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Una legge di stabilità per uscire dalla recessione, Tito Boeri e Giuseppe Pisauro

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Academic year: 2022

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Una legge di stabilità per uscire dalla recessione, Tito Boeri e Giuseppe Pisauro 11.10.13

Legge di stabilità: sul credito incertezze e contraddizioni, Angelo Baglioni 18.10.13

Legge di stabilità: cosa cambia per l’Irpef, Massimo Baldini e Simone Pellegrino 18.10.13

Legge di stabilità: è omissione di soccorso, 18.10.13

Ma la legge di stabilità è incostituzionale?, Tito Boeri e Pietro Garibaldi 21.10.13

Legge di stabilità: un déja-vù per il pubblico impiego, Luigi Oliveri 22.10.13

Letta e i 14 euro del cuneo fiscale. Chi ha ragione?, Massimo Baldini 22.10.13

Legge di stabilità: il conto delle imposte sugli immobili, Simone Pellegrino e Alberto Zanardi 25.10.13

www.lavoce.info | ottobre 2013

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Una legge di stabilità per uscire dalla recessione

11.10.13

Tito Boeri e Giuseppe Pisauro

La “manovrina” vende patrimonio pubblico per ridurre il disavanzo, anziché per abbassare il debito. È un grave precedente, che la Ragioneria non dovrebbe certificare. Speriamo in una manovra ben diversa, che riduca in modo consistente il cuneo fiscale.

IL DEBITO E LA CRESCITA

Negli ultimi due anni, nonostante la pressione fiscale sia aumentata da 42,5 per cento nel 2011 a 44,3 per cento nel 2013 e la spesa pubblica primaria sia diminuita in termini nominali, il rapporto tra debito pubblico e Pil è aumentato di oltre 12 punti. Le entrate nel 2013 saranno inferiori di circa 30 miliardi alla previsione che il Governo Monti presentò al Parlamento all’atto del suo insediamento, prima quindi di intervenire con la manovra del dicembre 2011. La recessione, insomma, ha quasi interamente vanificato quella manovra e ci consegna addirittura un quadro peggiore di quello che allora sembrava pessimo al punto da indurre, come si ricorderà, il governo appena insediato a intervenire pesantemente. Ciò dimostra che i problemi dei nostri conti pubblici sono dovuti a lustri di bassa crescita seguiti da due pesanti recessioni. Se l’economia non cresce, per quanti sforzi si facciano dal lato delle spese e delle entrate, la sostenibilità della finanza pubblica -misurata sinteticamente dal rapporto debito/Pil- non migliora.

L’esigenza più urgente è in questo momento sostenere la domanda di beni per portarci fuori dalla recessione, mentre si portano avanti quelle riforme strutturali che aumenteranno, nel giro di qualche anno, il tasso di crescita potenziale della nostra economia. Per intercettare la domanda che viene dall’estero, bisogna migliorare la

competitività delle nostre imprese, abbassando il costo del lavoro per unità di prodotto, ancora nettamente più alto di quello di altri paesi dell’area euro, Spagna compresa. Per rivitalizzare la domanda interna bisogna migliorare le condizioni del mercato del lavoro. Una riduzione immediata e consistente della pressione fiscale sul lavoro permette di perseguire simultaneamente entrambe le strade.

BASTA NAVIGARE A VISTA

Le regole europee e il funzionamento dei mercati finanziari rendono molto stretti i marginidi intervento. La reazione sin qui del Governo è stata quella di vivere alla giornata. L’emblema di questa visione di brevissimo periodo è nella manovrina varata giovedì per dimostrare che stiamo facendo di tutto per centrare l’obiettivo di contenere il rapporto deficit/Pil sotto al 3 per cento. Oltre a nuovi tagli lineari sulla spesa si destinano vendite del patrimonio pubblico alla riduzione del disavanzo anzichè all’abbattimento del debito. Questa operazione, che la Ragioneria dovrebbe bloccare, crea un grave precedente.

Bene che la legge di stabilità che il governo si avvia a varare lunedì prossimo sia ben diversa. Solo nell’ambito di un orizzonte pluriennale, almeno da qui al 2016, è infatti possibile ampliare i margini per condurre politiche di bilancio più espansive, convincendo l’Europa e i mercati della credibilità di un’operazione che deve cercare di attingere il più possibile a fondi europei e può anche prevedere un temporaneo aumento del disavanzo per stimolare la ripresa dell’economia e rendere così più sostenibile anche la finanza pubblica. In altre parole, non dovrebbe essere solo una manovra “lorda”: devono aumentare le risorse messe a disposizione dell’economia. In concreto si tratterebbe di far partire subito un pacchetto di stimolo fiscale, con la riduzione del cuneo e

possibilmente anche investimenti pubblici (che restano la voce di bilancio con il moltiplicatore più alto) nella manutezione delle scuole.

COME E DI QUANTO RIDURRE IL CUNEO

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In un paese in cui si continuano a ripetere gli stessi errori, bisogna fare tesoro delle esperienze con riduzioni del cuneo fiscale varate dai governi (sempre di centro-sinistra in passato). Il grafico qui sotto – tratto dalla relazione Banca d’Italia del 2009 – le richiama.

Fonte: Relazione Banca d’Italia 2009; elaborazioni su dati Istat, Conti economici nazionali.

Quella varata dal Governo Prodi con la Finanziaria del 2007 prevedeva uno sgravio sulla carta di 5 punti del cuneo fiscale, ma da realizzare in modo graduale nell’arco di tre anni. Il primo intervento fu di circa 2 miliardi e mezzo attuato, per quanto riguarda i lavoratori, mediante un incremento delle deduzioni Irpef e, per gli

imprenditori, con un alleggerimento dell’Irap. Eppure gli imprenditori sembrano non essersi neanche accorti della misura di Prodi. I lavoratori, forse a maggior ragione, ancora meno. Forse perchè sono al contempo aumentate le addizionali locali dato che il provvedimento era stato finanziato anche con i soliti tagli lineari alla spesa locale e perchè il taglio era molto contenuto. Nella relazione Banca d’Italia del 2008, si legge che “l’entità della flessione, a seconda del comune di residenza, è compresa per la quasi totalità dei comuni tra 0,3 e 0,7 punti percentuali del costo del lavoro per un lavoratore senza carichi familiari”. Fatto sta che l’occupazione, ancora prima dell’inizio della recessione, dal 2007 ha cominciato a diminuire. E non ha smesso di farlo da allora.

