Esercizi Spirituali per le Famiglie
Il mistero della
incarnazione
don Piero Rattin
Rifugio Sores 2000
“Il Mistero dell’Incarnazione”
1 . Purifica e trasfigura le nostre relazioni
Chi vuol esprimere un giudizio su certe cose di questo mondo, e si accontenta di guardarle solo da lontano senza esserne coinvolto, rischia sempre di risultare superficiale, pressappochista. “Le religio- ni son tutte eguali” si sente ripetere ogni tanto. Giudizio superficiale, ovviamente.
Che le religioni abbiano non pochi elementi in comune è un fatto comprovato dagli incontri, frequenti ormai, tra i rappresentanti di religioni diverse; che in quegli incontri si dialoghi e si discuta anche, sta però a dire che anche gli elementi che le differenziano sono notevoli.
“Il punto essenziale per cui il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni sta qui - scrive il Papa nella sua lettera sulla preparazione al Giubileo del 2000 - nel cristianesimo l’avvio è dato dal mistero del- l’Incarnazione del Verbo. In Gesù Cristo, Dio non solo parla all’uo- mo ma lo cerca. L’incarnazione del Figlio di Dio testimonia che è Dio a cercare l’uomo”.
Le religioni sono un prodotto degli uomini in massima parte: sono come delle strade che gli uomini hanno aperto dinanzi a sè per an- dare alla ricerca di Dio. La Fede si differenzia dalla religione perché è “dono di Dio” si dice; l’iniziativa parte da Dio. L’incarnazione del Figlio di Dio testimonia che è Dio a cercare l’uomo.
“È una ricerca - sono sempre parole del Papa - che nasce nell’intimo
Dio va in cerca dell’uomo, creato ad immagine e somiglianza sua, lo fa perché lo ama eternamente nel Verbo e in Cristo lo vuole elevare alla dignità di figlio adottivo. Dio dunque cerca l’uomo, che è sua particolare proprietà, in maniera diversa di come lo è ogni altra cre- atura. Egli è proprietà di Dio in base ad una scelta d’amore: Dio cerca l’uomo spinto dal suo cuore di Padre.”
Se Dio cerca l’uomo (e per “uomo” si intende la persona umana:
ogni uomo e ogni donna), vuol dire che l’uomo ai suoi occhi vale molto, vale a prescindere dalle qualità che possiede (anzi, quante meno qualità possiede che lo rendano uomo di valore, con tanta più passione Dio lo cerca). Il mistero dell’Incarnazione allora diven- ta il paradigma di riferimento di tutte le nostre relazioni interperso- nali, a cominciare da quelle più frequenti e scontate: quelle all’in- terno della famiglia. Ma procediamo con ordine. Guardiamo con attenzione a come si è comportato Dio.
Sia nell’Antica, come nella nuova Alleanza (con Gesù), questo è stato uno stile, un comportamento divino che si è venuto via via precisando sempre meglio. Già le prime pagine della Bibbia riferi- scono che nel giardino dell’Eden, dopo che l’uomo ha voltato le spalle a Dio, Dio cerca l’uomo, che si è nascosto tra gli alberi del giardino: “Dove sei?” (Gen 3,9). Nel corso della storia di Israele, suo popolo, allorché i responsabili della nazione dimostrano di perse- guire i loro personali interessi piuttosto che quelli del popolo, Dio fa dire ai suoi profeti: “Io stesso verrò a cercare le mie pecore e ne avrò cura...” (Ez 34,11). Il Verbo incarnato, Gesù, paragonerà quest’an- siosa ricerca a quella di una donna che si affanna per una dracma che ha perduto e a quella di un pastore che parte alla ricerca della pecora che si è smarrita. Un’immagine più eloquente ancora è quel- la che raffigura l’incontro di Gesù con Zaccheo. Zaccheo è capo dei pubblicani e ricco, quindi è l’emblema del peccatore, dell’immora- le per eccellenza. Gesù si autoinvita in casa sua. Quel fatto sconvol- ge a tal punto Zaccheo che decide di cambiare vita: “Darò la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno restituirò quattro volte il dovuto”. Gesù commenta: “Oggi la salvezza è entrata in que-
sta casa... Io sono venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Come se tutta la sua missione di Verbo incarnato tra gli uomini si esaurisse in questo: cercare e salvare ciò che era perduto. Altra im- magine eloquente è quella che ci raffigura Gesù, stanco del viaggio e assetato, seduto al pozzo di Giacobbe, in attesa della donna sa- maritana: quel Gesù è il Verbo di Dio che, essendosi incarnato, ha assunto anche il rischio di stancarsi proprio perché quella ricerca lo prende tutto, e lo prenderà sempre fin che esiste un uomo sulla faccia della terra. Nel Dies irae, l’antico canto della messa da morto di una volta, si diceva a un certo punto: “Quaerens me sedisti lassus, redemisti crucem passus: tantus labor non sit cassus” - è per cercare me che ti sei stancato e ti sei seduto assetato a quel pozzo; mi hai redento subendo la croce: che la tua fatica non risulti inutile!
C’è una costante in tutte queste scene, se osservate: quella del limi- te. Dio si è liberamente assoggettato a molti limiti quando si è fatto carne ed è venuto a cercare l’uomo di carne. I Padri antichi della Chiesa usavano un attributo per dire questo; siccome Verbo vuol dire parola - la Parola di Dio - dicevano che il Verbo, incarnandosi, s’è dovuto rimpicciolire, la Parola s’è dovuta accorciare per starci dentro le situazioni umane: Verbum abbreviatum, è l’espressione che usavano i Padri. La volontà di cercare l’uomo fa sì che Dio, per amore, accetti molti limiti.
Forse che Dio non sa dov’è l’uomo, al punto da cercarlo tra gli alberi dell’Eden come in un gioco a nascondino tra bambini? Eppu- re Dio lo cerca come se non sapesse dove si trova. E non poteva quel pastore - visto che è anche il Creatore - fare le pecore in modo tale che tornassero sempre da sole all’ovile? Dio è santo, anzi tre volte santo; ebbene: deve accorciare, deve nascondere la sua santi- tà se vuol entrare in casa di un arcipubblicano qual’era Zaccheo: è sempre troppo stretta per Dio la porta della casa di Zaccheo, e deve rimpicciolirsi, limitarsi, per passare e trovarsi comunque bene in quella casa del peccatore.
Il profeta Isaia aveva detto una bella cosa di Dio: “Dio eterno è il
il Dio eterno entra nella storia degli uomini e prende il volto di Gesù di Nazaret, si affatica e si stanca nella sua ricerca dell’uomo.
Perché mai Dio accetta queste limitazioni tipicamente umane? Per amore, diciamo. Sì, ma in che senso “amore”? L’amore da parte di Dio in grandissima parte non è altro che il contrappeso alla nostra umana libertà. Sì, siamo creature fragili, rivestite di precarietà e im- pastate di peccato, e purtuttavia la libertà che c’è in noi ci rende a tal punto degni di considerazione e di rispetto da parte di Dio da indurlo ad accettare molti limiti allorché ci viene a cercare.
L’incarnazione del Figlio di Dio inaugura (ma meglio sarebbe dire
“consacra”, perché è dai giorni della Genesi che Dio si comporta così) uno stile divino di accostamento all’uomo fatto di grande ri- spetto, di discrezione, di appello invece che di costrizione; uno stile che mette in preventivo anche il possibile rifiuto dell’uomo, il volta- spalle, la chiusura del cuore.
Rispetto e discrezione che appaiono subito evidenti, e sorprendenti, allorché quell’Incarnazione comincia ad attuarsi. Dio entra con to- tale discrezione nella monotonia quotidiana di quella ragazza di Nazaret che è Maria, le rivela il suo progetto e le chiede di lasciarse- ne coinvolgere; e attende il suo consenso. Ecco quale sarà lo stile di Dio tra gli uomini: iniziativa sì, ma rispettosa, appello certamente, ma all’insegna della discrezione, e attesa di consenso. Nella sua let- tera il Papa sottolinea questa componente tipicamente divina che accompagna il Mistero dell’Incarnazione, allorché afferma: “Mai nella storia dell’uomo tanto dipese, come allora, dal consenso dell’uma- na creatura”.
E qui c’è un dato che per tutta l’esperienza della Fede - così come è comprovata dalla Bibbia e dai vangeli - è fondamentale e irrinuncia- bile. Il punto su cui sta e senza cui cade tutta l’esperienza della Fede è la libertà dell’uomo di fronte a Dio: libertà non come diritto da rivendicare davanti a lui, ma come modalità della risposta che Lui chiede, come condizione di un’obbedienza che sia veramente tale.
Vediamo di capire: è importante una comprensione chiara di queste
tamento cristiano.
