• Non ci sono risultati.

RIVISTA CORTE DEI CONTI DELLA IN QUESTO FASCICOLO: Autonomia regionale differenziata

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "RIVISTA CORTE DEI CONTI DELLA IN QUESTO FASCICOLO: Autonomia regionale differenziata"

Copied!
32
0
0

Testo completo

(1)

DELLA

C ORTE DEI CONTI

3

I

N QUESTO FASCICOLO

:

› Autonomia regionale differenziata

Swap e gestione della finanza pubblica

› Aggiudicazione degli appalti ad alta intensità di manodopera

› Controllo pubblico delle società partecipate

› Giustizia tributaria e rapporti tra giurisdizioni

› Astreinte, tra effettività e proporzionalità

› Imposta sul valore aggiunto: operazioni fittizie e inesistenti

› Uso dei social media: giornalisti, dipendenti pubblici e magistrati

Rivista della Corte dei conti - www.rivistacorteconti.it Anno LXXII - n. 3 - Maggio-Giugno 2019

Estratto da

(2)

Direttore responsabile: Tommaso Miele Coordinatori

Area giurisdizione: Daniela Morgante Area controllo: Paola Cosa, Andrea Luberti

Comitato scientifico

Umberto Allegretti – Stefano Battini – Marco Cammelli – Francesco Capalbo – Vincenzo Caputi Jambrenghi – Be- niamino Caravita di Toritto – Sabino Cassese – Lucia Cavallini Cadeddu – Roberto Cavallo Perin – Vincenzo Ce- rulli Irelli – Mario P. Chiti – Marcello Clarich – Giovanna Colombini – Maurizio Converso – Alfredo Corpaci – Guido Corso – Giorgio Costantino – Marco D’Alberti – Mariano D’Amore – Giacinto della Cananea – Gian Candi- do De Martin – Giuseppe Di Gaspare – Mario Dogliani – Giuseppe Farneti – Erminio Ferrari – Fabrizio Fracchia – Claudio Franchini – Franco Gallo – Fabio Giulio Grandis – Giampaolo Ladu – Alberto Massera – Bernardo Giorgio Mattarella – Antonio Pedone – Rita Perez – Cesare Pinelli – Giuseppe Pisauro – Aristide Police – Stefano Pozzoli – Giulio Salerno – Aldo Sandulli – Maria Alessandra Sandulli – Massimo Siclari – Domenico Sorace – Luisa Torchia – Aldo Travi – Luciano Vandelli – Alberto Zuliani.

Redazione: Ernesto Capasso

Editing: coordinamento - Anna Rita Bracci Cambini

Giulia Borgia – Agnese Colelli – Stefano De Filippis – Eleonora Di Fortunato – Valeria Gallo – Lucia Pascucci – Paola Pellecchia.

Hanno collaborato alla redazione di questo fascicolo:

Giancarlo Astegiano; Simone Benvenuti; Francesco Cancilla; Daniele Chiatante; Antonio Contu; Gabriele Fava;

Clemente Forte; Fulvio Maria Longavita; Luca Longhi; Stefania Lotito Fedele; Enrico Marinaro; Eleonora Marza- no; Andrea Mazzieri; Marcello Minenna; Alessandro Napoli; Giovanni Natali; Federica Pasero; Marco Pieroni; Ro- berto Ranucci; Diego Rossano; Piero Sandulli; Rosario Scalia; Vito Tenore; Antonio Felice Uricchio.

La pubblicazione dei contributi proposti alla redazione della Rivista è sottoposta ad una procedura di peer review che garantisce il doppio anonimato (double blind), dell’autore e del valutatore.

La Rivista della Corte dei conti è a cura del Servizio Massimario e Rivista La rivista è consultabile anche in:

www.rivistacorteconti.it

(3)

12

LA LIBERTÀ DI PENSIERO TRA RICONOSCIMENTO COSTITUZIONALE E LIMITI IMPLICITI ED ESPLICITI: GLI ARGINI NORMATIVI E GIURISPRUDENZIALI PER GIORNALISTI,

DIPENDENTI PUBBLICI (E PRIVATI) E MAGISTRATI NELL’USO DEI SOCIAL MEDIA

di Vito Tenore Abstract: L’articolo, partendo da una accurata disamina della libertà di pensiero scolpita nell’art. 21 Cost., analizza, alla luce di referenti normativi, giurisprudenziali, deontologici e dottrinali, i limiti a tale basilare liberta per una vasta categoria di soggetti: giornalisti, dipendenti pubblici e privati, magistrati, appartenenti a forze di polizia e militari. Lo studio si incentra sulla espressione della libertà di pensiero attraverso gli strumenti social, che, nel loro uso improprio o diffamatorio, stanno ponendo problemi molto rilevanti in sede giudiziaria (civile e penale) e disciplinare. L’ampia rassegna delle principali pronunce della magistratura per molte categorie di “esternatori telematici” consente ai lettori dello studio di avere un quadro armonico e aggiornato sui rischi derivanti dall’uso non consapevole dei social media (mail, Whatsapp, Twitter, Facebook, ecc.) che può tradursi in illeciti penali, civili e disciplinari. Il costante riferimento al bilanciamento tra valori costituzionali contrapposti alla luce anche degli insegnamenti della Consulta sorregge l’accurato studio che analizza in chiave problematica decine di casi venuti al pettine delle magistrature. L’invito ad un uso più moderato e consapevole dei social media, soprattutto da parte di categorie particolarmente esponenziali della legalità (magistrati, appartenenti alle forze di polizia), ma anche di altri lavoratori pubblici e privati, oltre che da parte dei politici esternatori, rappresenta il concorrente ed ulteriore fine di questo approfondito studio giuridico di portata sistemica e trasversale.

Sommario: 1. Le esternazioni tramite i social media. – 2. Libertà di pensiero nella Costituzione e limiti all’attività giornalistica. – 3. Libertà di pensiero ed esternazioni disciplinarmente rilevanti di dipendenti privati. – 4. Libertà di pensiero ed esternazioni disciplinarmente rilevanti di dipendenti pubblici privatizzati e non privatizzati (militari e forze di polizia). – 5. Le esternazioni telematiche dei magistrati e i risvolti disciplinari. – 6.

Conclusioni.

1. Le esternazioni tramite i social media

Tra i più rilevanti riflessi dell’epoca telematica che stiamo vivendo va annoverata la assoluta e generalizzata liber- tà di pensiero, manifestabile attraverso social media che si affiancano, e quasi assorbono, i tradizionali strumenti di comunicazione cartacei, radiofonici e televisivi, aperti parimenti a tutti dopo il proliferare di radio e tv “libere” (1).

Con il termine social media si indicano tecnologie e pratiche in rete che le persone adottano per condividere con- tenuti testuali, immagini, audio e video; con essi cambia radicalmente il modello di comunicazione tipico dei media tradizionali (radio, stampa, televisione): il messaggio non è più del tipo “da uno a molti”, ma le fonti “emittenti” di- ventano aperte a tutti e interagiscono in tempo reale tra di loro. Con i social media cambia dunque il modello lavora-

(1) Come è noto, in Italia fino al 1974 i privati non potevano aprire una stazione radio o Tv. La legge riservava allo Stato l’esercizio esclusivo della radiodiffusione circolare. La legge 30 giugno 1910, n. 395, stabiliva la riserva statale per l’esercizio dell’attività radiote- legrafica e radioelettrica e durante il ventennio fascista tale principio venne confermato dapprima dal r.d. 8 febbraio 1923, n. 1067, col quale venne affermata la riserva allo Stato del diritto di trasmissione, poi dal r.d. 14 dicembre 1924, n. 2291, e dal r.d.l. 17 novembre 1927, n. 2207, con i quali venne demandata all’Unione radiofonica italiana (Uri) per il periodo di sei anni il monopolio delle trasmissioni radiofoniche, affidata poi all’Ente italiano per le audizioni radiofoniche. L’entrata in vigore nel 1948 della Costituzione della Repubblica Italiana, pur dedicando grande importanza alla tematica della libertà di stampa (art. 21), sancì che a fini di utilità generale, la legge può riservare allo Stato determinate imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali ed abbiano carattere di preminente interesse ge- nerale (art. 43): il d.p.r. 26 gennaio 1952, n. 180, rinnova la concessione (radiofonica e dal 1954 anche televisiva) all’Eiar per la durata di 20 anni, che intanto diventa RAI-Radiotelevisione Italiana. La sent. n. 59/1960 della Consulta (primo pronunciamento in materia di ra- diotelevisione da parte della Corte costituzionale) non accolse il dubbio di legittimità sul monopolio televisivo, con motivazioni che oggi appaiono assai lungimiranti, sottolineando come il monopolio delle trasmissioni radiotelevisive rientri tra le fattispecie protette dall’art.

