programma ci si è mossi in un terreno il più possibile caratterizzato dall’open source e dalla libera diffusione e fruizione del dato, con la finalità di renderlo accessibile, una volta raffinato e interpretato, alla comunità scientifica, e com-prensibile per quella dei non addetti ai lavori. Per questo caso di studio si è fatto largo uso di una serie di tecnologie per l’acquisizione e la gestione dei dati alfanumerici e geografici (DBMS, GIS e WebGIS), implementati dall’uso di tecniche di programmazione web (HTML5, PHP, MySQL, CSS3, JavaScript).

L’ultima fase è dunque consistita nel mettere a punto la ‘Release version’ del prodotto sviluppato attraverso una serie di prove di valutazione, sia con tecniche ispettive euristiche, che con test ed applicazioni empiriche su utenti reali e in contesti concreti (i laboratori della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa e il cantiere di scavo archeologico e bioarcheologico di Badia Pozzeveri, Lucca).

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1.

Documentare il passato

La gestione della documentazione di scavo si è affidata per anni all’accumulo di migliaia di schede fisiche, che comportavano una lunga e complessa attività di compilazione ma-nuale, archiviazione, indicizzazione e rielaborazione. La processazione e l’interpretazione di un simile patrimonio informativo cartaceo hanno da sempre rappresentato un compito difficile, spesso soggetto ad una elevata percentuale di disomogeneità ed errore, segnata-mente in quei contesti di ricerca che si protraggono per molte campagne o su fronti di indagine mutevoli in dimensione e personale addetto.

Al contrario, l’approccio informatico facilita e snellisce questo compito, rendendo pos-sibile anche l’implementazione di controlli di qualità severi in fase di immissione del dato e l’effettuazione di una vasta gamma di analisi (analisi statistiche, analisi spaziali, analisi logiche, ecc.) in fase di interpretazione (Cocca, 2015). D’altro canto, la transitorietà stessa dell’ele-mento archeologico, dal singolo reperto fino a un intero territorio, inteso come evidenza variabile e inevitabilmente destinata a scomparire – nonché la intrinseca complessità fisica – predispongono a una diligente e metodica raccolta dei dati, i quali sono archiviati se-condo un grado di dettaglio direttamente adeguato alla natura dell’indagine, alla strategia di ricerca adottata e al modello storiografico determinato (Fronza, Nardini, & Valenti, 2009). Ne consegue che, nella ricostruzione del corso degli eventi di un singolo oggetto,

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di un insediamento, di un paesaggio o di un particolare fenomeno del passato, la fase di annotazione e di narrazione dei dati acquista un’importanza indispensabile9.

Se è vero che la fase di raccolta dei dati parte sempre dalle capacità di lettura di chi li osserva e dalla sua soggettiva modalità di visione, lo strumento informatico ha lo straordi-nario potenziale di ordinarli in archivi facilmente consultabili e di generare quindi, attra-verso un sistema che rende ‘semplice’ la ‘complessità’, una possibilità in più nella fruizione successiva dell’informazione. In questo senso l’utilizzo dei tradizionali sistemi di docu-mentazione cartacea tende a essere a volte inadeguato, soprattutto quando sul campo ope-rano più specialisti che adottano metodologie differenti e i quali, inoltre, possono cam-biare nel corso delle diverse campagne di scavo.

Queste considerazioni evidenziano in maniera indiscutibile ed evidente il rilevante ap-porto, sia qualitativo che quantitativo, che la tecnologia informatica ha portato alla ricerca: contestualmente alle notevoli possibilità di condivisione delle informazioni e agli stru-menti per la produzione di supporti divulgativi (soprattutto multimediali), questi aspetti rappresentano i principali, e ormai irrinunciabili, vantaggi dell’uso del calcolatore nella pratica della disciplina archeologica (Valenti, 2018). Oltretutto l’informatizzazione digi-tale standardizza e uniforma i dati raccolti evitando una dispersione e distorsione del dato, mettendo al contempo a disposizione del fruitore dei protocolli di ricerca, reportistica e analisi precisi ed efficaci.

9 Si rimanda alle considerazioni ampiamente dibattute in ambito senese sull’importanza di

de-finire standard informatici universalmente applicabili a contesti di ricerca variabili e multidiscipli-nari (Fronza & Valenti, 2018)

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1.1. Potenziale documentativo archeologico

L’archeologia ha un dilemma etico alla radice, che può essere riassunto nella provoca-toria domanda: se lo scavo è un processo inevitabilmente distruttivo e se l’oggetto della sua analisi deve necessariamente venire decontestualizzato per essere interpretato, quale può essere la sua giustificazione scientifica?

Sono state avanzate molte idee per affrontare questo paradosso, a partire dall’assunto positivistico che, se anche lo scavo distrugge fisicamente quello che indaga, compensa que-sta assenza ricreando, attraverso modelli simbolici e narrazioni, la sequenza storica di cui il principale testimone e il risultato finale è la trasposizione intellettuale del medesimo processo di decontestualizzazione (Carandini, 1996). Proprio per questo, il fatto che gli archeologi dedichino buona parte della loro attività a registrare, documentare ed interpre-tare il contesto che loro stessi distruggono sembra essere il cardine ontologico in difesa dell’archeologia stratigrafica. Si può dunque dire che la registrazione delle informazioni è, da un lato, la garanzia che il sito sia stato interpretato e sintetizzato con rigore scientifico e, dall’altro, la chiave per la sua comprensione finale.

Parimenti, l’assunto di Philip Barker dello scavo archeologico inteso come ‘un esperi-mento irripetibile’ (Barker, 1966, p. 10) se paragonato alle altre scienze empiriche, ancor-ché metaforica, rende bene l’idea di quanto la disciplina archeologica abbia dei limiti pra-tici ben evidenti, sostanziati proprio nella fragilità del dato, segnatamente nel momento della sua acquisizione sul campo. Restando nei confini della metafora, è in effetti certa-mente vero che non si può ripristinare un’area allo stadio di pre-scavo e scavarla di nuovo, mentre, per dimostrare gli effetti del campo magnetico, si potrebbe sempre prendere della limatura di ferro e mostrare che le linee di forza di qualsiasi magnete si spostano sempre da un polo all’altro. Nondimeno, rivista alla luce delle nuove interpretazioni e delle mo-derne tecnologie, ci sono diverse ragioni per le quali la definizione di Barker non rende giustizia alla complessità del paradigma archeologico. A rigor di termini, anzitutto, nessun esperimento può essere realmente replicato identico a sé stesso: le limature di ferro non

