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La Basilica della Madonna della Ghiara, il miracolo di Marchino e la tradizionale GIAREDA

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Academic year: 2022

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La Basilica della Madonna della Ghiara, il miracolo di Marchino e la tradizionale

“GIAREDA”

È arrivato il mese di settembre e per la città di Reggio Emilia, dove sono nata, cresciuta e tutt’ora vivo, significa la tanto attesa “GIAREDA” e le celebrazioni per la Beata Vergine della Ghiara!

Sagra della Giareda:le origini

Se volessimo definirla…bhè intanto partiamo dal nome:

“Giareda” è un termine del dialetto reggiano che si traduce letteralmente nell’italiano corrente con “Ghiaiata”…meglio dire “Ghiaia”. Se state pensando a tanti sassolini che si possono trovare in un parco, nel fondo del mare o di un fiume…state pensando la cosa giusta!

Sono certa che ora vi verrà un altro quesito…ma cosa c’entra la ghiaia? Ebbene…il Corso Garibaldi, uno dei più belli e principali viali del centro storico di Reggio Emilia, non è altro che l’antico letto del torrente Crostolo, deviato fuori dal perimetro esagonale delle mura cittadine durante il XIII° secolo. Questo intervento sul torrente Crostolo ha d a t o v i t a a d u n a v i a a m p i a f a t t a d i c i o t t o l i , d i ghiaia…quella ghiaia lasciata dal torrente dopo essere stato spostato dal suo Corso originario…oggi appunto “Corso Garibaldi”

Ora, che sapete l’origine di questo particolare nome, non vi resta che scoprire di cosa realmente si tratti questa ricorrenza!

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Io l’ho vissuta fin da quando ero bambina; una tradizione che si ripete quasi inalterata da secoli nella prima settimana di Settembre e che riunisce le varie generazioni di ogni famiglia: è frequente vedere, nonni, genitori, figli e nipoti tutti insieme a passeggiare per Corso Garibaldi, che si trasforma in un dedalo di venditori ambulanti, stand gastronomici e qualche clown che si destreggia con strani palloncini.

Gli occhi sono invasi da colori siano essi dei tanti vestiti esposti o della bigiotteria fino alle golosissime caramelle gommose (di cui, però, è meglio non sapere da dove derivi il loro colore…)

Sagra della Giareda 2019 – Foto credit “Next Stop Reggio”

E non è da meno il mix di profumi: il famoso gnocco fritto, il tradizionale ed unico Erbazzone, il parmigiano reggiano, le frittelle, lo zucchero dei dolciumi che si mescolano con l’incenso, le fragranze che i tanti visitatori si spruzzano prima di scegliere quale acquistare; per finire con l’intenso odore dei tanti prodotti disinfettanti, che numerosi promoters descrivono con grande convinzione come miracolosi per le pulizie di casa.

Certamente quest’anno sarà tutto un po’ ridimensionato e meno caotico e rumoroso ma la tradizione verrà mantenuta,

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seppur con le regole per la sicurezza imposte dalla pandemia.

Ora che vi ho incuriosito ed invitato a visitare Reggio Emilia dal 4 al 8 Settembre 2020…vi starete chiedendo cosa c’entri la Madonna della Ghiara e i suoi miracoli con una sagra da fare invidia ai banchetti luculliani!

La madonna della Ghiara e la Basilica a lei dedicata

B a s i l i c a d e l l a G h i a r a – F o t o C r e d i t

“4000luoghi.re.it

La “Sagra della Giareda” è il lato “pagano” di una festa che ha fondamenti religiosi e che culmina i suoi festeggiamenti ogni anno l’8 Settembre, giornata in cui si celebra la Beata Vergine della Ghiara che ha compiuto ben 400 anni nel 2019!

In questa giornata, all’interno dell’omonima Basilica si alternano celebrazioni ordinarie a momenti di preghiera particolari, presieduti dal Vescovo, in onore della “Madonna di Reggio”: altro nome con cui la Madonna della Ghiara è conosciuta in Italia…e anche all’estero.

Che sia in occasione della “Giareda” o in un giorno

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qualunque dell’anno, entrare in questa straordinaria Basilica vi strabilia per la meraviglia che appare ai vostri occhi: in qualsiasi direzione guardiate…vi è un affresco, un decoro spesso d’orato, dipinti e stucchi policromi.

Considerato dagli storici dell’arte uno fra i più artistici santuari mariani d’Italia, monumento principe del Seicento emiliano, esso è nato nella fede e devozione del popolo reggiano, riconoscente verso la Beata Vergine Maria per gli straordinari benefici ricevuti.

L’attuale Santuario, come spesso succede nella storia di una comunità, è il risultato di secoli di costruzioni e RI- costruzioni che si sono sostituite l’una all’altra!

L’inizio

Tutto è cominciato all’inizio del 1300 quando i Servi di Maria, richiamati in città dai reggiani, scelsero la zona della “Ghiara” (ormai sapete cosa significa: Ghiaia J! ) per costruirvi il loro convento (oggi Museo della Ghiara) e la Chiesa adiacente.

Circa 200 anni dopo, venne costruita una chiesa più ampia che seguiva l’andamento del corso Ghiara (oggi Corso Garibaldi appunto) ed era dedicata alla Natività di Nostro Signore.

All’esterno, dietro l’abside della nuova chiesa, venne collocata una nicchia con l’immagine affrescata della Madonna con Bambino: fin da subito, divenne oggetto di venerazione dei reggiani…e non solo e ad essa furono affidati i destini di tante persone svantaggiate e malate.

La nuova Immagine

Ormai sbiadita dalle intemperie, l’immagine fu sostituita da un nuovo disegno completamente diverso ed originale, creato per mano del famoso pittore locale Lelio Orsi ed oggi potete

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ammirare quest’opera nel Museo della Ghiara

Tuttavia, i reggiani dovettero aspettare altri 4 anni, fino al 1573, per vedere il bozzetto di Orsi tramutarsi in un affresco realizzato dal pittore reggiano Giovanni Bianchi , detto Bertone.

Ecco che l’immagine più venerata della Madonna della Ghiara sorprese tutti i reggiani e fu posta nella nicchia per potervi pregare ai suoi piedi

Se pensate ad una raffigurazione dai canoni tradizionali della Madonna con bambino, siete fuori strada!

Nessuno sfondo d’orato, asettico, nessun aureola scintillante…anzi vediamo grande novità in questo affresco.

Affresco originale del Bertone all’interno della Basilica

La Madre di Dio è seduta in un paesaggio roccioso e spoglio, con le mani giunte ed il volto in adorazione del bambino Gesù Una scritta nella cornice del dipinto commenta “Quem

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genuit adoravit” ( Adorò colui che generò).

