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TRASFORMARE IL TRAUMA IN DOLORE

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Academic year: 2022

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Antonio Pascale

TRASFORMARE IL TRAUMA IN DOLORE

n. 12

MORTIBIANCHE

DIRITTI SENZA ROVESCI Sicurezza e tutele: contro le discriminazioni

per una cultura etica del lavoro

2008

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IL PROGETTO

“Diritti senza rovesci” è una campagna di comunicazione sociale di Inail.

“Diritti senza rovesci” è un modo per parlare a tutti dei problemi del lavoro e diffondere la cultura della sicurezza e della non discriminazione nei contesti professionali.

“Diritti senza rovesci” sono dodici racconti d’autore ispirati da storie vere di malolavoro. Sono storie che servono per conoscere e per comprendere.

Sono storie che servono per cambiare.

Perché la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro e nessuno dovrebbe essere discriminato, subire infortuni, contrarre malattie, morire mentre sta lavorando.

senza

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D

avanti al dolore degli altri, diceva Susan Sontag, non sappiamo mai come comportarci, rimania- mo così, incerti: che si fa? raccontiamo tutti i par- ticolari “in cronaca” affinché la cronaca della sofferenza altrui ci renda più forti e battaglieri, oppure ci distanzia- mo dalla cronaca, con fastidio, perché affondare le mani nel sangue non ci rende mica migliori?

Susan Sontag, per esempio, sosteneva che le fotografie che raffigurano la sofferenza, “non dovrebbero esse- re belle, così come le didascalie che le accompagnano, non dovrebbero essere moraleggianti. Perché una bella fotografia sposta l’attenzione dalla gravità del soggetto rappresentato al medium in sé, compromettendo così il carattere dell’immagine. Una fotografia del genere invia segnali contraddittori: fermate tutto ciò. Ma allo stesso tempo esclama: che spettacolo!”.

Vero! O meglio: capisco! la Sontag dava sostanza a una sensazione inquietante che ho provato anche io ma che per poco coraggio e scarse basi teoriche non sono mai riuscito a esprimere: quante volte, davanti ai fatti che raccontano la sofferenza, davanti ai film o davanti parti- colari foto, mi sono sentito incerto. Come se chiedessi a me stesso: cosa voglio alla fine? sento davvero il bisogno di fermare tutto questo o, in fondo, chiedo solamente di

Antonio Pascale

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essere lasciato in pace a godermi lo spettacolo?

Quindi, per cercare di chiarire di che pasta fosse fatto il mio sguardo quando questo si posava sul dolore de- gli altri, leggevo e sottolineavo alcuni passi del libro della Sontag, uno in particolare, riguardava proprio il fotogra- fo Salgado e la sua mostra Migrazioni. “Il vero problema è nelle immagini in sé, non nel modo e nel luogo in cui vengono esposte: nell’esclusiva concentrazione su sogget- ti impotenti, colti nella loro impotenza. è significativo, del resto, che i soggetti non vengono identificati nelle di- dascalie. Un ritratto che rifiuta di fare il nome del proprio soggetto diventa complice, sia pure inavvertitamente, di quel culto della celebrità che ha alimentato un’insazia- bile fame di fotografie di genere opposto: concedere il nome solo a chi è famoso equivale, infatti, a ridurre tutti gli altri esempi rappresentativi di un’etnia, di una condi- zione di disagio. Ampliando lo sprezzo della sofferenza e globalizzandolo, Salgado può forse indurci a pensare che dovremmo preoccuparci di più. Ma ci invita a credere che le sofferenze e le disgrazie rappresentate sono trop- po grandi, ineluttabili ed epiche perché si possa pensare di modificarne il corso con interventi politici mirati. Di fronte a un soggetto concepito su questa scala la compas- sione non può che vacillare e diventare astratta”.

Naturalmente, non ho mai risolto questo increscioso equivoco, ovvero: la mia commozione davanti al dolore è astratta e dunque non crea conflitto tra me e la materia, oppure qualcosa riesce a smuovere?

Come tutte le sensazione non risolte, sarebbe meglio dire, rimosse, ogni tanto, fanno capolino e mi disturbano la concentrazione.