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assumeranno mai la stessa configurazione sullo stesso foglio di carta sopra lo stesso ma-gnete. Inoltre, ci sono esperimenti che implicano anche la distruzione o la trasformazione irreversibile dei materiali coinvolti: la reazione tra solfato di rame ed ammoniaca produrrà dell’idrossido di rame e le sostanze iniziali come tali saranno irrecuperabili. Eppure, se dovessimo ripetere l’esperimento, non ci soffermeremmo mai sul fatto che dovremmo usare cristalli di solfato di rame e idrossido di ammonio diversi da quelli utilizzati in pre-cedenza, né ci demoralizzeremmo per non essere in grado di usare esattamente le stesse quantità di quelle sostanze esattamente alla stessa temperatura dell’esperimento prece-dente. Per noi, l’esperimento è ripetibile perché a livello simbolico tutti i cristalli di solfato di rame sono la stessa cosa e, finché restiamo nel campo della chimica, siamo interessati esclusivamente alla legge generale alla base della reazione, non alla variabilità di possibili occorrenze etiche o morali. Questo avviene perché gli esperimenti fisico-chimici non com-portano alcuna variabilità culturale, mentre la ripetibilità è strettamente dipendente dai nostri interessi e dalle nostre aspettative. In termini paradossali, quindi, il succitato espe-rimento del magnete non può essere considerato davvero ripetibile se si sposta il fuoco dell’attenzione sull’entropia della distribuzione di limatura di ferro (che è imprevedibile), e il secondo è perfettamente ripetibile se il suo obiettivo è solo ed esclusivamente quello di dimostrare che la combinazione delle due sostanze in soluzioni produce sempre un precipitato (che è prevedibile). Parimenti, uno scavo archeologico sarebbe di per sé per-fettamente ripetibile se il nostro obiettivo fosse soltanto dimostrare che, in un continuum stratigrafico indisturbato, i black layers delle città nord-italiane seguono cronologicamente la fase di abbandono successiva al collasso delle infrastrutture imperiali. La moderna scienza stratigrafica è tuttavia consapevole, a partire dal ‘principio di indeterminazione’ di Heisenberg - o, più prosaicamente, dal ‘gatto’ di Schrödinger - che gli archeologi influen-zano profondamente con le loro azioni e il loro approccio intellettuale l’esperimento (che tende dunque a deviare verso ciò che si sta cercando), diventando quindi essi stessi una variabile all’interno dell’equazione (Okamura & Matsuda, 2012, p. 152).

Si deve dunque piuttosto spostare l’attenzione dall’esperimento in sé allo sperimenta-tore: se anche il primo, per assurdo, fosse infatti ripetibile a determinate condizioni

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(ricostruire la stratificazione sulla base di ricostruzioni virtuali estremamente elaborate), è il secondo la vera variabile irripetibile, perché subisce inevitabilmente condizioni di tipo culturale, sociale, emotivo e, soprattutto, intellettuale. Se avessero la possibilità, tutti gli archeologi scaverebbero senza dubbio in modo diverso i siti dove hanno lavorato anni prima, raccoglierebbero altri dati, testerebbero altre ipotesi, costruirebbero altri docu-menti, aggiungerebbero altri significati e infine suggerirebbero diverse ricostruzioni stori-che del sito. Partendo dunque da una lettura sfumata della formula di Barker, si giunge dunque all’asserzione che, inevitabilmente, sono l’interpretazione e l’auto-riflessività le principali caratterizzazioni epistemologiche di qualsiasi scavo post-processuale (§ par. 1.3). Il paradosso che ha aperto il paragrafo assume una sfumatura leggermente diversa se si identifica l’idea di passato con l’immagine di un archivio sepolto nella terra, i cui docu-menti possono essere consultati solo distruggendoli. La decifrazione di questo archivio e la sua conseguente distruzione non avvengono davanti all’intera comunità scientifica, ma all’interno di un ristretto gruppo di persone, presumibilmente il direttore degli scavi, il direttore dei rilievi e della documentazione e i responsabili di area. Di conseguenza, la società lascia il compito focale di comprendere un sito, che sarà raso al suolo nel processo, ad una élite, appartenente a questa o quella scuola, che lavora con strumenti e tecniche troppe volte non universali.

Continuando sulla linea di definizione sinora percorsa, si può dunque dire che ferenza tra oggettività e soggettività è direttamente proporzionale al grado con cui l’inter-pretazione interferisce con la descrizione. Lo sforzo conoscitivo archeologico è diventato estremamente elevato, il che significa che il deposito stratigrafico viene sottoposto ad una indagine estremamente intensiva e costretto a fornire il massimo di risultati possibili già durante il processo di scavo, sia in termini quantitativi che qualitativi: non è un caso che, per il post-processualismo, il concetto di manufatto (artifact in inglese) si espande immen-samente nel tempo e viene integrato dalla nozione di ecofatto, andando ad includere oli-sticamente anche i campi applicativi più propriamente bioarcheologici, paleoambientali e zooarcheologici (Renfrew & Bahn, 1995, p. 421). Alla luce di ciò, la domanda che

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inevitabilmente ci si deve porre, anche e proprio superando le barriere tra discipline limi-trofe, può essere: qual è il modo migliore per documentare senza generare perdita di dati o dare priorità ad un approccio invece che ad un altro?

A qualsiasi archeologo, sia esso alle prime armi o esperto di lungo corso, sarà capitato almeno una volta, iniziando una nuova missione o collaborazione, di imbattersi in stan-dard documentari a lui estranei, discordanti da quelli che era abituato ad usare o comple-tamente inediti. Questo perché ogni gruppo di scavo si è dotato inevitabilmente degli strumenti più congeniali al contesto di indagine, al periodo o alle tempistiche richieste per portare a compimento l’opera di ricerca: il risultato di questa condizione è la presenza di una disarmante quantità di schede, software e banche dati tra loro spesso totalmente di-versi, sia nella forma che nella sostanza e dunque inevitabilmente incompatibili. Inutile rimarcare che non esiste un metodo di acquisizione di dati globalmente migliore di un altro, né tantomeno uno e un solo modo per gestire l’informazione archeologica tout court. La verità è piuttosto che, ricercando approfonditamente tra i vari esempi elaborati dagli istituti di ricerca, dalle università o dagli enti pubblici, non si trovano, di fatto, protocolli di documentazione universali e utilizzati trasversalmente. Con questo non si vuol certo asserire che non vi sia mai stata la volontà di creare un corpus unitario di protocolli (ne è ovviamente un esempio lampante, in Italia, l’ICCD, che, come detto nel precedente ca-pitolo, ha da anni iniziato un processo di standardizzazione delle schede, che è risultato indispensabile a questo lavoro), piuttosto si delinea la sostanziale mancanza di un’unità di intenti, da parte degli effettivi utilizzatori finali, di fare una scelta e decidere, e pluribus unum, di adottare un metodo di documentazione prestabilito e universalmente ricono-sciuto.

