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RITA LEVI MONTALCINI

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Academic year: 2022

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Università Card. G. Colombo

Corso: Storia del costume – Storia di donne

RITA LEVI MONTALCINI

(1909 – 2012)

La figura di Rita Levi Montalcini non ha bisogno di presentazioni: è stata una delle più famose scienziate del XX secolo, ricercatrice, vincitrice del premio Nobel per la medicina e la fisiologia, conseguito nel 1986, senatrice a vita, filantropa, da sempre sensibile alle tematiche femminili, come testimoniò con la sua stessa vita.

Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina, suo ex compagno di studi a Torino, la descrisse con parole semplici ma esemplificative: «Minuta, passo svelto, schiena dritta, mento alto e occhi verdi che non avevano paura di nessuno».

Era una donna dal temperamento deciso, ma anche molto timida e schiva, lati del carattere che ne avrebbero determinato la grande riservatezza anche dopo la fama e la notorietà. Aveva una grande determinazione e una volontà ferrea, doti che le consentirono di ottenere risultati insperati nel campo scientifico.

La sua vita, così come la sua storia professionale, non fu sempre facile e fu ostacolata da difficoltà di vario ordine e grado, a cominciare dalle dinamiche familiare, soprattutto durante l’adolescenza, fino al periodo drammatico della proclamazione delle leggi razziali e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La famiglia era ebrea sefardita e questo costrinse Rita e tutti i suoi familiari ad affrontare anni di fughe, clandestinità, tentativi di sottrarsi alla persecuzione, precarietà. Non furono anni semplici ma Rita ne uscì rafforzata nello spirito e pronta a rimettersi in gioco.

Gli anni della guerra servirono anche a renderle chiara la sua vocazione alla ricerca scientifica e alla sperimentazione piuttosto che alla professione medico. Il laboratorio divenne il suo habitat

naturale e fino agli ultimi anni di vita non passò giorno lontana da microscopi e vetrini.

La presenza femminile nel mondo scientifico e della ricerca è sempre stato un grande tabù che fortunatamente sembra destinato ad essere superato. In uno degli ultimi rapporti dell’Onu sulla presenza di uomini e donne nelle scienze si è evidenziato come la percentuale femminile sia gradualmente aumentata ma il rapporto resta di circa 3 su 10. Per promuovere la presenza delle donne in questo settore così fortemente dominato dagli uomini, a partire dal 2016 è stata istituita una “Giornata internazionale per le donne e le ragazze nelle scienze” che ricorre ogni 11 febbraio.

L’iniziativa vuole esortare i governi a sostenere con misure concrete le donne ma anche a valorizzare il lavoro di tante scienziate rimaste nell’ombra.

Uno dei casi più eclatanti di scienziate che hanno dato un contributo fondamentale senza essere mai menzionate o gratificate per il loro lavoro è quello di Rosalind Franklin, che fu la prima a scoprire la struttura a doppia elica del DNA, riuscendo persino a fotografarla, ma la cui breve vita

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fu all’ombra dei colleghi uomini.

Rosalind nacque a Londra nel 1920 in una ricca famiglia di banchieri che l’appoggiò nel suo desiderio di studiare. Si distinse fin da piccola per la sua intelligenza brillante e dichiarò subito la sua passione per le materie scientifiche. Ma per le donne del suo tempo non era così semplice iniziare un percorso universitario, come avrà modo di constatare anche Rita Levi Montalcini.

Nonostante lo scetticismo iniziale Rosalind riuscì a superare tutti gli ostacoli e si iscrisse

all’università di Cambridge, dove si laureò nel 1945. Trasferitasi a Parigi la sua ricerca si concentrò sui raggi X e sulla tecnica di diffrazione. In quegli stessi anni la comunità scientifica si stava

interrogando sul DNA e Rosalind fu quindi richiamata in patria per lavorare ad un progetto legato a questo ambito di ricerca insieme con il prof. Maurice Wilking presso il King’s College. Appena arrivata, Rosalind si rese subito conto del clima particolarmente ostile nei suoi confronti,

soprattutto da parte di Wilking che pretendeva di essere il responsabile della ricerca, relegandola al ruolo di assistente. Ma Rosalind era pienamente consapevole delle sue capacità e delle sue conoscenze e non accettò di essere una figura secondaria.