43 della Costituzione italiana. A metà degli anni Sessanta cominciarono i primissimi tentativi di dare vita a televisioni private, ma il go- verno reagì con il d.p.r. 29 marzo 1973, n. 156, che unificò tutti i mezzi di comunicazione a distanza in una sola categoria, rendendo ille- gali le emittenti private, e disponendone la disattivazione con un successivo decreto. Tuttavia la Consulta scalfì progressivamente il mo- nopolio televisivo con tre sentenze: la n. 225/1974, sulla parziale illegittimità delle norme “postali” ma sostanziale legittimità del mono- polio via etere; la n. 226/1974, sulla illegittimità del monopolio via cavo e quindi liberalizzazione delle emittenti televisive via cavo; la n.

202/1976, che affermò che non poteva essere invocata la limitatezza delle frequenze per quello che riguarda le trasmissioni in ambito locale. Quest’ultima fu la decisione che aprì la strada per una sostanziale diffusione delle emittenti televisive private. A fronte di tale evoluzione giurisprudenziale, la disciplina giuridica del settore radiotelevisivo rimase sostanzialmente immutata dagli anni Cinquanta, e solo negli anni Settanta, con la l. n. 103/1975 (cosiddetta riforma televisiva), pur riaffermandosi il principio del monopolio statale per le trasmissioni su scala nazionale, giustificandolo con il carattere di servizio pubblico essenziale, vi fu una apertura al mercato concorren- ziale. Ma solo negli anni Ottanta la l. 4 febbraio 1985, n. 10 – pur riservando l’attività di trasmissione pubblica a copertura nazionale allo Stato – affermò la legittimità dell’attività di radiodiffusione sonora e televisiva dell’emittenza privata.

(4)

13

tivo e comunicativo, che potrebbe portare ad una asserita democratizzazione dell’informazione, trasformando le per- sone da “mere” fruitrici di contenuti, ad editori esse stesse. I social media sono però una realtà variegata e possono assumere differenti forme, che raggruppabili in 13 categorie: blog, reti professionali (business network), progetti col- laborativi, reti aziendali (enterprise social network), forum in internet, microblog, condivisione di foto, recensioni di prodotti-servizi, social bookmarking, giochi su reti sociali, servizio di rete sociale, condivisione di video (video sha- ring) e realtà virtuali (virtual world).

Come è stato molto efficacemente rimarcato (2), “la normalità, direi anzi la familiarità, con cui queste forme di comunicazione e di socializzazione entrano nel quotidiano, spesso fanno tuttavia il paio con un loro uso scriteriato o inopportuno o, quantomeno, privo di buon senso e razionalità. Alcuni fattori ricorrenti nelle dinamiche di utilizzo e approccio dei social concorrono a tale cortocircuito mentale:

- la ricerca dell’approvazione sociale (virtuale) a qualunque costo, del piacere e riscuotere consensi, con relativa perdita del senso critico e della dimensione reale dell’esistenza,

- altrettanti effetti sono dati dall’assoluta eterogeneità dei contenuti e delle opinioni: si può credere di poter dire di tutto e discettare di tutto, rapportarsi con tutti, annullare distanze (sociali e culturali) che invece realmente esisto- no e ingannarsi sulle reali capacità personali di comprensione e di dibattito;

- la forma di immediatezza e velocità delle risposte e delle azioni, che da un lato determinano un uso dell’intelletto inversamente proporzionale alla rapidità delle stesse e, dall’altro, richiedono talvolta un bisogno di superconnessione quasi in tempo reale (d’altronde, se si arriva a confondere quella con la vita vera, il tempo in cui si è disconnessi è parificato a un non-vivere)”.

Questi ultimi strumenti social, pur agevolando l’agire quotidiano privato e pubblico (3) e pur consentendo una più ampia libertà di manifestare le proprie idee, in molti casi trasmodano in mezzi di dilagante diffusione di affermazioni diffamatorie, calunniatorie o quanto meno denigratorie (a cui sono equiparabili anche immagini o filmati offensivi o fonti di dileggio o di discredito per lo stesso divulgatore oltre che di terzi) ed affiancano, sul piano (dis)informativo, alcune testate telematiche e cartacee dove il vero e il falso si confondono, gli onesti e i parassiti vengono sovrapposti o affiancati, anche attraverso meri suggestivi “catenacci”, o accostamenti fotografici o di notizie ben diverse (e solo apparentemente simili), o tramite differimenti temporali nella pubblicazione di datate notizie, o con omissioni di det- tagli o, viceversa, con arricchimento gratuito della notizia con circostanze e aggettivi ulteriori, non essenziali, mali- ziosamente evocativi e/o non veri.

Occorre prendere dunque atto che, accanto ai tradizionali comunicatori, storicamente rappresentati da politici, giornalisti, studiosi e scrittori, operano nel firmamento mediatico milioni di esternatori tramite social network (chat, blog, Twitter, mail, sms, ecc.): come ben disse Umberto Eco nel 2015, “I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Ve- nivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.

Va inoltre rimarcato che chi scrive su una mailing list o su diverse piattaforme dedicate alla socializzazione deve considerare come conseguenza altamente probabile che il suo messaggio possa avere una diffusione ulteriore e non possa essere considerato, secondo un indirizzo giurisprudenziale prevalente (4) ma non univoco (5), alla stregua di

(2) A. Asnaghi, Il licenziamento ai tempi di Facebook: rilevanza disciplinare dell’uso dei social network, in <www.eclavoro.it>, 26 settembre 2018.

(3) I social media sono innegabilmente importanti strumenti di lavoro e di socializzazione tra individui oltre che strumenti di effica- cia, efficienza ed economicità della p.a., come ben delineato nel vademecum Pubblica amministrazione e social media, realizzato da Formez Pa nell’ambito delle attività finalizzate alla elaborazione delle Linee guida per i siti web delle pubbliche amministrazioni, previ- ste dalla direttiva n. 8 del 26 novembre 2009 del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione. Sul tema, L. Scarcella, I social network e la pubblica amministrazione: un rapporto difficile, in <www.ninjamarketing.it>, 18 aprile 2017; F. Di Costanzo, Fa- cebook, Twitter e Instagram: rivoluzione social per la burocrazia, in <www.corrierecomunicazioni.it>, 5 maggio 2017.