***

In un recente progetto di dottorato portato avanti tra l’Università di Bucarest e la Sor-bona di Parigi, Cătălin Pavel ha raccolto decine e decine di modelli pro-forma (prevalen-temente cartacei) di schede per la raccolta del dato stratigrafico, bioarcheologico, topogra-fico, archeozoologico e architettonico, elaborati tra Europa e USA negli ultimi

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quarant’anni (Pavel, Describing and Interpreting the Past - European and American Approaches to the Written Record of the Excavation, 2010)10. Egli sostiene che l’adozione

di un approccio standard sarebbe indispensabile, se si considera che, in primo luogo, la mancanza di un sistema di registrazione protocollare conduce spesso e volentieri alla per-dita di grosse porzioni di informazione; in secondo luogo, la disomogeneità del dato pro-veniente da siti differenti impedisce il confronto incrociato, a causa delle incoerenze nella terminologia e/o nella quantità di dati raccolti: il profitto scientifico dell’archeologia di-minuisce e l’immagine generale è imperfetta. Infine, i metodi e le ipotesi che hanno por-tato alle conclusioni presentate nelle relazioni finali, conclude Pavel, non possono essere immediatamente rintracciati o fatti risalire a prove primarie.

Dall’elenco ragionato dei modelli censiti, lo studioso delinea un quadro di proposte estremamente ricco, ancorché frammentato e incoerente, e si auspica, senza peraltro pro-porre una conclusione unitaria, che si possa arrivare ad acquisire da ciascun esemplare le parti migliori, onde sintetizzare un prototipo il più possibile completo e funzionale.

Senza pretese di ridiscutere la teoria archeologica alla base degli strumenti di documen-tazione creati dalle varie scuole, il compito primario che lo scrivente si è assunto nell’ela-borare il proprio progetto di ricerca, è costituito proprio dalla volontà di giungere ad una sintesi sistematica dei principali prototipi di documentazione editi e riconosciuti a livello nazionale ed internazionale, per giungere alla creazione di una serie di standard e dar vita ad un corpus conclusivo di schede, riunite sotto un unico thesaurus e all’interno di un’unica base di dati.

10 Il lavoro, di non facile reperibilità, rappresenta un interessante esempio della rimarchevole

necessità di continuare a produrre manualistica riferita alla metodologia della ricerca archeologica, sovente messa in secondo piano dalle pubblicazioni dei risultati di scavo, dei testi interpretativi e dei cataloghi.

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1.2. Breve storia dei metodi di documentazione

I primi passi verso la creazione di un metodo di documentazione applicabile alle scienze archeologiche vennero mossi contemporaneamente alla stessa nascita delle discipline stra-tigrafiche moderne.

Precoci tentativi di un dibattito teorico sulle forme di documentazione archeologica si registrano in Gran Bretagna già all’inizio del Ventesimo secolo, quando i resoconti di scavo iniziano ad assumere caratteristiche scientifiche fino ad adesso estranee agli avven-turosi reportage dei primissimi esploratori delle vestigia del passato (Levine, 1986). In particolare, è negli scritti di Pitt Rivers (Bradley, 1983), Flinders Petrie (Stevenson, 2012) e John P. Droop (Droop, 2010) che si inizia a delineare un nuovo approccio, impostato sulla volontà di descrivere, censire e catalogare qualsiasi evidenza venga portata in luce nel processo di sterro, al fine di dare un senso interpretativo e narrativo alle campagne di indagine (Gavin, 2001, p. 10). Semplici forme di registrazione furono anche proposte dagli archeologi francesi (F. Scheurer / A. Lablotier, E. Salin, L. Frédéric) dal 1914, men-tre gli archeologi tedeschi (Khamid el Loz) e sovietici (Novgorod) usavano per lo più bloc-chi di appunti non dissimili da quelli utilizzati il secolo precedente da Heinrich Schlie-mann. Negli Stati Uniti, l’influenza degli scavi di Reisner a Samaria (1908-1910) creò il clima giusto che portò al sistema di R. Heizer nei primi anni ‘50 (Heizer R. F., 1949), che a sua volta stimolò l’interesse per la registrazione e influenzò indirettamente un certo nu-mero di importanti sistemi di documentazione complessa nel Vicino Oriente, tra cui quelli di Tel Gezer e Tell el-Hesi, che, negli ultimi anni, sono stati rielaborati dai sistemi usati a Tell Madaba e Tell Miqne. Le Soprintendenze Italiane, come vedremo nei prossimi capi-toli, iniziarono a sviluppare i primi esemplari di standard dalla fine degli anni ‘70 e, poco

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dopo, i francesi coniarono due importanti sistemi di registrazione per i siti di Lattara e Bibracte11.

Il graduale sviluppo delle discipline nei decenni post-bellici condusse all’allontana-mento dallo scavo a griglia elaborato da Wheeler-Kenyon dopo Maiden Castle (Wheeler, 1943), in favore delle strategie a grandi aree (Barker, 1966) e al contestuale emergere del diagramma stratigrafico di Harris (Harris, Principles of Archaeological Stratigraphy (2nd Edition), 1977 e 1989). Parallelamente all’affinamento delle tecniche di scavo e spinti anche dall’evoluzione delle tecnologie (in primis le fotocopie), un gran numero di team di ricerca iniziò a sviluppare e personalizzare le proprie schede di unità stratigrafica. Conte-stualmente, il boom degli scavi di emergenza in Gran Bretagna negli anni ‘60 e ‘70, in concomitanza con i progressi tecnologici come lo sviluppo di database e stazioni totali, pose le basi all’introduzione di schede prestampate sempre più elaborate. Il Dipartimento di Archeologia Urbana del Museo di Londra è stato il primo in Europa a dedicare, nel 1975, un pro-forma dedicato a ciascuna unità di scavo (in inglese ‘context’), che si tratti di un’unità prettamente stratigrafica, muraria o scheletrica.

Parallelamente, proliferavano nei decenni ‘70-’80 i tentativi di standardizzare gli appa-rati logico-teoretici che sottendevano alla creazione di schede prototipiche ed emerse una vera e propria riflessione teorica sul significato della documentazione archeologica. Gli assunti che motivavano la volontà di uniformare la raccolta dei dati presero spunto da considerazioni spesso strettamente legate allo sviluppo delle teorie della New Archaeo-logy12 e di quella branca dell’archeologia post-processuale che adopera la pratica

11 Per un’analisi approfondita delle fonti citate, si rimanda al Capitolo II (pp.71-120), ove si

prenderanno in esame le diverse metodologie di documentazione sviluppate nel mondo negli ul-timi 30 anni.