Nonostante i pregiudizi nei suoi confronti (veniva spesso definita dai colleghi «la terribile Rosy»), riuscì a perfezionare la diffrazione dei raggi X e a scoprire per prima la forma del DNA. Inoltre tra il 1951 e il 1952 fu persino in grado di fotografare in alta definizione i singoli filamenti di DNA, svelandone la struttura a doppia elica.

Negli stessi anni a Cambridge James Watson e Francis Crick lavoravano allo stesso progetto, con ottimi risultati ma senza riuscire ad ottenere la prova principale a sostegno delle loro supposizioni.

Sarà Wilking a fornire loro il riscontro che aspettavano, rubando la foto realizzata dalla Franklin e mostrandola ai due scienziati. Forti di questa prova i due scienziati pubblicarono un articolo sulla rivista Nature, in cui descrivevano accuratamente la struttura del DNA. La stessa Franklin, ignara del raggiro di cui era vittima, corroborò questa scoperta con un suo articolo sulla stessa rivista, parlando della sua fotografia.

Nel 1958, probabilmente a causa della lunga esposizione ai raggi X, la Franklin si ammalò per un tumore alle ovaie e morì prematuramente a soli 37 anni. Quattro anni dopo Wilson e Crick ricevettero il premio Nobel proprio per quell’articolo su Nature ma nessuno di loro menzionò la collega e il suo contributo fondamentale alla scoperta. La verità verrà fuori solo molti anni dopo.

Rosalind Franklin fu una scienziata straordinaria, che riuscì a svelare uno dei più grandi misteri dell’umanità, dando un contributo fondamentale in ambito medico, ma la cui fama fu offuscata dal silenzio e dal boicottaggio di un ambiente fortemente ostile alle donne.

Questa realtà, comune a moltissime ricercatrici e scienziate, è evidente anche esaminando i dati raccolti negli ultimi anni per analizzare il fenomeno: uno studio portato avanti nel 2019 dalla rivista accademica Genetics, analizzando più di 800 articoli scientifici pubblicati tra il 1970 e il 1990, rivela che il 90% degli autori sono uomini, ma nei loro articoli circa il 43% dei collaboratori citati e ringraziati per il contributo dato alle loro ricerche sono donne. Questo dato dimostra il forte squilibrio tra lavoro di ricerca, di organizzazione e di coordinamento, spesso svolto dietro le quinte, e possibilità di accedere ai vertici, di far carriera e di ottenere posizioni di prestigio e responsabilità. Sebbene la situazione dal 1970 ad oggi sia molto cambiata, la parità vera e propria non è stata pienamente raggiunta e i passi da fare sono ancora tanti.

I motivi che hanno portato le donne a essere storicamente più numerose nelle facoltà umanistiche rispetto a quelle scientifiche risiede in un retaggio culturale duro da estirpare, che ha origini lontane, motivazioni storiche e pregiudizi ideologici, oltre al fatto che per molti secoli la donna è stata ritenuta intellettualmente inferiore all’uomo.

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Per secoli le uniche donne che potevano accedere all’istruzione erano le consacrate. Tutte le altre potevano avere un’infarinatura generale e dedicarsi alla lettura, alla musica, alla poesia, all’arte per puro diletto. Se per le materie umanistiche è necessaria più un’attitudine e un talento personale, per quelle scientifiche è fondamentale lo studio, la preparazione di base, l’approfondimento costante. Le donne, escluse dagli studi superiori, dalle università, dall’educazione accademica, si distinsero dove poterono, quindi più in ambito umanistico.

Questo pregiudizio si è consolidato nel tempo, convincendo le stesse donne ad essere poco adatte o inclini alla medicina, all’ingegneria, alla matematica o all’informatica.

Ciò nonostante l’aspirazione e la determinazione di quelle poche che vollero a partire dal XIX secolo iniziare a studiare materie scientifiche, ha dimostrato che invece il loro contributo poteva essere importante. In pochi anni le donne si sono dimostrate meticolose, più predisposte allo studio, in grado di affrontare ogni tipo di percorso accademico, conseguendo ottimi risultati.

