Tributi - Accertamento delle imposte sui redditi (tributi posteriori alla riforma del 1972) - Ritenute alla fonte - Redditi di lavoro dipendente e redditi assimilati - Tessere di libera circolazione gratuita - Erogazione ai propri dipendenti da parte di un'azienda municipalizzata di trasporti - Reddito di lavoro dipendente - Configurabilità - Assoggettabilità a
ritenuta alla fonte - Esclusione.
Corte di Cassazione - 23.3/29.8.2001, n. 11330 - Pres. Olla - Rel.
Meloncelli - P.M. Sepe (Conf.) - Ministero delle Finanze (Avvocatura dello Stato)- Uff. II.DD. Genova (Avvocatura dello Stato) - AMT Genova (Avv.ti Schwarzemberg, Pugliese, Ricco, Uckmar).
In tema di imposte sui redditi, la erogazione (nel caso di specie nel 1988) ai dipendenti e ai loro familiari, da parte di un'azienda
municipalizzata di trasporti, di tessere di libera circolazione gratuita sui mezzi dell'intera rete urbana e comprensoriale, senza limitazione di orario e numero di corse, pur costituendo, quale reddito in natura, una componente del reddito di lavoro dipendente, non è assoggettabile a ritenuta alla fonte ai sensi dell'art. 23 del DPR 29 settembre 1973. n.
600.
FATTO. -
1. Con il processo verbale di constatazione n. 1970/A/92 del 23 aprile 1992 si conclude un'ispezione condotta dall'INPS nei confronti
dell'Azienda municipalizzata trasporti di Genova (AMT) per evasioni
contributive. L'ispezione evidenzia che nel 1988 l'Azienda ha erogato ai dipendenti e ai loro familiari tessere di libera circolazione sui mezzi dell'intera rete urbana e comprensoriale, senza limitazione di orario e numero di corse, per un ammontare di lire 3.801.420.000.
2. Il 27 ottobre 1992 il II Ufficio delle imposte dirette di Genova notifica all'Azienda l'avviso di accertamento n. 3/1992, nel quale, anzitutto, si constata la violazione degli obblighi di effettuare e di versare le ritenute d'acconto, previste dall'art. 23 DPR 29 settembre 1973, n. 600, sui redditi in natura, corrisposti ai lavoratori dipendenti e costituiti da tessere di libera circolazione gratuita sui mezzi
dell'azienda dell'intera rete urbana e comprensoriale, senza limitazione di orario e di numero di corse, rilasciate sia ai dipendenti sia ai loro familiari; considerate, poi, le disposizioni contenute nell'art. 48 DPR 29 settembre 1973, n. 597, e negli art. 7 e 47 DPR 29 settembre 1973, n. 600, si accerta, sul maggior reddito di lire 3.801.420.000, la ritenuta di lire 1.292.483.000 e si irrogano le relative sanzioni.
3. Il ricorso dell'azienda è accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Genova con sentenza 27 luglio 1995, n. 233/08/95, che annulla l'avviso di accertamento.
4. Sul ricorso in appello principale dell'Ufficio e sul ricorso
incidentale dell'Azienda si pronuncia la Commissione tributaria regionale di Genova con sentenza 24 ottobre 1997, n. 87/97, depositata i1 7 novembre 1997, che conferma la sentenza di primo grado. La sentenza è così
motivata: «La decisione dei giudici di primo grado non merita censure: la pretesa fiscale è illegittima. I redditi de quibus loquitur, derivanti da
autorizzazioni alla libera circolazione gratuita sui mezzi pubblici di trasporto dell'azienda (rilasciata ai dipendenti ed ai loro stretti
familiari), non sono assoggettabili a ritenuta ex art. 23 del D. P. R. n.
600/73. Una corretta interpretazione, sia letterale, sia sistematica, della suddetta norma non lascia spazio ad equivoci ed appalesa
1'ingiustificatezza ed erroneità della valutazione ermeneutica offerta dal ricorrente. L'art. 23 del D. P. R. n. 600/73 si rivolge chiaramente ("...
compensi e le altre somme... ") al denaro, né d'altronde sarebbe
concepibile da parte del datore di lavoro ritenere qualcosa di diverso dal denaro, senza precise ad attuare il parziale trattamento di una qualsiasi utilità economica diversa da quella fungibile per eccellenza. Inoltre, la differente formulazione della predetta norma, rispetto a quella
sull'imponibilità (art. 48 T. U. I. R.) suffraga ulteriormente la cennata tesi interpretativa. È da aggiungersi, infine, "ad abundantiam", che il sostituto, fatte salve le sanzioni di legge, in generale non è comunque assoggettato al versamento dell'imposta (che compete al percettore del reddito) e che l'utilizzazione delle autorizzazioni all'uso gratuito dei mezzi di trasporto non solo è del tutto eventuale (non è stato accertato, né d'altra parte sarebbe stato concretamente possibile, quanto meno in quale misura ciò sarebbe avvenuto), ma non comporta certamente alcun onere specifico per l'azienda di trasporto (ma unicamente una minore entrata, anch'essa peraltro del tutto ipotetica...), escludendosi quindi anche la assoggettabilità ad imposta, in adesione all'attuale art. 48 del T. U. I.