12 Non è questa la sede opportuna per una dissertazione sul metodo e sulle dottrine, ci si

limi-terà, nelle prossime pagine a trattare singoli spunti, demandando il quadro di insieme alla biblio-grafia (vedi pag. 110).

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documentativa scientifica come strumento di analisi complementare del dato quantitativo, enfatizzando piuttosto la soggettività delle interpretazioni archeologiche13.

Il grande salto generazionale si registra tuttavia a partire dai primi anni ‘90, quando si fece prepotentemente strada tra le metodologie di documentazione e rilievo archeologico l’informatica applicata. Ecco che al cartaceo si iniziò a sostituire il digitale, agli archivi i database ed alla penna indelebile, la tastiera e il tasto ‘backspace’. In altre parole, le tecno-logie cominciarono a sovrapporsi a quanto elaborato sino a quel momento, potenziandone la portata semantica e l’eco mediatica, visto che si fece strada l’inedita possibilità di divul-gare l’informazione archeologica con l’esterno, in linea coi principi sempre più conclamati dell’Archeologia Pubblica e dell’Open Data (Valenti, 2016 e 2018).

I protocolli di acquisizione del dato iniziarono a proliferare e a diversificarsi sempre di più, andando a colmare la crescente richiesta di schede per una scienza sempre più multi-disciplinare. In ambito accademico si videro accumularsi tentativi di standardizzazione e sperimentazione, declinati sulle esigenze di ciascun gruppo di ricerca e del contesto di scavo di riferimento.

Nei primi anni 2000 lo sviluppo delle tecnologie informatiche applicate alle scienze umane spinse molti Dipartimenti e le Pubbliche Amministrazioni, sia italiane che inter-nazionali, a implementare nuovi parametri di gestione del dato, puntando soprattutto in due direzioni integrate e supplementari: l’uso di database impiantati su server web e la georeferenziazione del dato a base GIS e WebGIS. Questi tentativi (che verranno

13 Si legge nel Dizionario di Archeologia Laterza: «Le recenti formulazioni postmoderne vanno

rapidamente smantellando il mito di una conoscenza oggettiva del passato e di un procedere imparziale dell'archeologo. L'impianto relativista dell'archeologia post-processuale lascia sempre meno spazio ai metodi matematici e statistici, che sono visti come potenzialmente riduttivi e meccanicistici. Nel com-plesso è in vista un riequilibrio del ruolo dell'archeologia quantitativa: abbandonati gli estremismi che la vedevano come unica via di raggiungimento della verità, essa appare oggi come una delle molte opzioni euristiche aperte al ricercatore. In questa nuova prospettiva i metodi quantitativi possono ar-ricchire e chiarire molti aspetti della documentazione archeologica» (Terrenato, 2000).

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analizzati nel dettaglio all’interno del paragrafo 2.2) svilupparono un nuovo abito nell’ela-borazione informativa, impostato sul superamento dei limiti di spazio di archiviazione legati ai singoli calcolatori, ma anche, e soprattutto, sull’acquisizione di una nuova pro-spettiva definizionale del dato, che acquisì una inedita dimensione spaziale e un illimitato potenziale di diffusione e condivisione.

L’ultimo decennio ha implementato queste prospettive: l’infinito potenziamento delle piattaforme web e dei sistemi informativi territoriali ha consentito lo sviluppo di nuove interfacce di immediato utilizzo e, contestualmente, di applicativi gestionali potentissimi. Si sono accumulati tentativi illuminati ed efficaci di diari di scavo online, accessibili al pubblico e consultabili da qualsiasi piattaforma, in grado di coinvolgere nuove e vaste fette di pubblico e di divulgare le scoperte all’esterno del gruppo di lavoro14. A questo indirizzo

si aggiunge il nuovo approccio di un gran numero di sviluppatori di software, che rilascia i propri codici in modalità opensource o freeware. A capo di questa rivoluzione informa-tica c’è senz’altro Google15, che ha deciso di consentire l’integrazione gratuita e pressoché

illimitata dei propri prodotti, segnatamente geografici, dando modo anche agli sviluppa-tori non prettamente informatici di avere a disposizione strumenti potentissimi. Sul ver-sante dei software GIS, lo stesso discorso può essere fatto per la piattaforma Quantum GIS, un’applicazione desktop multipiattaforma gratuito e open source che supporta la visualizzazione, la modifica e l’analisi di dati geospaziali.

14 Anche lo scrivente ha sviluppato diverse pagine web atte a raccogliere, campagna dopo

cam-pagna, i risultati giornalieri delle attività di ricerca su campo. In particolare sono consultabili on-line i diari di scavo dei siti di Benabbio (https://www.paleopatologia.it/Benabbio/), Badia Poz-zeveri (https://www.paleopatologia.it/BadiapozPoz-zeveri) e Harrison Township Cholera Cemetery (https://htcc.irlabnp.org/).

15 La filosofia etica del colosso informatico di Mountain View è espressa nei dieci punti elencati

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All’opensource fanno eco i concetti di open data e open-archaeology16, che sono

diven-tati un mantra per moltissimi ricercatori ma anche una modalità di apertura dell’informa-zione sempre più diffusa presso numerose e variegate Istituzioni (Anichini & Gattiglia, Verso la rivoluzione. Dall'Open Access all'Open Data: la pubblicazione aperta in archeologia., 2015). Ne è esempio il Geoportale GEOscopio17, lo strumento webgis con

cui è possibile visualizzare ed interrogare i dati geografici della Regione Toscana e che mette a disposizione dell’utente un immenso numero di carte e file geografici strutturati su diversi livelli informativi18.

L’ultimo lustro ha infine visto l’inevitabile affermarsi, anche in ambito di data-mana-gement archeologico, della crescente facilità di interfacciarsi con le nuove piattaforme di condivisione social. Si tende sempre più spesso a diffondere i dati di scavo su Facebook, Twitter e Instagram, che hanno gradualmente sostituito o affiancato i diari di scavo online. Paradossalmente, questo approccio ha talvolta rappresentato, laddove non sia stato mode-rato da una oculata autorevisione dei contenuti, un alibi consolidato presso numerosi gruppi di ricerca, anche in ambito universitario, per concentrarsi su descrizioni frettolose di ciò che viene quotidianamente portato alla luce in cantiere a scapito della comprensione

16 Senza volersi addentrare in digressioni avulse dall’oggetto di questo elaborato, si riporta, per

completezza, una recente e illuminata definizione di open-archaeology: ‘[…] Ethics and Practice'

brings together authors and researchers in the field of open-source archaeology, defined as encompassing the ethical imperative for open public access to the results of publicly-funded research; practical solutions to open data projects; open-source software applications in archaeology; public information sharing pro-jects in archaeology; open-GIS; and the open-context system of data management and sharing.’ (Wilson

& Edwards, 2015)

17 Il portale è raggiungibile da questo link:

http://www502.regione.toscana.it/geoscopio/carto-teca.html

18 All’interno del geoportale trova spazio anche Castore, un applicativo attraverso il quale è

possibile consultare anche buona parte della cartografia storica edita (http://www502.regione.to-scana.it/geoscopio/castore.html).

