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Marcinelle, l’Italia è partita da lì

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«la Repubblica» 8 agosto 2016

Marcinelle, l’Italia è partita da lì

Guido Crainz

MARCINELLE, Belgio, l’8 agosto di sessant’anni fa: una data da non dimenticare mai. Per il devastante incendio nella miniera di carbone in cui muoiono 262 lavoratori, di cui 136 italiani.

Per il più generale simbolo che presto l’evento diventa: non solo nel vissuto delle famiglie e dei paesi colpiti dal lutto, e non solo in quel 1956 (nel 2001 è stata istituita proprio per l’8 agosto la Giornata del sacrificio del lavoro italiano). Non la dobbiamo dimenticare, anche, per quel che ci dice della nostra storia: quella tragedia affonda le sue radici nell’Italia piagata del dopoguer- ra ma colpisce un Paese che sta lasciandosi faticosamente alle spalle quegli anni. La notizia dell’«inferno nella miniera arroventata», scriveva Dino Buzzati, giunge in un agosto italiano in cui le vacanze iniziano ad essere costume di massa: stride con quella Italia, quasi a ricordarle i sacrifici che hanno costruito e stanno costruendo il nostro “miracolo”. È infatti del 23 giugno del 1946 l’“accordo minatori-carbone”, come lo chiamerà poi alla Costituente il ministro Carlo Sforza, cioè l’impegno a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di 50.000 lavoratori ita- liani in cambio di forniture preziose: il carbone appariva fondamentale come il pane, e anche il pane scarseggiava in quel 1946. Ancora a dicembre una prima pagina della «Domenica del Corriere» sarà dedicata appunto a “Il dramma del grano” e poco dopo Nenni annoterà nel suo diario: «Le scorte sono a zero. Abbiamo dato pane a Milano perché l’ammiraglio Stone ci ha prestato cinquemila quintali di farina». Pochi mesi prima dunque il governo ha firmato l’accordo per l’invio di italiani nelle miniere belghe, in condizioni di vita e di lavoro che si rivele- ranno spaventose. Miniere in cui i lavoratori di quel Paese non vogliono più scendere. Ci parla di quell’Italia, dunque, il dramma di Marcinelle: quasi “inevitabilmente” la via dell’emigrazione era apparsa ai governi del tempo una via necessaria, e molti italiani aspirarono realmente e fortemente ad essa per sfuggire a pesanti condizioni di miseria e di incertezza. Non erano ine- vitabili però le condizioni di quell’emigrazione in Belgio, ben diverse da quelle promesse dai manifesti che tappezzavano le piazze e i locali pubblici. Non erano inevitabili le durezze este- nuanti e le umiliazioni dei viaggi (con i treni di fatto “sigillati” mentre attraversavano la Svizze- ra, ad evitare “fughe”). Non erano inevitabili le disumane condizioni di vita nelle baracche, o la dura “scoperta” di un lavoro «abbruttente, inumano, svolto lontano dalla luce del Sole, in con- dizioni spesso di pericolo e di timore (…) una condanna da cui si attende la liberazione» (sono parole di Aldo Moro, che nel 1949 visita il Belgio come sottosegretario). Vi sono anche le ca- renze delle istituzioni pubbliche nella storia che porta a Marcinelle, e anche quelle carenze - anche quei patti non rispettati, o quei varchi lasciati ai trafficanti del lavoro - contribuiscono a farci comprendere i costi altissimi che furono pagati: lo testimoniarono i moltissimi lavoratori che rientrarono subito, talora sfidando l’arresto per “inadempienza” (un altro paradosso, un al- tro rovesciamento di questa vicenda). Lo testimoniarono le moltissime vittime: alla vigilia di Marcinelle erano già 1164 i minatori morti in Belgio dal 1947, e 435 di essi erano italiani.

Ha davvero in sé un “dovere di memoria”, Marcinelle, e lo ha sottolineato con efficacia un recente libro di Toni Ricciardi, Marcinelle, 1956, che ha un sottotitolo eloquente: Quando la vita valeva meno del carbone (Donzelli editore). In esso Annacarla Valeriano analizza bene anche la

“comunicazione” e la “rappresentazione” che vi furono di quell’evento e che contribuirono a farlo diventare, appunto, lutto pubblico: chi ha visto i cinegiornali di allora della Incom non li dimentica più, e i giornali sono altrettanto eloquenti. Il-luminano di luce cruda non solo

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l’inferno delle miniere ma anche la realtà da cui quegli uomini erano partiti. Disegnano una ve- ra geografia della miseria e del dolore, popolata da piccoli paesi sin lì sconosciuti, soprattutto abruzzesi (viene da questa regione la maggior parte delle vittime italiane): «ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei giornali - scriveva «Il Giorno» - perché l’Italia si chieda dove sia Manop- pello, e perché la gente di questo paese è così povera, e cosa si può fare per sollevarla alla mi- seria senza mandarla a morire in Belgio». E ricordava che in quell’Italia erano ancora in vigore (e lo saranno sino al 1961) le leggi fasciste contro l’urbanesimo volte a impedire le migrazioni interne: un altro stridente contrasto del nostro dopoguerra. In realtà l’Italia iniziava a cambia- re, in quel 1956, ma da qui siamo partiti: questo abbiamo sofferto, e non dovremmo dimenti- carlo mai.

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