L’amore di Dio per l’uomo - quell’amore che il NT per contraddi- stinguerlo da ogni altro chiama agàpe - è un amore creatore: tende a promuovere l’uomo in tutta la sua dignità e a colmarlo come cre- atura bisognosa (bisognosa di pane, bisognosa di relazioni autenti- che, bisognosa di perdono, bisognosa di vita eterna). Ora, quando Dio opera da creatore, lo fa in due maniere diverse; può agire senza interpellare nessuno e senza dover rendere conto a nessuno, e in effetti a volte si comporta così: quando ha fatto il cosmo non ha interpellato l’uomo; così come non interpella l’uomo quando deve nascere o quando è l’ora di porre fine alla vita sulla terra; o quando piove, o quando c’è il sole... E l’uomo - buono o cattivo che sia, cosciente dell’azione di Dio oppure no - è comunque avvolto e portato dalla Provvidenza (“Il Padre fa splendere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” afferma Gesù); in questa azione creatrice le creature sono semplicemente strumenti e non possono cambiare il corso dell’azione di Dio (per fortuna, oc- corre dire!). L’altra modalità di intervento, invece, è ben diversa:
non passa attraverso la libertà umana come fosse semplicemente un condotto e nient’altro, non prende l’uomo come si prende un peso morto o un essere incosciente, anzi, si propone all’uomo in un fac- cia a faccia, si sottomette a una decisiva condizione: se vuoi! E sap- piamo tutti che l’uomo può volere e rispondere sì, ma può anche voltare le spalle e dire no. E Dio accetta anche questo rischio. Tutta la storia della Salvezza, tutti gli accostamenti, gli appelli di Dio al- l’uomo (come singolo, come popolo) lasciano riecheggiare come sottofondo quella decisiva condizione: Se vuoi! Che per Dio com- porta comunque una limitazione, un porre un freno alla sua capaci- tà di fare grandi cose. Una specie di annientamento (la parola è di san Paolo) che raggiunge il suo grado più basso nel mistero dell’In- carnazione. Mistero rischioso per Dio, mistero che mette in preven- tivo anche il fallimento.
Questo, però, è soltanto il risvolto negativo. Quello positivo lo com- pensa di gran lunga: con il suo libero assenso, l’uomo permette al-
l’amore creatore di Dio di entrare nel mondo e di operarvi vita e salvezza.
Sì, abbiamo ben ragione di affermare che Dio è onnipotente e può fare tutto ciò che vuole, ma resta il fatto che quando si tratta di operare per gli uomini - tra gli uomini - l’onnipotenza di Dio si dà un limite: è condizionata dal loro assenso; assenso che è apertura, di- sponibilità, accoglienza delle intenzioni di Dio e dei suoi progetti. I Vangeli comprovano questo molto di frequente: per esempio quan- do parlano della visita di Gesù a Nazaret, il suo paese; Marco affer- ma espressamente che “non vi potè operare nessun prodigio... e si meravigliava della loro incredulità” (6,6). I teologi si guarderebbero bene dal dire che il Figlio di Dio non può o non potè, ma il vangelo lo dice senza mezzi termini. E in questa luce possiamo comprende- re anche quelle affermazioni di Gesù stesso che, di fronte a certi malati che lo supplicano, non dice: sì sì, io ti guarisco; ma bensì: la tua fede ti ha guarito, la tua fede ti ha salvato... (cfr. Mc 4,34; 7,29;
10,52). Quella fede di cui parla Gesù è la libertà dell’uomo che si apre e si sintonizza con le intenzioni di Dio; e quell’amore creatore che spinge Dio a cercare l’uomo, allora - e solo allora - può operare vita e salvezza. La Fede qui è quel sì detto all’amore creatore che gli permette di entrare nel mondo, di raggiungere il povero e di farlo vivere. Potremmo addirittura dire, ed è vero, che il libero sì dell’uo- mo acquista un valore creatore. Certo, è Dio che crea, è sua la com- petenza di creatore, ma - grazie all’Incarnazione del Verbo - Dio abbassa, per così dire, questa sua tipica competenza alla portata dell’uomo, ne rende partecipe l’uomo. Il sì dell’uomo - un sì che è fatto di fede e di amore insieme - lo rende creatore insieme a Dio; è il senso delle parole di Gesù: “la tua fede ti ha salvato”. Ed è anche il senso di quell’affermazione del Papa, quando allude al sì di Ma- ria: “Mai nella storia dell’uomo tanto dipese, come allora, dal con- senso dell’umana creatura”.
Qui allora ci spieghiamo il motivo per cui Dio, quando decide di coinvolgere l’uomo nel progetto della salvezza, non lo mette di fronte al fatto compiuto (come il nascere, per esempio, o il tempo meteo-
rologico: piove, c’è il sole, e non posso farci niente...); no, si presen- ta alla sua libertà con l’esigenza dell’imperativo, del comandamen- to: alla necessità naturale, al fatto compiuto, non puoi sfuggire; al- l’imperativo, al comandamento, la tua libertà può dire sì, oppure no. Quando parliamo di comandamento dell’amore - come di ciò che è tipico della morale cristiana - dobbiamo guardarci dall’inten- derlo nel senso di una necessità ineludibile, o un cappio cui non si può sfuggire; dire comandamento dell’amore significa affermare che l’amore ha in sè una forza talmente creativa e rara che solo nella libertà può essere accolta e ricambiata. Ecco perché Dio non co- stringe l’uomo ad amare, ma gli comanda di amare.
Il comandamento dell’amore: l’amore con cui Dio ama noi è crea- tore, e l’amore con cui noi rispondiamo a Lui partecipa a quella sua creatività. È un punto, questo, che forse richiede qualche chiari- mento in più perché questa è un’altra componente divina che pro- prio nel mistero dell’Incarnazione è scesa alla nostra portata, al no- stro livello. Non che l’umanità non conoscesse l’amore prima del- l’Incarnazione del Verbo, ma quello che conosceva era l’amore solo e semplicemente umano: philìa - per dirla con il linguaggio greco del NT - cioè quell’amore di amicizia che lega tra loro le persone in base a vincoli di affinità o di simpatia; oppure l’amore di eros, che non è da sottovalutare ma che al massimo arriva ad essere un buon intreccio di egocentrismi... L’amore divino, quello che si esprime come tensione pura e disinteressata a far vivere, a promuovere la persona amata, senza alcuna attesa di contraccambio, questo amo- re - che il NT chiama agàpe - è tipico di Dio: è la forma umana che assume l’amore di Dio allorché si rende operoso e attivo tra gli uo- mini. Questo amore, il mistero dell’Incarnazione l’ha abbassato alla nostra portata: in che senso? Nel senso che è nella nostra carne, nella nostra esperienza umana, che è diventato possibile amare “da Dio”: Gesù è il Figlio di Dio incarnato che ha amato da Dio ma con cuore d’uomo; non solo: ciò facendo, Egli ha reso possibile ad ogni cuore d’uomo di amare da Dio, con l’amore stesso di Dio: l’amore di agape. L’espressione del Vangelo di Giovanni “Amatevi come io vi
voi di amarvi gli uni gli altri. Fatelo, come l’ho fatto io”. Incarnazione dell’amore vuol dire, per noi, abilitazione ad amare con l’amore stesso di Dio. L’amore divino di agàpe mi fa nuovo come soggetto, come individuo (è creatore infatti l’amore di Dio!), per cui sono esattamente io che amo, ma in forza del dono d’amore che mi viene da Dio. Tutto il discorso che ho fatto su Dio che rispetta, interpella, coinvolge la mia libertà, ha questo risultato alla fine: sono io ad essere ricreato, sono proprio io ad amare con amore divino di agàpe.
Un’ idea abbastanza imprecisa, se non sbagliata, è quella che deriva da una lettura frettolosa della parabola del giudizio finale di Matteo 25,31-46. Saremo giudicati sulle opere di misericordia che avremo compiuto verso i bisognosi: “tutto quello che avrete fatto al più pic- colo dei miei fratelli, è a me che l’avete fatto” dice il Signore. Per cui si sentono certi cristiani affermare “ma io, con tutta la buona volon- tà, non riesco a vedere Gesù Cristo nei poveri, nei barboni, negli extracomunitari... o nella suocera anziana e arteriosclerotica...”. Ma chi l’ha detto che ci devi vedere Gesù Cristo? Non è affatto normale vederci Gesù Cristo, anzi, non è nemmeno la condizione richiesta per amare veramente in modo autentico e sincero. Quel giorno - stando alle parole di Gesù - non soltanto i malvagi, ma anche i giusti (i santi!) chiederanno: Quando mai Signore ti abbiamo visto affama- to, o nudo, o senza casa...? Ciò significa che non l’hanno affatto visto, ma hanno semplicemente fatto ciò che la situazione richiede- va di fare. E questo basta. Se Dio, incarnandosi, ha amato l’uomo con l’unica motivazione di salvare e di far vivere l’uomo (perché
“l’uomo vivente è la gloria di Dio” dice S. Ireneo), ciò vuol dire che tu ami veramente da cristiano solo se destinataria del tuo amore è quella persona lì, con le sue realissime e tipiche esigenze e necessi- tà. Solo se ami veramente quella persona, senz’alcun altro obiettivo o interesse (neanche quello di ottenere Paradiso), solo allora tu ami con amore di agàpe, cioè un amore divino. È questione di chiarez- za, in fondo, una chiarezza che ci viene - va ripetuto - dal prendere sul serio proprio il Mistero dell’Incarnazione.