NON RIPETERE GLI ERRORI DEL PASSATO

Oggi non bisogna ripetere gli errori. Il Governo sembra intenzionato a fare la stessa cosa di Prodi: manovra graduale, inizialmente di 2-3 miliardi, a crescere negli anni successivi e attuata tramite Irap e deduzioni Irpef. I tagli alla spesa pubblica locale sono già stati varati con la manovrina e sono lineari. Premessa di aumenti di tasse a livello locale. Invece la riduzione del cuneo fiscale dovrebbe essere consistente, ben visibile da lavoratori e imprese e non finanziata con altre tasse manovrate dal centro o a livello locale. Riteniamo che per essere incisivo il taglio deve valere almeno 15-16 miliardi. Può consistere in una riduzione generalizzata dei contributi sociali che potrebbe, ad esempio, portare i contributi previdenziali dal 32,7 al 30 per cento del salario. Altrimenti può concentrarsi sui salari più bassi, sotto forma di incentivi condizionati all’impiego che permettano di ottenere salari netti più alti, ad esempio, a chi esce dalla disoccupazione pur con lavori part-time e meno remunerativi di quelli che aveva in precedenza.

Il vantaggio di operare sui salari bassi è che si avrebbero effetti più importanti sulla domanda interna, data la più alta propensione al consumo di chi ha redditi più bassi. Dal punto di vista tecnico, ciò si può ottenere in vari modi:

riducendo di una somma fissa (dell’ordine di grandezza di 1000 euro su base annua) i contributi previdenziali di tutti i lavoratori, oppure introdurre un sussidio condizionato all’impiego (ad esempio tale da portare a 5 euro all’ora ogni lavoro pagato meno di quella cifra).

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Per gli investimenti pubblici è fondamentale concentrarsi su progetti di manutenzione di strutture come le scuole evitando di imbarcarsi in nuove opere dai tempi di realizzazione incerti. La priorità è, comunque, la riduzione del cuneo fiscale.

COME FINANZIARLA

La riduzione del cuneo fiscale dovrebbe decorrere dal primo gennaio 2014. Il pacchetto verrebbe inizialmente finanziato, almeno in parte, con i fondi europei e in disavanzo oltre che con riduzioni di spesa rese possibili dalla spending review, a crescere fino a garantire la completa copertura dei provvedimenti nel 2016. Per rendere la manovra credibile agli occhi dell’Europa e dei mercati, il Parlamento dovrebbe comunque approvare subito una serie di misure di taglio della spesa, alcune di efficacia immediata e altre che entreranno in vigore nel 2016 se la spending review non dovesse portare ai risultati sperati.

Nel caso di interventi concentrati sui salari più bassi, la riduzione del cuneo potrebbe essere finanziata

inizialmente tramite il Fondo sociale europeo, che richiede per intervenire sgravi fiscali concentrati sui gruppi più vulnerabili anzichè interventi generalizzati. Nel negoziato con Bruxelles si potrà fare riferimento al precedente della Spagna o della Repubblica Slovacca. Anche gli investimenti pubblici possono essere finanziati dai fondi europei.

I tagli della spesa approvati per entrare in vigore nel 2016 dovrebbero essere necessariamente selettivi, dato che anni di tagli lineari ci dimostrano che questi sono spesso più virtuali che effettivi e colpiscono per definizione anche componenti della spesa pubblica (come la scuola e le infrastrutture) che richiederebbero in questo momento maggiori risorse. I tagli selettivi potrebbero incentrarsi sui trasferimenti alle imprese (tra 5 e 10 miliardi), la formazione professionale affidata alle regioni (7 miliardi), gli interventi sulle pensioni d’oro (1 miliardo) ed eventualmente spingersi a considerare una riduzione della copertura del Servizio sanitario nazionale (ad esempio, il medico di base) per chi ha redditi elevati. Possibile anche ridurre le disparità territoriali nelle remunerazioni nel pubblico impiego, dove non si tiene minimamente conto delle grandi differenze presenti nel costo della vita, quindi nel potere d’acquisto dei salari, fra diversi mercati del lavoro locali.

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Legge di stabilità: sul credito incertezze e contraddizioni

18.10.13 Angelo Baglioni

Anche sul credito, la Legge di stabilità presenta incertezze e contraddizioni, pur andando nella giusta direzione.

Corregge l’anomalia della deducibilità delle perdite su crediti, ma non incrementa a sufficienza l’incentivo alla ricapitalizzazione delle imprese. E aumenta la patrimoniale sui titoli.

TRATTAMENTO FISCALE DELLE PERDITE SU CREDITI

Il provvedimento che riduce da diciotto a cinque anni il periodo sul quale “spalmare” la deducibilità fiscale delle perdite sui crediti bancari va nella giusta direzione. Finora, quando una banca fa emergere in bilancio una prevedibile perdita su un prestito, rettificandone il valore, può dedurla dall’imponibile solo in un arco di diciotto anni. Questo costituisce un disincentivo a fare “emergere” nei bilanci bancari le situazioni critiche e penalizza le banche italiane rispetto alle concorrenti estere, che possono generalmente dedurre le perdite in periodi assai più brevi. Da più parti (ad esempio Abi e Fmi) era stato giustamente richiesto che il periodo di deduzione fiscale delle perdite venisse accorciato. Oltre ad allineare il loro trattamento al quadro internazionale, ciò dovrebbe dare alle banche italiane un incentivo a fare emergere nei bilanci le prevedibili perdite sui crediti: servirebbe a dare maggiore trasparenza ai bilanci e a mostrare eventuali necessità di ricapitalizzazione. La stessa Banca d’Italia da tempo opera una sistematica azione di pressione sulle banche affinché le “sofferenze” (così si chiamano nel gergo bancario i prestiti a soggetti insolventi) siano coperte da adeguati accantonamenti in bilancio. Solo partendo da bilanci trasparenti e da adeguati livelli di copertura patrimoniale si può sperare che le banche italiane siano in grado di finanziarsi sui mercati e di prestare soldi alle imprese in misura maggiore rispetto alla situazione attuale.

È un aspetto cruciale affinché i timidi segnali di ripresa congiunturale non vengano soffocati dalla scarsità di credito (il famigerato credit crunch).