R., per mancanza di "benefit" per il dipendente. Tutte le altre eccezioni e censure sollevate dalle parti sono ininfluenti, in quanto assorbite nella considerazione di cui sopra».
5. Il Ministero delle finanze presenta un ricorso per l'annullamento della sentenza della Commissione tributaria regionale di Genova applicazione dell'art. 132 c.p.c., in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.; 2) la violazione e la falsa applicazione degli art. 1, 7, 23, 39, 40 e 41 DPR 29 settembre 1973, n. 600, dell'art. 48 DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), e dell'art. 9 DPR 29settembre 1973, n. 597, in relazione all'art. 360, nn.3 e 5 cpc.
Il ricorrente conclude chiedendo che sia annullata la sentenza della Commissione tributaria regionale di Genova impugnata, con ogni
consequenziale statuizione anche in ordine alle spese.
6. L'Azienda mobilità trasporti di Genova, già Azienda municipalizzata trasporti, propone un controricorso e un ricorso incidentale condizionato.
Il controricorso si avvale dei seguenti motivi: 1) sull'eccezione
pregiudiziale, non configurabilità della violazione dell'art. 132 c.p.c.;
2) nel merito, inesistenza del potere rettificativo in ordine alle somme pretese a titolo di ritenute di acconto; 3) la non assoggettabilità a ritenuta dei redditi in natura; 4) la non assoggettabilità ad imposta, e quindi a ritenuta, degli specifici redditi in natura.
Il ricorso incidentale condizionato è sostenuto dai seguenti motivi: 1) l'atto di accertamento sarebbe illegittimo per la sua omessa motivazione in punto di quantificazione; 2) le sanzioni non sarebbero dovute in quanto non sono applicabili le ritenute.
L'Azienda conclude chiedendo, in via principale, che sia rigettato il ricorso proposto e che sia confermata la sentenza impugnata e, in via
incidentale condizionata, che sia ritenuta illegittima la pretesa
esercitata sia con riguardo alle ritenute sia con riguardo alle sanzioni.
Con vittoria di spese e onorari di giudizio.
7. Il Ministero delle finanze resiste al ricorso incidentale dell'Azienda con controricorso.
8. Il Ministero delle finanze deposita, inoltre, una memoria.
DIRITTO. -
1. Il Ministero delle finanze ricorre per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale di Genova 24 ottobre 1997, n.
87/97, che ha confermato l'annullamento, già dichiarato in primo grado, dell'avviso di accertamento con cui l'amministrazione finanziaria ha accertato per il 1988 un maggior reddito di lire 3.801.420.000 a carico dell'Azienda municipale trasporti di Genova e un'obbligazione tributaria, a titolo di ritenuta d'acconto non versata, per lire 1.292.483.000 sui redditi in natura, consistenti in tessere di libera circolazione ai dipendenti e ai loro familiari.
2. Con il primo motivo di ricorso il Ministero delle finanze eccepisce in via pregiudiziale la violazione e all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.: la sentenza impugnata sarebbe priva di un elemento essenziale, espressamente previsto dall'art. 132 c.p.c., consistente nell'esposizione dei fatti di causa; tal elemento è necessario per consentire il controllo circa la rispondenza tra la motivazione della sentenza ed i fatti e le circostanze posti a fondamento del convincimento del giudice; in particolare, nel caso di specie la Commissione tributaria regionale avrebbe del tutto omesso di indicare, sia pure sinteticamente, lo svolgimento del processo, i cui tratti essenziali non sarebbero desumibili dal testo della decisione.
I1 motivo è infondato.