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ponderata e incrociata dei dati ragionati. Non si deve infatti dimenticare che, se le relazioni finali devono interpretare i dati e concludere il processo di sintesi, il dato grezzo acquisito in cantiere ha il compito di sostanziare l’origine di ogni spunto di interpretazione dando avvio alla fase più propriamente analitica. Nondimeno, è fortunatamente da rimarcare come la crescente consapevolezza legata allo sviluppo di interpretazioni multiple incorpo-rate in sistemi di registrazione informatici in tempo reale, sta gradualmente rovesciando questa situazione in favore di una integrazione tra dato grezzo e dato elaborato: è l’esempio dei grandi scavi internazionali classici e protostorici di Hesi, Madaba Plains, Çatalhöyük, Portus e Agorà, che si appoggiano al database ARK (v. p. 44 e seguenti), ma anche delle esperienze nazionali di Miranduolo e Poggio Imperiale condotti dall’Università di Siena sulla base dei protocolli informatici sviluppati dal LIAAM (§ par. 2.2, p. 44) e di Badia Pozzeveri, portato avanti dall’Ateneo Pisano e dallo scrivente in prima persona (§ par.5.1, p. 486 e seguenti). In tutti questi esempi il dato acquisito su campo viene normalizzato in funzione del contesto di indagine, cosicché ogni elemento informativo primario e grezzo si fa tassello indispensabile per la sintesi finale e si predispone per la restituzione e la di-vulgazione verso il pubblico.

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1.3. Ermeneutica della documentazione

archeo-logica

La paradossale domanda che ha aperto il paragrafo 1.1 trova conferma, a livello pratico, nell’abito tipicamente archeologico di considerare ogni unità di scavo come un evento destinato a rimanere memoria, una volta estratta dal suo contesto originale. La sua rilettura potrà condurre ad una sintesi coerente solo se, chi la maneggia, riesce a documentare l’evi-denza nel modo più accurato e obiettivo possibile, mantenendo l’oggettività del dato di scavo distinta dalla sua interpretazione precostituita.

Tale propensione alla narrazione scientifica trova talvolta ostacolo in quelle spinte en-tusiastiche che portano a vedere nel processo archeologico ciò che si vuol vedere anche laddove non ve ne sia la certezza stratigrafica: una buca può ad esempio essere considerata come di palo solo se il contesto che la caratterizza fornisce sufficienti indizi interpretativi (Barker, 1966), così come delle ossa umane sepolte in una fossa non fanno necessaria-mente di questa una sepoltura primaria (Duday, The archaeology of the dead : lectures in archaeothanatology, 2009). In seno a queste considerazioni, anche in Italia vengono ac-colte, a partire dalla fine degli anni ’70, innovazioni teoriche di tipo processuale maturate in ambiente anglosassone e statunitense19. Il filone disciplinare parte dal presupposto che

il passato è ricostruibile in misura molto più ampia di quanto si ritenesse fino ad allora possibile, laddove si sia in grado di spiegarlo, e non solo semplicemente di descriverlo, attraverso valide generalizzazioni. Queste infatti consentono l’identificazione di quelle ten-denze generali che si rilevano nei differenti contesti storici. Nel far ciò gli esponenti della New Archaeology (soprattutto in ambito anglosassone) cercarono di abbandonare il

19 Per un approfondimento sulle istanze di pensiero della New Archaeology si rimanda al

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concetto di ‘influenza’ di una cultura su un’altra tentando di analizzare ogni società come un ‘sistema’ che poteva a sua volta essere suddiviso in ‘sottosistemi’ (Binford L. , 1962).

Metodologicamente, i sostenitori della New Archaeology dovettero escogitare metodi per analizzare i resti archeologici in modo più scientifico. Il problema era che non esisteva alcuna struttura teorica per questo tipo di analisi. C’era una tale mancanza di letteratura pregressa in quest’area di indagine da indurre Willey e Phillips a dichiarare nel 1958: ‘So little work has been done in […] archaeology on the explanatory level that it is difficult to find a name for it20‘. Con Binford vennero introdotti nuovi approcci molto più sistematici che

hanno condotto all’adozione dello scavo stratigrafico come elemento di punta della ricerca e dai quali deriva il formalismo dato dalla scheda di unità stratigrafica (Binford L. , 1965). Questa scheda, da cui si svilupparono, negli anni, i modelli attualmente in uso anche in Italia, contiene una serie di voci sistematiche a cui obbligatoriamente l’archeologo deve rispondere, rinviando alla successiva elaborazione dei dati gli elementi di interpretazione soggettiva che, troppe volte, nella stessa fase di costruzione del documento archeologico, rendevano le informazioni raccolte attraverso il giornale di scavo prive di ogni reale ogget-tività, rispettando così quelli che erano i ‘principi’ della New Archaeology.

A partire da questi presupposti provenienti segnatamente dagli ambiti anglosassoni, la cornice teoretica al centro dell’archeologia processuale italiana acquisisce una sua autono-mia, ponendo al centro del metodo un approccio storicistico ed empirico, non di rado influenzato dagli schemi del marxismo (Francovich & Manacorda, 2009, p. 201; Dezzi Bardeschi, 2008, p. 145): è da questa prospettiva che i processualisti credono di poter comprendere i sistemi culturali del passato attraverso l’analisi stratigrafica e soprattutto la narrazione documentaria dei contesti indagati. Scopo della ricerca archeologia è dunque quello di avvicinare il procedere dell’archeologo a quello delle cosiddette scienze esatte, inseguendo la speranza di poter riordinare il pensiero archeologico tramite la definizione

20 ‘È stato fatto così poco lavoro è nell’archeologia […] a livello esplicativo che è difficile trovarle un

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di una serie di leggi universali, sino a giungere ad interpretazioni univoche per determinati indicatori archeologici mediante una serie di strumenti costruiti apposta per raccogliere ed ordinare sistematicamente i dati acquisiti sul campo (Cocca, 2015, p. 14). Questo per-ché gli archeologi processuali aderiscono alla teoria di Leslie White secondo cui la cultura può essere definita come mezzo esosomatico di adattamento ambientale (White L. A., 1959). In altre parole, studiano l’adattamento culturale al cambiamento ambientale piut-tosto che l’adattamento corporeo generazionale, che viene affrontato dai biologi evoluzio-nisti. La sintesi processualista ritiene che il cambiamento culturale avvenga all’interno di un quadro prevedibile e cercano di comprenderlo attraverso l’analisi delle sue componenti. Inoltre, poiché tale quadro è prevedibile, la scienza è la chiave per sbloccare il modo in cui tali componenti interagiscono con l’insieme culturale. In tal senso l’epistemologia dell’ar-cheologia processuale si basa sull’assunto che i cambiamenti culturali sono guidati da ‘pro-cessi’ evolutivi nello sviluppo culturale, che saranno adattativi rispetto all’ambiente e quindi non solo comprensibili, ma anche scientificamente prevedibili una volta compresa l’interazione delle variabili.