Ben venga quindi la possibilità di dedurre in cinque anni le svalutazioni apportate ai crediti. Si corregge così una anomalia introdotta nel 2008 dal Governo Berlusconi con il “decreto sviluppo” (!). Tuttavia, il Governo Letta non ha rinunciato alla tentazione di cogliere anche questa occasione per fare cassa nell’immediato. Infatti il

comunicato governativo (“Legge di stabilità 2014: linee guida”, 15 ottobre) stima maggiori entrate dal provvedimento per oltre due miliardi nel 2014. (1) Come si spiega che una maggiore deducibilità consenta maggiori entrate? In realtà, sembra che il Governo abbia usato il bastone oltre alla carota. Finora infatti le perdite accertate tramite una procedura concorsuale (fallimento, per intenderci) sono deducibili integralmente

subito, così come quelle rientranti nel plafond pari allo 0,3% del totale degli impieghi. D’ora in avanti, invece, anch’esse diventerebbero deducibili in cinque anni. (2)

Quindi le perdite accertate nel 2013 sono deducibili subito solo per il 20 per cento, anziché interamente. Se questo aspetto della manovra venisse confermato nella versione definitiva approvata dal Parlamento, conterrebbe

una evidente contraddizione: se da un lato va nella giusta direzione di allineare il trattamento delle perdite su crediti allo standard internazionale, dall’altro segue la direzione opposta, introducendo un penalizzazione ingiustificata per le banche italiane.

CAPITALE DELLE IMPRESE

Per attenuare il problema del credit crunch non basta agire sulle banche. Bisogna agire anche dal lato

delle imprese. È noto che le imprese italiane, soprattutto il grande numero di quelle piccole e medie, soffrono di scarsa patrimonializzazione. La diffidenza delle banche e del mercato può essere dovuta, oltre al rischio di credito, anche al basso livello di capitale proprio di un’impresa: se questa parte da un livello di debito già molto alto in rapporto al capitale azionario, è più difficile ottenere altri prestiti. Per favorire maggiori apporti di capitale (sotto

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forma di utili accantonati e di versamenti di denaro fresco), la normativa attuale prevede che tali apporti diano diritto a una deduzione fiscale pari al 3 per cento dell’incremento di capitale: è il cosiddetto “rendimento nozionale”, in sostanza il costo del nuovo capitale che il fisco riconosce come deducibile dal reddito d’impresa.

Per rafforzare il meccanismo (denominato Ace: aiuto alla crescita economica) si domandava da più parti un deciso innalzamento del rendimento nozionale, ad esempio un raddoppio al 6 per cento. Il Governo ha scelto invece di procedere con gradualità: il rendimento nozionale salirà di un punto l’anno prossimo, di un altro mezzo punto l’anno successivo e infine di un altro quarto di punto, arrivando al 4,75 per cento nel 2016. Come in altri capitoli della Legge di stabilità, la scelta di usare il cacciavite anziché l’accetta viene giustificata con la scarsità di risorse, ma rischia di vanificare gli sforzi fatti: se l’impatto sugli incentivi delle imprese dovesse risultare trascurabile, si sarà persa un’occasione, pur muovendosi nella giusta direzione.

PATRIMONIALE SUL DEPOSITO TITOLI

A proposito di banche, non si può fare a meno di notare che la mini-patrimoniale sul deposito titoli (la cosiddetta

“imposta di bollo sugli estratti conto”) viene aumentata, portandola dall’1,5 al 2 per mille. Per un piccolo risparmiatore, questo aumento rischia di vanificare l’eventuale sgravio derivante dalla riduzione del cuneo fiscale. Su un portafoglio di 100.000 euro la maggiore imposta è di 50 euro. Lo stesso Governo prevede di incassare da questa variazione di aliquota 900 milioni di euro l’anno prossimo. Ma il premier non aveva detto che questa finanziaria è la prima che non aumenta le tasse?

(1) Peraltro denotando una certa confusione, perché il maggiore introito è quantificato il 2,7 miliardi a pag.1 e in 2,2 miliardi a pag.4 del comunicato governativo. Sarebbe interessante sapere come sono state effettuate le stime, visto che il risultato dell’operazione dipenderà in modo cruciale dalle decisioni delle banche relative alle rettifiche sui crediti.

(2) Si veda Il Sole-24Ore del 17 ottobre, pag. 15

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Legge di stabilità: cosa cambia per l’Irpef

18.10.13

Massimo Baldini e Simone Pellegrino

La Legge di stabilità prevede due novità sull’Irpef: l’aumento della detrazione sui redditi da lavoro dipendente e una possibile razionalizzazione delle detrazioni su alcune spese. È un primo debolissimo segnale verso la riduzione del carico fiscale a partire dai lavoratori a basso reddito.

LE DETRAZIONI PER LAVORO DIPENDENTE

La bozza della Legge di stabilità per il 2014 presenta due novità che riguardano l’Irpef: l’aumento della detrazione sui redditi da lavoro dipendente e una possibile razionalizzazione delle detrazioni su alcune spese (spese mediche, per istruzione, funebri, eccetera).

Cominciamo dalla detrazione per fonte di reddito, che aumenta (figura 1) per tutti i lavoratori dipendenti non incapienti con reddito tra 8 e 55mila euro, mentre rimane invariata per i pensionati, gli autonomi e i dipendenti incapienti o con reddito superiore a 55mila euro. (1)Come nell’attuale normativa, la decrescenza della detrazione rimane differenziata per i redditi compresi tra 8 e 15mila euro e tra 15 e 55mila euro. Tuttavia, come si nota dalla figura 1, la decrescenza proposta nel disegno di Legge di stabilità è pressoché lineare. Inoltre, sono abolite le

“micro-detrazioni” aggiuntive di poche decine di euro al massimo che la normativa Irpef prevede per i lavoratori dipendenti con reddito compreso tra 23 e 28mila euro. L’aumento della detrazione è crescente tra gli 8 e i 15mila euro (il massimo è pari a 182 euro), mentre diminuisce successivamente (figura 1, linea nera).

Figura 1. La detrazione effettiva per i lavoratori dipendenti e assimilati

Dal punto di vista tecnico, le modifiche comportano un effetto positivo per i redditi compresi tra 8 e 15mila euro:

per questa fascia di reddito l’aliquota marginale effettiva (cioè la variazione di imposta netta dovuta a un aumento del reddito) si riduce del 2,6 per cento, passando dall’attuale 30,17 per cento (si noti che l’aliquota marginale

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legale è pari al 23 per cento) al 27,57 per cento (figura 2). Rimane invece sostanzialmente invariata nelle altre fasce di reddito: un po’ superiore al 30 per cento nella fascia 15-28mila euro, per poi salire sopra il 41 per cento superata tale soglia (43 per cento oltre i 75mila euro). (2)

La figura 3 confronta invece l’aliquota media nei due scenari, mentre la figura 4 ne evidenzia la differenza. I redditi attorno a 15mila euro beneficiano della maggiore riduzione dell’incidenza media (-1,2 per cento). Le irregolarità della riduzione tra i 23 e i 28mila euro dipendono dall’eliminazione delle citate “micro-detrazioni”.