La centralità della Madonna indica il suo ruolo di madre di tutti gli uomini che intercede presso il Figlio; il quale ricambia con la mano benedicente dal lato dello spettatore per rendere tutti partecipi della sua benedizione.

Come potete immaginare, una grande quantità di fedeli accorsero in pellegrinaggio per venerare questa nuova icona mariana, tanto che fu necessario costruire una cappella all’interno dell’orto dei frati.

Tra i tanti pellegrini giunti in città per chiedere protezione e perdono, ci fu chi addirittura venne MIRACOLATO dalla Beata Vergine…e questo avvenimento fu la svolta per il santuario in uso fino a quel momento e per la città di Reggio Emilia.

Il primo miracolo e la nuova Basilica della B.V. della Ghiara

Siamo al 29 Aprile 1596, quando Marchino, un quindicenne orfano, sordomuto e privo di lingua si recò dinanzi alla nuova immagine di Maria e con enorme fede si raccolse in preghiera: dopo poco cominciò a sudare, ripeté per tre volte

“Gesù-Maria” …e in quel momento si compì il miracolo

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I m m a g i n e d i M a r c h i n o i n preghiera

Marchino riacquistò l’udito, gli spuntò e crebbe la lingua e gli fu concessa la parola.

Ci vollero alcuni mesi di indagini teologiche e mediche prima che il Papa Clemente VIII confermasse l’avvenuto m i r a c o l o e p e r m e t t e s s e l a v e n e r a z i o n e p u b b l i c a dell’immagine.

Questa notizia smosse grandi folle di pellegrini che accorsero da tutti i territori confinanti per pregare la Beata Vergine della Ghiara: ben presto la piccola cappella risultò insufficiente per ospitare tutti i fedeli e si volle costruire un nuovo tempio, degno dell’adorazione di un dipinto miracoloso.

L’anno successivo, nel 1597, alla presenza dei duchi estensi, il Vescovo di Reggio pose la prima pietra del nuovo Tempio della Madonna della Ghiara che fu concluso in circa 20 anni.

Il 12 maggio 1619 fu inaugurata la nuova basilica e in quell’occasione avvenne la traslazione della venerata

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Immagine dall’antica cappella alla nuova sontuosa sede.

I migliori artisti del tempo

La Basilica della B.V. della Ghiara è il monumento che riassume tutta la grande pittura del primo Seicento emiliano nella sua ancora intatta integrità.

U n o s c o r c i o d e l l a volta e della cupola Alla grandiosa decorazione pittorica parteciparono i più talentuosi artisti emiliani della prima metà del Seicento:

Ludovico Carracci , Gian Francesco Barbieri detto il Guercino, Lionello Spada, Alessandro Tiarini, Jacopo Palma il Giovane, Carlo Veronese…per citarne alcuni.

Non vi è angolo che non sia scintillante, decorato con minuzia in ogni dettaglio; le volte e la cupola riccamente affrescate con colori intensi, riportati all’originale brillantezza solo pochi anni fa, rendono l’atmosfera fastosa e solenne!

Non ha nulla da invidiare (…anzi!!) alle più famose cattedrali e basiliche barocche presenti nelle principali città italiane ed europee!

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Abside Affrescata – La Vergine che sale a l c i e l o r a p p r e s e n t a n d o

l’Assunzione

I numerosi affreschi che ornano le volte, le cupolette, la cupola e l’abside, inseriti in ricchissime cornici e stucchi dorati, sono l’esaltazione di Maria come sposa, madre e vergine.

Ciò che mi ha stupito maggiormente e che ho scoperto durante una recente ed approfondita visita guidata è come siano rappresentate tutte le principali donne della Bibbia: nella società del ‘600, dove il ruolo ed il valore della donna non erano certo quelli attuali, risulta alquanto originale vedere cicli decorativi tutti al femminile.

Ecco che ho scoperto che le Basiliche dedicate a Maria riportano spesso scene bibliche proprio al femminile e la pianta a croce greca è ricorrente nei templi mariani.

Infine, una “chicca” dal valore inestimabile è un meraviglioso crocefisso opera del Guercino!

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Cristo Crocifisso del Guercino – foto credit

“basilicaghiara.it”

Veduta della torre campanaria

dal chiostro interno – foto

credit foto credit Manuela

Cocchi 2019

Panorama dalla Torre campanaria

– Foto Credit Manuela cocchi

2019

Io sulla torre con la Cupola come sfondo – foto credit Manuela Cocchi

Annessa alla Basilica c’è una Torre Campanaria, dove è possibile salirvi solo in occasioni particolari: spero siate in visita alla città in una di queste giornate perché, da

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lassù, la veduta sui tetti sarà resa ancora più suggestiva dal musicale rintocco delle campane… se poi si avvicina il tramonto faticherete a togliere lo sguardo!

Ora non vi resta che ammirare questo gioiello con i vostri stessi occhi e lasciarvi incantare…e chissà che non avvenga un altro Miracolo!

La Pietra di Bismantova,

gioiello naturale

dell’Appennino reggiano

Da Monte del Purgatorio a meta turistica e location per eventi all’aperto nel cuore dell’Appennino reggiano.

Dante Alighieri canta la Pietra di Bismantova

“Qui convien ch’uom voli” scrisse Dante riferendosi alla Pietra di Bismantova, celebre formazione rocciosa dell’Appenino Reggiano. L’asprezza delle sue pendici rocciose ispirò l’immaginazione di Dante: nel Canto IV della Divina Commedia, la Pietra di Bismantova è identificata come la Montagna del Purgatorio

Quest’ultimo rappresentava un luogo di penitenza e di sacrificio col fine ultimo di raggiungere la luce del Paradiso: la pietra, con il suo aspetto impervio e i suoi alti e ripidi versanti ben si prestava a raffigurare un luogo “scomodo”, che richiedeva la determinazione che solo un vero “fedele” può avere per aspirare al Giardino

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dell’Ede.Nient’altro che la sommità pianeggiante della Pietra.

Gustavo Dorè – Illustrazione della Pietra di Bismantova

Storicamente, Dante visitò di persona la Pietra di Bismantova probabilmente nel 1306, dimostrando come fosse un luogo ben noto già nel Medioevo.

Certamente la sua caratteristica forma non passò inosservata: sembra emergere tra le verdi colline come se fosse un’isola rocciosa e dalla sua sommità pianeggiante ci si può perdere nell’orizzonte ammirando le valli fino a perdita d’occhio.