Per esempio, giovedì  dicembre 2007, ho saputo dal tele- giornale del rogo delle acciaierie Thyssen, e nei giorni se-

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guenti, ho letto molti articoli sull’argomento ma alla fine delle svariate letture, pur trovandomi commosso, riecco fare capolino quella sensazione: non capivo se erano le espressioni come “torce umane” o alcune descrizioni morbose ad eccitare la mia commozione oppure il tri- ste episodio mi aveva davvero sensibilizzato. Era, a conti fatti, la descrizione del triste spettacolo incendiario, ma in fondo anonimo e astratto, uguale a cento altri visti o ascoltati, a eccitarmi o ero davvero toccato dalle storie individuali?

Cosa deve fare una comunità che si vanta di essere civile?

Raccontare i morti o prendersi cura dei feriti? Torniamo alla sensazione primaria, forse e purtroppo è più facile raccontare i morti, dunque c’è il rischio che si crei un lin- guaggio narrativo, così martellante e invasivo che ci metta sì di fronte al dolore ma solo per il tempo necessario a far lievitare la nostra commozione o rabbia o indignazione, solo per qualche giorno, finché poi, tutto passi.

Sono portato a pensare che non sia, questa, una questio- ne sofista. La dedica che Carmelo Bene fece durante la lettura di Dante, organizzata per commemorare le vitti- me delle strage di Bologna, suonava così: dedico questa serata da ferito a morte, non ai morti, ma ai feriti dell’or- renda strage. Significava, a rifletterci per bene, che dopo l’eccitazione e la commozione per i morti, dopo le de- scrizioni morbose o non, dopo il cordoglio, spente le luci, restano i feriti, in senso stretto o lato, poco importa.

Se siamo una comunità civile, o almeno così amiamo cre- dere, dobbiamo essere coscienti che l’interesse per i morti - a loro vanno articoli e descrizioni - è una condizione ne- cessaria ma non sufficiente. Perché siamo del tutto sprov- visti di una sorta di manutenzione dei feriti.

Prendiamo la tragedia della Thyssen, davanti a questo

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dolore, cosa possiamo fare? Voglio dire, oltre a raccon- tare i fatti, più o meno bene, più o meno morbosamente, dopo, quando i sei operai sono stati seppelliti, cosa pos- siamo fare? Per mantenere la nostra sensibilità a un livel- lo di guardia e preventivamente impedire tragedie come questa? Cosa possiamo fare, oltre a gridare, più o meno retoricamente, contro l’ineluttabile, triste, spettacolo?

Questa considerazioni così come le sto elencando mi sono tornate in mente quando ho letto l’intervista a Paolo, in un punto diceva: “(in merito ai fatti della Thyssen) Sui media e sui giornali, si sono potuti leggere resoconti che non possono essere dati in pasto a tutti, soprattutto con la poca prudenza che si è usata. Parlo di alcune descrizioni dell’evento di cui mi rendo conto di che effetto possano aver avuto sulle famiglie e sugli amici delle persone che sono morte. Vedere descrizioni così puntuali, così cru- de, così nel dettaglio di questo scenario apocalittico deve essere stato molto duro. Dei particolari sui colori, sulla posizione dei corpi, usando espressioni come torce umane...

c’è stato un po’ di tutto”.

Ecco, Paolo per esempio, ha iniziato il suo lavoro occu- pandosi di persone disabili. Dopo una serie di eventi, si è trovato, un po’ casualmente ad avere a che fare, non con i morti, ma con i feriti a morte dell’ “orrendo rogo”. “Suc- cede che di fronte a questa catastrofe, che rientra nella mission della associazione Psicologi per i popoli, decidia- mo di scrivere un telegramma di cordoglio e di messa a disposizione di aiuto; il telegramma è indirizzato al sin- daco e alle tre rappresentanze sindacali. C’è un periodo in cui l’attenzione pubblica è tutto dedicata alle attività rituali di cordoglio, commemorative, di ricerca delle re- sponsabilità. Dopo un primo momento in cui la città di Torino è in lutto, si comincia a prendere atto della ricadu-

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ta, per quanto riguarda le conseguenze, sia sulle famiglie che sui colleghi di lavoro e anche sugli stessi soccorritori che hanno partecipato alla prima emergenza. Si effettua un intervento di sostegno ad alcuni dei soccorritori che sono stati coinvolti nel rogo e nelle tragedia. Poi ho avuto modo di seguire anche un collega delle persone che sono morte a causa di... questa cosa che mi trovo in difficoltà a descrivere... tragedia, incendio, infortunio, rogo, non so, non riesco a dare un nome a questa cosa”.