Quali le conseguenze, allora? Vediamone alcune.
• È Dio che viene a cercare l’uomo. Questo non può non costitu- ire un paradigma di comportamento nella Chiesa. L’atteggia- mento con cui relazionarsi all’altro non può essere quello del- l’attesa che sia l’altro a venire da me, a fare il primo passo, o al massimo della mia disponibilità ad accoglierlo (se viene). Molti atteggiamenti - nella vita della Chiesa prima ancora che all’in- terno delle nostre famiglie - sono proprio da rivedere a questo punto.
• Il fatto poi che, nel suo apparire tra noi, Dio accantoni le sue prerogative divine - quelle che lo porrebbero almeno un gradi- no sopra - e si ponga invece sullo stesso piano degli uomini, solidale con la loro precarietà, esposto ai rischi delle delusioni, dell’affaticamento, della stanchezza, tutto questo - lo sappiamo - non può essere interpretato come strategia; tutto questo è rispetto dell’uomo, della sua svilita ma pur sempre reale digni- tà, della sua libertà. E se Dio si comporta così nei confronti dell’uomo - Lui che è l’unico che lo conosce bene perché l’ha creato - vuol dire che l’uomo è davvero degno di essere acco- stato solo così: con rispetto, con discrezione, su un piano di pari umanità, senza avvalersi di quegli orpelli o espedienti di superiorità che avrebbero l’effetto di sedurlo o di conquistarlo, ma non di convincerlo. Il Verbo di Dio che s’è fatto carne, non è diventato un super-uomo, ma semplicemente un uomo nor- male. Nella vita di coppia e di famiglia ci sono a volte situazioni problematiche nelle quali si è portati a pensare che la soluzione starebbe nell’essere super-uomini o super-donne... cioè nell’as- sumere atteggiamenti o comportamenti che esulano dalle no- stre reali possibilità. No, affatto. Il Mistero dell’Incarnazione ci ricorda che la soluzione sta nell’essere semplicemente umani, con tutta la povertà, ma anche l’autenticità, dell’umano.
• Dio ha accettato molti limiti allorché si è incarnato tra gli uomi-
ni. Mi pare che qui si deve trarre una conseguenza che è un elemento da mettere in preventivo in tutte le nostre relazioni:
l’accettazione del limite. Limite che risulta da molte compo- nenti, limite che ha molte facce: è il limite che c’è in me, anzi- tutto, nella mia personalità; è il limite che riscontro senz’altro nell’altro; è il limite che prende talora la forma dell’ineluttabile, per cui la situazione è così e non la posso cambiare, o perlome- no non la posso cambiare al ritmo con il quale vorrei io che cambiasse... Accettazione del limite è un atteggiamento attivo e positivo: non è subire il limite perché non c’è altro da fare.
Quando noi diciamo: “eh, dobbiamo accettare i nostri limiti”...
sottintendiamo: “perché non possiamo far altro”. No, accettare il limite non è subire la situazione perché non si può far altro...
(un atteggiamento, questo, che tra il resto lascia la situazione inalterata e indisturbata). Accettazione è atteggiamento attivo:
è fare buon viso di fronte a certa realtà, ma con la certezza che è l’unico modo giusto per trasformare quella realtà. Accettazio- ne è come trasformare anche il limite: da freno, da intralcio qual’è, in materiale di costruzione.
• “Tocchiamo pure ferro” come si suol dire, ma non nascondia- moci il fatto che certe situazioni di fallimento, di perdizione, si affacciano anche nelle migliori famiglie. Ebbene, se Dio si ac- costa con rispetto e con discrezione anche a quell’uomo, che tutti considerano perduto o irrecuperabile, ciò vuol dire che ogni persona - per quanto irrecuperabile secondo l’umano buon senso - è degna di essere accostata soltanto così. Per quanto deturpata dal peccato, dalla miseria, dalla degradazione mora- le, la sua dignità rimane: quella persona è pur sempre degna di accostamento discreto e rispettoso.
• Se Dio stesso poi, incarnandosi e andando alla ricerca dell’uo- mo, si espone al rischio della delusione, della frustrazione, del- la stanchezza, ciò vuol dire che, nell’esercizio delle nostre re-
sponsabilità sugli altri (proprio a partire dalla famiglia), questi stessi rischi non solo vanno messi in preventivo, ma dobbiamo modellarci una spiritualità tale che ci consenta di accettarli di buon grado, o perlomeno senza drammatizzare troppo. Una spiritualità che si gioca anzitutto su questo dato di fatto: anche Dio conosce esperienze così; le ha vissute anche il Figlio di Dio.
• Ho insistito sul fatto che l’amore creatore di Dio - l’agàpe - si presenta con l’esigenza dell’imperativo, del comandamento:
l’agàpe ha in sè una tale forza creativa che solo nella libertà può essere accolta e ricambiata. Ecco un altro dato, connesso con il mistero dell’Incarnazione, che ha salutari risonanze per noi. Troppo spesso siamo tentati di valutare i risultati del nostro impegno con parametri da marketing, cioè gli stessi che si uti- lizzano sul mercato, come se il prodotto che offriamo fosse da catalogare tra quelli - appunto - di mercato. No, non possiamo accettare che i valori che ci fanno vivere, e che cerchiamo di istillare pazientemente nei figli, decadano a livello di mercato, che è come dire: non amareggiamoci troppo se le discoteche si riempiono e le chiese si svuotano, se gli adolescenti sono attratti più dal motorino che da Gesù Cristo, o se molti tra gli adulti sono più propensi a rinnovare il look o la macchina che non la loro mentalità di Fede... È fin troppo normale che sia così! Sa- rebbe perfino strano se non fosse così: vorrebbe dire che la Fede (e con essa i valori più preziosi che ci fanno vivere) si è talmente deteriorata da essere semplicemente un prodotto da supermercato... E invece quello che Cristo offre all’uomo è un amore divino e creatore che solo la sua libertà può accogliere ed apprezzare. Quindi niente orpelli per convincere, niente persuasori occulti, ma solo un accostamento povero e pieno soltanto di umanità: questo è lo stile che si addice al comporta- mento cristiano.
• Che se poi quell’accostamento non porta i risultati che vorrem-
mo, non ci è consentito trarre giudizi, tipo “quello lì non ne vuol sapere... a quello lì non interessa niente... tanto vale la- sciar perdere!”. Cristo non ha mai lasciato perdere, nemmeno di fronte a Giuda che lo tradiva: l’ultima parola che gli ha detto è stata “Amico!”. Il mistero dell’Incarnazione ci induce a non disperare mai di fronte a nessuno, perché il Verbo di Dio è venuto a cercare e salvare proprio ciò che era perduto.
“Il Mistero dell’Incarnazione”
2 . Riscatta e trasfigura la nostra “profanità”
Quando si guarda il mondo dalla prospettiva religiosa, una delle prime suddivisioni che si è portati a fare è quella tra sacro e profano:
ci sono luoghi sacri, tempi sacri, persone sacre, e ci sono luoghi, tempi e persone del tutto profani. I primi abbondano, i secondi sono relativamente pochi. E che siano state proprio le persone religiose a operare una tale distinzione lo conferma il fatto che profano è una parola composta: pro-fanum, dove fanum significa il luogo sacro e pro- davanti: quasi a dire che lo spazio che conta è solo quello sacro, quell’altro è al suo servizio, gli fa da anticamera.
Perché mai in tutte le religioni si è ragionato in termini di sacro e di profano? Il fatto è che si è sempre pensato - anche nell’antica visua- le biblica - che la vita mondana delle persone, tutta piena di feriali- tà, non fosse adatta a fare da luogo di incontro con Dio, e tantome- no lo fosse il mondo. D’altra parte l’uomo non può salire in cielo e entrare nel mondo di Dio. Allora che si può fare?
Ecco la soluzione: l’incontro può avvenire in un ambiente di mezzo tra cielo e terra, appunto l’ambiente del sacro (il tempio); è un am- biente separato dal mondo e in qualche modo abitato da Dio. Tale incontro poi richiede non solo un ambiente, ma anche l’intervento di persone che siano anch’esse sacre e separate (i sacerdoti); tempi specifici: sacri e separati dagli altri (le Feste); gesti tipici: sacri e par- ticolari (i riti); offerte adeguate: cose o animali sacri, cioè sottratti dall’ambiente profano (i sacrifici). In tutto questo si noterà che il
zio, tempo, persone, cose) dev’essere nettamente distinto dal resto, cioè separato. Ne consegue che, per poter rendere culto a Dio, l’uo- mo deve uscire dalla sua vita mondana, dalla sua profanità, e trasfe- rirsi per un po’ come su di un’isola; salvo poi ad abbandonarla per rientrare nel suo habitat profano. “L’esistenza di un uomo così risulta dissociata, ha qualcosa di schizofrenico alla radice” (G. Barbaglio):
la vita profana va tutta per conto suo e la vita religiosa anche, senza che vi sia integrazione tra le due.