Figura 2. L’aliquota marginale effettiva

Figura 3. L’aliquota media

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DEFINIZIONE DI REDDITO E FISCAL DRAG

Non sembra invece siano previste novità di rilievo per quanto riguarda la definizione di reddito ai fini Irpef:

le rendite catastali degli immobili non locati continuano a essere escluse, come avviene dal periodo d’imposta 2012, anche per la definizione di reddito di riferimento per il calcolo delle detrazioni effettive per carichi di lavoro e famiglia. Versioni precedenti del disegno di Legge stabilità avevano invece previsto di reintrodurre a

imposizione il 50 per cento delle rendite catastali degli immobili non locati. Dal punto di vista della vendibilità politica della manovra, probabilmente si è deciso di non applicare questa proposta per non compensare lo sgravio di imposta ottenuto con la revisione delle detrazioni per lavoro dipendente (complessivamente pari a 1,7 miliardi di euro), anche in vista dell’aumento che la manovra prevede in tema di imposizione sugli immobili.

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Figura 4. La variazione dell’aliquota media

Va detto che le nostre elaborazioni non tengono conto del fiscal drag (perché non sappiamo se e per chi i redditi aumenteranno), un aspetto che negli ultimi anni viene spesso trascurato perché l’inflazione è bassa e perché la crisi fa sì che molti redditi diminuiscano invece di crescere.

Inoltre, i dipendenti pubblici avranno ancora i redditi nominali fermi per legge. Una piena rivalutazione all’inflazione si è verificata di recente solamente per le pensioni medio-basse. Eppure, chi avrà nel 2014 un aumento del reddito nominale si vedrà ridurre, a causa del fiscal drag, il beneficio derivante dall’incremento della detrazione. Per fare un esempio, un dipendente con un reddito complessivo di 30mila euro risparmierà, nel 2014, 114 euro grazie alla maggiore detrazione,; se il suo reddito salirà al tasso di inflazione programmato dell’1,5 per cento, lo sgravio effettivo si ridurrà a soli 30 euro, il resto andando a compensare l’incremento reale dell’onere dell’imposta. Per chi ha 17mila euro, invece, il guadagno scenderà da 173 a 135 euro. La maggiore detrazione riuscirebbe a garantire un beneficio netto, in presenza di redditi che crescono al tasso di inflazione, fino a 36mila euro circa.

L’IMPATTO SULLE FAMIGLIE

Per analizzare sul complesso delle famiglie l’impatto delle misure proposte utilizziamo un modello di micro simulazione statico la cui base dati è l’Indagine sui redditi delle famiglie italiane della Banca d’Italia pubblicata nel 2012. La normativa di riferimento è quella del 2013 e focalizziamo l’attenzione solo sull’Irpef erariale tralasciando l’effetto di un possibile aumento delle addizionali locali.

Il numero totale dei contribuenti è pari a circa 41 milioni, mentre i lavoratori dipendenti e assimilati (tra cui i collaboratori coordinati) sono 20,8 milioni, dei quali 15,5 milioni tra 8 e 55mila euro. Tuttavia, 1,6 milioni di essi non ottengono uno sgravio a causa dell’incapienza.

La tabella 1 mostra, per fasce di reddito, quali contribuenti ottengono uno sgravio e il risparmio medio per chi è avvantaggiato. Il risparmio medio maggiore (154 euro) si ottiene nella fascia 15-25mila euro, mentre nella fascia 8-15mila euro lo sgravio medio è minore (97 euro), e ancora più piccolo nelle fasce più elevate.

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Considerando tutte le famiglie e suddividendole in decimi, la figura 5 evidenzia la riduzione di incidenza imputabile all’aumento delle detrazioni per carichi di lavoro dipendente (linea rossa). Lo sgravio è decisamente contenuto, nell’ordine di decimi di punto percentuale. Non è una sorpresa, dato che la revisione delle detrazioni riguarda solo una parte dei contribuenti Irpef.

Tabella 1. L’effetto della detrazione per lavoro per fasce di reddito – Contribuenti Irpef

Alla modifica sulla detrazione per lavoro si potrebbe aggiungere, entro gennaio 2014, una

razionalizzazione (eliminazione o riduzione) delle detrazioni per oneri al fine di ottenere un maggior gettito di 500 milioni di euro. Qualora la razionalizzazione non venisse attuata entro quel termine, è prevista la riduzione della percentuale di detraibilità per gli oneri attualmente detraibili al 19 per cento: scenderebbe al 18 per cento già nel 2013 e al 17 per cento nel 2014. La riduzione di un punto dal 19 al 18 per cento (oggetto della nostra

elaborazione) determinerebbe un incremento di gettito di circa 300 milioni di euro (tutte le detrazioni al 19 per cento valgono circa 5,4 miliardi di euro). Questa misura, se attuata, penalizzerebbe di più le famiglie appartenenti ai decimi intermedi (figura 5, linea verde), riducendo lo sgravio complessivo da 1,7 a 1,4 miliardi di euro. Le spese detraibili tendono ad aumentare all’aumentare del reddito, sia per quanto riguarda il loro ammontare, sia per quanto riguarda la quota di contribuenti interessati; tuttavia nei decimi più elevati è più basso lo sgravio medio dovuto alla revisione della detrazione per lavoro.

La riduzione di due punti di detraibilità garantirebbe un maggior gettito di 600 milioni, pari a poco più di un terzo dello sgravio concesso riducendo la detrazione per lavoro dipendente. In questa circostanza il divario tra la linea rossa e la linea verde della figura 5 sarebbe ancora più accentuato.

Negli ultimi anni, da moltissime parti è venuta la proposta,, di ridurre il carico fiscale a partire dal lavoro, e in particolare dai lavoratori a basso reddito. La misura rappresenta un primo segnale in questa direzione. È però un segnale assai debole, che da tanti non sarà avvertito.

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Figura 5. La variazione di incidenza su tutte le famiglie, in % del reddito

(1) Le figure 1-4 considerano un lavoratore dipendente con solo reddito da lavoro dipendente, senza carichi di famiglia e spese detraibili o deducibili.

(2) Sia le aliquote marginali, sia quelle medie qui mostrate non includono le addizionali comunali e regionali.

Anche in presenza di carichi familiari queste aliquote sarebbero superiori.

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Legge di stabilità: è omissione di soccorso

18.10.13

È una legge per la stabilità del solo Governo. Una cura omeopatica per un malato grave, l’economia italiana. Ci sarebbero gli estremi di una denuncia per omissione di soccorso.