In tal senso l’archeologia processuale ha il merito di aver introdotto all’interno della disciplina stratigrafica la cosiddetta ‘teoria dei sistemi’, un settore di studi interdisciplinare, a cavallo tra matematica e scienze naturali, che si occupa dell’analisi delle proprietà e della costituzione di un sistema in quanto tale. Un tale approccio, efficace quando si tenta di descrivere come interagiscono gli elementi di una cultura, ma provvisorio se si vogliono comprendere i motivi per cui gli elementi interagiscono nel modo in cui lo fanno, è forse l’unico modo in cui gli archeologi possono esaminare altre culture senza interferenze dai loro pregiudizi culturali. Esso basa gran parte del suo potenziale epistemologico sull’uso di standard di definizione e protocolli di acquisizione del dato, secondo criteri induttivi estremamente ferrei e normalizzati su elementi gnoseologici universalmente riconosciuti dai diversi gruppi di ricerca (Binford L. , 1962, p. 220).

È a partire da tali considerazioni che si iniziano a sintetizzare, sia all’estero che in Italia, gli spunti metodologici che, nel tempo, hanno finito per giustificare e motivare la pratica,

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diffusa in campo universitario e pubblico, di standardizzare le procedure di acquisizione dei dati tramite schede pro-forma. In particolare, si possono compendiare alcuni punti programmatici del nuovo approccio alla documentazione intesa come strumento di sintesi descrittivo-interpretativa:

anzitutto bisogna riconoscere alle schede da campo un primato euristico: impegnarsi in un confronto con griglie prestampate spinge verso l’oggettività e la completezza della descrizione da parte del compilatore. Inoltre, ogni interpretazione, anziché essere limitata al livello delle ipotesi, viene verbalizzata e rivista all’interno dell’in-tero processo archeologico. Ciò garantisce che la comprensione sia costruita gradual-mente e non relegata alla fase di post-scavo. La compilazione della scheda offre inoltre una piattaforma per ulteriori dialoghi e verifiche da parte della comunità di archeologi, e quindi serve come incentivo per un risultato migliore e condiviso. Infine, l’uso di banche di dati rende più facile cogliere schemi ripetitivi nella cul-tura materiale e nella matrice stratigrafica, e la ricorrenza di questi modelli è me-todologicamente il modo più sicuro per dare significato al sepolto.

In secondo luogo, l’uso di schede di unità porta a ciò che si potrebbe chiamare ‘de-mocratizzazione della stratigrafia’, che trova la sua migliore espressione nel Matrix di Harris. Tutte le unità stratigrafiche danno il loro contributo all’ensemble stra-tigrafico e infine alla ricostruzione storica. L’uso di standard di registrazione for-malizza la conoscenza archeologica, rendendo possibile una traduzione uniforme della realtà acquisita ai database, consentendo quindi ricerche computerizzate com-plesse e un accesso generale ai dati. Questo fa parte di uno sforzo di formalizzazione che mira a garantire la comparabilità tra i dati da campagna a campagna e da un sito all’altro, definendo, idealmente, una trasversalità pressoché infinita.

In terzo luogo, le schede facilitano il flusso di dati all’interno di un gruppo di ri-cerca. La trasparenza e la conoscenza condivisa tra i membri favoriscono una mag-giore qualità del lavoro, mentre la documentazione scritta si integra all’interno di un’immagine completa e ineccepibile dello scavo per tutti i soggetti coinvolti. I con-tributi scritti di diversi membri dello scavo incoraggiano la multivocalità e salva-guardano da ogni monopolio di interpretazione.

Infine, l’uso delle schede offre agli archeologi un maggiore controllo sulla ricchezza dei dati che si accumulano alla fine dello scavo e consente loro di produrre più rapidamente relazioni e pubblicazioni finali più approfondite. La reportistica

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online - anche durante la campagna - diventa possibile e apre ulteriormente i ri-sultati degli scavi agli specialisti e ai non addetti ai lavori21.

Per quanto riguarda la definizione e lo sviluppo delle schede archeologiche, a livello nazionale, l’organo preposto è l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione che, dal 1975, è diventato l’istituto responsabile per la raccolta, l’elaborazione, la conservazione e la consultazione di tutte le informazioni relative ai beni culturali in Italia. Risale al 1984 la completa adozione di un metodo di catalogazione omogeneo con l’edizione, da parte dell’ICCD, delle Norme per la redazione della scheda di saggio stratigrafico (SAS) (Parise Badoni & Ruggeri Giove, Norme per la redazione della scheda del saggio stratigrafico, 1984) e le norme per la redazione di quelle a essa afferenti di Unità Stratigrafica (US), di Unità Stratigrafica di Rivestimento (USR) e le tabelle per i materiale delle unità stratigra-fiche (TMA), introdotta in Italia da Andrea Carandini nel 1976 insieme a quella di Unità Topografica (UT) (Carandini, Storie dalla terra. Manuale di scavo archeologico, 1996). Questa è una parziale risoluzione al problema di un linguaggio comune per la definizione degli strati archeologici. In concomitanza con l’istituzione del Ministero per i Beni Cul-turali, lo stesso ICCD diffonderà poi nel 1988 la strutturazione dei dati delle schede del catalogo dei beni archeologici immobili e territoriali (Parise Badoni & Ruggieri Giove, 1988), dove figuravano anche le schede relative alla ricerca topografica, che vengono in tal modo a completare il sistema delle schede principali per quanto riguarda l’archeologia da campo.

Le schede elaborate dall’Istituto seguono un protocollo gerarchico, ripreso in parte an-che dal presente progetto (§0), secondo il quale, a partire dalle san-chede di sito (SI), si rami-fica da una parte (settore topografico) la scheda di complesso archeologico (CA), da cui dipendono quelle di Monumento archeologico (MA) e, dall’altra parte (settore stratigra-fico) la scheda di Saggio archeologico stratigrafico (SAS); da entrambe le parti dipendono

21 La Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, ad esempio, si impegna da oltre un

decennio a divulgare e rendere pubblici i diari di scavo dei propri progetti di ricerca sul portale https://www.paleopatologia.it/, che lo scrivente ha creato nel 2006.