Da una certa soddisfazione professionale costatare che la lingua (narrativa) di Paolo, il suo tono, abbassa, ed è un bene, costantemente il tasso di retorica che, invece, ho trovato nei giornali e probabilmente anche io ho assunto quando mi sono trovato a raccontare dell’evento.

è il tono di chi (ferito a morte?), decide che il miglior modo di occuparsi dei morti è quello di dedicarsi ai feriti.

Detta meglio, la nostra coscienza si sensibilizza meglio se dopo l’enfasi sulla tragedia, preventivamente e con una sorta di rigoroso impegno quotidiano, ci occupiamo di quelli che sono feriti e per questo non fanno notizia.

Quello che non ci raccontiamo perché troppo bramosi di fatti crudi e morbosi è che in caso di infortunio, quando i feriti tornano in fabbrica, si trovano a ricalcare, per così dire, “la scena del delitto”. Sono cioè delle vittime che tor- nano sul luogo che le ha condannate. E da quel momento che la ferita corre il rischio di infettarsi seriamente.

Facciamo che un operaio subisce un incidente e che quel- l’incidente non è tanto grave da causare un handicap per- manente - ammettiamo anche che i giornali con la solita dovizia di particolari parlino di quell’incidente almeno fino a che il caso è abbastanza caldo da fare notizia, e che io li legga rimanendo, come dicevo, incerto, scisso tra il bisogno di spegnere l’ansia dovuta all’aggettivazione pe-

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sante, e quello di fare qualcosa di concreto - ora quel la- voratore potrà dunque tornare in fabbrica, ma poco alla volta, ora dopo ora, si accorgerà di provare un senso di disaffezione forte: io che ci faccio qui, si chiederà l’ope- raio, che ci faccio ancora vicino a questa macchina?

Oppure, facciamo che l’operaio sia stato meno fortunato e che magari abbia perso una mano o le dita, sotto una pressa, e mettiamo che nonostante questo riesca a rien- trare e in qualche modo a ricollocarsi, bene, cosa prova quando rivede quel luogo o quella macchina che gli ha rovinato la vita?

Ancora, prendiamo un artigiano, come era mio nonno per esempio, contento di fare quel mestiere, che si consi- dera un valente professionista se non una specie di arti- sta, se lui subisce un infortunio sul lavoro, non gli viene a mancare solo quella parte del corpo, ma rischia di subire un repentino e svilente crollo di identità.

O infine, immaginiamo un operaio edile, con quel suo senso di praticità, la facilità con la quale maneggia bul- loni e pinze, la capacità che ha sviluppato a misurare il mondo e sapere inventare sempre una soluzione, imma- giniamo dunque un operaio così che subisce un infortu- nio sul lavoro e che questo lo rende inabile, come potrà poi tornare sul luogo di lavoro? non si potrà ricollocare nemmeno in un settore vicino, cosa, dunque, potrà mai fare quell’operaio?

Se infatti gli impiegati hanno un lavoro riproducibile, seriale e dunque anche gestibile in caso di infortunio, un artigiano o un lavoratore dell’edilizia come possono ricollocarsi o meglio, riusciranno a fondare una nuova identità lavorativa che non sia un misero surrogato della precedente? Considerando poi che il più delle volte, ad esempio, non sanno usare il computer... “Questi lavorato-

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ri devono fare un passaggio di cultura e magari uno non è così fresco, non ha vent’anni e, molte volte, proprio per sopperire a questo tipo di situazione, la moglie lavora, i figli vanno a scuola e c’è molto tempo libero passato a casa. Questo, da un certo punto di vista, può essere senti- to come una perdita, una menomazione”.

Insomma, se così stanno le cose, quale sarà il suo con- tributo, non voglio dire alla ditta, alla società, ma il suo contributo in senso stretto, alla sua famiglia, per esempio?

Per non parlare poi del fatto che in casi di tragedia come quella della Thyssen, il dolore pesa anche sui sopravissuti che spesso finiscono per sentirsi in colpa: perché loro sono morti e io sono vivo?