Il taglio alla pressione fiscale sul lavoro è minimo. Meno di 10 euro al mese sia per il dipendente che per il datore di lavoro. Certo si promette di intervenire ancora nei prossimi anni. Ma è una promessa fatta già tante volte e mai mantenuta. Data la natura irrisoria delle riduzioni delle tasse, si decide di renderle invisibili, soprattutto per i datori di lavoro. Invece di abbassare in modo sostanziale i contributi sociali, si interviene sull’Irap e solo per i nuovi assunti. Si dice che non ci sono nuove tasse, ma c’è l’aumento del bollo sulle attività finanziarie che vale un miliardo, l’abolizione di una serie imprecisata di agevolazioni fiscali che vale mezzo miliardo e altre misure una tantum (la rivalutazione dei cespiti e il rientro dei capitali dall’estero) che aumentano le entrate. Al di là della loro natura una tantum, la rivalutazione dei cespiti aumenta la trasparenza dei bilanci anche perché verrà

utilizzata per finanziare un’accelerazione della deducibilità delle perdite sui crediti delle banche. Aspettiamo più dettagli sul rientro dei capitali sperando che non sia l’ennesimo condono. I tagli alle spese sono in gran parte virtuali: i soliti tagli ai Ministeri per 2,5 miliardi e agli enti locali per un miliardo. Forse è questo il contenuto

“espansivo” della manovra: sono tagli solo sulla carta. Si mettono a bilancio cose che non si materializzeranno.

Ma l’opacità dei conti è un’arma a doppio taglio. Sulle dismissioni di immobili, le regole europee vietano di usarne i proventi a copertura del disavanzo anziché a riduzione del debito. È la stessa copertura che era stata usata nella manovrina e che eravamo stati gli unici a denunciare. È come se una famiglia indebitata vendesse la casa di proprietà per finanziare le sue spese correnti, all’insaputa dei figli. Se davvero con i 3 miliardi netti di questa manovra si arriva al 2,5 di disavanzo, non si vede perchè non sia stato usato anche l’altro, mezzo punto percentuale, attorno ad 8 miliardi, per abbassare le tasse. Il malato è grave. Forse qualcuno non se ne è accorto.

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Ma la Legge di stabilità è incostituzionale?

21.10.13

Tito Boeri e Pietro Garibaldi

La Legge di stabilità potrebbe essere incostituzionale: ci allontana dal bilancio in pareggio e non aiuta a rilanciare l’economia. Prova provata che i vincoli a politiche espansive non vengono dall’Europa, ma da scelte della classe politica.

Da tempo sosteniamo che i vincoli a politiche fiscali espansive in Italia non vengono tanto dall’Europa quanto dal vincolo del bilancio in pareggio introdotto nella nostra Costituzione nel dicembre 2012. In quella occasione abbiamo adottato una legge rafforzata di attuazione del cosiddetto Fiscal Compact che emendava la Costituzione e prevedeva la messa in opera di un “meccanismo di correzione”, in caso di deviazione dal sentiero di

avvicinamento a quest’obiettivo, sulla cui attuazione avrebbe dovuto vigilare un organo tecnico, il cosiddetto Fiscal Council.

La riprova che i vincoli più stringenti sono quelli che ci siamo autoimposti viene dalla Legge di stabilità che domani approda in Parlamento. Quando il Governo il 15 ottobre ne ha varato le linee guida, ci siamo chiesti perché ci si fosse posti un obiettivo pari al 2,5 per cento di disavanzo nel 2014, quando l’Europa ci imponeva solo di stare sotto al 3 per cento. Quello 0,5 per cento in più di flessibilità avrebbe, ad esempio, potuto essere utilizzato per rimpinguare la riduzione del cuneo fiscale, rendendola ben più visibile a lavoratori e imprese. Ma questi 8 miliardi circa di disavanzo ulteriore sarebbero incompatibili con un sentiero di avvicinamento all’obiettivo del bilancio in pareggio, quindi sarebbero incostituzionali.

Il problema in verità è ancora più complicato perché anche la Legge di stabilità presentata dal Governo potrebbe essere incostituzionale. Infatti, lo scenario macroeconomico descritto dal Governo per il 2014, prevede, come si ricordava, un disavanzo pari al 2,5 per cento, mentre il disavanzo a legislazione vigente e che si otterrebbe senza Legge di stabilità è pari al 2,3 percento. Questo significa che, rispetto allo scenario a bocce ferme, la Legge di stabilità peggiora il disavanzo di 0,2. Ed è proprio questo 0,2 per cento che ci allontana dal bilancio

strutturalmente in pareggio. Come si vede dalla tabella qui sotto, tratta dalla Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, in assenza della manovra, il bilancio 2014 sarebbe strutturalmente in pareggio. Non ci stupirebbe se – tra qualche mese- la Corte Costituzionale annullasse la Legge di stabilità approvata dal Parlamento. Un paradosso per il Governo del Presidente.

Il Governo può forse sperare che una deviazione relativamente limitata dal sentiero di avvicinamento del bilancio in pareggio passi inosservata, dato anche che il Fiscal Council ancora non esiste. Ma la sostanza è un’altra: o le regole di bilancio ci sono e vanno rispettate, oppure meglio cambiarle o spostarne apertamente nel tempo l’entrata in vigore e concederci maggiori margini di manovra per il taglio delle tasse.

SMETTIAMOLA DI PARLARE DI VINCOLI EUROPEI

E se decidiamo di posticipare l’entrata in vigore della legge 243, prevista per il 1 gennaio 2014, almeno

smettiamola di dare colpa all’Europa quando siamo stati noi stessi a legarci le mani. Le vie di mezzo, rischiare un contenzioso costituzionale per fare un meno 0.2, hanno solo l’effetto di togliere ogni credibilità alle regole, senza peraltro sostenere l’economia.

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QUADRO PROGRAMMATICO

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Legge di stabilità: un déjà-vu per il pubblico impiego

22.10.13 Luigi Oliveri

Nella Legge di stabilità le norme sul pubblico impiego valgono circa 1,5 miliardi. Misure ormai abusate, come blocco del turn over e della contrattazione, permettono di contenere la spesa. Mancano però gli interventi per una maggiore efficienza del lavoro. Liquidazioni e tetto alle retribuzioni.

ANCORA BLOCCO DEL TURN OVER E DEI CONTRATTI

Il giudizio di scarsa incisività attribuibile in generale al disegno di Legge di stabilità per il 2014 vale in modo particolare per uno dei suoi capisaldi, l’intervento dedicato al contenimento della spesa del personale pubblico.

Complessivamente, il valore delle norme relative al pubblico impiego è stimato in circa 1,5 miliardi. Se l’intento della Legge di stabilità non era solo il contenimento della spesa, ma anche il tentativo di rilanciare produttività e capacità di sostenere sviluppo ed economia mediante la maggiore efficienza del lavoro pubblico, i risultati sono molto diversi.