Una tale distinzione è antichissima, è tipica di tutte le culture; an- che nel cristianesimo ha preso piede. Ma, a rigor di termini, ha ra- gion d’essere nella Fede cristiana una tale distinzione?
Se è vera l’affermazione del Papa - dalla quale eravamo partiti ieri - secondo la quale il Cristianesimo si differenzia dalle altre religioni perché qui è Dio che viene alla ricerca dell’uomo, allora ciò signifi- ca che il primo a superare la soglia del sacro per uscire nel profano è stato Lui. A dire il vero la novità non è assoluta al cento per cento:
già nell’AT gli ebrei avevano capito che il luogo in cui Dio si manife- sta, si rivela, è la storia degli uomini con quelle situazioni concretis- sime - sia individuali che collettive - di cui è fatta. Il Verbo di Dio non poteva incarnarsi tra gli angeli: non solo perché gli angeli non hanno carne e sono puri spiriti, ma anche perché gli angeli - come dice uno scritto del NT, la lettera cosiddetta agli Ebrei - non avevano bisogno che lui si prendesse cura di loro; gli uomini invece sì. E poi- ché gli uomini “hanno in comune la carne e il sangue, anch’egli ne è divenuto partecipe” (Cfr 2,14-16). Quindi ha lasciato l’ambito sa- cro del suo Paradiso (cosa di più sacro del Paradiso?) ed è venuto nel mondo, che è tutt’altro che un paradiso: cosa di più profano, di più mondano del mondo?
La profanità, a guardar bene, ha caratterizzato fuori e fuori tutto l’evento di Gesù, dall’inizio alla fine. (Quando si dice Incarnazione - lo ripeto - non si intende riferirsi soltanto a quei nove mesi in cui Maria l’ha formato nel suo grembo; incarnazione è tutto il soggior- nare di Dio come uomo tra gli uomini: anche la morte in croce è
solo un corpo di carne, infatti, può morire e risorgere...). Tutto que- sto evento, che è la vita del Figlio di Dio su questa terra, ha avuto come palcoscenico la profanità: è una conclusione che si impone, se percorriamo i vangeli.
Infatti
• nasce in una borgata a sud di Gerusalemme: Betlemme; era la città di David, d’accordo, ma se Gesù è il Figlio di Dio perché non nascere nel tempio di Gerusalemme, o almeno entro le mura della città santa? La logica religiosa vuole che Dio, se ha bisogno di una dimora, se la cerchi in un tempio, in un santua- rio, non in una stalla.
• E se è giusto che alcuni vadano a trovarlo, è conveniente che costoro siano esperti di Dio, sacerdoti o scribi quantomeno, non dei semplici pastori che non sanno nemmeno dove sia il tempio perché tanto loro son sempre fuori con le pecore... Tra le professioni sconsigliate a un buon ebreo c’era anche quella del pastore al tempo di Gesù. Cosa di più profano dell’ambien- te dei pastori?
• Non solo, cosa di più profano di una situazione di emergenza?
La vita profana, la vita di ogni famiglia in fondo, ha anche que- sta caratteristica: è fatta di grattacapi, di grane, di situazioni inat- tese e storte, di decisioni prese in alto loco da chissachì e delle quali siamo noi a dover pagare le conseguenze quando meno ce l’aspettiamo (se non altro in termini di prezzi e di bollette che crescono), è fatta - la vita profana - di imprevisti che rom- pono la tranquillità di una famiglia e mandano all’aria certi pro- getti... anche questa è profanità. Come il fatto di un editto im- periale che costringe la gente a scomodarsi e a fare chilometri e chilometri per andare a farsi registrare lì dove ha le radici; e devono farlo tutti, comprese le donne, anche se sono incinte e avrebbero tanto bisogno di starsene a casa. Ma se è Dio a gui- dare gli eventi, non poteva avere riguardo per la nascita di suo figlio e collocarla in un momento più normale invece che in un
momento di emergenza come quello? Cosa di più profano di una situazione così?
• E cosa di più mondano di una fuga per mettersi in salvo, del vivere da profughi in un paese straniero?
• Al rientro, poi, il Verbo di Dio incarnato vive e cresce come ogni altro bambino del suo paese, imparando a fare quello che vedeva fare da suo padre: il carpentiere. Fosse stato un rabbi- no, almeno! No, proprio un carpentiere. Sì, i vangeli dicono che Gesù cresceva in età, sapienza e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini, ma non che questo dovesse significare se- parazione o distinzione dagli altri; tant’è vero che quando, un giorno, prenderà la parola per dire le cose di Dio, tutti si mera- viglieranno e si domanderanno stupiti: “Ma non è il figlio del carpentiere?”. L’esistenza di Gesù, in quei trent’anni di Naza- ret, è stata totalmente profana come quella di ogni altro (ci ri- fletteremo domani).
• Quando poi arrivò il momento di cominciare a rivelarsi per quello che era, e di dire le cose per le quali era venuto nel mondo, scelse come palcoscenico la Galilea. Avrebbe dovuto essere Gerusalemme il luogo adatto per questo: il tempio, i sacerdoti, i dottori della legge di Dio... quello era l’ambiente adatto per un momento e per un evento di tale portata. La Galilea, invece, era lontana da Gerusalemme; non tanto geo- graficamente, quanto culturalmente, religiosamente. Sì, c’era- no ebrei in Galilea ma, o erano ebrei all’acqua di rose, o i paga- ni erano molti di più se Matteo la definisce “Galilea dei paga- ni”. Gente povera, per la gran parte, povera in senso economi- co e povera anche di senso religioso. Gente che si chiede: che c’entra Dio con la vita dura di ogni giorno? Con il lavoro (per cui bisogna mettersi in piazza la mattina e aspettare che qual- cuno ti prenda a giornata), con gli affari (onesti, come quelli dei pescatori del lago, o disonesti, come quelli di Levi il pubblica- no), con le tasse da pagare a Erode Antipa, con l’esistenza da
da mangiare mica gli puoi dare un sasso al posto del pane)?
Che c’entra Dio con tutto questo? A Gerusalemme tutto era sacro, anche le pietre; in Galilea invece tutto è profano. Lo stra- no è che proprio in quell’ambiente Gesù annuncia: “Il Regno di Dio è vicino”. Vicino significa “vicino a voi”, proprio qui, in questo ambiente. E in parole ed opere Gesù ne dava dimostra- zione, segnali evidenti, proprio dentro la quotidianità monda- na di quella gente. A queste conseguenze giunge il Mistero del- l’Incarnazione di Dio dentro la storia degli uomini.
• Ma la sorpresa non finisce qui. Tutto l’evento di Gesù, dicevo, è caratterizzato dalla profanità. Anche la morte: per due motivi, almeno. Il primo ho già avuto modo di dirlo in riferimento alla nascita: se proprio il Figlio di Dio doveva morire era più che conveniente che ciò avvenisse nella Città santa. In un certo sen- so anche Lui era di questo parere: “Non è opportuno - diceva - che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”. Ma a Gerusalem- me non vedevano in lui il Figlio di Dio e pertanto l’hanno por- tato a morire fuori dalla città, come un condannato: ecco l’altro motivo che caratterizza di profanità la morte di Gesù. La sua non è stata la morte gloriosa dell’eroe, è stata la morte infame di un condannato.
• Non celebrazioni, non manifestazioni sacre alla sua morte, anzi, tutt’altro: l’han tirato giù in fretta dalla croce e sepolto in un sepolcro di fortuna perché stava cominciando la grande solen- nità di Pasqua e non si poteva sporcarla con la lugubre immagi- ne di un maledetto appeso al patibolo (“Maledetto chi pende dal legno” afferma la Bibbia). Non so se riuscite a percepire la mostruosa contraddizione che c’è in questo fatto: gli uomini si chiudono dentro i confini spaziali e temporali del sacro per ce- lebrare Dio, ed ecco che Dio - in suo Figlio, Verbo fatto carne - è fuori da quei confini, fuori da quello spazio. Dio è da tutt’altra parte. Cosa di più mondano di un patibolo e di un sepolcro di fortuna? Lì è il Figlio di Dio, non alla festa.
• Quanto alla risurrezione - l’evento fondamentale nell’annun- cio cristiano - essa sarebbe avvenuta nel giorno dopo il Sabato, il primo giorno della settimana. Ci vuol poco a intuire che equi- valeva al nostro Lunedì. C’è un giorno più monotono e più fe- riale del Lunedì? Tutti i giorni della settimana sono profani; il Lunedì lo è più di tutti.