E questo dubbio è così incessante e senza risposta che fini- scono, quei sopravvissuti, per considerarsi morti non vivi.

E pesa, anche, addirittura, sui soccorritori che spesso di fronte alle scena terribile, ai lamenti dei compagni, alle loro richieste d’aiuto finiscono per essere realmente così esposti al dolore degli altri - “il dover toccare una sof- ferenza indicibile nelle persone ancora vive che sono in quelle condizioni, il dover stare di fronte a esseri umani in una situazione così poco umana”- da essere vittime di flashback improvvisi e disturbanti, così facilmente preda di incubi notturni, così poco desiderosi di ricominciare a vivere, di fare quattro chiacchiere con gli amici, di af- francarsi dal peso commentando la vita quotidiana, la partita o le donne, che presto per difendersi da tutto ciò, imparano a diventare più cinici - e servirebbe invece un linguaggio, una pratica grammaticale che permettesse lo sciogliersi del groppo o la rottura di quelle immagini così cristallizzate e in fondo, nel loro disgusto, perfette.

Nel caso della Thyssen, per esempio le persone coinvolte raccontano di quanto possa essere spaventoso un’esplosio-

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ne in una acciaieria, di notte, senza luce, con vari incendi.

A racconto finito o nelle pause, ci si rende conto che a dominare il tutto c’è un forte senso di irrealtà: “L’irrealtà nasce dal non aspettarsi l’evento, dalla estrema ecceziona- lità e gravità della cosa; è talmente grosso e spaventevole quello che è successo che la mente tende a distaccarsi per poter continuare a vivere pur mantenendo, all’interno, queste immagini così dolorose”.

Oppure per liberarsi dal dolore, ci si concentra su un com- pito da medico o soccorritore, un compito da tecnico, una sorta di disciplina che abitua la mente ad allontanarsi da quello che sta succedendo. E dalle conseguenze che provoca.

Ci si sente, a conti fatti, impotenti. Un po’ come si sentiva Susan Sontag davanti al dolore degli altri, e come mi sento spesso io, indeciso se muovermi o dimenticare il tutto.

Dunque, quello che le cronache, così concentrate sull’evento tragico, non riportano o non seguono più è che l’infortunio sul lavoro causa nel singolo e nella collettività una meno- mazione più profonda.

L’incidente non solo causa danni al fisico, ma crea una sor- ta di dolore di scarto, quel tipo di dolore che va lentamente a erodere prima la dimensione personale poi quella collet- tiva: il lavoro è ancora, possiamo dire (ineluttabilmente) purtroppo, un pilastro importante della nostra identità, chi siamo, chi vogliamo essere, quali progetti e aspettative portiamo con noi - e poi la famiglia, i figli - tutto passa attraverso la sicurezza del lavoro. “Vieni colpito come la- voratore, come persona, molto spesso come maschio capo famiglia portatore di progetti individuali e familiari... vieni colpito in profondità e più niente è come prima”.

Allora per spiegare meglio quella sensazione che mi pren- de ogni volta che leggo di incidenti sul lavoro e i relativi

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commenti, posso dire che, forse, abbiamo sviluppato un linguaggio per raccontare a caldo la tragedia, l’infortu- nio, il danno fisico, e questo linguaggio pur con tutte le ambiguità di cui parla la Sontag - che lasciano noi let- tori in bilico tra ansia e azione - pur con tutto il suo ar- mamentario retorico (il dolore, le frasi fatte, i commenti macabri), rappresenta un modo per avere accesso alla dimensione luttuosa.

Ma, quel linguaggio, non è poi utile per raccontare il proseguimento della storia. Sì perché la storia va avanti.

Dopo il racconto dell’incidente, vuoi perché le vittime del lavoro sembrano non avere fine (oltre ai costi sociali per- ché un lavoratore fermo è sia un grosso problema umano per sé e per la famiglia sia produce dei costi sociali non indifferenti, oltre a questo, vanno conteggiate le 1300 morti all’anno e il milione di feriti, un milione di persone, quindi, che hanno ricevuto un danno prima fisico e poi anche morale) e, dunque, vista questa sommatoria inces- sante di eventi, giorno dopo giorno, articolo dopo artico- lo, i morti, le persone ferite si confondono e finiscono per diventare astrazioni e facciamo fatica, come davanti alle foto di Salgado, a individuare il singolo soggetto colpito, la sua storia, il suo valore, dunque, dopo il racconto della tragedia, scusate il bisticcio, la tragedia continua.