Tuttavia, non si è capito se la Pietra assomigli al monte del Purgatorio o è il Monte del Purgatorio che assomiglia alla Pietra di Bismantova, ma possiamo senz’altro riconoscere un altro aspetto straordinario di questo luogo:

il suo essere così speciale da assomigliare ad un’idea.

Il fascino che ancora oggi suscita questa vetta rocciosa si è mantenuto nei secoli, tanto da essere rappresentata da artisti e pittori che arricchirono il loro portfolio con sue illustrazioni: la più nota è quella di Gustavo Dorè

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risalente alla fine del 1800.

Insediamento di Popoli preistorici e Fortezza Matidlica

ngg_shortcode_0_placeholderGli scavi nei pressi della Pietra di Bismantova si susseguono in modo intermittente da oltre 200 anni rivelando il legame con l’uomo.

Si sono rinvenuti reperti dell’Età del Rame, del Bronzo e di epoca etrusca: essi rilevano la presenza di scambi con territori distanti ed evidenziano come l’area fosse utilizzata sia confunzioni residenziali che

come necropoli. Tutti i reperti sono conservati presso i Miusei Civici di Reggio Emilia.

Castelnovo nè monti e l’attrazione verso la Pietra di Bismantova

Castelnovo né Monti possiamo definirlo il capoluogo dell’Appennino Reggiano e i suoi abitanti tendono a restare in paese anche nel tempo libero. Se per ragioni particolari, ad esempio per lavoro, amore o vita famigliare lo devono lasciare, state tranquilli che non sarà mai per sempre. Il ritorno tra le montagne per trascorrere tempo con le proprie origini è frequente!

Che sia forse anche l’attrazione fatale che la Pietra esercita sugli abitanti della cittadina appenninica?Credo che sia proprio una della motivazioni!

I castelnovesi hanno coniato l’espressione dialettale “al mal d’la Preda” (il male della Pietra): una sorta di “Mal d’Africa” nostrano, quella nostalgia, talvolta ossessiva, verso questa rupe cosi unica, tale da essere luogo di

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leggende magiche ed eventi soprannaturali.

Un altro elemento che unisce Castelnovo e la Pietra, è il grande legame con la Madonna del Latte collocata nel santuarioalle pendici della Pietra fin dal XV secolo.

In quel tempo erano tanti i devoti che salivano a piedi nudi in pellegrinaggio verso la “Madonnina”: da Castelnovo arrivavano all’Eremo attraverso l’antico sentiero per concludere il pellegrinaggio sulla sommità.

Al gir d’la Preda: a spasso tra suggestivi borghi e paesi

Alla base della Pietra, si snoda una specie di “Grande Raccordo Anulare” appenninico: “al gir d’la Preda” (che in dialetto reggiano significa “Il giro della Pietra”) è una strada asfaltata di circa 16 km che si snoda intorno alla Pietra di Bismantova e ne permette la visuale da ogni sua angolazione.

Partendo dal più importante centro abitato dell’Appennino Reggiano, Castelnovo ne’ Monti, si possono attraversare borghi e paesi caratteristici com Carnola , Ginepreto, Vologno, Maro, Casale, Campolungo.

Questi borghi rurali nascono in una fascia verdeggiante e boschiva: da sempre a vocazione agricola grazie al terreno fertile e all’esposizione al sole, vedevano il fulcro della loro economia nella produzione delle varie latterie

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disseminate nel territorio.

Oggi sempre per il buon clima e la posizione geografica stanno assumendo anche valore residenziale.

La visita alla Pietra, un must per il turismo appeninico

Ogni punto lungo i sentieri verso la Pietra ha un nome popolare: la grotta dell’eremita, l’orto del mandorlo, il sasso della bettola, la testa di cavallo, ognuno dei quali legato alle storie della Pietra, a testimonianza che è sempre stata un luogo amato dalla popolazione.

Quando l’attuale Piazzale Dante non c’era (dove oggi si può parcheggiare per poi salire sulla vetta!), la salita alla Pietra era una passeggiata attraverso le campagne della Bismantova; ancora oggi è il modo più affascinante per raggiungerla attraversando i borghi storici che si snodano intorno ad essa

In passato, le persone avevano meno possibilità di muoversi lontano da casa, ecco perché i castelnovesi consideravano la Pietra come un luogo di divertimento e di incontro oltre che di preghiera.

La Pietra è anche “famiglia”: il magnetismo verso di essa e l’abitudine a frequentarla si tramanda di generazione in generazione, anche se la maggiore comodità contemporanea, sta mettendo un po’ a rischio questa devozione.

Infatti, oggi le persone godono di mezzi e risorse per viaggiare, per cui la Pietra non è più l’unica destinazione

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di svago!

Oggi il legame tra Pietra e territorio si conserva grazie allo sport, alla cultura, agli eventi e al turismo.

Tutto l’anello di strada, “al g i r d ’ l a P r e d a ” è m o l t o apprezzato per escursioni in bicicletta, mountain bike e come percorso per passeggiate, nordic walking e soprattutto per la corsa.

Lungo questo anello c’è possibilità di parcheggio auto e si raggiungono l’area Bismantova e la sommità attraverso numerosi sentieri, alcuni dei quali ad anello, facili, ben accessibili e di diversa lunghezza, godendo via via di panorami e scorci sempre diversi.

Perchè nello sport siamo

“azzurri” e non “tricolore”.

In questi giorni di maggio si parla tanto di sport, soprattutto di calcio che sta organizzandosi per ripartire dopo l’emergenza COVID19

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Ma in generale tutti gli sport stanno cercando un modo per intrattenerci di nuovo e per permettere agli atleti di indossare di nuovo quella divisa dal colore azzurro!

Tutti noi abbiamo definito i nostri sportivi “gli azzurri ” a prescindere dallo sport: che si tratti di calcio (sicuramente lo sport a cui si pensa per primo!), pallacanestro, nuoto, pallavolo, atletica e tante altre discipline, il soprannome per gli atleti del nostro paese è sempre lo stesso!

È evidente che la ragione di questa denominazione è il colore della divisa principale indossata durante le manifestazioni sportive internazionali, dagli Europei alle Olimpiadi.

Perchè la scelta del colore “azzurro Savoia”?

Ma come mai proprio l’azzurro e non i colori della nostra bandiera, come accade spesso nella maggior parte delle nazioni?

La tipica gradazione di azzurro delle divise italiane è un po’ come se fosse un colore della nostra bandiera, ma per capirne il motivo dobbiamo fare un flashback di oltre 150 anni, anzi a dire la verità molto di più!

Nello specifico, viene definito “azzurro o blu Savoia”: dal nome risulta abbastanza semplice comprendere il contesto storico, infatti era il colore ufficiale di Casa Savoia, la dinastia che regnò in Italia fino al 1946.