(4) Sul tema, l’accurato studio di C.E. Guarnaccia, La prima giurisprudenza sul rapporto tra pubblico impiego e social media, in In- formatica e dir., 2017, fasc. 1-2, 367. Anche Cass. 27 aprile 2018, n. 10280 (in Giur. it., 2018, 1956, con nota di P. Tosi, E. Puccetti, Post denigratorio su Facebook, la leggerezza che per pubblicità diventa giusta causa) riconosce che l’uso della rete e dei social media abbia la “potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato […] ai fini di una costante socializzazione”, mezzo pertanto idoneo “a determinare la cir- colazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica”, integrando pertanto – qualora siano identificabili, anche per relationem, i soggetti destinatari del commento – ad integrare il reato di diffamazione. La sentenza, quindi, considera per acquisita la riflessione già posta in essere in maniera sostanzialmente univoca dalla giurisprudenza penale, che ritiene che le offese in rete integrino non solo il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. (più grave di quello di ingiuria, art. 594 c.p., in quanto attuato

“comunicando con più persone”), ma anche l’aggravante di cui al c. 3 del medesimo articolo (offesa “a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”): in tal senso la rete è in maniera costitutiva un veicolo di diffusione potenzialmente illimitato per sua stessa natura, in quanto volto ad amplificare la comunicazione e l’interscambio sociale ben al di là degli eventuali soggetti eventualmente am- messi nella cerchia di amici e conoscenti autorizzati ad accedere ai contenuti di un determinato utente.

Anche per la Corte d’appello di Torino (sent. 17 maggio 2017, n. 599, confermata da Cass., Sez. lav., ord. 12 novembre 2018, n.

28878) i social sono da considerarsi luoghi pubblici e non serve privatizzare il profilo, rendendolo visibile soltanto a una cerchia ristretta di utenti, per renderne riservati i contenuti. In sostanza, quanto viene pubblicato on line, se rilevante per il giudizio, può essere valutato dal giudice, a meno che non sia stato acquisito in maniera illecita, ad esempio forzando le password di accesso. Non vi sarebbe pertanto

(5)

14

corrispondenza privata, salvo valutare in concreto se le modalità di accesso ad alcune informazioni o foto non siano state dall’interessato, con idonee modalità di protezione (password, previo proprio consenso, ecc.), riservate solo a singoli (6).

Quest’ultimo distinguo tra strumenti aperti o chiusi dovrebbe essere più accuratamente ponderato dalla magistra- tura ordinaria e amministrativa in futuro, anche se è innegabile, a nostro avviso, sul piano disciplinare, che la diffu- sione del messaggio ad un numero determinato o illimitato di persone rilevi solo per valutare la gravità della condotta in punto di proporzionalità punitiva o la più o meno vasta potenzialità lesiva dell’immagine aziendale (parimenti per una valutazione di proporzionalità punitiva), ma non certo per affermare la liceità tout court di un comportamento comunque offensivo o denigratorio: la riservatezza della comunicazione non esclude infatti né, tanto meno, legittima la diffamazione, che ha sempre risvolti disciplinari evidenti (7).

Appare dunque ormai indispensabile adottare un vero e proprio sistema generale di governance per le esternazioni tramite social media, pur essendoci delle condotte che vengono riconosciute come corrette nell’ambito del web e sono riunite sotto il termine di netiquette: una serie di regole che “dovrebbero” essere rispettate durante un’interazione con utenti di internet (blog, forum, community, semplici commenti). Tali regole permettono una buona condotta degli utenti nel rispetto degli uni verso gli altri, ma si tratta di regole non riconosciute dalla legge, e quindi un utente è con maggior difficoltà soggetto a sanzioni (penali, civili o disciplinari) se il rispetto di esse viene a mancare. In aggiunta a tale auspicio di una normazione generale, in ogni caso, come si vedrà nei successivi paragrafi, nei singoli “micro- ordinamenti” (ad esempio, impiego pubblico, ordini professionali, impiego privato) esistono già, ma andrebbero me- glio codificate, delle regole interne comportamentali per un uso consapevole delle piattaforme social.

differenza fra profilo pubblico e privato, perché anche un profilo privato ben può essere rilanciato e diffuso da ciascuno dei contatti dell’utente, rendendo potenzialmente illimitato il numero dei destinatari dei messaggi pubblicati.

Anche la giurisprudenza di merito ritiene irrilevante la natura aperta o meno della pagina: Trib. Ascoli Piceno 19 novembre 2013, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 75, con nota di F. Iaquinta, O. Ingrao, Il datore di lavoro e l’inganno di Facebook; App. Torino 15 maggio 2014, in Guida al lav., 2015, fasc. 13, 45; Trib. Milano 1 agosto 2014, in Lavoro giur., 2015, 287, con nota di P. Salazar, Facebook e rapporto di lavoro: quale confine per l’obbligo di fedeltà; Trib. Ivrea 28 gennaio 2015, ibidem, 837, con nota di P. Salazar, Facebook e licenziamento per giusta causa: quando si travalicano i limiti del privato influendo sul rapporto di lavoro; Trib. Bergamo 24 dicembre 2015, ivi, 2016, 474, con nota di L.A. Cosattini, I comportamenti extralavorativi al tempo dei social media: “postare” foto costa caro;

Trib. Avellino 17 febbraio 2016; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 3 marzo 2016, n. 246, ivi, 2017, 381, con nota di M. Cottone, Social network: limiti alla libertà d’espressione e riflessi sul rapporto di lavoro (il “like”); Trib. Bergamo 14 settembre 2016, in Argomenti dir.

lav., 2017, 493, con nota di V. Cusumano, Rilevanza disciplinare dei comportamenti extralavorativi e diffusione di immagini a mezzo social network; Tar Friuli-Venezia Giulia Trieste, Sez. I, 12 dicembre 2016, n. 562, in <www.quotidianogiuridico.it>, 2017; App. Poten- za 14 marzo 2017; Trib. Milano 29 novembre 2017), pronunce tutte relative a post e/o foto pubblicati su bacheche Facebook personali o di gruppo. Per altri social, cfr. Trib. Busto Arsizio 20 febbraio 2018, relativa ad un commento postato su Twitter.

(5) Di diversa impostazione rispetto alla prevalente giurisprudenza citata nella precedente nota è infatti la recente (ed allo stato isola- ta) sentenza Cass., Sez. lav., 10 settembre 2018, n. 21965 (in Giur. it., 2019, 139, con nota di P. Tosi, E. Puccetti, Chat Facebook: la ri- servatezza legittima la denigrazione del datore di lavoro?) secondo la quale una chat su Facebook composta unicamente da iscritti a una specifica sigla sindacale deve considerarsi alla stregua di un luogo digitale di dibattito e scambio di opinioni chiuso all’esterno e utilizza- bile solo dai membri ammessi; pertanto le conversazioni ivi tenute costituiscono esercizio del diritto costituzionalmente protetto alla li- bertà e segretezza di corrispondenza (art. 15 Cost.), la quale ricomprende “ogni forma di comunicazione, incluso lo scambio di opinioni e discussioni tramite i mezzi informatici resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia”. La sentenza potrebbe costituire un pericoloso arretramento rispetto al rigore sinora manifestato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito che ha affermato la potenziale rilevanza disciplinare di esternazioni, offensive nei confronti del datore di lavoro o comunque lesive dell’immagine aziendale, effettuate dai lavo- ratori sui social network, ritenendo irrilevante la diffusione del messaggio ad un numero determinato o limitato di persone.

(6) Tale basilare distinguo tra pagine aperte a tutti e pagine aperte solo previo consenso dell’interessato è rimarcata da C.E. Guarnac- cia, op. cit., che richiama l’eloquente caso vagliato da Cons. Stato, Sez. III, 21 febbraio 2014, n. 848 (in Foro it., 2014, III, 501), analiz- zato nella successiva nota 58, ove proprio la natura non aperta della pagina che immortalava un poliziotto in atteggiamenti ed abiti scon- venienti ha giustificato l’annullamento della sanzione.