Spesso a evento passato, a freddo, negli infortunati e in quelli che rimangono, aumenta la sofferenza e il disagio e in questi momenti, complicati, non abbiamo ancora un linguaggio collettivo che fatti fuori gli aggettivi superlati- vi, le immagini crude, ci parli di quella specifica sofferen- za individuale.

Sembra mancarci allora una letteratura - giornalistica, tecnica, narrativa, insomma un linguaggio, ovvero una forma di attenzione alla grammatica dell’altro - che tra-

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sformi il trauma in dolore, di modo che questo possa es- sere condiviso.

“C’è un bisogno di rielaborare il tutto e poter ricevere dei supporti di ricollocazione adeguati per comprendere quello che è accaduto, per averne piena consapevolezza, bisogna poter fronteggiare questo tipo di eventi per ri- partire attivando le risorse presenti in una persona che, a seguito di un incidente, in qualche maniera viene de- potenziata, deprivata e, almeno inizialmente, messa da parte”.

Trasformare il trauma in dolore, dunque. O per dirla con un linguaggio tecnico: “Socializzare con azioni di debrie- fing che mettono assieme le persone esposte. Sono inter- venti di gruppo che tendono a far condividere alle perso- ne che hanno assistito allo stesso evento fatti, pensieri ed emozioni. Questo aiuta già molto”.

Trasformare il trauma in dolore, perché davanti al trau- ma si è impreparati, sconvolti, impotenti e soprattutto perché davanti al trauma si tende a colmare il vuoto di conoscenza con la retorica, poi però ci si ferma. Forse, quando parliamo di cultura del lavoro, quando compa- riamo i nostri mediocri standard di sicurezza con quelli di altri paesi, e ci stupiamo della distanza tra noi e loro, forse, quando facciamo tutto questo dobbiamo sapere che la cultura del lavoro non si fonda solo sulla denuncia di fatti incresciosi e terribili, ma anche sulla rappresenta- zione del lavoro in senso lato, raccontare i feriti significa proteggere i vivi, trovare un linguaggio comune e ampio e condiviso, trasformare il trauma personale in un dolore collettivo, significa fare una rigorosa opera di prevenzio- ne: “I funerali davanti al Duomo sono stati molto solenni, c’era un silenzio agghiacciante, io ero presente quando sono arrivate le salme. Ho visto una città composta che

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piangeva i suoi morti, vittime di mancanza di sicurezza e vittime del lavoro. Le persone che riescono a fronteggia- re questo evento e ad attivare tutte le capacità reattive, possono fare emergere le risorse lavorative e personali, possono riuscire ad attuare un concetto di crescita post- traumatica. In questo modo la persona diventa migliore, più sensibile, più attenta”.

è questa dunque la possibilità che dobbiamo sapere co- gliere? Per evitare futuri infortuni c’è forse bisogno di una manutenzione quotidiana, soffiare sulla fiammella - tanto per usare l’espressione di Ivan Illich - significa, riuscire a trovare un linguaggio quotidiano che sia caldo ma non sentimentale, civile senza scadere nella retorica dell’indi- gnazione, trovare un linguaggio siffatto e imparare a uti- lizzarlo, significa riuscire a dare voce e forza e speranza a quelle persone che compiono piccoli gesti di prevenzione quotidiana.

Piccoli gesti nonostante tutto, quasi al buio. Quando sul luogo del delitto sono spente le luci e gli aggettivi superla- tivi e le immagini forti si sono eclissate, restano quelli che soffiano silenziosamente sulla fiammella.

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Antonio Pascale è nato solo per un accidente a Napoli nel 1, ha vissuto a Caserta e poi a Roma, dove attual- mente lavora. Ha pubblicato, per Einaudi, La città distratta (2001), La manutenzione degli affetti (2003) e Passa la bellezza (2005), per Laterza Non è per cattiveria (200) e per Mini- mum Fax S’è fatta ora, sempre nel 200.

Scrive per il cinema e il teatro, collabora a “Il Mattino” e a “Diario della settimana”.