• Nulla di strano a questo punto che anche i fatti che seguono siano nella linea di quelli che hanno preceduto. Le donne quel- la mattina al sepolcro si son sentite dire così: “È risorto. Non è qui. Dite ai suoi discepoli che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. Anche da risorto, è la profanità il terreno che preferi- sce; è là che i suoi lo incontreranno. Profanità, come quella dell’andar per strada, motivati da impegni più o meno abituali che si devono assolvere (è in quella profanità che l’hanno in- contrato quei due che andavano a Emmaus); o profanità del lavoro, come quella degli apostoli, il cui mestiere era di andare a pescare sul lago di Tiberiade (è in quella profanità, alla fine di una notte buttata via senza prender niente, che Gesù risorto li attende).
A questo punto la conclusione si impone. La traggo con le parole di un esegeta italiano (Giuseppe Barbaglio): Gesù è stato un laico nella società giudaica del suo tempo. Sì, nella sua incarnazione il Figlio di Dio non ha assunto i connotati di una personalità sacra - come un sacerdote, ad esempio - ma quella del laico, e come tale si è com- portato. “È noto che il Signore nostro proviene dalla tribù di Giuda - annota la lettera agli Ebrei - e questa tribù non ha niente a che vedere col sacerdozio” (7,14).
Ciononostante, proprio quella stessa lettera agli Ebrei è l’unico scrit- to del NT che definisce Gesù “sacerdote”, anzi “gran sacerdote”.
Ma allora cos’è accaduto per trarre una conclusione del genere? Se tutta la sua esistenza incarnata tra gli uomini l’ha vissuta all’insegna della profanità, com’è possibile parlare di lui come del nostro gran sacerdote? È appunto qui la novità. Mentre i sacerdoti degli Ebrei - i
do e dagli uomini (e per tutto il tempo che erano sacerdoti doveva- no starsene distanti per non contaminarsi), il Figlio di Dio invece ha fatto il tragitto opposto: separato e distante lo era da tutta l’eterni- tà, sommo sacerdote lo è diventato abolendo quella separazione e assimilandosi in tutto con gli uomini, diventando fratello tra fratelli.
Sempre quella lettera agli Ebrei lo afferma molto chiaramente: “...do- veva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sa- cerdote misericordioso e degno di fiducia... Non possiamo più dire che il sacerdote che abbiamo non ci capisce, non comprende le nostre infermità, dal momento che - tranne che per il peccato - ha vissuto lui stesso da uomo come noi” (2,17; 4,15).
Certo, ogni sacerdote è tale perché celebra, perché offre sacrifici a Dio. Anche qui, però, la posizione di Gesù è tutta originale: lui non ha offerto qualcosa; ha offerto se stesso: l’ha fatto in obbedienza a Dio, il Padre, e per solidarietà con gli uomini. Un sacrificio che ren- de superfluo e inutile ogni altro sacrificio, tanto perfetto che non c’è alcun bisogno di aggiungerne altri; e Gesù stesso, laico, attraverso quell’atto vissuto in piena profanità, è diventato un sacerdote, anzi, il sacerdote per eccellenza. Il nostro sommo Sacerdote. Ma tutto ciò, torno a ribadirlo, fuori dal sacro: il Calvario non era un luogo sacro, non era sacro il giorno in cui è morto, nè il giorno che è risorto. Tutto questo è avvenuto nel mondo.
Insomma, non c’è più il sacro e il profano, c’è soltanto la vita, che attende di essere vissuta con un certo spirito, e la realtà, che va affrontata con un certo stile. Gesù l’aveva preannunciato, a dire il vero, quindi c’era da aspettarselo. “Distruggete questo tempio - ave- va detto - e io in tre giorni lo riedificherò...”. Lasciava intuire con questo che se d’ora in avanti c’è bisogno di un tempio, questo non sarà più uno spazio sacro limitato da mura, ma sarà una presenza, una persona: Lui stesso. Parlava di se stesso Gesù. Così come quan- do disse alla donna samaritana, interessata a sapere in quale santua- rio fosse preferibile adorare Dio, rispondeva: “Basta santuari! Basta spazi sacri: d’ora in poi è in spirito e verità che adorerete il Padre!”.
Voleva dire: è nella vita che incontrerete Dio, se lo vorrete incontra-
In altre parole Egli ha abbattuto la separazione tra mondo di Dio e mondo degli uomini, tra ambito sacro e ambito profano. Non ha più ragion d’essere. Ma non solo non ha ragion d’essere: se ci si inserisce nella sua logica, se si entra al suo seguito, non ci deve più essere separazione. E con quali conseguenze?
La prima è questa: se è vero che Dio ha scelto il mondo e non il tempio come luogo per realizzare la sua salvezza, per noi credenti, e per la Chiesa tutta, il bene del mondo viene prima del nostro bene particolare: di singoli, di famiglie, di Comunità, o di Chiesa tutta intera. Viene prima, e ci deve stare a cuore maggiormente, e lo dobbiamo promuovere con più decisione. Quel bene ha la priorità.
Questo va detto a chiare lettere soprattutto quando - non solo a livello di politica, ma anche all’interno della Chiesa - gli interessi particolari sembrano avere la priorità sul bene di tutti. No, Dio ha amato il mondo, non gli orticelli; il Figlio di Dio si è incarnato nella profanità di tutti. La passione cristiana per la salvezza del mondo richiede che il bene di tutti venga prima di ogni bene particolare.
Non possiamo pensare a una salvezza soltanto nostra, lasciando che il mondo vada per la sua strada. O vogliamo salvezza per tutti, o non c’è alcuna salvezza: nè per il mondo nè per noi. Lo specifico del cristianesimo non sta nel fatto che al suo interno ci sarebbero particolari garanzie o particolari opportunità di salvezza, ma nella vocazione a proclamare una salvezza che è per tutti, offerta a tutti.
Tra mondo di Dio e mondo degli uomini non ci deve più essere separazione. Gli apostoli, e i primi discepoli, tutto questo l’avevano ben capito; avevano compreso che qui avveniva una specie di rivo- luzione nel modo di pensare e di rapportarsi a Dio. Lo dimostrano diversi particolari che è opportuno prendere in considerazione.
Nelle prime comunità cristiane non ci sono sacerdoti. Anzi, per pa- recchio tempo non si parlerà affatto di sacerdoti nel cristianesimo.
L’ebraismo invece straripava di sacerdoti. Il cristianesimo si staccò nettamente dall’ebraismo e lo si vide anche da questo fatto: non c’erano sacerdoti nel Cristianesimo. I responsabili delle Comunità
noi), sorveglianti (epìscopoi): presbiteri, diaconi, vescovi... oggi que- ste parole ci richiamano certamente persone sacre, ma allora non era affatto così; allora quei nomi erano comuni e indicavano sem- plicemente stati di vita o ruoli del tutto profani. Ma il culto, la litur- gia, chi li celebrava? Chi li presiedeva? A rigor di termini non c’era culto, non c’era liturgia; i cristiani si radunavano per pregare, ma quel raduno non lo chiamavano culto; si riunivano per ascoltare l’insegnamento degli apostoli, ma non c’entrava col culto; l’Eucari- stia, certo che la celebravano, ma non la consideravano culto o li- turgia, la chiamavano “Cena del Signore”. Chi era il sacerdote che la presiedeva? Nessun sacerdote, erano semplicemente gli anziani a presiederla, o il sorvegliante (epìscopos), forse anche i diaconi certe volte...
Non c’erano sacerdoti, dicevo, ed è vero, ma adesso devo comple- tare questa affermazione, che altrimenti risulterebbe parziale: non c’erano individui particolari che avessero la qualifica di sacerdoti perché tutti si consideravano sacerdoti. Ne fanno testo quelle belle parole di Pietro ai primi cristiani dell’Asia Minore: “Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale...”: voi, tutti insieme, che credete in Gesù Cristo, siete un popolo di sacerdoti. E da quando i cristiani si trovano addosso questa identità? Dal giorno del Battesimo: quel giorno ven- gono “immersi” (battezzare vuol dire immergere), cioè inseriti, inne- stati in Gesù Cristo; diventano membra del corpo di Gesù Cristo. E chiunque è inserito, innestato in Gesù Cristo, di conseguenza parte- cipa alle sue prerogative: è Figlio di Dio? Anche tu diventi figlio di Dio. È pieno di Spirito Santo? Anche tu condividi il suo Spirito. Non abbiamo detto che Gesù Cristo è il nostro unico sommo Sacerdote?
Allora tu partecipi anche al suo Sacerdozio. Ecco perché tutti i cri- stiani costituiscono un popolo di sacerdoti.