(7) Come noto, sul social Facebook possono essere creati dagli iscritti diversi tipi di gruppo – a) pubblici, b) chiusi e c) segreti – in relazione alle impostazioni di privacy fornite dalla piattaforma: a) il gruppo pubblico può essere visualizzato, conoscendone il nome, da chiunque e tutti gli iscritti a Facebook possono accedere ai contenuti pubblicati sulla relativa bacheca e, previa iscrizione, contribuire ai medesimi, b) il gruppo chiuso può essere visualizzato da chiunque ma l’accesso ai contenuti e la partecipazione ai medesimi sono riser- vati ai soli membri e l’iscrizione può avvenire su invito dell’amministratore o dei partecipanti nonché, previa richiesta dell’interessato, su autorizzazione dell’amministratore, c) il gruppo segreto può invece essere visualizzato dai soli aderenti e l’iscrizione può avvenire esclu- sivamente su invito dell’amministratore o dei partecipanti che sono gli unici ad accedere e contribuire ai contenuti. La pubblicità della comunicazione ovvero la destinazione ad un numero indeterminato di destinatari è valorizzata dalla giurisprudenza penale quale aggra- vante della diffamazione in caso di messaggi offensivi postati su social network come la bacheca Facebook (Cass. pen., Sez. I, 22 gen- naio 2014, n. 16712, in Foro it., 2014, II, 410; 28 aprile 2015, n. 24431, ivi, 2015, II, 691; Sez. V, 13 luglio 2015, n. 8328, in Resp. civ. e prev., 2017, 186, con nota di C. Curreli, La diffamazione su Facebook, tra diritto sostanziale e profili probatori; 7 ottobre 2016, n. 2723, in <www.quotidianogiuridico.it>, 2017; 14 novembre 2016, n. 4873, in Foro it., 2017, II, 251, con nota di F. Di Ciommo, Responsabili- tà dell’internet hosting provider, diffamazione a mezzo Facebook e principio di tassatività della norma penale: troppa polvere sotto il tappeto; 3 maggio 2018, n. 40083. L’aggravante è stata peraltro riconosciuta a prescindere dalle opzioni di condivisione prescelte dal titolare del profilo, interpretazione che ha suscitato perplessità in dottrina, cfr. G. Corrias Lucente, La diffamazione a mezzo Facebook, in

<www.medialaws.eu>, 25 febbraio 2013; D. Petrini, Diffamazione on line: offesa recata con “altro mezzo di pubblicità” o col mezzo della stampa?, in Dir. pen. e proc., 2017, 1485) o trasmessi via e-mail con modalità forward (Cass. pen., Sez. V, 6 aprile 2011, n. 29221, in Rep. Foro it., 2011, voce Ingiuria e diffamazione, n. 69).

(6)

15

Lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in un recente intervento tenuto il 5 aprile 2019 presso la Scuola superiore della magistratura di Scandicci, ha rimarcato la necessità di una maggior attenzione alla sobrietà nei comportamenti e nelle esternazioni mediatiche anche perché gli strumenti social sono “strumenti che, se non ammini- strati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l’azione dei magistrati e offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria” ed inoltre gli strumenti mediatici non devono incidere sulle decisioni, in quanto “la magistratura, tra l’altro, non deve mai farsi suggestionare dalla pressione che può de- rivare dal clamore mediatico alimentato intorno ai processi, poiché le sue decisioni non devono rispondere alla opi- nione corrente – né alle correnti di opinione – ma soltanto alla legge […] nel nostro sistema costituzionale la magi- stratura non è composta da giudici o pubblici ministeri elettivi e neppure ovviamente da giudici o p.m. con l’obiettivo di essere eletti” (8).

Ma il problema della libera manifestazione via internet del proprio “pensiero” è assai più ampio e riguarda non so- lo i magistrati, ma tutti i cittadini: a fronte di questa “invasione di imbecilli” delle più variegate categorie professiona- li, che esternano liberamente, prevalentemente in via telematica, ma anche attraverso più “antichi” strumenti cartacei, radiofonici, o televisivi (o contemporaneamente attraverso versioni sia cartacee che telematiche di talune testate gior- nalistiche o televisive), obiettivo del presente studio è quello di offrire qualche spunto di riflessione in ordine alla li- bertà di pensiero e ai suoi limiti, con particolare attenzione agli argini che incontra questo basilare diritto, costituzio- nalmente rilevante, per i giornalisti e per i pubblici dipendenti, due categorie di “esternatori qualificati” nel variegato ed allargato panorama comunicativo.

Giova premettere che l’ampliamento del numero degli esternatori attraverso lo strumento social acuisce in via ge- nerale sia il preesistente ed antico rischio, sul piano giudiziario, di diffamazioni ed offese dell’altrui reputazione (di valenza civile, penale e per taluni anche disciplinare), sia il delicato problema, di valenza sociale, della disinforma- zione. Difatti, accanto all’“informazione” e ai suoi ordinari ed etici divulgatori, esiste da sempre uno sgradevole gior- nalismo diffamatorio ed una crescente e pericolosa “disinformazione” telematica che ha molti cultori nel mondo.

La disinformazione, nelle scienze della comunicazione, è l’attività malevola che mira a fornire e diffondere deli- beratamente informazioni false, fuorvianti o non oggettive, o, aggiungiamo noi, ad omettere informazioni, distorcen- do o alterando la realtà dei fatti allo scopo di ingannare, confondere o modificare le opinioni di qualcuno verso una persona (per delegittimarla), un argomento, una situazione, traendone spesso vantaggio. In senso lato il termine, oggi espresso anche dall’inglesismo “fake news”, indica una cattiva forma di informazione, senza cioè il rispetto dei suoi principi cardine (obiettività, completezza, trasparenza, precisione, citazione delle fonti) a prescindere dall’intenzionalità o meno di alterare la realtà dei fatti (9).

(8) L’intervento integrale è rinvenibile in <www.quirinale.it>.

(9) Si legge molto efficacemente nella voce “Disinformazione” della enciclopedia telematica Wikipedia che “Nello spionaggio o ‘in- telligence militare’, la disinformazione consiste nel diffondere informazioni false per indurre in errore il nemico rispetto alla propria posizione o strategia. Ricorre alla diffusione di notizie infondate o artatamente distorte al fine di danneggiare l’immagine pubblica di un avversario e/o di influenzarne le scelte.

In politica, la disinformazione si manifesta spesso nel tentativo di sviare i sostenitori del proprio avversario o oppositore diffonden- do false dichiarazioni o insinuazioni sulla loro vita personale (ad es. in campagne politico-elettorali) oppure in generale tirando acqua al proprio mulino con altrettante falsità o alterazioni della realtà dei fatti (es. forme di negazionismo che negano l’evidenza al fine di alimentare dubbio e incredulità nel manipolato fino al rigetto della tesi iniziale) o semplicemente violando le norme basilari dell’informazione oggettiva: ciò può avvenire non riportando ovvero oscurando notizie e fatti ritenuti sconvenienti e inopportuni alla propria causa, oppure conferendo loro importanza minore rispetto al dovuto negli appositi spazi informativi.

In tale ambito la disinformazione è spesso sfruttata nelle attività di propaganda, assieme al populismo e alla demagogia, comune- mente usate dai regimi politici antidemocratici per mantenere il più possibile il controllo sociale sulle masse garantendo al contempo la sopravvivenza stessa del regime contro eventuali oppositori, critici e rivolte dal basso.

La disinformazione può prevedere la distribuzione di documenti falsi, manoscritti e fotografie, o la diffusione di voci maliziose e dos- sier creati appositamente. Le sue tecniche vengono utilizzate anche nella competizione commerciale per indebolire la posizione di un concorrente e perfino a livello governativo per tenere segrete verità altrimenti compromettenti, difficili da gestire o con un forte impatto sull’opinione pubblica.

Tecniche di disinformazione sono usate comunemente anche nell’ambito del commercio-vendita (marketing) di prodotti da parte di aziende e relativi venditori, anche nella forma di pubblicità detta perciò pubblicità ingannevole.