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Postfazione

Le storie siamo noi

Ragioni e obiettivi della campagna di comunicazione “Diritti senza rovesci”

“Diritti senza rovesci” è una campagna di comunicazione sociale promossa da Inail il cui sottotitolo esplicativo recita: “Sicurezza e tutele: contro le discriminazioni per una cultura etica del lavoro”. Si chiarisce, in questa semplice frase, l’obiettivo generale di una serie di azioni comunicative, di linguaggi, di iniziative messe in campo per contribuire alla creazione di una cultura, condivisa collettivamente, che metta al centro dell’attenzione e della quotidianità dell’esperienza lavorativa la sicurezza sul lavoro e i principi di non discriminazione.

L’idea di “Diritti senza rovesci” nasce in Valle d’Aosta, dall’amicizia di due donne, impegnate in due contesti tradizionalmente lontani:

Elvira Goglia, dirigente di Inail e Viviana Rosi, dell’Associazione culturale Solal.

Lo scopo è ambizioso e non si limita a richiamare il rispetto di nor- me fondamentali che salvaguardano la salute psicofi sica dei lavora- tori. Per sollecitare la rifl essione, per lasciare traccia nelle coscienze e nelle consuetudini, per indurre una maggiore consapevolezza dei diritti fondamentali nei lavoratori e nei datori di lavoro, si ricorre al linguaggio letterario e a quello del teatro di strada. Vengono coinvol- ti attrici e attori di grande bravura, realizzate videoinstallazioni e so- prattutto vengono raccolte storie di disagio lavorativo e di ingiustizia patita dalla viva voce di lavoratori e lavoratrici, con la convinzione che proprio da lì, dalle tante vicende di “malolavoro” che ancora si verifi cano nel nostro paese, sia necessario partire per costruire una cultura, una mentalità eticamente responsabile.

Nel 2007 la campagna di “Diritti senza rovesci” muove i primi passi nella piccola Valle d’Aosta, con il sostegno di numerosi attori sociali (Assessorato Attività Produttive e Politiche del Lavoro della Regione Autonoma Valle d’Aosta, Consigliera di Parità, Direzione Regionale del Lavoro, Cgil, Cisl, Uil, Savt, Confi ndustria Valle d’Aosta, Con- fartigianato, CNA, Associazione Artigiani Valle d’Aosta) e subito si

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avvale dell’adesione convinta al progetto di scrittori e scrittrici (Giu- liana Olivero, Carmen Covito, Andrea Bajani, Viviana Rosi, Gior- gio Falco, Barbara Garlaschelli) impegnati a portare la realtà nella costruzione narrativa. Le storie di vita lavorativa raccolte grazie alla disponibilità e alla voglia di raccontarsi di lavoratori vittime di discri- minazioni, precarietà, mobbing, i referti stilati in occasione di una tra le troppe morti sul lavoro diventano racconti da distribuire per strada, da leggere ad alta voce a passanti apparentemente distratti, da fare ascoltare a centinaia di giovani accorsi a visitare il percor- so multimediale allestito a Torino negli spazi, che ancora trasudano memoria industriale, dell’associazione Libera di don Ciotti. È for- te la convinzione – espressa con passione militante da Lella Costa, in occasione della presentazione della campagna (Aosta, 27 luglio 2007) – che il grande valore delle storie di vita vissuta stia nel fatto che parlano “alla pancia” di chi le sta a sentire, che la letteratura, quando coglie il valore e il senso dell’esperienza umana, diventa uno strumento straordinario per smuovere le coscienze e convincere del- la necessità di un cambiamento per costruire una società che sia più equa e migliore per tutti.

Con un simile presupposto, proseguire nel lavoro avviato nel 2007 è stato inevitabile.

Nel 2008 vedono la luce altre sei narrazioni, altre sei storie “vere”:

le vite precarie che minacciano, il futuro delle nuove generazioni; le discriminazioni che colpiscono anche chi occupa posti dirigenziali quando la malattia irrompe nel quotidiano; la vita spesso aspra e solitaria delle donne straniere che vivono nelle nostre case, che ac- cudiscono i nostri anziani; l’isolamento e l’incomprensione che cir- condano i lavoratori diversamente abili; la fi ne prossima ventura del lavoro autonomo qualora non si sappia dare valore alla laboriosità di chi ancora crede al “saper fare” con la testa e con le mani.