Sì ma, se sono sacerdoti dovranno anche celebrare, cioè offrire a Dio un culto. E se tutti sono sacerdoti, allora non ci sono templi a sufficienza per tutti! Difatti non occorrono i templi. Non sono più necessari. È fuori che celebrano questi sacerdoti. Ai cristiani di Roma, Paolo scrive così: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di
Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla men- talità di questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra men- te, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (12,1.2). Notate il senso delle parole: Paolo invi- ta ad offrire (è l’azione sacra del sacerdote), parla di sacrificio gradi- to (era preoccupazione dei sacerdoti del tempio che i sacrifici fosse- ro adeguati, cioè graditi), culto. Quando gli ebrei sentivano pronun- ciare parole come queste, pensavano senz’altro al tempio di Geru- salemme e a tutte le cerimonie che vi si svolgevano; ma per i cristia- ni ora quelle parole acquistano tutt’altro riferimento: non più alle cerimonie del tempio, ma alla vita si riferiscono; la vita profana e quotidiana di ognuno vissuta con un certo spirito, secondo un certo stile. Il culto che sono invitati a celebrare - anzi, che è loro compe- tenza celebrare - è la vita, la vita nella sua interezza.
Cosa vorrà dire celebrare il culto della vita? Paolo esorta i cristiani a fare una liturgia, ma questa non ha nulla di rituale e di sacro: l’offer- ta infatti riguarda non qualcosa che hanno, prendono e offrono a Dio, ma i loro stessi corpi, cioè loro stessi come persone che si rela- zionano a Dio, agli altri e al mondo nella vita di ogni giorno. Nella loro esistenza mondana di ogni giorno loro sono sacerdoti e offerta nello stesso tempo. Culto spirituale può diventare la vita: spirituale qui non significa certo evanescente o inconsistente, ma logico, ade- guato; l’unico culto adeguato che piace a Dio è questo. Pietro, in quella sua lettera ai cristiani dell’Asia Minore, ci dice qualcosa di analogo: “Stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacer- dozio santo, per offrire sacrifici spirituali a Dio graditi, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,4.5). Edificio spirituale, sacerdozio santo, sacrifi- ci spirituali... Spirituale qui ha a che vedere con Spirito santo: ecco l’energia, il fuoco (!) che fa salire quel sacrificio fino a Dio. Ma ciò che si ha di mira è sempre la stessa cosa: la vita.
E quand’è che la vita diviene offerta adeguata, sacrificio davvero
gradito a Dio? Non basta una vita qualsiasi, un vivere in modo qual- siasi. In quel breve passo della lettera ai Romani che ho citato, Pao- lo indicava anche le condizioni per le quali la vita diventa un’offerta gradita a Dio: “Non conformatevi alla mentalità di questo mondo”;
in questo mondo non mancano i fermenti di male e di morte: Paolo esorta a prendere le distanze, a essere anticonformisti; e continua:
“ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Non basta prendere le distanze dal male, occorre sapere dove sta il bene (discernere, dice Paolo) e mettervi mano. In altre parole, il culto che offrono a Dio i credenti consiste nel prendere le distanze dall’ego- centrismo del mondo vecchio, nel trasformarsi e rinnovarsi di conti- nuo in profondità, per discernere ciò che nella vita quotidiana è il bene - la volontà di Dio - e farlo. Quanto alla Liturgia, sì anche Paolo usa questa parola, ma non per indicare ciò che intendiamo noi:
liturgia per Paolo è il servizio che si offre a chi è nel bisogno, mossi dalla carità (cfr. 2Cor 9,12). Il loro sacerdozio comune i cristiani lo esercitano così.
Non dobbiamo ricadere, tuttavia, in quella visuale di separatezza che abbiamo appena denunciato: a dare spessore al culto della vita non sono soltanto le azioni o i comportamenti insaporiti da un’espli- cita motivazione di Fede (come le scelte coraggiose e qualificate per coerenza, i gesti di carità, le prestazioni di volontariato, i servizi tipi- camente ministeriali). Se è vero, come è vero, ciò che s’è detto sulla solidarietà del Figlio di Dio con gli uomini e sul fatto che proprio questa è componente costitutiva del suo Sacerdozio, ne consegue che è la vostra esperienza quotidiana di famiglia quella che voi po- tete qualificare come culto e liturgia gradita a Dio. E lo diventa ogni qualvolta l’umano (l’umano delle persone, dei loro problemi, delle loro aspirazioni...) vi trova in atteggiamento di attenta recettività, direi addirittura di venerazione. La disponibilità ad ascoltare o, an- cor prima, l’interessamento rispettoso che porta a informarsi delle situazioni, la schietta condivisione di ciò che rende lieti o che fa soffrire (“rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con
silenzio quando le parole si rivelano povere, l’ “esser vicini” con tutta la carica che quest’espressione può assumere, tutto ciò - da quando il Verbo di Dio ha condiviso l’esperienza umana - ha in sè una qualifica che è già in se stessa “religiosa”: non può non trovare il gradimento di Dio, quello stesso che caratterizza quel “sacrificio spirituale” di cui parla san Paolo.
Che senso ha allora l’Eucaristia, la Messa, come la chiamiamo noi?
Se il culto è la vita, il fare la volontà di Dio nella vita, che senso ha andare a Messa? La Messa, l’Eucaristia è l’occasione che illumina e motiva un’esistenza vissuta così. In quella sua Cena il Signore ha detto: “Prendete, mangiate e bevete... è per voi!”. Per voi significa:
per la vostra vita; perché voi possiate fare della vostra vita una litur- gia, un vero culto a Dio. La Chiesa insegna a questo riguardo che l’Eucaristia è la fonte e il culmine di tutta l’esistenza cristiana. Non è possibile avere in se stessi quei motivi, quella carica che fa di tutta la vita una liturgia, un’offerta gradita a Dio, se si prescinde dall’Eucari- stia: è all’Eucaristia che si attingono quella carica e quelle motiva- zioni. Nello stesso tempo è altrettanto vero che nella vita di tutti i giorni non sempre si può avere la chiara coscienza di quel sacerdo- zio che ci caratterizza, o la consapevolezza che - facendo quella tal cosa - stiamo offrendo a Dio un sacrificio (è già abbastanza che ci si preoccupi di farla bene, come piace a Dio); ecco, allora, che nel- l’Eucaristia quella coscienza può diventare esplicita: là siamo davve- ro offerenti e portiamo consapevolmente tutto quello che nella vita abbiamo fatto e vissuto.
C’è un’ultimo chiarimento da aggiungere. Se la qualifica di sacerdo- ti, in forza del Battesimo, compete a tutti i cristiani senza discrimina- zione alcuna, che ci stanno a fare allora i preti? E come mai si chia- mano sacerdoti soltanto loro? Alcuni, con accenti un po’ polemici, affermano che la sacralità, la distinzione tra sacro e profano, tende sempre di nuovo a rientrare, e che in effetti è subentrata di nuovo, anche nella Chiesa, nonostante che Cristo l’abbia abolita. C’è del vero in questa spiegazione: quella distinzione, in fondo, risulta mol- to gratificante per tutti; è sempre tanto comodo poter pensare che
con Dio te la cavi in mezz’ora, dentro quello spazio sacro che è il tempio, e poi fuori sei profano e libero di fare tutto quello che vuoi.
È molto più comodo delegare il culto ad alcuni adepti, entro ambiti particolari, che non esercitarlo in prima persona nel bel mezzo della vita, rinnovandosi continuamente nella mentalità - come diceva Pa- olo - per fare sul serio ciò che piace a Dio. La distinzione tra sacro e profano è molto gratificante e molto comoda. Ma è altrettanto vero che nella Chiesa ci devono essere ruoli e mansioni diverse, come quella di presiedere, di insegnare, di esortare. Ma è bene non di- menticare che tutte le mansioni sono appunto servizi, ministeri, cioè devono concorrere all’unico obiettivo: quale? Far sì che tutti possa- no vivere in pienezza la loro identità, la loro vocazione.
Se tutti siamo sacerdoti per il Battesimo, allora ciò che conta davve- ro è che possiamo esserlo veramente, non soltanto di nome; e tutti i ruoli nella Chiesa devono concorrere a questo: sia il ruolo del papa, come quello del vescovo, come quello del prete. I preti, anziché sacerdoti, sarebbe meglio chiamarli “presbiteri”, come nella chiesa primitiva; è meno equivoco. Ma si possono anche chiamare sacer- doti; i vescovi, poi, si dice che hanno la pienezza del sacerdozio. È vero. Ma guai a dimenticare che l’unico vero sommo sacerdote è Gesù Cristo e tutti gli altri partecipano di lui, del suo sacerdozio. In ogni caso, il primato spetta al sacerdozio di tutti, quello che ci viene dal Battesimo. Un teologo italiano (M. Adinolfi) afferma a tale ri- guardo: “Questo sacerdozio comune a tutti i cristiani è il sacerdozio proprio e primordiale della Chiesa. È sacerdozio di primo grado, non superato da nessun altro sacerdozio”. Equivale a dire che se io sono prete - sacerdote - lo sono al servizio del vostro sacerdozio, che vie- ne prima del mio. Come cristiani noi preti siamo sacerdoti con voi, come preti siamo al servizio del vostro sacerdozio.