Strategie e tattiche di disinformazione:

- diffondere false notizie all’interno di un costrutto teorico logicamente coerente;

- orientare l’opinione pubblica riguardo a un tema di pubblico interesse fornendone un’interpretazione apparentemente condivisibi- le;

- modificare a propria immagine e convenienza la realtà dei fatti attraverso errate interpretazioni o uso di bias distorsivi;

- strumentalizzare un evento rigirandolo a proprio favore traendone vantaggio;

- rafforzare i convincimenti esistenti nella mente del manipolato a favore del manipolatore;

- mescolare verità e menzogne affinché non sia manifesto un quadro completo della situazione;

- negare insistentemente l’evidenza per indurre il manipolato al dubbio e all’incredulità fino al rigetto della tesi iniziale;

- abituare all’uso di forme errate di ragionamento suggerendo di volta in volta quando applicarle;

- cancellare, modificare o falsificare materialmente le fonti o le prove (definita da Chomsky ‘ingegneria storica’);

(7)

16

Questa “disinformazione”, espressa talvolta in modo più subdolo (e dunque illecito) attraverso sottintesi sapienti, accostamenti suggestionanti, toni sproporzionatamente scandalizzati o sdegnati, insinuazioni, stralci mirati di pensieri più ampi e articolati, trasmoda poi, in alcuni casi giornalistici, in vera e propria “campagna del fango” (10), ben de- scritta in studi specifici (11) e da acuti giornalisti come Giuseppe D’Avanzo o Roberto Saviano (in più occasioni, tra le quali il noto monologo al Festival internazionale del giornalismo del 2011 a Perugia) con ricche esemplificazioni e pertinenti richiami: dal caso montato da Camilla Cederna che portò alle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, ai persecutori servizi nei confronti del direttore di Avvenire Dino Boffo, ad opera del Giornale di Vittorio Feltri, agli insulsi servizi di Canale 5 sui calzini del giudice civile Raimondo Mesiano, mero estensore di una routinaria (seppur rilevante) condanna civile di Mediaset a risarcire il gruppo De Benedetti nel “caso Mondadori”

(connotato da plurime illiceità a danno di De Benedetti e da erogazioni tangentizie ad un giudice corrotto della Corte d’appello di Roma). Ma tanti altri, e meno noti, sono i casi menzionabili che si presterebbero ad un’attenta ricogni- zione in uno studio scientifico sulle distorsioni giornalistiche e degli esternatori telematici, o alla realizzazione di un reportage, o ancora, con maggior utilità, ad un istruttivo seminario in scuole di giornalismo o per pubblici dipendenti sugli errori da evitare nello scrivere su giornali o nel firmamento social.

Ma l’attualità di una riflessione sui risvolti giuridici delle patologie delle esternazioni mediatiche in generale e dei giornalisti e dei pubblici dipendenti in particolare (12) si palesa necessario anche alla luce di due novità che connota- no questi due peculiari “esternatori qualificati”:

a) la pendenza in Parlamento, nella pregressa legislatura, di un complesso disegno di legge (anche) sulla diffama- zione a mezzo stampa: il vecchio disegno di legge “Costa”, approvato a ottobre 2013 e poi a giugno 2015 dalla Ca- mera e passato all’esame del Senato (d.d.l. S.1119-B, rel. Filippin), che ha impegnato il pregresso legislatore in un complesso bilanciamento tra diritti contrapposti, quali la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero da un lato e la reputazione e l’onore dall’altro: ciò implica doverose soluzioni di compromesso, punendo (seppur in modo meno rigoroso rispetto all’attuale normativa) giornalisti diffamatori, ma drenando iniziative giudiziarie tese solo ad intimorire giornalisti e testate, assumendo come parametro, in tale calibratura tra diritti contrapposti, la gerarchia dei valori costituzionali. Il rilevante testo non sembra essere stato ripreso dall’attuale compagine parlamentare se non per alcuni aspetti (dal d.d.l. S.856, rel. Di Nicola e altri), proponendo il legislatore in carica solo una modifica dell’art. 96 del codice di procedura civile in materia di lite temeraria, in linea con il predetto precedente tentativo parlamentare, prevedendo una ipotesi di responsabilità aggravata civile di colui che, in malafede o colpa grave, attivi un giudizio a fini risarcitori per diffamazione a mezzo stampa;

b) l’introduzione per i pubblici dipendenti di un nuovo codice di comportamento, il d.p.r. 16 aprile 2013, n. 62 (recepito da tutte le singole amministrazioni in un codice aziendale più mirato e dettagliato ai sensi dell’art. 54, c. 5, d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 1, c. 2, d.p.r. n. 62, cit.) che, prendendo atto di diverse cadute di stile (o di veri e propri illeciti) in via telematica, impone ai lavoratori pubblici una maggiore attenzione alle esternazioni tramite strumenti social, valorizzate anche da circolari interne e momenti formativi.

2. Libertà di pensiero nella Costituzione e limiti all’attività giornalistica

Partendo dal corretto esercizio dell’attività giornalistica (13), la stessa costituisce estrinsecazione della libertà di informazione che, tuttavia, nel nostro ordinamento costituzionale non gode di testuale tutela autonoma (come nella

- creare ad hoc situazioni ed eventi e diffonderne notizia unicamente per scopi pubblicitari;

- evitare di riportare fatti o cose sconvenienti per i propri fini;

- sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento all’interno dei rispettivi spazi informativi dandogli una priorità o visibilità infe- riore;

- saturare gli spazi informativi con informazioni di minore o nulla importanza rispetto ad altri”.

Sul tema, B. Ballardini, Manuale di disinformazione. I media come arma impropria: metodi, tecniche, strumenti per la distruzione della realtà, Roma, Castelvecchi, 1995; P. Watzlawick, La realtà della realtà. Comunicazione, disinformazione, confusione, Roma, Astrolabio, 1976.

(10) Come ben espresso nella omonima voce nella enciclopedia telematica Wikipedia, “La macchina del fango opera attraverso la raccolta, a volte illegale, di notizie o informazioni delicate e riservate, allusioni, variamente estrapolate, manipolate, o anche completa- mente false, riguardanti la vita privata e professionale del soggetto da colpire, e la loro successiva diffusione, effettiva o semplicemente ventilata, al fine di esercitare un’indiretta ma forte pressione sull’attività pubblica e sulla libertà personale e di espressione del soggetto colpito.

I metodi utilizzati, estrapolazioni, manipolazione, falsificazione, e i suoi fini ricattatori o diffamatori, distinguono nettamente questa attività di dossieraggio da quella del genuino giornalismo d’inchiesta, il cui scopo è invece l’approfondimento del lettore. Una simile attività, per il modo in cui è concepita, e per i metodi con cui è condotta, è peraltro virtualmente in grado di colpire, indistintamente, qualsiasi personaggio”.

(11) M. Gavrila, Il destino di Narciso. I giornalisti e i loro reati fuori e dentro le rappresentazioni mediali, in V. Tenore (a cura di), Il giornalista e le sue quattro responsabilità, Milano, Giuffrè, 2018, 551 ss.

(12) Sul tema, oltre alla dottrina di seguito richiamata, v. anche P.E. Rozo Sordini, Le libertà di espressione nell’era digitale: disci- plina internazionale e problematiche, in <www.ispionline.it>, 17 ottobre 2013.

(13) Sui limiti alla libertà di pensiero e sulle connesse plurime responsabilità del giornalista ci sia consentito il richiamo a V. Tenore (a cura di), Il giornalista e le sue quattro responsabilità, cit.; S. Fois, Giornalisti (ordine dei), in Enc. dir., XVIII, 1969; M. Pedrazza

(8)

17

Costituzione spagnola). Ciononostante, se ne rinviene nell’art. 21 Cost. il fondamento costituzionale, potendo e do- vendo la libertà di cronaca essere ricompresa nella libertà di manifestazione del pensiero, condividendone la stessa struttura, la stessa natura e le stesse garanzie. L’attività giornalistica è dunque la massima espressione della libertà di pensiero codificata nell’art. 21 Cost., da annoverare tra i diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 Cost., con conseguente legittima apponibilità di limiti a tale diritto solo quando questi ultimi a loro volta trovino fondamento in altre disposizioni costituzionali di pari rango, tra le quali lo stesso art. 2, che riconosce altri diritti inviolabili, quali la dignità, l’onore, la reputazione, la riservatezza.