Ma, andiamo ancora più indietro, come mai i Savoia scelsero proprio l’azzurro come loro colore ufficiale?

Forse, non lo immaginate ma la ragione è religiosa: i Savoia erano particolarmente devoti a Maria Vergine che, tradizionalmente è raffigurata con un mantello azzurro, di una gradazione davvero simile all’azzurro delle divise degli

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sportivi!

I Savoia, in particolare Vittorio Emanuele II°, rimasero al potere anche subito dopo l’unità d’Italia nel 1861, ed ecco che il colore ufficiale della loro casata fu trasferito all’intero paese, unito sotto il loro “governo”.

Questa eredità sabauda (aggettivo utilizzato quando si fa riferimento ai Savoia!) si è mantenuta anche dopo la nascita della Repubblica Italiana (1946): oggi l’azzurro lo ritroviamo nello stendardo presidenziale italiano; durante le cerimonie istituzionali gli ufficiali delle forze armate e i presidenti di provincia indossano una sciarpa azzurra e poi le ben note divise degli sportivi!

Semmai voleste creare un capo del colore azzurro Savoia dovrete cercare un pantone tra il blu pavone e il pervinca!

Se lo trovate in commercio, complimenti!!

Dagli esordi delle prime maglie azzurre ad oggi

Non stupisce che la prima disciplina sportiva a scendere in campo con la maglia azzurra, fu proprio il calcio, il primo sport per gli italiani ed è proprio alla nazionale di calcio (prima di tutti gli altri sport!) che noi tutti pensiamo quando sentiamo nominare gli azzurri!

Solo pochi giorni fa, il 15 Maggio 2020, abbiamo festeggiato i 110 anni (1910) dall’esordio della Nazionale Italiana di Calcio che però si presentò con una divisa tutta bianca con polsini e collo tricolore.

La motivazione “leggendaria” riporta che fosse una scelta in onore della divisa della squadra Piemontese, molto vicino a Casa Savoia, vincitrice di 2 scudetti:

il Pro Vercelli.

La motivazione reale invece è alquanto bizzarra: a pochi giorni dall’esordio della nazionale non si era trovato un accordo sul colore ufficiale…quindi si

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decise di non colorarla per niente, lasciandola bianca!

La divisa bianca non è stata abbandonata completamente, tanto che oggi è il colore della seconda divisa nel caso che la squadra avversaria vesta colori azzurro/blu.

Nazionale del 1911 – scrivere didascalia : 6 gennaio 1911: la nazionale italiana indossa per la prima volta la maglia azzurra

Per vedere i giocatori correre sull’erba con un bel colore azzurro dobbiamo aspettare qualche mese: il 6 Gennaio 1911 venne giocata la prima partita in maglia azzurra contro l’Ungheria all’Arena Civica di Milano. Purtroppo, l’esordio della nuova divisa non fu molto fortunato perché l’Italia perse 0-1

Dalle foto dell’epoca si nota lo stemma di casa Savoia: una croce bianca su sfondo rosso cucita sulle maglie dei giocatori, per rimarcare l’origine monarchica del colore delle nuove divise.

Alcune varianti della divisa le troviamo durante il Fascismo, che governò l’Italia dal 1922: dal 1927 Mussolini volle che il fascio littorio fosse affiancato allo stemma sabaudo sulle maglie della nazionale di calcio.

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In seguito, dal 1930 al 1938, Mussolini volle che la casacca della nazionale di calcio fosse completamente nera, sia in occasione dei Mondiali che dei Giochi Olimpici.

Ma non è finita!

E’ interessante notare come la divisa della nazionale di calcio, che rappresenta lo sport più popolare del nostro paese, segua e si adegui alle vicende storico-politiche, come se sulle “maglie azzurre” si scrivesse un capitolo di storia: quando si proclamò la Repubblica Italiana nel 1946, per cui cadde la Monarchia, si decise di sostituire lo stemma Sabaudo con il TRICOLORE, i colori che da quel momento identificano il popolo italiano rappresentandone valori di democrazia ed unità. Fu mantenuto però il colore azzurro, come memoria storica.

Più recentemente, nel 2006, ricordiamo un’espressione legata agli “azzurri” rimasta nella storia del Calcio Italiano:

quando l’Italia di Lippi vinse i Mondiali in Germania, il giornalista Marco Civoli commentò la vittoria degli azzurri con l’esclamazione “Il cielo è azzurro sopra Berlino!!!”

Dal calcio agli altri sport non tutti “azzurri”

Ci vollero alcuni anni prima che l’azzurro diventasse colore ufficiale nelle altre discipline sportive: ai giochi Olimpici del 1912 il colore ufficiale fu ancora il bianco e continuerà ad esserlo per diverso tempo, nonostante le raccomandazioni del CONI (nato nel 1914) di scegliere la maglia azzurra per tutte le nazionali sportive.

Solo dai Giochi Olimpici del 1932 tutti gli atleti si presentarono in maglia azzurra!!

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Lorenzo Bandini su Ferrari 312 F1nel 1966.

È interessante però segnalare che alcuni sport li ricordiamo per ben altri colori!

automobilismo: il colore identificativo dell’Italia non fu mai l’azzurro, ma il cosiddetto rosso corsa come definito dalla FIA (Federazione Internazionale dell’Automobile) negli anni ’20.

Fu per questo motivo che le case automobilistiche tra cui la più nota Ferrari, colorarono di rosso le loro vetture:

volevano che le auto italiane si riconoscessero subito

Ciclismo: dagli anni ’90 le nazionali ciclistiche italiane presentano sempre più spesso divise bianche.

Sport Invernali: talvolta vengono utilizzate divise bianche o rosse.

Ancora una volta l’Italia presenta un’incredibile e complessa storia anche nella sua tradizione sportiva, che rispecchia perfettamente il nostro paese: la cultura millenaria, l’eredità di popoli e dominazioni che ne caratterizzano la sua anima e la sua vena “artistica” anche nella scelta dei colori delle divise sportive.Ora, quando faremo tutti il tifo per gli “azzurri” o per le “rosse”

sapremo il perché e speriamo di poterlo fare presto in uno stadio!

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Matilde di Canossa tra storia, religione, leggende e modi di dire

C o n t i n u a l a n o s t r a p a s s e g g i a t a immaginaria attraverso la nostra penisola con le sue tradizioni, storie, leggende di cui è ricco anche il più remoto villaggio italiano; perché l’italianità si rivela anche nei più piccoli angoli, talvolta sconosciuti.

Se dico Vice Regina d’Italia immagino che pensiate tutti ad una discendente di Casa Savoia o al massimo della casata Borbonica. Invece no.