Infatti, la sentenza impugnata, pur stringatissima, contiene tutti gli elementi richiesti dall'art. 132 c.p.c.. A parte gli elementi indicati ai nn. 1), 2), 3) e 5) , per i quali non sorge questione, il Ministero delle finanze lamenta che la sentenza di secondo grado non avrebbe effettuato
«la concisa esposizione dello svolgimento del processo e i dei motivi in fatto e in diritto della decisione», richiesta dall'art. 132.1, n. 4), cpc. Ma, da quella parte della sentenza impugnata, che si è di proposito riprodotta testualmente al punto 4. delle premesse, si desume chiaramente che il giudice d'appello ha indicato con precisione l'oggetto della
controversia nei redditi i derivanti da autorizzazioni alla libera circolazione gratuita sui mezzi pubblici di trasporto dell'azienda, rilasciate ai dipendenti e ai loro familiari, e ha indicato altrettanto precisamente nell'art. 23 DPR 29 settembre 1973, n.600, e nell'art. 48 DPR 22 dicembre 1986, n. 917, le disposizioni normative con cui comporre la norma sotto la quale effettuare la sussunzione della controversa
fattispecie concreta. I1 giudice di appello, inoltre, ha illustrato in maniera più che sufficiente le ragioni per le quali dal materiale
proposizionale fornito dalle disposizioni normative richiamate si doveva estrarre la norma applicata al caso in esame.
3. Con il secondo motivo di ricorso il Ministero delle finanze fa valere la violazione e la falsa applicazione degli art. 1, 7, 23, 39, 40 e 41 DPR 29 settembre 1973, n. 600, dell'art. 48 DPR 22 dicembre 1986, n. 917
(TUIR), e dell'art. 9 DPR 29 settembre 1973, n. 597, in relazione all'art.
360, nn. 3 e 5 cpc. I1 motivo è sostenuto con vari argomenti: l'inclusione dei proventi in natura nel reddito del lavoro dipendente, la loro
assoggettabilità a ritenuta, la specificità del costo delle tessere di libera circolazione sui mezzi di trasporto dell'Azienda municipale, la sottoposizione del sostituto di imposta all'obbligo di versare l'imposta non ritenuta.
Ministero ricorrente ipotizza la violazione, alla luce dei primi due argomenti da esso adotti.
L'art. 23.1 DPR 29 settembre 1973, n. 600, prevede che coloro «i quali corrispondono compensi e altre somme... per prestazioni di lavoro
dipendente, devono operare all'atto del pagamento una ritenuta a titolo di acconto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta dai
percipienti, con obbligo di rivalsa».
La tesi dell'amministrazione ricorrente è che oggetto di ritenuta sia qualsiasi specie di reddito di lavoro dipendente, anche quello in natura, mentre l'Azienda resistente si avvale di un'interpretazione letterale e, facendo perno sull'aggettivo "altre", sostiene che anche i "compensi" sono solo corresponsioni in denaro.
Peraltro, una corretta impostazione del problema deve tener conto di tutte le componenti sistematiche del regime tributario del reddito da lavoro dipendente e non solo di alcune, come fa la ricorrente, né ci si può basare solo su dati letterali, come tende a fare la I resistente. A tal fine si devono tener distinti, da un lato, gli elementi che compongono il reddito del lavoratore dipendente e formano, quindi, l'oggetto
dell'imposta, e, dall'altro, i1 contenuto dell'imposta e le modalità per la sua riscossione.
Sotto il primo profilo si ritiene che del reddito da i lavoro dipendente facciano sicuramente parte i redditi in natura. Si consideri al riguardo, anzitutto, che compenso" del lavoratore dipendente è sinonimo di
retribuzione e la retribuzione comprende, ai sensi dell'art. 2099.3 cc, anche le prestazioni in natura. Inoltre, già l'art. 48.1 DPR 29 settembre 1973, n. 597, faceva rientrare nel reddito di lavoro dipendente - «tutti i compensi ed emolumenti, comunque denominati», usando un'espressione in cui le parole 'compenso" ed "emolumento" sono a loro volta sinonimi e vincolando l'interprete a prescindere, comunque, dal nome usato per
indicare il trasferimento di ricchezza dal datore di lavoro al lavoratore subordinato. È chiaro l'intento del legislatore di attribuire rilevanza giuridica tributaria a tutte le specie di corrispettivo del lavoro
dipendente e, dunque, anche al reddito in natura, anche prima che
intervenisse l'art. 48.1 DPR 22 dicembre 1986, n. 917, a specificare che
«I1 reddito di lavoro dipendente è costituito da tutti i compensi in denaro o in natura, comprese le erogazioni liberali». La vera novità introdotta, semmai, dall'art. 48 DPR 22 dicembre 1986, n. 917, è quella contenuta al comma 3, secondo cui «i compensi in natura... concorrono a formare il reddito in misura pari al costo specifico sostenuto dal datore di lavoro», che trova applicazione, in base all'art. 136 DPR 22 dicembre 1986, n. 917, per i periodi di imposta che iniziano dopo il 31 dicembre 1987.
Così determinato l'oggetto dell'imposta, limitatamente al reddito del lavoro dipendente, resta da stabilire se la riscossione avvenga con le stesse modalità per tutte le specie di oggetto dell'imposta. Al riguardo si deve tener conto, anzitutto, dell'art. 23.1 DPR 29 settembre 1973, n.