In un rapido excursus storico già nell’antichità ci furono donne che seppero distinguersi, soprattutto in ambito matematico, come Ipazia, a capo della scuola platonica di Alessandria d’Egitto. Nel Medioevo furono solo una decina, tra cui spicca Ildegarda di Bingen, superiora di un convento, esperta di erbe e botanica. Dopo un silenzio durato secoli, bisognerà arrivare al ‘600 per ritrovare nomi di donna nel campo della ricerca. Nel ‘700 Gaetana Agnesi ottenne una cattedra in matematica all’università di Bologna e solo nell’800 le studiose di materie scientifiche superarono il centinaio.

Alcune per poter accedere agli studi superiori si finsero uomini, come Sophie Germain. La Germain fu la prima donna a entrare all’Ecole Polytecnique di Parigi, tra i più prestigiosi istituti scientifici d’Europa. Per potervi accedere inviò una lettera contenente una dimostrazione matematica e si firmò con un nome maschile, assumendo l’identità di uno studente fuoricorso. Il destinatario era il matematico Lagrange che ne rimase profondamente colpito.

Tra radicato pregiudizio e boicottaggio sistematico della presenza femminile in campo tecnico scientifico, si comprende benissimo perché dal 1903 solo 25 donne abbiano vinto un premio Nobel in chimica, fisica, matematica o medicina, contro i 572 uomini, neanche il 3% del totale.

La donna che più di tutte aprì la strada alle altre in ambito scientifico fu la ricercatrice Marie Curie, che si aggiudicò, non senza polemiche e veleni, due Nobel, uno per la fisica insieme al marito Pierre, e uno per la chimica. Un ulteriore contributo per la presenza femminile nella realtà scientifica venne, anni dopo, anche da Rita Levi Montalcini.

Il riconoscimento del Nobel nel 1986 consentì alla studiosa torinese di raggiungere una grande popolarità, di poter quindi divulgare più facilmente le sue scoperte e sensibilizzare i giovani e soprattutto le giovani studentesse, sull’importanza dello studio, della ricerca e della formazione.

Rita Levi Montalcini nacque a Torino il 22 aprile 1909 in una famiglia borghese e benestante, da Adamo Levi, ingegnere elettrotecnico e matematico, uomo molto colto e intelligente, a suo modo progressista ma legato a una concezione tradizionale della famiglia, e da Adele Montalcini, che si dilettava di pittura. L’ambiente in cui Rita crebbe era un ambiente molto stimolante. I Levi erano una famiglia colta e agiata, nella quale l’istruzione non era preclusa alle donne. Le zie di Rita avevano studiato entrambe fino a conseguire una laurea, ma senza occupare ruoli di

responsabilità e senza l’obiettivo di far carriera.

Il padre di Rita era premuroso e attento alle esigenze della famiglia, ma molto rigido. Apprezzava la cultura e cercò di trasmettere ai figli anche un’educazione scientifica che completasse

pienamente la formazione scolastica. Gino era il figlio maggiore, che diverrà un celebre architetto,

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poi c’era Anna, detta Nina, e per finire Rita e la sua gemella Paola, che diverrà una pittrice affermata.

Rita era molto legata ai suoi fratelli, così come a tutta la grande famiglia composta dai Levi Montalcini. Con la sorella gemella Paola ebbe un rapporto esclusivo, “come fossimo una sola persona”, mentre nei confronti del fratello Gino ebbe sempre una vera e propria venerazione.

Anna era la più mite e tranquilla della famiglia, appassionata lettrice e con velleità letterarie che non portò mai a compimento.

Paola aveva spiccate doti artistiche come la madre e sin da piccola si cimentò nel disegno e nella pittura. Era più tranquilla e meno temeraria di Rita, ma era una donna di grandi capacità

intellettuali e umane. Le due sorelle furono sempre molto vicine ed entrambe decisero di non sposarsi mai e di dedicarsi totalmente alle rispettive professioni: “Tutte e due fin dall’adolescenza abbiamo scartato l’idea di farci una famiglia, considerando questo impegno difficilmente

compatibile con la dedizione a tempo pieno alle attività da noi scelte. Né io né lei ce ne siamo mai rammaricate”. Negli anni della loro giovinezza questa scelta era ritenuta eccentrica e originale.