Altri scrittori e scrittrici (Dacia Maraini, Tullio Avoledo, Michela Murgia, Grazia Verasani, Matteo B. Bianchi, Antonio Pascale) met- tono a disposizione la loro penna, il loro talento, la loro sensibilità per commentare le testimonianze e trasformarle in storie, rifl essioni, puntuali descrizioni di contesti lavorativi “diffi cili”. Come nel 2007, quando la vicenda di un giovane precario è diventata una graphic

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novel illustrata da Alessandro Viale, per parlare ai ragazzi e alle ra- gazze con un linguaggio più vicino a loro, così in questa nuova serie di pubblicazioni le peripezie lavorative di una tra le tante lavoratrici ventenni a tempo determinato sono raccontate anche attraverso le belle illustrazioni di un disegnatore, Luca Galvani, coetaneo della protagonista della storia.

Ai giovani, del resto, guarda con particolare attenzione il progetto di

“Diritti senza rovesci” perché la cultura della sicurezza e della non discriminazione – lo sa bene Inail che da anni si occupa di questo – si costruisce, si diffonde, si innerva nel tessuto economico del nostro paese anche e soprattutto attraverso le nuove generazioni di lavora- tori, anche grazie ad una rinnovata concezione del lavoro che può venire a mano a mano coltivata e sostenuta a partire dai banchi di scuola e dalle aule dell’università.

In senso più generale, avvicinare il mondo della cultura a quello del lavoro, affi ancare i linguaggi, quello delle cifre, che spietatamente dichiarano quanti infortuni, quante malattie professionali colpisco- no i lavoratori italiani, e quello del cinema, del teatro, della musica, della letteratura è ciò che da anni Inail sta facendo ad un unico sco- po: «Uscire dal luogo comune, autoassolvente, che gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali siano un problema fuori di noi: un problema degli “altri”, dei datori di lavoro e dei lavoratori. Come se ciascuno di noi non appartenesse a una delle due categorie (o quan- tomeno aspirasse ad appartenervi) e quindi non fosse inevitabilmen- te parte del problema. E soprattutto, vogliamo sperarlo, parte della soluzione» (Marco Stancati, Responsabile Comunicazione di Inail e docente alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma).

Un obiettivo questo che la campagna di comunicazione “Diritti sen- za rovesci” condivide e fa proprio, grazie all’impegno civile di artisti e di semplici cittadini che leggono e sanno che ciascuna delle storie che andiamo raccogliendo riguarda ciascuno di noi e il nostro modo di vivere e pensare il lavoro in quanto parte rilevante della nostra vicenda esistenziale.

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1. MOBBING - Giuliana Olivero, Sottigliezze

2. DISCRIMINAZIONE - Carmen Covito, Tempo parziale 3. MORTIBIANCHE - Andrea Bajani, Tanto si doveva 4. PRECARIATO - Viviana Rosi e Alessandro Viale, Vogliono te. Storia di un ragazzo interinale 5. IMMIGRAZIONE - Giorgio Falco,

Liberazione di una superfi cie 6. DISABILITÀ - Barbara Garlaschelli,

Luce nella battaglia. La storia di Matilde

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7. LAVOROAUTONOMO - Tullio Avoledo,

Il pesce grande mangia il pesce piccolo

8. IMMIGRAZIONE - Dacia Maraini presenta Nadja 9. DISCRIMINAZIONE - Michela Murgia, Alla pari 10. PRECARIATO - Grazia Verasani, Agata Illustrazioni di Luca Galvani

11. DISABILITÀ - Matteo B. Bianchi, Pietro in diretta 12. MORTIBIANCHE - Antonio Pascale,

Trasformare il trauma in dolore

I titoli della collana 2008

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Antonio Pascale

TRASFORMARE IL TRAUMA IN DOLORE

© 2008 Antonio Pascale Tutti i diritti riservati

Grafi ca e impaginazione di Francesca Schiavon Stampa: Tipolitografi a INAIL - Milano - gennaio 2009

Pubblicazione non destinata alla vendita INAIL - DIREZIONE CENTRALE COMUNICAZIONE

Piazzale Giulio Pastore, 6 - 00144 Roma [email protected]

www.inail.it

“Diritti senza rovesci” è un progetto INAIL ideato dall’associazione Solal-progetti culturali.

Diritti di pubblicazione e d’uso per tre anni

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