600, il quale va considerato in sé, per il suo dato letterale, costituito non tanto e non solo dal riferimento ad "altre somme", oltre ai compensi, quanto soprattutto dalla previsione che la ritenuta dev'essere fatta
«all'atto del pagamento», il quale è operazione che può avere per oggetto solo il denaro. Già su questa base si può affermare che l'imposta sui redditi in natura non può essere riscossa (anche) per ritenuta. Ma
l'interpretazione letterale è, poi, convalidata anche da considerazioni sistematiche. Infatti, quando l'ordinamento ha voluto derogare al criterio della naturale correlazione tra reddito in denaro e ritenuta all'atto del suo pagamento, ha espressamente indicato l'oggetto e le modalità di
calcolo della ritenuta. In tal senso si è orientato il legislatore a
proposito della distribuzione di utili in natura di una società, sui quali la ritenuta è determinata in relazione al valore normale dei beni
attribuiti, quale risulta dalla valutazione operata dalla società
emittente (art. 27.2 DPR 29 settembre 1973, n.600), e a proposito delle ritenute sui premi costituiti da beni diversi dal denaro (art. 30.3 DPR 29 settembre 1973, n. 600).
Infine, è significativa l'evoluzione normativa a proposito dell'estensione del concetto di reddito da lavoro dipendente. Già si è ricordato il
passaggio dall'art. 48 DPR 29 settembre 1973, n. 597, che usava l'ampia formula «tutti i compensi ed emolumenti, comunque denominati», all'art.
48.3 DPR 22 dicembre 1986, n. 917, che limitava il concorso alla
formazione del reddito dei compensi in natura alla misura pari al costo specifico sostenuto dal datore di lavoro, per dedurne che, comunque, già dal 1973 i redditi in natura erano una componente del reddito del
lavoratore dipendente e che, a partire dai redditi del 1988, i redditi in natura erano calcolabili secondo un criterio determinato. Con il testo dell'art. 48.3 DPR 22 dicembre 1986, n. 917, introdotto dall'art. 3.1.2 D.Lgs 2 settembre 1997, n. 314, vigente dal 1° gennaio 1998, si è
stabilito che «Il valore normale dei generi in natura prodotti
dall'azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista». In tutte queste disposizioni, relative ai redditi in natura, il legislatore è andato affinando il criterio di determinazione del loro valore in denaro, ma senza mai assumere posizione sulla ritenuta.
In conclusione, i redditi in natura sono una componente del reddito del lavoratore dipendente, che, almeno fino al 1988 non sono oggetto di ritenuta d'acconto. Solo a partire dal 1988 il loro valore è stato
determinato in base al criterio del costo specifico sostenuto dal datore di lavoro e, a partire dal 1998, dal prezzo medio di cessione al
grossista. Fino al 1988, in mancanza di un pagamento, si deve escludere la stessa possibilità di effettuare una ritenuta e, quindi, si deve escludere che il datore di lavoro sia obbligato a ritenere alcunché e a versarlo.
Ove, poi, si ammettesse che dal momento in cui è prescritta la
convertibilità in moneta di un reddito erogato in natura, la retribuzione in natura sia virtualmente una retribuzione in denaro e, sulla base
dell'equivalenza fissata dalla legge, sia possibile effettuare la
ritenuta, l'obbligo per il datore di lavoro in tanto sussiste in quanto egli abbia dovuto sopportare un costo specifico per la produzione del bene usato per la retribuzione.
Nel caso di specie per il 1988 la conversione monetaria dell'erogazione delle tessere ai dipendenti e ai loro familiari sarebbe stata possibile solo se l'Azienda municipale dei trasporti di Genova avesse dovuto
affrontare dei costi autonomamente determinabili per consentire ai
beneficiari di godere delle prestazioni di trasporto. Tenuto conto della natura del servizio del trasporto pubblico municipale, si ritiene che l'Azienda non abbia dovuto affrontare alcun costo specifico. D'altra
parte, non può essere ritenuto costo specifico, come sostiene il Ministero ricorrente, il minor ricavo conseguito dall'Azienda con la fruizione
gratuita del servizio da parte dei dipendenti, che determina un'incidenza maggiore dei costi sui ricavi. Infatti, non è affatto sicuro né che tutti i beneficiari della tessera l'avrebbero acquistata né che, una volta
ricevutala, l'abbiano usata effettivamente e così intensamente da
richiedere un intervento organizzativo integrativo da parte dell'Azienda.
Non sussistendo alcun obbligo, a carico dell'Azienda, di effettuare la ritenuta, l'irrogazione di sanzioni per la sua violazione è priva di fondamento.
4. Resta assorbito il ricorso incidentale.
(Omissis)