“Il Mistero dell’Incarnazione”
3 . Riscatta e trasfigura la nostra “quotidianità”
I giornali non riportano mai la notizia che voi - e tanti altri come voi - ogni giorno in casa vostra accudite i vostri bambini, li lavate, li cambiate, gli date da mangiare, poi riassettate i letti, fate le pulizie...
e neanche la notizia che molta gente esce di casa per il lavoro o per gli impegni di tutti i giorni. Non ci sono mai queste notizie sui gior- nali perché queste son cose che non fanno notizia. Eppure sono importanti, tanto importanti che non si smette neppure un giorno di farle. Allora, forse, è evidente che l’importanza non va sempre di pari passo con la notizia: c’è un’importanza che non fa notizia.
Dopo quella strana, anche se divina, scappatella a 12 anni - quando si sottrasse all’attenzione di Maria e di Giuseppe per tre giorni - il Vangelo dice che Gesù “partì con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”.
E con queste poche e scarne parole Luca riassume circa trent’anni di vita: stava loro sottomesso... cresceva in sapienza, età e grazia. Non è che ha speso troppa carta e troppo inchiostro per stilare questa biografia di 30 anni.
Però, visto che si è incarnato tra gli uomini, la regola vale anche per Dio: le cose di ogni giorno non fanno notizia. Ciononostante, quei trent’anni fanno parte del Vangelo a tutti gli effetti; non furono sol- tanto anni di preparazione, anni spesi a diventare grande per poi poter fare tutto quello che ha fatto. Forse che Dio non avrebbe po-
tuto mandarlo nel mondo già bell’e formato, già maturo, e fargli cominciare subito l’opera? Perché fargli buttar via 30 anni in una vita completamente normale, per poi riservare solo tre anni a predi- care il Vangelo?
Anche quei 30 anni sono vangelo. Ah, forse la gente di Nazaret non se n’è nemmeno accorta lì per lì, ma per noi quei trent’anni sono Vangelo. Quella “vita nascosta” che ha condotto (la si chiama così, non so se sia giusto il termine) ha comunque prodotto salvezza, liberazione, redenzione: ha tolto alla vita quotidiana il contrassegno dell’insignificanza; se è vero che Dio stesso ha sperimentato per lun- ghi anni la quotidianità, non si può più affermare che la quotidiani- tà della gente non ha valore, che è insignificante agli effetti della grande storia del mondo. In questo senso è vangelo la vita di Gesù a Nazaret. L’esistenza quotidiana può essere riscattata, redenta dalla monotonia, dalla banalità, anche dal grigiore. Il primo passo, il fon- damento per questa redenzione, l’ha messo Lui: il Verbo di Dio incarnato nella quotidianità degli uomini. L’altro passo di redenzio- ne, di riscatto della vita quotidiana, compete a ogni uomo e ogni donna, e comunque - al seguito di Gesù - è possibile fare quel pas- so. In ogni caso, quando parliamo di incarnazione, pensiamo pure a Betlemme, al Natale, ma pensiamo soprattutto a Nazaret, a quei trent’anni trascorsi a Nazaret: è lì che si tocca con mano cosa vuol dire incarnazione del Verbo tra gli uomini.
A tale riguardo, il Concilio Vaticano II° afferma così in uno splendido testo: “Poiché in lui (Cristo) la natura umana è stata assunta senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata innalzata anche in noi a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uo- mo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel pecca- to”. Splendide queste affermazioni, calibrate con rigore e con solen- nità, quasi per impedire che a qualcuno salti in mente di ridurne la portata: Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uo-
mo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo...
Ecco cosa significa incarnazione. E poiché quel tale che si incarnava così era il Figlio di Dio, ecco la conseguenza: anche la nostra natura umana è stata innalzata a una dignità sublime.
In che termini la dobbiamo intendere? In cosa consisterà? Cerchia- mo di spiegarci, dato che - trattandosi della nostra vita concreta - non è ammissibile restare a livello di teoria. È una dignità sublime soggettiva, per così dire, ma anche oggettiva. Forse possiamo ricor- rere a qualche esempio. Pensate all’abbigliamento: dalle scarpe a tutto il resto. Fin che un certo capo di abbigliamento - per esempio le scarpe da tennis - è prodotto da tante case diverse, la gente (i ragazzi soprattutto) sceglie con una certa indifferenza questo o quello, o quell’altro, in base ai suoi gusti personali. Ma supponete che un certo tipo di scarpe - prodotto da una certa casa - sia indossato da un campione famoso, che si fa vedere in giro proprio con quelle scarpe... e magari ne fa la pubblicità: è ovvio che la gran parte dei ragazzi vorranno comprare quelle. Quelle sì che acquistano valore ai loro occhi... solo quelle valgono come scarpe da ginnastica. Ecco come fa una certa cosa ad acquistare un valore soggettivo: il fatto che qualcuno - molto più importante di me - ha provato, ha vissuto quella cosa, la rende diversa ai miei occhi, più importante, più de- gna di considerazione. Chiedo scusa al Verbo incarnato per un esem- pio così banale e scadente, ma la conclusione resta vera: il fatto che lui abbia vissuto l’esperienza umana - che è comune a lui e a me - la rende diversa ai miei occhi; se anche il Figlio di Dio l’ha fatta sua, forse non è più così banale e scadente come sembrerebbe.
Sì, però... quelle scarpe di cui dicevo, chi mi garantisce che siano davvero migliori di tutte le altre? Lo penso io, ma magari valgono poco in se stesse, o addirittura - per qualità - valgono meno di certe altre. L’esempio, a questo punto, finisce lì e non ci basta più. No, quella dignità sublime che la natura umana ha assunto, non è solo una mia idea, una mia suggestione: è un fatto reale, ha un valore oggettivo in se stessa. Cioè vale veramente di più. E anche qui pos- siamo tentare di spiegarci con un esempio. Noi possiamo parago-
narci a dei costruttori: vivere - si dice - è costruire la propria vita giorno dopo giorno, fino alla fine (non riusciremo mai a completare la costruzione perché il cappello ce lo metterà il Signore). Ora per costruire si adopera del materiale. In natura ci sono tanti sassi e ci sono pietre. I sassi sono pezzi di roccia pesanti, grezzi e grossolani, hanno le forme più strane (un po’ rotondi, molto spigolosi, un po’
allungati) è difficile farli entrare in una costruzione, in un muro fatto a regola d’arte e con una certa eleganza. I sassi valgono poco o niente. Meglio le pietre, le pietre sì che valgono. Le pietre sono state sagomate dall’uomo, hanno una forma quasi geometrica: quadrate, rettangolari, a forma di cubo, di parallelepipedo... insomma hanno qualcosa di artistico in sè. Ah, con queste sì che si può costruire, ed è probabile che le mura della costruzione avranno una certa elegan- za.
Ecco, se il materiale dell’esperienza umana è sempre stato costituito da sassi, grezzi, informi e di scarso valore, ora che il Verbo di Dio ha fatto sua quell’esperienza, quel materiale è cambiato: ora è costitu- ito da pietre di costruzione; pietre che hanno già un valore in se stesse, prima ancora di essere inserite in un muro. (Certamente ci sono esempi anche migliori di questo: la sarta, costretta sempre a lavorare con tessuti scadenti, ecco che ad un certo punto ha a di- sposizione tessuti di qualità, e allora le cose che escono dalle sue mani hanno tutt’altro valore...). Insomma, per tornare al nostro tema, davvero ora la nostra esperienza umana - con tutto ciò che la com- pone - ha acquisito un valore ben diverso.
Natura umana innalzata a dignità sublime: quando si dice natura umana non la dobbiamo pensare in astratto. Natura umana è la concretezza di ognuno di noi, in quella sua età, in quella tipica si- tuazione di vita in cui si trova. Natura umana è quell’impasto di noi e dei nostri impegni di ogni giorno, di noi e delle nostre aspirazioni, di noi e delle nostre esperienze di vita (gratificanti a volte, esaltanti;
talora, invece, deludenti o addirittura molto sofferte). È tutto questo che l’incarnazione del Verbo ha innalzato a dignità sublime.
afferma il Vangelo. Ciò vuol dire che ogni età ha in sè una compo- nente che la rende sublime, anzi, il crescere stesso in età ha in sè qualcosa di sublime. Dal bambino che annaspa sul pavimento di casa perché non sa ancora reggersi in piedi, su su fino all’anziano che annaspa in un altro modo perché magari non sa più reggersi in piedi: il crescere in età non lo possiamo più interpretare soltanto come un andirivieni di abilità (adesso il bambino sa stare in piedi...
adesso quell’anziano non sa più stare in piedi... ecco che il bimbo dice le prime parole... ecco che quel vecchio biascica le parole): è insufficiente ormai diagnosticare con questi parametri. Quella digni- tà sublime sfugge a queste valutazioni. C’è ben dell’altro nella vita oltre che l’andirivieni delle abilità fisico-somatiche.