Parliamo di una donna il cui ruolo politico-religioso durante il Medioevo fu determinante e visse per diverso tempo sulle colline dell’Appennino Reggiano, in una piccola località montana divenuta celebre proprio per la presenza del suo castello: parliamo di Canossa e della Grancontessa Matilde

Matilde di Canossa: personalità

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combattiva e religiosa

Per capire la duplice personalità di Matilde di Canossa occorre fondere la storia ufficiale con le leggende attorno alla sua vita.

Le leggende

Cominciamo dal nome e dal suo aspetto, che sembrano influire fortemente sul suo carattere!

Il nome Matilde è di origine tedesca e significa forte e fiera in battaglia e lo dimostrerà concretamente nella sua vita.

Era rossa di capelli come il padre Bonifacio, Marchese di Toscana: dei “rossi” si sa, non bisognava fidarsi troppo; il detto popolare dice “non dare mai la spada ad un rosso”.

Matilde erediterà dal padre proprio la forza e la belligeranza.

Sarà per il significato del suo nome unito al colore

“focoso” dei suoi capelli che la nostra Matilde scende in battaglia accanto ai suoi soldati e nel 1092 sbaraglia le truppe del cugino ed Imperatore di Germania Enrico IV. Prendete nota di questo nome, perché torneremo a parlare di lui!

Di tutt’altro temperamento era la madre di Matilde, Beatrice di Lorena, dalla quale erediterà devozione e religiosità

Ma non è tutto, si narra che Matilde fosse anche molto scaltra, tanto che durante gli assedi al castello di Canossa, era solita mandare una “vacca grassa” fuori dalle mura: era un deterrente per i soldati nemici affinché capissero che il castello avrebbe potuto resistere anche ad un lungo assedio grazie alle scorte di cibo a disposizione.

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Addirittura, si dice che fosse più astuta e scaltra del diavolo tanto da riuscire ad imprigionarlo in una piccola f i a l e t t a e f a r g l i

promettere di rendere inattaccabile Canossa per sempre.

E così il diavolo creò il castello in una sola notte, su un pendio impervio, scosceso e inaccessibile e, con una sola zampata dei suoi acuminati artigli, graffiò a tal punto la roccia da creare i calanchi, tipiche montagne d’argilla denominate appunto “artigli del diavolo”.

Così che, per l’evidente inagibilità, i nemici rinunciavano a piantare un accampamento militare in questi luoghi.

La storia

Le informazioni maggiormente legate alla sua “storia ufficiale” ci arrivano dall’abate benedettino Donizone, nel poema “Vita Mathildis”.

La Grancontessa Matilde era donna piissima, ma anche

“domina” combattiva e fiera, dotata di un grande potere, ereditato in giovane età, dopo la morte del fratello e della sorella, avvelenati in una congiura di palazzo.

Tra le varie “attività” di Matilde ci fu l’istituzione di una vera e propria “ronda” di polizia sulla rive dei fiumi Po’ e Lirone (importantissime vie di comunicazione a quei tempi e parte dei suoi possedimenti) per proteggerle dai predoni.

Ma la vera rilevanza storica di Matilde di Canossa, risale

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ad avvenimenti ben più significativi!

Facciamo un salto in pieno Medioevo, durante la Lotta per le investiture, esattamente nel 1073: nello stesso anno vengono eletti contemporaneamente Papa Gregorio VII e il nuovo imperatore Enrico IV.

Quest’ultimo riorganizzò i suoi territori tedeschi e subito dopo si rivolge alle terre italiane, ma questa azione non passò indenne: si crea una frattura politica tra il Papa (Autorità della Chiesa) ed Enrico IV (Potere imperiale) alla quale porrà una fine il Papa stesso scomunicando ENRICO IV!

A questo punto l’imperatore non può prendere parte ai riti religiosi e la sua figura perde autorità sui sudditi. Ecco che entra in “gioco” Matilde.

Non crea affatto meraviglia che una donna di tale personalità, cultura, fascino e carisma sia stata scelta come mediatrice tra papato e Impero.

R e x r o g a t a b b a t e m / Mathildim supplicat atque.

M i n i a t u r a d e l c o d i c e o r i g i n a l e d e l l a V i t a Mathildis di Donizone di C a n o s s a ( s e c . X I I ) . Biblioteca Vaticana, Roma

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Lei si schierò con decisione a fianco di papa Gregorio VII ( si dice che Matilde ed il Papa avessero una relazione

amorosa!!), nonostante l’imperatore fosse suo cugino.

Così Enrico IV scese in Italia per raggiungere un

“compromesso” col pontefice, che lo ricevette proprio presso il Castello Di Canossa. Ma non fu cosi semplice per Enrico IV!!

Per ottenere “il perdono papale” fu costretto ad attendere davanti all’ingresso del castello per tre giorni e tre notti inginocchiato col capo cosparso di cenere.

Ma l’episodio più importante per la vita politica di accadde nel 1111:

l’Imperatore ENRICO V, figlio di Enrico IV, di ritorno da Roma dopo essere stato incoronato dal Papa, fece tappa presso il Castello di Bianello, nella località di Quattro Castella, in provincia di Reggio Emilia, dove Matilde risiedeva costantemente (aveva abbandonato la fortezza di Canossa) e la incoronò Vicaria Imperiale in Italia.

Ecco che Matilde divenne una delle figure più importanti del Medioevo Italiano e credo che abbia ragione Jaques le Goff, noto storico francese, definendola come “antesignana del femminismo”.

La religione e le “cento chiese”

La determinazione, le abilità da stratega e astuta regnante si fondevano con il suo animo profondamente religioso: le cronache del tempo affermano che il suo più grande desiderio fosse quello di ritirarsi nel monastero di San Benedetto Po (nella provincia di Mantova) di cui si innamorò da bambina.

Infatti, lei trascorse proprio qui la sua infanzia con la

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madre Beatrice e il nonno Tedaldo, fondatore anche del monastero di Polirone: proprio a Polirone, Matilde decise di terminare i suoi giorni e qui le sue spoglie rimasero fino al Seicento, quando la sua salma venne venduta e poi traslata in Vaticano dove le fu data una sepoltura di prestigio nell’aula di San Pietro.

Sulla religiosità di Matilde e la centralità che essa aveva nella sua vita si lega la “leggenda delle cento chiese” : lei chiese al suo grande alleato papa Gregorio VII, la possibilità di officiare la messa. Richiesta alquanto presuntuosa e straordinaria considerando come il mondo ecclesiastico fosse piuttosto misogino.