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quindi le schede di Unità Stratigrafica (US), di Unità Stratigrafica Muraria (USM) e di Unità Stratigrafica di rivestimento (USR); da queste ultime dipendono infine la Tabella dei materiali (TMA), la scheda di Reperto archeologico (RA) e quella per la Numismatica (N). L’ ICCD ha sviluppato questo sistema di schede anche per permettere agli archeologi di parlare un’unica lingua nella definizione di quella che è l’unità stratigrafica in tutti i suoi componenti. L’aspetto è di fondamentale importanza in quanto permette una cor-retta e omogenea fruizione dei dati all’interno della comunità scientifica.

***

In conclusione, se in definitiva possiamo dire che nella gestione dei dati di scavo siamo in larga parte debitori delle normalizzazioni derivate da un’impostazione processualista, vero è che l’attuale approccio alla narrazione archeologica non può prescindere dalle nuove istanze interpretative mutuate dal post-processualismo, che, lungi dal volersi classificare come una scuola organica (Hodder, 1986), ha spostato il baricentro della ricerca dalla quantità alla qualità dell’informazione ricavata dal “terreno” (Renfrew & Bahn, 1995). Le moderne tecnologie, pur ampliando enormemente le potenzialità di trattamento del dato, sono state finalmente in grado di restituire un ruolo centrale all’archeologo che ne fa uso, con le sue competenze e con la sua interpretazione del contesto; oltretutto esse hanno finalmente aperto una strada alla conciliazione epistemologica delle discipline, prospet-tando la nascita di una nuova branca di studi estremamente eterogenea e multidisciplinare.

Nel prossimo capitolo verranno analizzati gli standard e i modelli che, sulla base di quanto sinora scritto e di una capillare ricerca tra esempi di schede, hanno condotto alla creazione della piattaforma gestionale per la gestione del dato archeologico che verrà in-trodotto a partire dal Capitolo 3.

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2.

Verso nuovi standard

L’archeologia ha sempre rivestito un ruolo particolare per le innovazioni, sia su piano tecnico che metodologico. Il fatto che essa non produca per la società i medesimi effetti, pratici o teorici, di altre discipline scientifiche, quali la medicina o l’ingegneria, l’ha in qualche modo preservata da quella cautela che è tipica di quelle materie la cui applicazione prevede lunghi periodi di messa alla prova (si pensi ad esempio ai test effettuati sui com-ponenti chimici dei medicinali prima di immetterli sul mercato). Ebbene, da questo punto di vista, la nostra materia ha potuto avvalersi di sperimentazioni, talvolta anche molto innovative, senza la preoccupazione etica di ledere la società o la morale comune.

Sin dagli albori della fotografia, ad esempio, gli archeologi hanno sfruttato questa tec-nica spinti dal bisogno di documentare i monumenti o i reperti in modo finalmente og-gettivo, senza l’intermediazione interpretativa del disegnatore. Parimenti, durante le due guerre mondiali, lo sviluppo della ricerca scientifica con approcci quantitativi e matematici fu propedeutico all’utilizzo dei computer. In generale, a partire dagli anni ‘60 e poi in seguito, a braccetto con la nascita delle correnti processualiste, i dipartimenti di Archeo-logia – dapprima nel Regno Unito, poi negli USA e infine anche nel resto d’Europa – iniziarono a dotarsi sistematicamente di calcolatori elettronici, ponendosi inconsciamente come banco di prova delle nuove tecnologie ‘umanistiche’ (contestualmente, peraltro, a quanto stava accadendo con rami di scienze applicate ben più adatte ad accogliere istanze

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tipicamente informatiche, come l’architettura o l’ingegneria, e ben prima della geologia22).

Software come AutoCAD e riviste come Archeologia e Calcolatori nascono rispettivamente nel 1982 e nel 1989, a ridosso del lancio sul mercato di Windows (con Bill Gates e la Microsoft) e di MacOS (con Steve Jobs e la Apple), mentre risale al 1991 l’espressione Virtual Archaeology (Reilly, 1991, p. 132).

Parallelamente allo sviluppo delle nuove tecnologie si faceva strada quello, ben più sfu-mato e variegato, degli standard in grado di declinarle e renderle efficaci anche in un mondo per il quale non erano modellate, nonché di nutrirle dei dati necessari a renderle utili, efficienti ed efficaci. A tal proposito va rimarcato uno iato purtroppo ad oggi incol-mato tra potenziale ed attuale: infatti, nonostante l’esponenziale crescita di interesse e di utilizzo delle nuove tecnologie in ambito segnatamente stratigrafico e bioarcheologico, non è facile trovare corsi strutturati all’interno delle università, per lo meno italiane. Que-sta perdurante situazione, che si incistisce nell’assenza di Que-standard metodologici definiti nella letteratura e nelle istituzioni, trova motivazione anche nella eccessiva frammenta-zione dei tentativi prodotti invece da singole personalità; tutto ciò produce un rallenta-mento negli stessi studi archeologici, anche laddove si riconosca l’indispensabilità delle tecnologie informatiche: per fare un esempio, solo con l’ausilio di un computer è oggi possibile censire, mappare e interpretare le fasi di un complesso sito pluristratificato e in-dagato in lunghe e numerose campagne, ma quanti studiosi riescono autonomamente ad impostare una piattaforma GIS partendo da zero (ovvero acquisendo le planimetrie dell’area, selezionando il Sistema di Coordinate più opportuno, installando i punti di sta-zione totale più idonei, acquisendo i punti e convertendoli da istanze geometriche a coor-dinate geografiche, ecc.)? Dunque, si può asserire che, ancora oggi, al di là di GIS e data-base più o meno vasti e complessi, pensati non di rado per scopi meramente amministra-tivi, il computer è considerato solo come un restitutore grafico che supporti chi vuole

22 Per lo sviluppo dei linguaggi informatici in architettura si rimanda al testo ‘Computer

Archi-tecture: A Quantitative Approach’ (Hennessy & Patterson, 2006), mentre per la geologia al volume ‘Computer Applications in the Earth Sciences’ (Merriam, 1969).