La vita in famiglia, nella grande casa di Torino, scorreva in maniera comunque serena, all’ombra della figura protettiva di Adamo e dell’amore incondizionato di Adele. La mentalità di entrambi i

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genitori, considerata progressista per quegli anni, lo era anche in materia di fede. Adamo non era un ebreo osservante e i Levi non frequentavano assiduamente la sinagoga, pur celebrando le grandi feste ebraiche. Adamo in quel caso partecipava ai riti più per rispetto verso la tradizione e la famiglia che per vera fede. Quando Rita, ancora bambina, gli chiese cosa avrebbe dovuto rispondere alle domande delle compagne di giochi sulla loro fede, il padre le suggerì «rispondi che sei una libera pensatrice».

Nonostante la mentalità relativamente aperta, l’impostazione “vittoriana” che vigeva in casa imponeva dei limiti che non dovevano essere superati. Le donne quindi potevano studiare per accrescere il proprio sapere ma la divisione dei ruoli doveva rimanere netta e solo gli uomini potevano continuare gli studi superiori.

Le ragazze frequentarono un liceo femminile che potesse renderle in grado di destreggiarsi nella vita pubblica ma anche di essere ottime mogli e madri in quella privata. L’arte, la letteratura, persino l’amore per le materie scientifiche veniva assecondato, ma tutto doveva rimanere

confinato a pura passione. In uno dei suoi libri la Montalcini scrisse: “Nel secolo scorso [l’800] e nei primi decenni del Novecento, nelle società più progredite, due cromosomi X rappresentavano una barriera insormontabile per entrare in una scuola superiore e poter realizzare i propri talenti”.

L’educazione spesso si limitava a quella che veniva definita “economia domestica”, nulla a che vedere col desiderio di conoscere, studiare e approfondire che Rita nutriva fin da piccola.

Le idee paterne erano ben note a tutti i figli ma solo Rita sembrò non accettarle, assumendo un atteggiamento molto critico nei confronti del padre, con il quale il rapporto non fu mai semplice:

Rita ne aveva una profonda soggezione e non sopportava il suo ruolo di capo famiglia né il controllo che esercitava su ognuno di loro, a cominciare dalla madre.

Dopo il collegio femminile Rita prese il coraggio a due mani e decise di affrontarlo per ottenere da lui l’autorizzazione all’iscrizione all’università. Sapeva che non sarebbe stato semplice vincere le resistenze paterne ma era determinata a non cedere e alla fine ottenne il suo permesso. Adamo le disse soltanto: “Non lo approvo ma non posso impedirtelo”.

Una volta ottenuto il consenso del padre, Rita si preparò forsennatamente per gli esami di stato ottenendo la licenza classica con ottimi voti e si iscrisse alla facoltà di medicina e chirurgia di Torino. La scelta di seguire gli studi medici le venne da una triste vicenda che aveva colpito l’amata governante di casa, Giovanna, che soprattutto per Rita e Paola era stata come una seconda madre.

Giovanna manifestò problemi di salute intorno ai 45 anni e le fu diagnosticato un tumore che l’avrebbe portata via in poco tempo. Per Rita fu un dolore immenso non solo perdere una figura così importante, a cui era legata affettivamente, ma sentirsi impotente davanti alla malattia e al suo decorso. Decise quindi che avrebbe intrapreso gli studi di medicina, anche se poi il suo percorso di formazione la porterà a privilegiare la ricerca e la vita tra le pareti di un laboratorio piuttosto che la pratica.

Quando si iscrisse alla facoltà di medicina iniziò la sua attività di ricerca scientifica presso l’Istituto di anatomia del prof. Giuseppe Levi, biologo illustre e professore non solo della Montalcini ma anche di altri futuri premi Nobel come Renato Dulbecco e Salvator Luria. Levi era un uomo dai frequenti scatti d’ira e dal carattere difficile ma per i suoi studenti fu un punto di riferimento costante. Per Rita non fu solo un mentore e un maestro ma in seguito diverrà anche un suo stretto collaboratore e il primo estimatore delle sue scoperte. Presso il suo istituto Rita apprese le

tecniche più innovative, come la coltura cellulare in vitro e la colorizzazione dei tessuti nervosi con i Sali d’argento.