Il Papa le concesse questo potere, ma non senza un “pegno da pagare”: Matilde avrebbe potuto celebrare la messa, solo se f o s s e r i u s c i t a a c o s t r u i r e c e n t o c h i e s e e c e n t o ostelli/ospizi per i poveri.

Purtroppo, Matilde riuscì a costruirne solo novantanove, vedendo sfumare il sogno di diventare Papessa.

Il melograno e la firma di Matilde

Matilde viene ricordata come la “Regina del Melograno”: in molti raffigurazioni postume la vediamo con questo frutto in mano, che simboleggia la chiesa unita che lei stessa protegge.

I semi del frutto rappresentano i cristiani uniti sotto madre Chiesa

La firma di Matilde fu ritrovata in antichissimi documenti

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d’archivio ed è riconoscibilissima per forma e contenuto.

E s s a r i m a n d a a d u n m o t t o d i S a n P a o l o a p o s t o l o e contrassegnata da una croce: “Matilda Dei gratia si qui est”

– “Matilde che se è qualcosa, lo è per grazia di Dio”.

Matilde,dunque, utilizzò proprio la croce, contrassegno dei Papi, degli Imperatori e dello stesso Carlo Magno.

Sigillare i documenti con questa firma è certamente un atto di grande devozione ma anche affermazione di potere personale: ricordiamoci che nel Medioevo il potere era prevalentemente maschile

Dal Medio Evo ai giorni nostri:

“modi di dire” e rievocazioni storiche

Forse ognuno di noi ha sentito l’espressione “andare a Canossa”, senza magari sapere da dove sia nato questo modo di dire.

Beh è nato proprio dalla vicenda che coinvolse Enrico IV nel chiedere perdono al Papa dopo avere atteso tre giorni in

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ginocchio davanti al Castello di Matilde: da allora l’azione di una persona che si umilia e che ammette di aver sbagliato e si sottomette si definisce con l’espressione “andare a Canossa”.

Dopo avervi raccontato la storia molto “vivace” della vita di Matilde, non potete perdervi l’evento più importante a lei dedicato.

Dal 1955, ogni anno, l’ultimo weekend di maggio, potrete assistere al Corteo Storico Matildico che si snoda tra il Castello del Bianello fino alle vie del paese di Quattro Castella.

Il Corteo Storico Matildico trae il nome dalla sfilata di oltre 1000 comparse in costume d’epoca, lungo le vie di Quattro Castella.

Si tratta di una rievocazione – spettacolo teatrale entusiasmante adatto ad adulti e bambini, in cui si reinterpreta l’episodio storico dell’incoronazione di Matilde da parte di Enrico V!

I 2 protagonisti, Matilde ed Enrico V, sono solitamente interpretati da personaggi importanti del mondo dello spettacolo, della cultura e dello sport.

Nel ruolo di Matilde ricordiamo Silvana Pampanini (1957), Stefania Sandrelli (1984), Barbara De Rossi (1989) e le più recenti Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Valeria Marini, Tania Cagnotto;

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M e n t r e n e l r u o l o dell’imperatore Enrico V ricordiamo Andrea G i o r d a n a , M i c h e l e Placido, Fabio Testi, Marco Columbro, Biagio Antonacci, Gabriel Garko.

Ma non si tratta della solita “sfilata in costume”, ma di uno spettacolo vero proprio con sbandieratori, musicanti e giochi medievali in cui si sfidano le varie contrade.

Tra le “gare” più famose ricordiamo: La Quintana dell’Anello (gioco di abilità per cavalieri); Il Gioco del Ponte (due squadre di 7 lottatori si affrontano in duello sopra un ponte di legno. Vince la squadra che riesce a far cadere i componenti della squadra avversaria)

Infine, il Castello del Bianello è aperto al pubblico e visitabile.

Dalla collina del Bianello il panorama è davvero incredibile.

In estate inoltre, alcuni gruppi escursionistici, organizzano visite sulla collina e al castello al chiaro di luna: suggestivo ed emozionante!

Parola di chi ha partecipato!!

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Non rinunciate alla possibilità di fare un viaggio nella storia ed immaginarvi regnanti nella corte di Matilde!

Vi aspetto alle Porte del castello…ma non temete non vi faccio attendere in ginocchio!!

Aceto balsamico: una storia millenaria raccontata da chi lo produce

Una delle tradizioni più antiche, anzi millenaria, del complesso patrimonio gastronomico italiano, è

quella dell’aceto balsamico.

Ho cercato di raccogliere qualche segreto direttamente dalla voce di un’addetta ai lavori.

Intervista a Mariangela Montanari

Nei giorni scorsi ho intervistato telefonicamente la

titolare ed erede di una storica acetaia di Vignola (Mo) in cui viene prodotto il balsamico tradizionale di Modena

secondo il solo ed unico procedimento che porta a questo nettare prezioso.

Mariangela Montanari de La Cà dal Non ci ha svelato tanti particolari e tanta storia.

Da dove nasce questa millenaria tradizione?

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La storia ufficiale del balsamico tradizionale non è una sola ma si compone di tante storie quanti sono i suoi produttori che da generazioni si appassionano alla sua creazione.

La mia storia con il balsamico tradizionale inizia con il bisnonno che avvia la sua prima batteria di botticelle destinata al consumo quotidiano per la sua famigli. A seguire mio padre ha continuato a curare il lavoro: nel frattempo le batterie erano diventate cinque ed altre ne furono aggiunte. I miei primi ricordi “all’aceto” risalgono a quando ero bambina e mi divertivo a salire in soffitta a verificare la mia batteria di aceto.

L’antica tradizione modenese, prevedeva di avviare una batteria di balsamico per le bambine di casa e di lasciare la batteria in dote alle bambine stesse.Tornando alla storia ufficiale, è impossibile individuare una data di nascita per il balsamico tradizionale.

L’unica certezza che abbiamo è l’ingrediente del balsamico tradizionale: il mosto di uva cotto

che naturalmente fermenta, acetifica e viene invecchiato per lunghi anni, tramite una tecnica particolare, in serie di botticelle.

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Come si è evoluta l’elaborazione del mosto cotto fino ad arrivare al balsamico?

Gli antichi romani già producevano mosto d’uva cotto, chiamandolo Saba, uno dei più antichi dolcificanti conosciuti in natura. Trattasi di mosto di uva lungamente cotto a fuoco diretto e a vaso aperto, portato alla consistenza di una melassa liquida che era utilizzato parallelamente al miele per dolcificare.

L’ipotesi più accreditata sull’evoluzione del balsamico si riconduce ad una casualità: una

produzione di saba, forse meno cotta del normale, ha iniziato uno spontaneo processo di fermentazione e successiva acetificazione.