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risparmiare tempo nel preparare adeguate tavole tecniche da allegare al testo (Cocca, 2015). Sono trascorsi relativamente pochi anni da quando Fulvio Giuliani scrisse che il ‘modello intellettuale italiano’ è afflitto dalla ‘tara’ per cui si è scelto che l’Archeologia fosse ‘cultura’ nel senso crociano del termine, realizzando così l’equazione ‘letterato = cul-tura di serie A, tecnico = culcul-tura di serie B (o non culcul-tura)’ (Giuliani Cairoli, 1976). Tra-slando tale asserzione in ambito archeologico, è ancora pensiero comune da parte di molti suddividere le tecnologie in due categorie: le applicazioni di serie A (come il GIS o i data-base di scavo, ad esempio) ed applicazioni che, per la loro natura innovativa o semplice-mente per la scarsa diffusione, possono essere considerate di serie B (fotogrammetria, realtà aumentata, ecc.). Si deve cioè ammettere che vi è una certa paura, all’interno della comu-nità scientifica, ad accogliere le novità, soprattutto se queste prevedono l’abbattimento dei vecchi standard e la loro sostituzione con nuovi protocolli, legati ad applicazioni meno ortodosse e più specialistiche.

È pur vero, tuttavia, che al giorno d’oggi stiamo vivendo una seconda rivoluzione in-formatica, in grado di scuotere dalle basi le stesse metodologie di indagine e mettere in discussione, in senso ottimistico, quanto detto sinora. I nuovi, accessibili strumenti di acquisizione dei dati tridimensionali (fotogrammetria, laserscanner, droni e LIDAR), i nuovi programmi di gestione del dato (GIS, manipolatori delle nuvole di punti, database, elaboratori di raster), le nuove tecnologie applicate (web, app, connessioni ad alta velocità) e, non ultimi, i nuovi mezzi di diffusione (social networks, siti web, streaming video) stanno rimescolando le carte in tavola, conferendo un nuovo ruolo, sorprendentemente attivo, alle scienze storiche, segnatamente quelle che riescono a stagliarsi sul pubblico con quell’appeal e quel grado di fascinazione che porta i bambini a sognare, da grande, di fare l’archeologo.

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2.1. Dal cartaceo al digitale

L’approccio sistemico all’archeologia intesa come scienza multidisciplinare, nato in seno alla New Archaeology a partire dagli anni ‘60 del Novecento e poi evoluto nelle definizioni processuali, post-processuali e contestuali nei decenni successivi (§ par. 1.3), sviluppa an-che in Italia, già a partire dalla metà degli anni ‘80, la crescente coscienza delle infinite potenzialità dei sistemi di gestione dei dati impostati su una base informatica (Giannichedda, 2002). È in questo periodo che alcuni Dipartimenti Universitari ed alcune figure di studiosi particolarmente illuminate comprendono la necessità di rivoluzionare ed aggiornare le modalità di acquisizione, gestione e divulgazione dell’informazione archeo-logica in chiave digitale23. Non è un caso che, a partire da questo momento, uno dei quesiti

che caratterizza l’epistemologia archeologica diventi, con le parole di Robert Clenhall, will computers serve archaeology, or archaeology computers? (Chenhall, 1968, p. 15). Questa do-manda esprime gran parte dell’ansia che gli archeologi iniziano a riversare nei progetti che ricorrono massicciamente ai computer, e sottolinea d’altra parte il balzo disciplinare che, conducendo all’impiego delle nuove tecnologie in sempre più numerosi contesti di ricerca, costringe in molti a misurarsi con software e applicativi sostanzialmente nuovi, ignoti e, per taluni, esoterici.

Nel tentativo di valutare l’impatto dell’impiego della tecnologia su un utilizzatore che, per formazione, ne è sostanzialmente avulso, può rendersi utile, in mancanza di una lette-ratura che esaurisca la questione da un punto di vista puramente archeologico, ricorrere ad esempi mutuati da scienze affini o attigue che abbiano vissuto la stessa ‘rivoluzione informatica’, come ad esempio la teoria della comunicazione (Pavel, 2012). Difatti,

23 Non si può non citare a tal proposito l’immenso e innovativo lavoro portato avanti dal

La-boratorio di Informatica Applicata all’Archeologia Medievale (LIAAM) fondato e diretto da Ric-cardo Francovich nell’Ateneo Senese (Francovich, Archeologia medievale ed informatica: dieci anni dopo, 1999), § pag. 41 e seguenti.

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nonostante la dottrina comparativista non abbia prestato grande attenzione all’evoluzione parallela della teoria archeologica e di quella della comunicazione, entrambe le scienze sembrano aver gestito l’intera gamma dell’impegno accademico (dal positivismo agli ap-procci critico-riflessivi) in modo sorprendentemente simile. Il nucleo dei rispettivi ambiti è, di fatto, assai vicino, per lo meno da un punto di vista storico-disciplinare: sia la comu-nicazione che l’archeologia infatti (ri)costruiscono la realtà, ed entrambe sono giunte di recente al punto di svolta nel quale la tecnologia – che dovrebbe soltanto assistere questo tentativo di ricomposizione – è diventata in grado di ridisegnare in realtà le stesse modalità di ricostruzione.

La triade composta 1) dalle risorse archeologiche come prova materiale del nostro passato, 2) dall’archeologo come attante e 3) dalla tecnologia come medium può essere esaminata in una doppia chiave di lettura, proprio a partire dalle teorie sulla linguistica generale di Ferdinand de Saussure: per lungo tempo, almeno sino alla prima metà del secolo scorso, si è considerata la comunicazione come un ‘circuito linguistico’, composto da due persone – mittente e ricevente – che trasmettono messaggi l’un l’altro, trasformando i segni men-tali in messaggi acustici e viceversa in una catena di audizione-fonazione. Il principale problema di questo modello è che esso non tiene conto né del codice, né del mezzo; infatti la ‘trasmissione lineare’ di segni linguistici tra due attanti enfatizza l’atto di trasmettere un messaggio a un ricevitore, poiché anche se non esclude il feedback, l’attenzione è posta sulla posizione egemonica del mittente, che dopo un po’ si trasforma in un ricevitore e ‘diviene consegnatario’ di un altro messaggio (De Saussure, 2009). Spostando l’attenzione sul parallelo mondo dell’archeologia, questa corrente può essere fatta corrispondere a quel pionieristico periodo che da Pitt Rivers arriva appena a lambire il sistema-Wheeler. Gli archeologi di inizio secolo promettono fedeltà al bisogno di ascoltare ciò che il passato ha da dire quando gli si pongono le ‘giuste domande’, per poi trascriverlo accuratamente. Questo esalta apertamente la capacità di interrogare per suscitare risposte e stabilire la verità. Tuttavia, il passato, se non viene compreso, non può che cedere alla nostra inchiesta e tutto ciò che a noi resta da fare è tradurre i suoi segni nei nostri concetti, anche a costo

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