Secondo l’art. 21 Cost. “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pub- blicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce prov- vedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.

Anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 recita all’art. 19: “Ogni individuo ha il diritto al- la libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”, mentre l’art.

10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall’Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848, ribadisce che “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale di- ritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa es- sere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. 2. La libertà dei media e il loro plurali- smo sono rispettati”, pur garantendo la tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare previsto dall’art. 8 della Convenzione stessa.

La Convenzione si preoccupa, altresì, di fornire un elenco degli interessi la cui salvaguardia può giustificare una limitazione della libertà di espressione, e tra questi si segnalano in particolare la protezione della reputazione o dei diritti altrui, nonché l’esigenza di impedire la divulgazione di informazioni riservate o di garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

Emerge chiaramente da tale fonte sovranazionale l’attenzione riservata alla libertà di informazione e alla possibili- tà che la stessa possa collidere con il diritto alla riservatezza, ponendo un problema di bilanciamento tra diritti pari- menti fondamentali.

Sebbene si escluda l’avvenuta “comunitarizzazione” della Cedu, l’importanza rivestita nell’ordinamento italiano delle norme in essa contenute, nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, è testimoniato dalla giurispru- Gorlero, Giornalismo e Costituzione, Padova, Cedam, 1988; E. Cheli, M.C. Grisolia, Giornalisti: I) profili costituzionali, in Enc. giur., XV, 1989; S. Lepri, Professione giornalista, Milano, Etas, 1991; A. Pajno, Giornalisti e pubblicisti (Disciplina professionale. Rapporto di lavoro e previdenza sociale), in Digesto pubbl., VII, 1991, 175; M. Medici, D. Proietti (a cura di), Il linguaggio del giornalismo, Mila- no, Mursia, 1992; A. Papuzzi, Manuale del giornalista, Roma, Donzelli, 1993; G. Gozzini, Storia del giornalismo, Milano, B. Mondado- ri, 2000; G. Abruzzo, Codice dell’informazione, Roma, Centro di documentazione giornalistica, 2001; A. Papuzzi, Professione giornali- sta. Le tecniche, i media, le regole, Roma, Donzelli, 2010; A. Barbano, Manuale di giornalismo, Bari, Laterza, 2012; C. Malavenda, C.

Melzi D’Eril, G.E. Vigevani, Le regole dei giornalisti. Istruzioni per un mestiere pericoloso, Bologna, il Mulino, 2012. Sulla sociologia del giornalismo e del diritto si veda l’accurato studio di F. Giorgino, Giornalismi e società, Firenze, Mondadori università, 2017.

Sull’etica del giornalista e sul relativo sistema disciplinare, tra i vari contributi, v. L. Boneschi, La deontologia del giornalista, Diritti e doveri della professione, Milano, Egea, 1997; C. Sini, Moralità e amoralità dell’etica nel comunicare, in I. Rizzi (a cura di), Etica e comunicazione, Milano, Banca Europa, 1997; A. Papuzzi, A. Magone, Il giornalismo morale, Torino, Celid, 2001; B. Grossi, Etica del giornalismo, in A. Fabris (a cura di), Guida alle etiche della comunicazione, Pisa, Ets, 2004; E. Morresi, Etica della notizia, Bellinzona, Casagrande, 2004; C.-J. Bertrand, C. Di Martino, S. Sica, La “morale” dei giornalisti. Deontologia dei media e qualità del prodotto edi- toriale, Milano, Angeli, 2004; M. Partipilo, V. Falcone (a cura di), Le regole del giornalista, Roma, Centro di documentazione giornali- stica, 2009; G. Faustini (a cura di), Il sistema dell’informazione e la deontologia, Roma, Ordine dei giornalisti, 1993; P. Scandaletti, Eti- ca e deontologie dei comunicatori, Roma, Luiss University press, 2005; M. Partipilo, Le notizie e la persona, Bari, Cacucci, 2005; A.

Fabris, Etica della comunicazione, Roma, Carocci, 2006; S. Peron, La verità della notizia tra veritas e aletheia, in Resp. civ. e prev., 2006, 1289; R. Razzante, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, Padova, Cedam, 2013; L. Ferola, Dal diritto all’oblio al diritto alla memoria sul web, in Dir. informazione e informatica, 2012, 1001; M. Partipilo (a cura di), Manuale del consiglie- re, Roma, Centro di documentazione giornalistica, 2014; E. Ambrosi, La riforma delle funzioni disciplinari dell’Ordine dei giornalisti un anno dopo: prime considerazioni, in <www.rivistatigor.scfor.units.it>, 2014; V. Tenore (a cura di), Il giornalista e le sue quattro respon- sabilità, cit.

Sul più ampio tema, qui non analizzato, dell’etica dei media (e non solo dei giornalisti), v. A. Marturano, Etica dei media, Milano, Angeli, 2000; A. Fabris (a cura di), Guida alle etiche della comunicazione, cit.; P. Greppi, A. Brigaglia (a cura di), Effetti collaterali. La pubblicità e l’etica, Milano, Tp, 2007; R. Stella, Media ed etica, Roma, Donzelli, 2008, G. Gardini, P. Lalli (a cura di), Per un’etica dell’informazione e della comunicazione. Giornalismo, radiotelevisione, new media, comunicazione pubblica, Milano, Angeli, 2009.

(9)

18

denza costituzionale costante, secondo cui le disposizioni Cedu integrano, quali norme interposte, il parametro costi- tuzionale di cui all’art. 117, c. 1, Cost. nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

La principale manifestazione della libertà di pensiero per un giornalista è data dal diritto di cronaca, o diritto d’informare, quale ius narrandi (diritto di trasmettere notizie e riferire pensieri prevalentemente altrui) consistente nel diritto a pubblicare tutto ciò che è collegato a fatti e avvenimenti di interesse pubblico o che accadono in pubblico (14). Lo strumento, cartaceo, televisivo, radiofonico o strumenti telematici non mutano l’essenza del problema, a fronte dell’ampia dizione dell’art. 21 Cost., che fa riferimento alla più ampia manifestazione di pensiero tramite “pa- rola, scritto o ad ogni altro mezzo di diffusione”.

La giurisprudenza comunitaria ha affermato in più occasioni che la libertà di espressione è una delle condizioni di base per il progresso della società democratica e per lo sviluppo di ciascun individuo, riprendendo su un piano giuri- dico il pensiero già espresso sul piano filosofico da Kant, il quale riteneva che la libera circolazione delle idee fosse il fondamento della conoscenza e dell’emancipazione dell’uomo.

Ma tale libertà, al pari di tutte le libertà costituzionali, come ben chiariscono i basilari referenti deontologici e i pronunciamenti della magistratura e degli organi disciplinari dell’Ordine dei giornalisti (15), non è incondizionata. Il concetto di limite è infatti insito nel concetto di diritto: l’esercizio di un diritto, quale quello di pensiero (di cronaca, di critica, di satira) non cagiona un danno ingiusto a terzi solo se esercitato in modo legittimo, ovvero non travalican- do i limiti posti dall’ordinamento a tutela degli interessi altrui di pari rango.