Nei secoli questo processo casuale è stato trasformato in un preciso processo di invecchiamento in botticelle di volume decrescente.

Perchè e quando Modena è diventata il centro dell’aceto balsamico, eccellenza del Made in Italy?

Le prime tracce scritte di un “aceto particolarissimo”

prodotto nelle zone tra Modena e Reggio Emilia, si trovano a partire dal XII secolo d.c; successivamente, a partire dal XVI secolo questo “aceto particolarissimo” inizia ad essere chiamato “aceto alla modenese”.

S i d e v e a t t e n d e r e i l 1 7 4 7 , p e r v e d e r e c o m p a r i r e l’appellativo “balsamico” nei registri del palazzo Ducale di Modena, dove aveva sede la più prestigiosa acetaia del tempo.

Cosa distingue l’Aceto Balsamico tradizionale di Modena, dal Balsamico di Modena e altri “condimenti balsamici”?

Quando parliamo di balsamico, ci viene immediatamente in mente un aceto di colore scuro dal sapore agrodolce.

Nei nostri supermercati e sulle nostre tavole troviamo ormai tanti tipi di aceto balsamico, di varie densità e di vario

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prezzo per cui cerchiamo di mettere un po’ di ordine alle idee!

Sul mercato si trovano tre prodotti con il nome “balsamico”

con certificazione DOP o IGP:

Aceto balsamico di Modena IGP: la tipologia più diffusa, prodotto in grandissima quantità.

Il sapore agrodolce si crea dall’unione di aceto di vino (sapore agro) con mosto di uva cotto o concentrato (parte dolce); eventualmente viene aggiunto del caramello per stabilizzarne il colore.

La miscela di questi ingredienti trascorre almeno 60 giorni in una botte di volume non definito.

Questo aceto si può produrre nelle province più legate a questa tradizione quali Modena e Reggio

Emilia: il disciplinare di produzione definisce le tipologie di uve dalle quali si possono ottenere le

materie prime, ma non la loro provenienza geografica.

Aceto balsamico tradizionale di Modena:prodotto in quantità limitatissime.L’unico ingrediente del balsamico tradizionale è il mosto di uva cotto di uve

tipiche modenesi coltivate a

Modena e provincia in vigneti iscritti per la certificazione della DOP.

Il Balsamico tradizionale si ottiene per naturale fermentazione e acetificazione del mosto di uva cotto

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e successivo lunghissimo invecchiamento in serie di botticelle di legni diversi, e volume decrescente. La tecnica prevede travasi e rincalzi annuali.

Il Balsamico Tradizionale più giovane che possiamo acquistare deve essere invecchiato almeno 12 anni, mentre il prodotto denominato “extra vecchio” deve essere invecchiato per almeno 25 anni.

Il tradizionale di Modena si trova in commercio nella sua caratteristica bottiglie da 100ml l’unica prevista di legge per tutti i produttori.

Questo tipo di invecchiamento trasforma negli anni il mosto di uva cotto, dolce e fruttato, in un prodotto con più consistente, persistente al palato, dove dolce ed acido son ben equilibrati. Un vero e proprio profumo per i nostri piatti.

Vi regalo una piccola curiosità sul Balsamico tradizionale di Modena: le batterie di tradizionale sonoposte nelle soffitte e sono aperte in sommità e coperte solo con una pezzuola di tessuto naturalelino o cotone. Anticamente le botticelle si chiudevano con un sasso.

Gli altri prodotti denominati condimenti balsamici / creme balsamiche sono prodotti non riconducibili a nessuna delle tipologie descritte sopra.

Possono essere prodotti creati con specifiche ricette dalle aziende produttrici perché non seguono

alcun disciplinare ufficiale. L’unico modo per avere un’idea del prodotto è leggere gli ingredienti ed

assaggiare.

Per riconoscere un tradizionale cercate la sua bottiglia caratteristica di legge da 100ml e ricordate che l’ingrediente è sempre solo uno: mosto di uva cotto.

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Qual è la differenza tra Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e quello di ReggioEmilia?

Ho citato anche Reggio Emilia, perché anche in questa provincia confinante con quella modenese si produce l’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia DOP. Anch’esso in quantità limitatissime e nasce dalla stessa tradizione e tecnica produttiva del tradizionale di Modena ma con le uve prodotte nei territori reggiani.

H a c a r a t t e r i s t i c h e organolettiche analoghe a l t r a d i z i o n a l e d i Modena, lo si trova anch’esso in bottiglie da 100ml, uniche di legge ma con una forma d i v e r s a e b e n riconoscibile da quella di Modena.

Inoltre si differenziano nella suddivisione in tre diversi livelli di invecchiamento:

etichetta aragosta – invecchiato almeno 12 anni ma meno persistente e denso rispetto all’argento

etichetta argento – invecchiato almeno 12 anni

etichetta oro – extra vecchio invecchiato almeno 25 anni.

Come si crea e inizia la batteria? (tempi medi per aver una prima partita di bottiglie)

La produzione del balsamico tradizionale richiede tempo, ti abitua alla pazienza ed alla cura.

Come dico sempre, “il balsamico tradizionale non è un

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prodotto nato per essere commercializzato. Il

prodotto tradizionale nasce nelle famiglie e solo alla fine degli anni ’80 fa capolino timidamente nel

mondo del commercio”

Il tempo di produzione del balsamico tradizionale è lunghissimo. Il mosto di uva cotto naturalmente fermentato ed acetificato invecchia in serie di botticelle di legno diverso e volume decrescente, detta batteria.

Le botticelle di una batteria vengono avviate tutte insieme, questo significa che tutte le botticelle

vengono inizialmente riempite parzialmente con mosto cotto.

Ogni anno nella stagione fredda si ripete il rito del travaso e del rincalzo: queste operazioni ripetuteanno dopo anno generano l’invecchiamento al prodotto.

Vi spiego meglio questi due processi:

Travasare vuol dire rabboccare la botticella più piccola della serie con parte del liquido della botticella immediatamente precedente in dimensione, e così si prosegue dalla botticella più piccola fino alla botticella più grande.

Il Rincalzo invece si fa solo nella botticella più grande: si aggiunge mosto cotto dell’autunno precedente. Ogni anno si ripete.

Il mosto cotto dolce e fruttato via via si trasforma nelle botticelle e negli anni l’aceto delle botticelle piùpiccole diventa sempre più “corposo” e dal gusto persistente, l’acidità aumenta si bilancia con il saporepiù dolciastro del mosto cotto iniziale.

Dopo almeno 12 anni di queste operazioni si può iniziare a prelevare una piccola parte di prodotto finito dalla botticella piu piccola della serie.Mai vuotarla! Si perderebbe la memoria organolettica dei travasi e dei rincalzi fatti nel tempo.