Il disegno di legge, infatti, sembra caratterizzato da un atteggiamento di difensiva. Il Governo si è ben guardato dall’immaginare strumenti di innovazione organizzativa e ha finito per toccare tasti e leve ormai abusati, per altro incorrendo in non poche contraddizioni con norme approvate solo pochi giorni fa e con altre previsioni ordinamentali.

Si pensi all’immancabile inasprimento delle regole di copertura del turn over del personale cessato. La possibilità di coprire il 100 per cento delle cessazioni nelle amministrazioni statali è rinviata al 2018, per il 2014 e 2015 si potrà sostituire solo il 50 per cento dei dipendenti cessati dal servizio.

Il blocco del turn over si è rivelato uno strumento essenziale per far scendere il numero dei dipendenti pubblici (e dunque la spesa) nel corso degli ultimi dieci anni, per circa 300mila unità, senza giungere ai licenziamenti di massa. Ma limitare le assunzioni impedirà di attuare il per altro criticabile disegno di stabilizzare i precari, per i quali gli spazi di ingresso nei ruoli si riducono drasticamente. Ulteriore conferma che il Governo agisce più per

“segnali mediatici”, che non attraverso la sostanza.

Più “di sostanza” è la conferma del blocco della contrattazione collettiva fino al 31 dicembre 2014. Secondo l’Aran, la misura, cumulando gli anni di congelamento dei contratti (dal 2010 al 2014), ha determinato un mancato incremento delle spese dedicate al personale pubblico di circa 11 miliardi.

Anche su questo versante, tuttavia, non mancano le contraddizioni. Da un lato, non è certo possibile far passare una mancata maggiore spesa per un taglio. Si tratta più che altro di una misura di “manutenzione”, che corregge il tiro e le conseguenze della poco ponderata “privatizzazione” del lavoro pubblico pensata nel 1998, e che tra il 2001 e il 2011 con contratti collettivi poco accorti ha fatto crescere la spesa per il lavoro pubblico di 40 miliardi.

Dall’altro lato, il disegno di legge conferma il taglio dai fondi della contrattazione decentrata di somme

proporzionate al costo del personale che nel frattempo cessa dal servizio. Evitare una crescita del costo del lavoro pubblico incompatibile con la situazione finaniaria è corretto. Ma, imboccata la strada della riduzione del numero dei dipendenti e del blocco dei fondi, poteva considerarsi coerente tenere congelato anche l’importo dei fondi decentrati, senza ridurli in proporzione al costo delle cessazioni. Da, un lato, infatti, i risparmi conseguiti sono poca cosa rispetto all’effetto del blocco della contrattazione nazionale collettiva. Dall’altro, il leggero aumento delle “fette” di torta per il personale in servizio potrebbe in parte compensare le conseguenze sui carichi di lavoro, che derivano proprio dal costante calo del numero dei dipendenti. Poco più di un segnale, che però potrebbe essere utile anche per evitare il muro contro muro che i sindacati sono tentati di attivare proprio sulle misure sul

pubblico impiego.

LIQUIDAZIONE DILAZIONATA

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Misura ormai abituale è anche la dilazione e il ritardo nei pagamenti delle liquidazioni ai dipendenti pubblici che cessano dal servizio. È evidente che per lo Stato si tratta di un modo per contenere i pagamenti, puntando sulla loro diluizione nel tempo. La cosa curiosa è che da anni una serie di norme, da ultimo tutta la disciplina anticorruzione e trasparenza, insistono per la velocizzazione dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi. Invece, per la restituzione di salario differito, denari che sono già dei lavoratori, nel caso di liquidazioni oltre i 50mila euro si passerà dai sei mesi di ritardo a una dilazione di dodici mesi, in due tranche.

Non un bellissimo segnale dello stato di salute delle finanze e dell’organizzazione pubblica.

Sulla reale efficacia, poi, della volontà di porre un tetto alle retribuzioni dei vertici amministrativi e burocratici, parificato alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione, meglio non sbilanciarsi troppo. Il disegno di legge, infatti, rinvia a successivi decreti attuativi, che disciplineranno destinatari e modalità. Decisiva sembra la scelta di considerare il tetto onnicomprensivo di tutti gli incarichi che, anche cumulati, non potranno dunque superare la soglia dei 300mila euro circa previsti appunto per il primo presidente della Cassazione.

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Letta e i 14 euro del cuneo fiscale. Chi ha ragione?

22.10.13

Massimo Baldini

Il Presidente Letta ha sostenuto che “14 euro non c’è scritto da alcuna parte”. Ipotizziamo che questa affermazione sia riferita alla rimodulazione della detrazione per lavoro dipendente in sede Irpef.

Grazie all’aumento della detrazione per lavoro dipendente, lo sgravio medio per i dipendenti, secondo quanto riportato nell’articolo pubblicato su lavoce lo scorso venerdì, sarà di 121 euro all’anno, pari a 10 euro mensili.

Quindi, se la cifra di 14 euro era riferita all’anno Letta ha ragione, se invece si riferiva al mese ha torto.

La cifra di 10 euro al mese è però una stima per eccesso dell’effettivo sgravio, perché il ddl stabilità prevede anche un taglio alle detrazioni fiscali di 500 milioni di euro. Poiché la maggiore detrazione sul lavoro dipendente vale 1,7 miliardi di euro, circa un terzo di questa riduzione di imposta viene perduto a causa delle minori

detrazioni per oneri. Queste ultime poi si applicano a tutti i contribuenti, non solo ai dipendenti. Quindi nel 2014 i contribuenti diversi dai dipendenti pagheranno più Irpef, perché si interviene solo sulla detrazione da lavoro dipendente. Inoltre l’ultima versione del ddl stabilità prevede che le rendite catastali delle seconde case ubicate nello stesso comune di residenza del proprietario della prima casa rientrino a far parte del reddito complessivo Irpef. Questo determinerà una ulteriore riduzione del beneficio.

Non va infine dimenticato il fenomeno del fiscal drag, per chi avrà la fortuna di vedere il reddito aumentare anche solo in termini nominali, con un conseguente incremento dell’incidenza reale dell’Irpef.

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Legge di stabilità: il conto delle imposte sugli immobili

25.10.13

Simone Pellegrino e Alberto Zanardi

Non è semplice orientarsi nel settore senza pace delle imposte sulla casa. Anche il disegno di Legge di stabilità contiene novità importanti sul tema, sia per le tasche dei contribuenti sia per i bilanci dei comuni. Ecco chi ci guadagna e chi ci perde tra famiglie, imprese, prime e seconde case.