Del resto, dalla lettura dello stesso art. 21 Cost. si desumono chiari ed evidenti limiti non solo afferenti al testuale

“buon costume”, ma rinvenibili implicitamente (c.d. limiti impliciti) (16) dall’esistenza di beni o interessi diversi, quali i diritti fondamentali della persona scolpiti dall’art. 2 Cost., che sono parimenti protetti e garantiti dalla Costitu- zione. Tali limiti, individuati dalla giurisprudenza e dagli stessi organi disciplinari dell’Ordine dei giornalisti, sono così schematizzabili:

1) il buon costume, unico limite espressamente previsto dalla Costituzione per tutte le manifestazioni di pensiero (anche quelle riguardanti spettacoli come le attività teatrali e cinematografiche) da mettere in correlazione non con una accezione civilistica di moralità pubblica, ma con la nozione penalistica di pubblica decenza e di pudore (o mora- le) sessuale e, dunque, con gli “Atti e oggetti osceni” degli artt. 528 e 529 del codice penale che rechino pericolo di offesa al sentimento del pudore dei terzi non consenzienti o della collettività in generale. La nozione di buon costume è notoriamente connotata da relatività, variando notevolmente secondo le condizioni storiche di ambiente e di cultura, ovvero secondo la sensibilità sociale di cui anche la magistratura prende necessariamente atto in sede civile e penale;

(14) Sulla libertà di pensiero e sulla connessa libertà di informare, di cui il diritto di cronaca è espressione, v. tra i tanti contributi: P.

Caretti, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Bologna, il Mulino, 2013; S. Bartole, R. Bin, Commentario breve alla Costitu- zione, Padova, Cedam, 2008, 159 ss.; A. Pizzorusso et al. (a cura di), Libertà di manifestazione del pensiero e giurisprudenza costituzio- nale, Milano, Giuffrè, 2005; P. Caretti, I diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 2002, 273-339; M. Manetti, La libertà di manifesta- zione del pensiero, in R. Nania, P. Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, vol. II, Torino, Giappichelli, 2001; P. Costanzo, Stampa (Li- bertà di), in Digesto pubbl., XIV, 1999; P. Perlingieri, R. Di Raimo, Art. 21, in P. Perlingieri (a cura di), Commentario alla Costituzione italiana, Napoli, Esi, 1997, 114; A. Pace, M. Manetti, Art. 21. Rapporti civili. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in G.

Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, Zanichelli, Roma, Società editrice del Foro italiano, 2006, 40; L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1991, 627 ss.; A. Di Giovine, I confini della libertà di manifestazione del pensiero, Milano, Giuf- frè, 1988; L. Paladin, Libertà di pensiero e libertà di informazione: le problematiche attuali, in Quaderni costituzionali, 1987, 5; L. Pa- ladin, Problemi e vicende della libertà di informazione nell’ordinamento giuridico italiano, in L. Paladin (a cura di), La libertà di infor- mazione, Torino, Utet, 1979, 9; P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., XXIV, 1974, 424 ss.; Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, Giuffrè, 1958.

Più specificamente sui limiti alla libertà di pensiero, oltre ai saggi sull’attività giornalistica citati nella precedente nota, v.: M. Bianca, Il bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e diritti fondamentali. La peculiarità della lesione dei diritti attraverso i so- cial networks, in M. Bianca, A. Gambino, R. Messinetti (a cura di), Libertà di manifestazione del pensiero e diritti fondamentali, Milano, Giuffrè, 2016, 11; S. Peron, La diffamazione tramite mass-media, Padova, Cedam, 2006; A. Pace, F. Petrangeli, Diritto di cronaca e di critica, in Enc. dir., Agg. V, 2002, 303; M. Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, Padova, Cedam, 1995; V. Zeno-Zencovich, M.

Clemente, M.G. Lodato, La responsabilità professionale del giornalista e dell’editore, Padova, Cedam, 1995; V. Zeno-Zencovich, Alcu- ne ragioni per sopprimere la libertà di stampa, Bari, Laterza, 1995; G. Grisolia, Libertà di manifestazione del pensiero e tutela penale dell’onore e della riservatezza, Padova, Cedam, 1994; A. Baldassarre, In materia di limiti al diritto di cronaca, in Giur. it., 1972, 1; G.

Bognetti, Apologia di delitto punibile ai sensi della Costituzione e interpretazione della norma dell’art. 414 c.p., ultimo comma, Milano, Giuffrè, 1971; G. Conso, Libertà di stampa e cronaca giudiziaria, in Riv. pen., 1968, I, 667; F. Carnelutti, Critica giudiziaria, in Riv. dir.

proc., 1964, 78.

(15) Sul tema deontologico e disciplinare, v. V. Tenore (a cura di), Il giornalista e le sue quattro responsabilità, cit., 2 ss.

(16) Sui limiti ulteriori rispetto al buon costume, v., oltre la dottrina citata nelle precedenti note, in giurisprudenza Corte cost. n.

19/1962; nn. 18 e 87/1966; nn. 11 e 120/1968; n. 86/1974; n. 100/1981; n. 126/1985, che rimarcano la esistenza di speculari diritti costi- tuzionali dell’uomo che limitano o comprimono la recessiva libertà di pensiero e, dunque, di cronaca: diritti della personalità (riservatez- za, onorabilità, onore, reputazione, dignità sociale), interessi di natura pubblicistica (amministrazione della giustizia e sicurezza dello Stato). Sui limiti impliciti si soffermano R. Messinetti, I limiti e il contenuto della libertà di manifestazione del pensiero, in M. Bianca, A. Gambino, R. Messinetti (a cura di), op. cit., 5, e M. Bianca, op. cit.

(10)

19

2) il diritto alla riservatezza, icastica espressione che, per antonomasia, è l’esatto contrario della libertà di pensie- ro, da applicarsi indistintamente non solo a giornali, radio e Tv, ma anche a tutti i social network o su forum privati.

Tale diritto, pur non testualmente previsto dalla Costituzione, è implicitamente presente (in quanto già riconducibile ai diritti fondamentali dell’art. 2 Cost.) ed è affermato dall’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e dall’art. 8 della Cedu, oltre che dal codice della privacy, secondo cui la diffusione e la comunicazione di dati perso- nali per finalità giornalistiche deve rispettare il requisito dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interes- se pubblico (art. 137 d.lgs. n. 196/2003), nonché i principi di correttezza, proporzionalità, pertinenza, qualità e sicu- rezza dei dati (art. 11). La valenza penale, civile e disciplinare di una violazione di tale basilare diritto, soprattutto se involgente minori o malati, è oggetto di studi specifici (17);

3) i segreti, posti a tutela di interessi pubblicistici (Patria, giustizia, sicurezza pubblica), come il segreto di Stato (artt. 256, 261, 262 c.p., espressivi dell’art. 52 Cost. e del connesso dovere di difesa della Patria), il segreto d’ufficio (art. 326 c.p., espressivo del dovere di fedeltà di cui all’art. 54 Cost.), il segreto istruttorio-investigativo (artt. 114, 115 e 329 c.p.), o di tipo privatistico, quale il segreto industriale e professionale (art. 622 c.p., art. 200 c.p.p.).

Quest’ultimo assume peculiare rilevanza per la professione del giornalista in ordine alla rivelazione delle fonti di no- tizia, obbligatoria se indispensabile per l’accertamento di un reato;

4) l’onore, da intendersi, come rimarcato anche dalla Consulta con sentenza n. 86/1974, sia come dignità persona- le (la cui violazione dà luogo all’ingiuria ex art. 594 c.p.) sia come reputazione (che, violata, origina la diffamazione ex art. 595 c.p.) che come diritto all’identità personale. In tal senso, in difetto dei requisiti della verità dei fatti (anche putativa, ovvero frutto di serio e diligente lavoro di ricerca delle fonti e di fedeltà attenta al contenuto di eventuali provvedimenti giudiziari), della forma civile dell’esposizione (c.d. continenza, più tenue nella critica politica e nella satira, ma sempre rispettosa “di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone”) e dell’utilità sociale o pertinenza dei fatti riferiti (soprattutto attraverso un uso scrupoloso delle fonti e una adeguata valutazione della notorietà della persona coinvolta e del suo ruolo sociale), si concretizza una palese violazione, san- zionabile penalmente e disciplinarmente e risarcibile pecuniariamente, dell’onorabilità di una persona, anche con rife- rimento all’attualità della informazione. Altri reati perfezionati con la parola o con lo scritto (calunnia, concorso mo- rale o istigazione in altri delitti, minaccia, vilipendio, aggiotaggio, ecc.) rientrano in modo evidente nei limiti all’ampio diritto alla libertà di pensiero;

5) tra i limiti alla libertà di pensiero, riconducibili alla utilità sociale o meno dell’informazione, vi è, infine, il di- ritto al silenzio, ovvero a che non siano resi noti fatti e valutazioni disonorevoli, e all’oblio sugli stessi dopo alcuni anni venendo meno la predetta attualità della informazione (18), da bilanciare però, in taluni casi, con l’ulteriore di- ritto alla ricerca storica e scientifica (ad esempio sul negazionismo) e alla memoria, come diritto a non dimenticare crimini contro l’umanità, il cui ricordo è indefettibile per l’educazione dei giovani.