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La produzione può proseguire all’infinito, non esiste un’età massima di invecchiamento del

prodotto.

I tradizionali si possono commercializzare con due età di invecchiamento, ma mai meno di 12 anni per

i più giovani e gli extra vecchi hanno almeno 25 anni di invecchiamento.

Qualche Curiosità e Ricetta….

In purezza, è come un profumo. Per apprezzarne il suo gusto aromatico si possono mettere poche gocce su di un cucchiaino, comeaperitivo o digestivo.

In gocce si abbina perfettamente su parmigiano reggiano, pecorino o altri gustosi formaggi.

Può essere una nota aromatica sui risotti, la carne, i gamberetti prima di servirli in tavola.

Grazie alle sue note dolci si esalta anche su di una macedonia di fragole o di ciliegie; il gelato allo zabaione o alla crema con qualche goccia di aceto balsamico sono dessert semplici

ma dal gusto speciale.

Spero che questa precisa e curiosa storia di uno dei nettari più pregiati, gustosi e unici al mondo vi abbia incuriosito e magari un giorno vi unirete a me per conoscere di persona la nostra Mariangela Montanari ma soprattutto per gustare il vero Aceto Balsamico Tradizionale.

Vi garantisco che ne diventerete piacevolmente dipendenti!

Vi do appuntamento alla prossima puntata della rubrica “Alla riscoperta della nostra italianità” .

Suggerisci nei commenti l’argomento da trattare nel prossimo articolo di questo spazio dedicato alla storia e alle tradizioni del Belpaese.

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Il Tricolore, la bandiera che ci unisce: da dove nasce ?

Concentratevi sul nostro paese, focalizzate il pensiero sulla pianura padana e lì volate sulla sola regione “di traverso”: l’Emilia-Romagna.

Arrivati qui cercate una città, non la più estesa, non la più famosa ma molto significativa! Forse dopo questo articolo sarà famosa anche per voi!

Reggio Emilia e la bandiera italiana

Sto parlando di Reggio Emilia, città di medie dimensioni (171mila abitanti circa) collocata sulla Via Emilia tra le più note Parma e Modena.

In pochi, tra gli italiani, anzi aggiungo anche tra gli

emiliano-romagnoli, sanno quale sia la “genesi” della nostra inconfondibile bandiera, marchio inequivocabile del “Made in Italy”, soprattutto all’estero.

Adesso, sicuramente, vi starete chiedendo qual è la relazione tra Reggio Emilia e il Tricolore.

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Bandiera Repubblica Cispadana

Dalla Repubblica Cispadana all’Italia

Era una fredda e umida giornata di Gennaio del 1797 quando i rappresentanti delle città di Reggio Emilia, Modena, Bologna e Ferrara si riunirono in Congresso e diedero vita ad un nuovo stato, sotto la protezione di Napoleone Bonaparte.

Questo nuovo stato era la Repubblica Cispadana

Durante questa importante seduta si ufficializzò che il tricolore bianco, rosso e verde, sarebbe stato il vessillo della neonata Repubblica. Il 7 gennaio 1797 nasce il tricolore, inizialmente a righe orrizzontali.

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Sala del Tricolore – Reggio Emilia

La seduta avvenne nella Sala principale del Palazzo Comunale di Reggio Emilia, che era stata originariamente progettata per essere l’archivio del Ducato di Modena e Reggio Emilia In questa occasione ufficiale, il salone fu soprannominato Sala del Congresso e subito dopo la proclamazione della Repubblica, divenne Sala del Tricolore.

Ancora oggi viene chiamata dai Reggiani Sala del Tricolore.

Attualmente è la sede del Consiglio Comunale e delle manifestazioni ed eventi istituzionali.

Il tricolore ha cominciato a rappresentare gli ideali della Repubblica e che sono alla base del Risorgimento: non è più solo uno stendardo dinastico o militare, ma il simbolo del popolo, della Libertà e Democrazia.

Furono questi i valori con cui i moti del risorgimento portarono all’unità del nostro paes e quindi all’estensione del tricolore all’intero Stato italiano.

Ecco che ogni 7 gennaio Reggio Emilia diventa “tricolore” e si susseguono eventi istituzionali nell’arco della giornata,

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anche alla presenza del Presidente della Repubblica, per festeggiare e ricordare il valore di unità e di condivisione di ideali che esso rappresenta.

Perchè questi colori?

Le versioni che si possono leggere sul significato dei tre colori sono varie, diciamo che mi concentro su due in particolare, una storica e una più “romantica”.

Partiamo dalla storia: la Repubblica Cispadana si avvalse anche degli eserciti della Lombardia dove la Legione Lombarda appunto presentava stendardi di colore bianco, rosso e verde: il bianco e il rosso, comparivano già nell’antichissimo stemma comunale di Milano (croce rossa su campo bianco), mentre il verde era il colore delle uniformi della Guardia civica milanese.

Gli stessi colori furono adottati anche negli stendardi della Legione Italiana (che univa anche la legione di Emilia e Romagna): questo si presume sia il motivo che spinse la Repubblica Cispadana ad adottare questi 3 colori

L’interpretazione romantica vuole che il verde ricordi i nostri prati, il bianco le nevi e il rosso sia un omaggio ai soldati che sono morti nel corso delle varie guerre. Questa interpretazione è forse quella più leggendaria ma anche quella più contestata.

Il Museo del Tricolore

Spero di avervi incuriosito, aver dato un po’ di celebrità a Reggio Emilia e quindi vi invito a fare tappa al Museo del Tricolore, che non può mancare nella sua città natale.

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Museo del Tricolore – Reggio Emilia

Il Museo del Tricolore è nato nel 2004 con una prima sezione legata alla nascita della bandiera per poi essere ampliato nel 2006 con una sezione dedicata agli avvenimenti risorgimentali di cui Reggio Emilia fu protagonista.

Ciò che vedrete esposto comprende la ricostruzione della prima bandiera a righe orizzontali ed una lettera di Ugo Foscolo che elogia il coraggio dei reggiani.

La visita al Museo include anche la tappa nella Sala del Tricolore (oggi del consiglio comunale come spiegato), se le attività istituzionali lo permettono.

Reggio Emilia ha anche tanti altri gioielli che potrete scoprire visitandola. Ve ne cito giusto un paio:

Teatro Romolo Valli, il 3° in Italia per bellezza e posti a sedere

Basilica della Madonna della Ghiara, detta “Madonna di Reggio” che è uno dei più belli esemplari dello stile Barocco in Italia.

Vi aspetto in Emilia con tanta curiosità!

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