TUTTE LE IMPOSTE SUGLI IMMOBILI

Probabilmente non sarà l’ultima puntata della vera telenovela nazionale, quella dell’imposizione sulla casa. Ma certamente il disegno di Legge di stabilità 2014 contiene novità importanti sul tema, sia per le tasche dei contribuenti sia per i bilanci dei comuni che da quelle tasche si alimentano.

È difficile orientarsi tra i cambiamenti continui di questo settore “senza pace” del nostro sistema tributario.

Proviamoci con l’aiuto della tabella 1.

Tabella 1. La struttura dei tributi sulle abitazioni

Nel 2012 il decreto salva-Italia introduce l’Imu che, rispetto alla precedente Ici, sottopone a imposizione (in modo assai più pesante) tutte le abitazioni, anche le prime case. Sempre su tutte le abitazioni si paga la “tassa” sui rifiuti allora denominata Tarsu. Per le abitazioni cedute in locazione, i canoni percepiti vengono sottoposti a Irpef (a o cedolare secca), mentre le seconde case a disposizione non pagano alcuna imposta sui redditi.

Nel 2013, sull’onda della campagna elettorale (ri-)prende la polemica sulla esenzione della prima casa. La prima rata dell’Imu (e anche la seconda negli intendimenti del Governo) viene cancellata sulle abitazioni principali, mentre l’imposta continua ad applicarsi pienamente sulle altre e sugli immobili commerciali. Intanto nella tassazione dei rifiuti la Tarsu lascia il posto alla Tares-rifiuti, a cui però si aggiunge una maggiorazione, la Tares-servizi indivisibili, che nel 2013 si è deciso di destinare allo Stato. (1)

Per l’imposizione dei redditi effettivi (i canoni di locazione percepiti) e figurativi (quelli sulle seconde case a disposizione) nulla cambia rispetto al 2012.

Infine, il disegno di Legge di stabilità 2014. Viene confermata, ora in termini strutturali, la cancellazione dell’Imu sulla prima casa, mentre resta su tutti gli altri immobili. Nella tassazione dei rifiuti arriva la “tassa per la copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti” (Tari) al posto della Tares-rifiuti. La maggiorazione della Tares – la componente servizi indivisibili – viene subito soppressa, mentre vede la luce la “tassa per la copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni” (Tasi), questa volta attribuita alle casse municipali.

La Tasi è la vera novità della riforma: pur avendo la stessa base imponibile dell’Imu (i valori catastali), è pagata sia dai proprietari sia dagli inquilini nel caso di immobili locati o concessi a titolo gratuito, ma solo nella misura del 10 per cento del prelievo complessivo (aumentabile al 30 per cento dai comuni); non prevede detrazioni specifiche, diversamente dall’Imu prima casa; ha un’aliquota base dell’1 per mille che i comuni possono incrementare, al di sopra di tale livello, al massimo dell’1,5 per mille per le abitazioni principali e del 10,6 per mille per gli altri immobili, ma considerata congiuntamente con l’Imu.

A parte questa sostituzione Imu-Tares-Tasi, nulla cambia nel disegno del prelievo per le case date in locazione,

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mentre per quelle a disposizione si torna indietro, prevedendo ora l’imposizione in sede Irpef del 50 per cento dei redditi figurativi ma limitatamente alle case ubicate nel comune di residenza

DALLA PARTE DEI COMUNI

In uno scenario così continuamente in divenire è ovviamente difficile riuscire a valutare chi tra i soggetti in vario modo coinvolti (Stato, comuni, proprietari di varie tipologie di immobili, inquilini) abbia guadagnato o sia stato penalizzato dai diversi interventi di riforma, perché ogni volta è necessario ben specificare rispetto a quale quadro di riferimento i cambiamenti vengono confrontati e i loro effetti valutati.

Consideriamo in particolare le innovazioni introdotte dal disegno di Legge di stabilità 2014. Possiamo distinguere due diverse prospettive con cui guardare a questi interventi: da un lato, quella della finanza dei comuni e,

dall’altro, quella del prelievo sui contribuenti.

La prima prospettiva è relativamente più agevole. Così come nei precedenti interventi sulle imposte immobiliari attribuite ai comuni, anche quelli introdotti dal Ddl stabilità 2014 sono calati in un complesso meccanismo di compensazione tra Stato e comuni e tra comuni, tale da lasciare, almeno sulla carta, del tutto invariate le risorse comunali complessive. Secondo la relazione tecnica al Ddl stabilità, l’abolizione dell’Imu prima casa che i comuni avrebbero potuto raccogliere nel 2014 all’aliquota base genera un buco nelle casse comunali di 3.764 milioni di euro. (2) La nuova Tasi anch’essa all’aliquota base (1 per mille) dovrebbe dare un gettito, a meno di errori di previsione da compensare ex post, proprio di 3.764 milioni. Poi ci sarebbe la Tares-servizi indivisibili che, se fosse sopravvissuta a questo giro di interventi, nel 2014 sarebbe stata attribuita ai comuni. È un’imposta che secondo le stime ufficiali vale 1 miliardo (probabilmente un valore un po’ sottostimato) e questo miliardo viene puntualmente restituito ai comuni sotto forma di maggiori trasferimenti statali (o, più correttamente, di cancellazione dei tagli già programmati). Insomma, nel complesso non un euro di meno, non un euro di più. (3) Anzi nel Ddl stabilità, ma fuori dal pacchetto sull’imposizione della casa, è previsto anche un

allentamento del Patto di stabilità internoper finanziare spese in conto capitale dei comuni per un ammontare complessivo di un miliardo.

Ma allora, quando criticano la nuova Tasi, di che cosa si lamentano i sindaci? Il Ddl stabilità riconosce ai comuni la possibilità di ridurre l’aliquota dal livello base dell’1 per mille fino ad azzerarla (forse diversificando questo sforzo di detassazione tra diverse tipologie di immobili e quindi concentrandolo sulla prima casa). Ma

l’azzeramento sarebbe tutto a carico del comune che nulla riceverebbe come compensazione per il mancato gettito. Insomma, l’azzeramento “possibile ma costoso” della Tasi per il comune non sarebbe che un modo elegante per scaricare dalla responsabilità politica dello Stato a quella locale l’aspettativa di molti che la riforma dovrebbe portare a una definitiva cancellazione del prelievo patrimoniale sulla prima casa.

CHI GUADAGNA E CHI PERDE

La valutazione delle misure adottate dal disegno di Legge di stabilità diventa più complessa se passiamo a considerare la questione dal punto di vista dei contribuenti. Facciamo riferimento solamente al comparto delle famiglie e focalizziamo l’attenzione sulle sole abitazioni, tralasciando pertanto le pertinenze e gli immobili di impresa. Come cambierà dunque il prelievo per le famiglie con il passaggio da Imu e Tares-servizi indivisibili a Tasi?(4) Il confronto è rispetto allo scenario 2012 (quello in cui c’era l’Imu su prime e seconde case) e a quello 2013 (quello in cui invece c’era l’Imu sulle sole seconde abitazioni e la Tares-servizi indivisibili).