Il Vangelo afferma che Gesù cresceva non solo in età, ma anche in sapienza e grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini; questa frase la potremmo rendere meglio così: Gesù acquisiva sapienza e cresceva nel favore di Dio e degli uomini. Ciò significa che se il crescere in età è un fatto che non dipende da te, il maturare nella sapienza e nel favore di Dio e degli uomini sì, dipende da te. La crescita in età è un recipiente che tocca a noi riempire di contenuti: non è che li fabbri- chiamo noi, sia chiaro, ci vengono dalla vita i contenuti, dalle espe- rienze della vita; anzi, ad essere più esatti ancora, ci vengono da Dio, ma attraverso le esperienze della vita. Sì, quelle grandi certa- mente, quelle che secondo noi lasciano un segno indelebile sulla nostra personalità; o forse, più spesso ancora, quelle piccole, quelle abituali, quelle alle quali ormai non diamo nemmeno più importan- za, tanto sono regolari, ripetute, sempre quelle. La quotidianità in una parola.
Se Dio ha deciso che il Figlio suo, incarnandosi, trascorresse trent’anni a fare quello che tutti fanno ogni giorno è perché voleva consacrare la quotidianità: era volontà del Padre che Gesù consacrasse la quoti- dianità. E quando si dice quotidianità, ognuno ci metta ciò che è tipicamente suo, ciò che tutti i giorni fa e sperimenta: i gesti di ogni giorno, i passi di ogni giorno, le azioni di ogni giorno... sì, è a tutto questo che il Verbo, incarnandosi ha dato una dignità sublime: non
solo perché tu puoi pensare “anche Gesù ha fatto tante cose così, quindi cerco di farle bene anch’io” (valore soggettivo!), ma perché effettivamente ha trasfigurato, ha impreziosito le cose che riempio- no ogni quotidianità: è in se stesse che hanno un altro spessore, un altro valore, oggettivo appunto. Consacrare è questo.
Io sono convinto che questo terreno della quotidianità merita mol- ta più considerazione da parte nostra, perché qui sta o cade la coe- renza della nostra fede, del nostro esser cristiani sul serio oppure no. Questa importanza deriva dal fatto che i modi con i quali, nella cultura di oggi, si valuta la quotidianità sono diversi e perfino con- traddittori.
Da un lato si ritiene che la quotidianità della maggior parte della gente vale poco o niente, perché è ripetitiva, scontata, piena di con- tenuti che sono sempre quelli e - oltretutto - scarsamente rilevanti:
come si può paragonare il lavoro di un operaio, di un professionista qualsiasi, di una casalinga... con l’importante agenda di un parla- mentare, di un presidente, o di una star? I giornali dal canto loro (che sono una bella invenzione e guai se non ci fossero) vivono in gran parte di novità, più o meno eccezionali (più negative che posi- tive, tra il resto): che senso ha parlare su un giornale di ciò che tutti fanno ogni giorno? E alla TV, forse che si intervistano le persone sulle cose ordinarie? Neanche per idea: solo l’eccezionale ha diritto di cronaca. Caroselli, pubblicità, show di vario genere, presentano squar- ci di vita che, o sono ideali, o sono eccezionali: mai realmente quo- tidiani e abituali. La regolarità, la costanza, la ripetitività non fa noti- zia. E così la gente finisce col crederci; davvero questo la porta a pensare che le cose che fanno la sua vita quotidiana - come il far ordine in casa, star dietro ai figli, l’andare al lavoro... e tutto il resto - non valgono granché, perché appunto non fanno notizia. È un fatto piuttosto drammatico, credo; veniamo come depauperati di qualcosa che ci appartiene, che è tipicamente nostro: il valore della quotidianità. Non la quotidianità in se stessa: questa nessuno ce la toglie (le scale di casa devi continuare a pulirle tu, il lavoro devi continuare a farlo tu: mica viene Maurizio Costanzo a farlo al tuo
posto, e neanche la Carrà...); ma il valore, la preziosità, la dignità del tuo quotidiano ti sono come sottratti. Finisci col credere anche tu che davvero vale poco. E per converso si è portati a ritenere che solo ciò che rompe quella regolarità ha valore alla fin fine: ecco allora che il fine settimana lo si vive con appassionata intensità; ecco che a un appuntamento, a una scadenza, ad un’occasione che rom- pe la routine della vita quotidiana, ci si prepara in anticipo e ci si mette tutta l’anima per affrontarlo e viverlo nel migliore dei modi...
Allora succede che ti senti gratificato in coscienza perché fai un’ora di volontariato, o perché presti servizio in parrocchia (e ce la metti tutta per farlo bene), ma nel tuo lavoro, o nelle tue solite occupazio- ni di casa, spirito ce ne metti poco, perché tanto - pensi - ciò che vale non è ciò che è abituale, monotono, ma è ciò che rompe quella monotonia, ciò che ti porta fuori da quella routine.
Questo per un verso. E per altro verso, al giorno d’oggi, c’è un ritor- no, un gusto strano per ciò che era la quotidianità di una volta (ecco la contraddizione). Alonso Shoekel, mio vecchio professore d’Uni- versità, (che era un bravo poeta e letterato, oltre che biblista), scrive così in un suo libro: “la quotidianità si contrappone a ciò che è eccezionale, a ciò che si soleva considerare storico; oggi gli storici non si conformano ai fatti storici, ma vanno a curiosare nella vita quotidiana di questa o quell’epoca. È una scoperta sensazionale per- ché la maggioranza degli uomini passa la propria vita in un giro di giorni tutti eguali e senza storia, e molti uomini illustri fanno fluire parte della loro esistenza in un corso regolare e quotidiano di eventi.
In lungo e in largo, la vita quotidiana della maggioranza definisce la storia di un periodo, di un’epoca, anche se i protagonisti vorrebbero occupare la scena da soli. Noi facciamo rappresentare la loro farsa, o il loro dramma, ai grandi protagonisti e guardiamo dietro il sipario quella che non è nient’altro che la trafila normale della vita. Ecco che - su quel palcoscenico - si trova Gesù di Nazaret, protagonista nascosto e sconosciuto, nel ritmo quotidiano che sta consacrando”.
Gli anni di Gesù a Nazaret, furono anni privi di racconto (le cose di ogni giorno, abbiamo detto, non fanno notizia), ma furono anni pie-
ni di senso. Questo è un primo significato di quell’affermazione: ha consacrato la vita quotidiana. È il Padre che ha voluto così, per noi e per tutti. Ecco perché quei trent’anni, dei quali i vangeli non riferi- scono niente, sono anch’essi Vangelo, cioè “bella notizia” per noi.
Come avrà fatto Gesù a dare senso a quegli anni, a consacrare la vita quotidiana? Quella volta al Tempio, quando - dodicenne - era stato cercato per tre giorni da Maria e da Giuseppe - lui si giustificò da- vanti ai suoi genitori dicendo: “Io devo obbedire al Padre mio”. Sì, lo sappiamo, tutta la vita di Gesù scorre all’insegna di questa obbe- dienza al Padre. Ma subito dopo, Luca aggiunge che tornò a Nazaret con Maria e Giuseppe e stava loro sottomesso. Ciò vuol dire che la volontà del Padre passa, per Gesù - bambino, ragazzo, adolescente, giovane - attraverso le disposizioni concrete di Maria e di Giuseppe:
è obbedendo, è acconsentendo alla loro volontà che Lui obbedisce al Padre, fa la volontà del Padre. E quando impara il mestiere di carpentiere da Giuseppe e diventa capace di esercitarlo con de- strezza, saranno le commissioni dei clienti, le richieste della povera gente di Nazaret (Gesù... mettimi apposto la porta... Gesù... mi ser- vono un paio di sgabelli...) a riempire di contenuti la sua quotidiani- tà; la volontà del Padre passa attraverso le molte esigenze che riem- piono le sue giornate di carpentiere. E se in paese è normale che tutti si dia una mano a una famiglia quando si trova in un momento di necessità, o è normale che tutti si incontrino a far festa il Sabato, o che i ragazzi si trovino volentieri tra loro per qualche passatem- po... è attraverso queste molte normalità che viene a Gesù la volontà del Padre.
Capite che con questo linguaggio intendo insinuare quella che, se- condo me, è davvero una lieta notizia, cioè un vangelo nel vero senso della parola: nella nostra esperienza quotidiana, la volontà del Padre arriva a noi in modalità del tutto analoghe a queste. Non ca- diamo nell’equivoco di pensare che la volontà del Padre sia nell’or- dine delle richieste eccezionali, difficili oltretutto da decifrare (per cui ci domandiamo: come si fa a conoscere la volontà di Dio?). La volontà del Padre - ciò per cui preghiamo ogni giorno “sia fatta la tua