Durante i primi due anni di studio passò ore e ore davanti a un microscopio a specializzarsi in

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istologia, la disciplina che studia i tessuti, analizzandone le caratteristiche sia a livello naturale che alterate dall’insorgere di malattie (questo rendeva la materia così importante anche in campo medico). L’istologia fece importanti passi avanti proprio a partire dalla metà del XX secolo, di pari passo con i progressi tecnologici che migliorarono le prestazioni degli strumenti a disposizione, a cominciare dai microscopi. Ma fino ad allora «(L’istologia) era un’arte più che una scienza» come disse Rita molti anni dopo. Quegli anni di formazione furono fondamentali per affinare il suo metodo di ricerca.

Negli anni universitari la Montalcini non ebbe altro pensiero se non quello di studiare e dedicarsi alla sperimentazione. Le sue relazioni sociali si limitavano ai colleghi con i quali aveva un rapporto molto formale. La sua riservatezza e una certa ritrosia rimarranno tratti del suo carattere, pur avendo un grande senso dell’humour e spigliatezza nell’esporre le sue idee, come dimostrano le numerose interviste.

Negli anni giovanili, in cui il fervore della scoperta era predominante, ogni altro aspetto della sua vita passò in secondo piano e Rita non colse il momento difficile che il padre stava attraversando, soprattutto sul fronte lavorativo. Quando Adamo morì il 1° agosto 1932 per lei fu un vero shock.

«A distanza di anni ho capito che mio padre, molto più di mia madre, alla quale ero legata da immenso affetto, ha esercitato un’influenza decisiva sul corso della mia vita. Da lui derivavano la tenacia e l’energia profusa nell’impegno lavorativo, oltre alla volontà di essere una mente pensante e libera».

Si laureò col massimo dei voti nel 1936. Indecisa se seguire la carriera di medico o di ricercatrice, scelse di specializzarsi in neurologia e nel 1938 ottenne il posto di assistente nella Clinica di malattie nervose e mentali di Torino. Ma il suo percorso professionale ebbe una brusca frenata a causa degli avvenimenti politici: nel 1938 vennero infatti proclamate le leggi razziali. Rita e molti dei suoi colleghi universitari furono sospesi dall’attività accademica e da ogni tipo di impiego pubblico. Non sapendo come affrontare la situazione, accettò l’invito dell’università di Bruxelles che le offrì la possibilità di continuare presso la propria sede la sua attività di ricerca. In Belgio avevano già trovato asilo il prof. Levi, anche lui espulso dalla facoltà di medicina, e una parte della famiglia Levi Montalcini. La sorella Anna infatti vi si era trasferita con il marito e i figli. La situazione continuava ad essere molto tesa, anche se niente portava a immaginare ciò che da lì a poco

sarebbe accaduto. L’occupazione nazista della Polonia e lo scoppio della Seconda guerra mondiale si verificarono mentre Rita si trovava a Copenaghen per seguire un ciclo di conferenze. Il clima che si respirava, oltre alle paure legate al conflitto, portarono Rita e Anna a far ritorno in Italia quanto prima, sperando di essere più al sicuro.

Tornata a Torino incontrò uno dei suoi ex compagni di corso, il prof. Rodolfo Amprino, che la incoraggiò a riprendere gli studi con ciò che aveva a disposizione e a realizzare un rudimentale laboratorio tra le mura domestiche. Rita si buttò a capofitto nell’impresa: organizzò il laboratorio in camera da letto, si procurò un’incubatrice e dei microscopi e iniziò a studiare il sistema nervoso degli embrioni di pollo. Trasformò aghi in micro bisturi, si procurò micro forbici per uso oftalmico e pinze da orologiaio. L’incubo della guerra sembrò eclissarsi per un breve momento e tutta la famiglia assecondò la sua attività, procurandole il necessario. Nel suo laboratorio accolse anche il prof. Levi che le dette grande supporto.