Chi ci guadagna e chi ci perde? (5) Focalizziamo inizialmente l’attenzione solo sulla prima casa, considerando le aliquote effettivamente deliberate nel 2012 per l’Imu e l’aliquota Tasi pari all’1 per mille. Il gettito Imu prima casa (escluse le pertinenze) è pari a 3,47 miliardi di euro, mentre il gettito della Tasi è di 1,65 miliardi di euro. La riduzione di gettito è pari a 1,82 miliardi. La tabella 2 evidenzia che tra il 2012 e il 2014 il 40 per cento delle famiglie ottiene un beneficio, mentre il 60 per cento subisce una perdita. Il beneficio medio è di 218 euro (in aggregato 2,09 miliardi), mentre la perdita media è pari a 19 euro (in aggregato 0,27 miliardi).

Rispetto al 2012 perdono tutte le famiglie in affitto o che risiedono nell’immobile a titolo gratuito (perché nel

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2014 pagano un decimo della Tasi, mentre nel 2012 non erano gravati da alcun tributo) e quelle che, grazie alle detrazioni previste dall’Imu, avevano nel 2012 un debito d’imposta Imu pari a zero, mentre nel 2014 pagano la Tasi, che non prevede detrazioni e quindi è strettamente proporzionale.

Guadagnano invece tutte le famiglie che nel 2012 pagavano l’Imu sulla prima casa, nel 2014 sostituita da una imposta proporzionale con aliquota decisamente più contenuta. Proprio per questo, il beneficio medio è, in valore assoluto, crescente all’aumentare del reddito.

Confrontando la situazione del 2014 con quella del 2013, il 29,4 per cento delle famiglie beneficia di una riduzione di prelievo di 10 euro in media (in aggregato pari a 0,07 miliardi), mentre il 70,6 per

cento paga imposte in più per 69 euro in media (in aggregato pari a 1,16 miliardi). L’incremento di gettito complessivo è di 1,09 miliardi di euro (il gettito Tares-servizi indivisibili sulle prime case è infatti pari a 0,56 miliardi). È un risultato evidentemente dovuto al fatto che nel 2013 le famiglie non hanno pagato l’Imu sulla prima casa, mentre nel 2014 sono assoggettate alla nuova Tasi. Inoltre, la Tares-servizi indivisibili garantiva nel 2013 alcune agevolazioni, escluse dalla nuova Tasi.

Tabella 2. Chi vince e chi perde – Solo prima casa – Tasi all’1 per mille

Considerando ora tutte le abitazioni a uso residenziale delle famiglie, la tabella 3 evidenzia invece che tra il 2012 e il 2014 il 34,9 per cento delle famiglie guadagna in media 213 euro (in aggregato 1,78 miliardi), mentre il 65,1 per cento perde in media 42 euro (in aggregato 0,65 miliardi). La riduzione di gettito è pari a 1,13 miliardi: il gettito totale dell’Imu è di 9,73 miliardi, mentre l’Imu sulle seconde abitazioni vale 6,25 miliardi e la Tasi 2,34 miliardi. La perdita riguarda anche tutte le famiglie proprietarie di seconde abitazioni, gravate dalla nuova Tasi per intero se a disposizione e al 90 per cento se l’immobile è ceduto in locazione o concesso a titolo gratuito.

Confrontando infine quanto succede tra il 2013 e il 2014, si osserva che il 27,8 per cento delle famiglie ottiene un beneficio medio pari a 10 euro (in aggregato pari a 0,07 miliardi), mentre il 72,2 per cento subisce una perdita pari a 95 euro in media (in aggregato pari a 1,63 miliardi). L’aumento complessivo di gettito è 1,57 miliardi.

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Tabella 3. Chi vince e chi perde – Tutte le case – Tasi all’1 per mille

Come ovvio, la situazione peggiora considerevolmente se si considera lo scenario “massimo” in cui tutti i comuni decidono di applicare l’aliquota massima della Tasi sia per le prime, sia per le seconde case (tabella 4). In questa situazione, nove famiglie su dieci subiscono una perdita tra il 2012 e il 2014, in media pari a 137 euro, mentre tra il 2013 e il 2014 la perdita media aumenta a quota 267 euro.

In sintesi, la riforma dell’imposizione sugli immobili prevista dal disegno di Legge di stabilità 2014 produce sulle famiglie due effetti principali. Da un lato, se si confronta la situazione del 2014 con quella del 2012, le famiglie ottengono uno sgravio aggregato superiore a un miliardo di euro, che però avvantaggia (di molto) i decimi alti della distribuzione del reddito e penalizza (anche se di poco) prevalentemente le famiglie in affitto. La riforma pertanto haeffetti regressivi, perché sostituisce un’imposta progressiva rispetto alla sua base imponibile (l’Imu prima casa) con una imposta proporzionale (la Tasi).

In secondo luogo, la riforma determina una ricomposizione del prelievo tra prime e seconde case, a danno delle seconde, e tra famiglie e imprese, a danno sempre delle seconde. Abbiamo infatti osservato che la riforma determina parità di gettito e prevede la sostituzione dell’Imu sulle abitazioni di residenza con la nuova Tasi che interessa tutti gli immobili, tra cui quelli delle imprese.

Tabella 4. Chi vince e chi perde – Tutte le case – Tasi all’aliquota massima

(1) Anche per la componente servizi indivisibili si applicheranno le riduzioni previste per la Tares componente rifiuti.

(2) Anche considerando il fatto che nel 2014 secondo la legislazione vigente sarebbe venuta meno la detrazione sui figli riconosciuta sull’Imu prima casa, con conseguente gonfiamento del gettito previsto di 400 milioni di euro.

(3) A livello di singolo comune questo principio di invarianza delle risorse rispetto a prima della riforma è

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temperato nella ripartizione del cosiddetto Fondo di solidarietà comunale dalla considerazione di altri criteri di attribuzione delle risorse, quale ad esempio, il riferimento ai fabbisogni standard.

(4) Non consideriamo il passaggio da Tarsu a Tares-rifiuti e poi a Tari poiché non sono ancora disponibili informazioni dettagliate per una corretta simulazione.

(5) Utilizziamo a tale scopo un modello di microsimulazione statico la cui base dati è l’Indagine sui redditi delle famiglie italiane della Banca d’Italia 2012.

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