Tali limiti, come si è rimarcato in studi specifici (19), sia in ordine ai profili civili, che a quelli penali e soprattutto disciplinari, sono stati scandagliati e valutati in concreto in relazione ad una vasta casistica vagliata dalla magistratura e dagli organi disciplinari, che hanno contribuito alla creazione di un vero e proprio decalogo dei limiti (scolpiti dalla nota sentenza “Borruso”: Cass., Sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259 (20)), soprattutto in riferimento alla libertà di crona- ca.

Tale basilare sentenza, ripresa dalla successiva giurisprudenza, afferma che il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti) sancito in linea di principio nell’art. 21 Cost. e regolato fonda- mentalmente nella l. 8 febbraio 1948, n. 47, è legittimo quando concorrano le seguenti tre condizioni: 1. utilità socia- le dell’informazione; 2. verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 3. forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.

In particolare, la verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur es- sendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamen- te ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è “mezza verità” (o co- munque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso, piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa.

(17) V. Tenore (a cura di), Il giornalista e le sue quattro responsabilità, cit.

(18) Sul diritto all’oblio, v. Cass. 5 aprile 2012, n. 5525, in Foro it., 2013, I, 305, con nota di E. Tucci, e Corte giust. 13 maggio 2014, n. 131/12, ivi, 2014, IV, 295, con nota di A. Palmieri, R. Pardolesi, Diritto all’oblio: il futuro dietro le spalle.

(19) V. Tenore (a cura di), Il giornalista e le sue quattro responsabilità, cit.

(20) La pluriannotata sentenza Cass., Sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259, è, tra le tante, edita in Foro it., 1984, I, 2711, con nota di R.

Pardolesi. Per la conforme giurisprudenza successiva, si rinvia a V. Tenore (a cura di), Il giornalista e le sue quattro responsabilità, cit.

(11)

20

La forma della critica non è civile, non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza. E ciò perché soltanto un fatto o un apprezzamento chiaramente esposto favorisce, nella coscienza del giornalista, l’insorgere del senso di responsabilità che deve sempre accompa- gnare la sua attività e, nel danneggiato, la possibilità di difendersi mediante adeguate smentite, nonché la previsione di ricorrere con successo all’autorità giudiziaria.

Proprio per questo, il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di sanzione. Lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche senza, peraltro, rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre – con particolare riferimento a quanto i giudici di merito hanno nella specie accertato – ad uno dei seguenti subdoli espedienti (nei quali sono da ravvisarsi, in sostanza, altrettante forme di offese indirette):

a) al sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori, per ragioni che possono essere le più varie a seconda dei tempi e dei luoghi ma che comunque sono sempre ben preci- se, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma, comunque, sempre in sen- so fortemente più sfavorevole – se non apertamente offensivo – nei confronti della persona che si vuol mettere in cat- tiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette, all’evidente sco- po di far intendere al lettore che esse non sono altro che eufemismi, e che, comunque, sono da interpretarsi in ben al- tro (e ben noto) senso da quello che avrebbero senza virgolette;

b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol met- tere in cattiva luce con altri fatti (presenti o passati, ma comunque sempre in qualche modo negativi per la reputazio- ne) concernenti altre persone estranee, ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili (come ad esempio, l’affermazione il furto è sempre da condannare) ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben de- terminate;

c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti o, comunque, di scarsissimo valore sin- tomatico, al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione: classici a tal fine sono l’uso del punto esclamativo – anche là ove di solito non viene messo – o la scelta di aggettivi comuni, sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive, come, ad esempio, “notevole”, “impressionante”, “strano”, “non chia- ro”;

d) alle vere e proprie insinuazioni anche se più o meno velate (la più tipica delle quali è certamente quella secondo cui “non si può escludere che …” riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando, pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda ugualmente in considerazione, a tutto detrimento della reputazione di un determinato soggetto.

Ma il problema vagliato dalla richiamata basilare sentenza della Cassazione n. 5259/1984 (a cui si è conformata la successiva giurisprudenza) è stato affrontato anche per il diritto di critica (che, in quanto tale, non può essere in sé né vera né falsa, mentre veri devono essere i fatti su cui la critica si fonda) e di satira (che non è soggetta ad un giudizio di verità, avendo come fine lo stravolgimento della stessa, senza però inserire elementi informativi che esulino dall’intento di satira) con diversi pronunciamenti in sede civile e penale.

Da qui la tensione fra libertà e vincoli, che a sua volta evoca il rapporto tra potere e responsabilità in cui consiste uno degli aspetti qualificanti della forma democratica di governo ed impone la ricerca di un coerente contemperamen- to fra diritti, nonché la necessaria proporzionalità delle misure introdotte dal legislatore (ad esempio con il disegno di legge attualmente in discussione sul reato di diffamazione), stante l’insopprimibile esigenza di salvaguardare il noc- ciolo duro del diritto, che di volta in volta deve recedere.

È stato merito della giurisprudenza bilanciare questi contrapposti diritti-valori, valutando in concreto variegate si- tuazioni in contenziosi civili, penali e disciplinari.

Né va poi trascurato il profilo passivo della libertà di informazione, ovvero lo speculare diritto a ricevere notizie e quindi ad essere informati: trattasi di un diritto soggettivo a fruire di una informazione corretta, completa ed obiettiva che presuppone, oltre ad un pieno rispetto di regole deontologiche e codicistiche da parte del giornalista, un plurali- smo informativo e una indipendenza dell’editore o della Tv, che si traduce in un vero e proprio diritto sociale al plu- ralismo che giustifica l’intervento positivo dello Stato per evitare posizioni dominanti.

Sicuramente non rientra nell’ambito della tutela dell’art. 21 Cost. la menzogna (intesa come manifestazione sog- gettivamente falsa) che, pur non essendo vietata in sé (in quanto comunque espressione della libertà di pensiero), non gode di tutela qualora confligga con uno dei limiti costituzionalmente imposti alla stessa libertà di pensiero, limiti di

Riferimenti

Documenti correlati

not statistically different, foaling rates, in a within 40 days pregnancy loss rate significantly lower 258. than donors with reproductive pathologies (mentioned above) and in

Un modo per ridurli, anche drasticamente, starebbe in una interpretazione, alquanto ardita, che vede nelle norme della legge n. 165 delle dis- posizioni direttamente operative.

Caratterizzazione geochimica di acquitardi nella Pianura Pisana e definizione di nuove linee guida per il.. campionamento di

Morte e trasfigurazione della ‘prima libertà’: la libertà religiosa come.. libertà di pensiero, coscienza

A similar premise is the basis of what, over the last six years, inspired the teaching method of one of the Visual Communication Design Studios at the third year of the Bachelor

Il rispetto della costituzione, così come scritta dai costituenti, propone pertanto almeno tre certezze: il principio della eguaglianza fra persone (l’art. 3 parla

È evidente come per uscire dall’impasse non sia sufficiente ribadire che la disponibilità di un luogo in cui esercitare il culto inerisce al diritto di libertà religiosa, di

FERRARI che “appare ancor più significativo lo sviluppo di un sistema di finanziamento pubblico delle Chiese, considerate le difficoltà economiche che gli attuali