Quando dopo l’armistizio del ‘43 la situazione divenne pericolosa, la famiglia abbandonò Torino, trasferendosi prima ad Asti e cercando poi di raggiungere il sud Italia già liberato. Ma furono costretti a fermarsi a Firenze dove trovarono accoglienza presso amici e conoscenti, vivendo separatamente per lunghi mesi. Furono anni di grande apprensione e di paura. Sia lei che la sua

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famiglia rischiarono di essere scoperti e catturati più volte. Rita non prese attivamente parte alle attività della Resistenza ma dopo la liberazione di Firenze prestò il suo aiuto agli Alleati come medico, curando i feriti che giungevano dalla linea gotica, dove i combattimenti continuavano.

Quell’esperienza la provò fisicamente e psicologicamente e la portò alla ferma decisione di non intraprendere la medicina tradizionale ma di continuare nel campo della ricerca e della

sperimentazione e alla fine della guerra rientrò a Torino, dove Levi la reintegrò nella facoltà di medicina con il ruolo di assistente.

Intanto i suoi studi, i primi articoli, le sue ricerche cominciavano a circolare tra gli addetti ai lavori.

In particolare uno studioso tedesco, Hamburger, ne era rimasto colpito e invitò la studiosa a trascorrere sei mesi all’università di St. Louis. Rita colse al volo l’opportunità di trasferirsi negli Stati Uniti e nel 1946 partì per quello che doveva essere un breve soggiorno ma che durò invece trent’anni.

Gli Stati Uniti erano all’avanguardia per la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica e lì Rita ebbe a disposizione strumentazioni sofisticate e un’equipe di esperti di altissimo profilo. Fu per lei uno dei periodi più produttivi e soddisfacenti della sua vita.

Negli anni continuò la sua ricerca sul sistema nervoso degli embrioni di pollo, nel tentativo di individuare i meccanismi che portano alla differenziazione dei neuroni e alla crescita delle fibre nervose, soffermandosi sulla relazione tra neuro sviluppo e periferia organica. Non mancarono i fallimenti e le delusioni ma anno dopo anno Rita si avvicinava a una scoperta che si sarebbe rivelata eccezionale.

Per poter utilizzare nuove tecniche sperimentali si recò anche all’università di Rio de Janeiro dove lavorava un’altra scienziata di origini tedesche, Hertha Meyer, che era stata assistente di Levi e che le mise a disposizione il proprio laboratorio, aiutandola in una ricerca che incontrava scetticismo e dubbi, a cominciare dallo stesso Levi.

Tornata a St. Louis iniziò a collaborare con il biochimico Cohen e i due, utilizzando un sistema di coltura in vitro da lei ideato, scoprirono l’esistenza di una proteina esterna che, impiantata nel sistema nervoso dell’embrione di pollo, ne stimolava la crescita e la differenziazione cellulare.

Nel 1953 i due furono finalmente in grado di isolare l’NGF, Nerve Growth Factor, in italiano il Fattore di crescita delle cellule nervose (FCN).

Rita era riuscita a confutare l’idea prevalente all’epoca, secondo la quale il sistema nervoso è statico. Lei dimostrò che invece erano queste proteine e non una programmazione scritta nei geni, a far sintetizzare alle cellule nervose la proteina della crescita. La scoperta era fondamentale soprattutto in campo medico per contrastare le malattie degenerative del sistema nervoso, come l’Alzheimer, ma non solo: in seguito si scoprì la sua importanza anche per il sistema immunitario e per contrastare l’insorgere di ulcere corneali e di glaucomi. La ricerca va avanti ancora adesso.

[Nella foto un ganglio sensoriale dissezionato da un embrione di pollo in assenza (A) e in presenza (B) di NGF].

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Questa scoperta sensazionale le valse numerosissimi riconoscimenti. Venne nominata professoressa associata alla Washington University nel 1956 e dal 1958 al 1977 fu titolare di cattedra. Ma la sua attività al servizio della ricerca non si fermò alla scoperta dell’NGF.

Già nel 1961 tornò a lavorare anche in Italia, facendo regolarmente la spola tra Roma e St. Louis.

Nel 1968 entrò a far parte dell’Accademia delle scienze americana e nel 1969 le fu affidata la direzione del laboratorio di neurobiologia del CNR, carica che ricoprirà fino al 1979. In seguito continuerà a collaborare fino al 1989 in qualità di super esperta.

Ma è nel 1986 che riceve il riconoscimento più prestigioso, che ne consacra la carriera e rende pieno merito al suo incredibile lavoro: grazie alla scoperta dell’NGF le viene assegnato il premio Nobel per la medicina insieme al suo collaboratore Stanley Cohen. Nello stesso anno i due scienziati ottengono anche il premio Lasker.

Rita Levi Montalcini venne premiata da re Carlo Gustavo di Svezia. Tra le motivazioni del Nobel si legge: «La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni 50 è un esempio affascinante di come un

osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell’organismo».

Dopo il Nobel Rita divenne nota al vasto pubblico e non solo alla comunità scientifica. Il cambiamento la colse impreparata:

continuamente richiesta per conferenze, interviste, incontri nelle scuole, non aveva più il tempo di dedicarsi allo studio e alla ricerca con lo stesso metodo e la stessa dedizione che avevano caratterizzato la sua vita professionale. Ma seppe cogliere anche in quel caso varie opportunità. La notorietà le consentì di

divulgare più facilmente il proprio pensiero, l’importanza dello studio e della ricerca, soprattutto tra i giovani e gli studenti, e a impegnarsi ancora più attivamente in diverse campagne per i diritti civili.

Già negli anni ’70 aveva dato il suo appoggio al Movimento di liberazione femminile per la regolamentazione dell’aborto. Si era sempre dichiarata una libera pensatrice, fin dalla più tenera età e il suo contributo fu fondamentale per motivare le donne, a cominciare dalle giovani

studentesse, e incoraggiarle a perseguire i propri obiettivi contro ogni pregiudizio.

“Dalle donne mi aspetto che si rendano conto dell'enorme potenziale umano che è in loro, mai utilizzato perché sottomesse all'altro sesso. Non per inferiore capacità, ma per diritto della forza fisica, non mentale [...]Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza”.

Nel 1990 divenne ambasciatrice FAO per la lotta alla fame nel mondo e si impegnò nella compagna contro le mine anti uomo. Nel 1992 dette vita alla Fondazione Rita Levi Montalcini rivolta

soprattutto alla formazione dei giovani e istituì delle borse di studio per le studentesse del continente africano, con l’obiettivo di promuovere la presenza femminile nel campo della ricerca in una parte del mondo in cui le donne erano fortemente discriminate.

Tra i vari riconoscimenti, oltre alla National Medal of Science americana (1987), la presidenza dell’istituto dell’Enciclopedia Italiana, l’ammissione alla Pontificia accademia delle scienze (unica donna a farne parte), le innumerevoli lauree Honoris causa (circa diciotto) e le cittadinanze

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onorarie, nel 2001 venne nominata per volontà del presidente Ciampi senatrice a vita, “per gli altissimi meriti in campo scientifico e sociale”.

Nonostante tutti gli impegni e l’età avanzata, continuò a dedicarsi alla ricerca e nel 2001 fondò l’EBRI (European Brain research institute) con lo scopo di continuare gli studi sul sistema nervoso.

La sua figura fragile ma tenace fu un monito costante a investire nella ricerca e a incentivarne la promozione.

Anche quando fu colpita da un problema alla vista che la rese praticamente cieca, continuò a recarsi in istituto. In una delle ultime interviste in occasione del suo centesimo compleanno raccontò come viveva quella fase della sua vita con parole che divennero emblematica del suo percorso e della sua personalità: “Il corpo faccia ciò che vuole. Io non sono il corpo, sono la mente”.

Morì il 30 dicembre 2012, a 103 anni, nella sua residenza romana e il giorno dopo migliaia di persone visitarono la camera ardente allestita in Senato per renderle il giusto tributo. I funerali si svolsero a Torino secondo il rito ebraico e le sue ceneri vennero poste nella tomba di famiglia al Cimitero monumentale di Torino.

“La vita non finisce con la morte.

Quello che resta è quello che trasmetti.

L’immortalità non è il tuo corpo.

Non m’importa di morire. La cosa importante è il messaggio che lasci agli altri. È questa l’immortalità”.

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