REISSUE
1
Progetto grafico copertina: © Valentina Villa In copertina:
Man – Bert Hardy/Hulton Archive Machinery – Shotterstock
Titolo originale: Docherty
First published in 1975 by George Allen & Unwin I edizione, Docherty, 2015
II edizione, Docherty, 2021 Copyright © William McIlvanney Copyright © Edizioni Paginauno. Società editrice
Mc’Nelly srl via Righi 1 Lissone (MB)
www.edizionipaginauno.it [email protected] ISBN 9788899699536
Docherty
ROMANZO
William McIlvanney
Traduzione e postfazione di Carmine Mezzacappa
Non è più come ai tempi di Docherty (Detto della Scozia occidentale)
In memoria di mio padre e per mia madre, Betty, Neil e Hugh – nella speranza che ci sia abbastanza spazio per tutti
C’era davvero una High Street reale. Con questo non si vuole troncare il discorso ma si intende, almeno in parte, riconoscer- ne l’esistenza. A questo scopo desidero sia chiaro che nessuna delle persone presenti in questo romanzo è in qualche modo identificabile con le persone vere vissute là. Ma io spero che sopravviva nel libro un po’ dello spirito con cui la gente ha im- pregnato quel luogo.
PROLOGO 1903
L’anno arrivò e si ritirò, come tutti gli altri, lasciando la sua flotta di relitti galleggianti – fatti grotteschi, memorabili, banali.
Il primo dell’anno, la corte indiana a Delhi vide l’insediamento per procura del Re Edoardo come Imperatore dell’India. Lo stesso mese cinquemila persone morirono in un uragano nelle Isole Society e cinquantun internati morirono nel rogo della cli- nica psichiatrica di Colney Hatch. A luglio morì a novantatré anni papa Leone XIII. A novembre il Re e la Regina d’Italia vi- sitarono l’Inghilterra. Rock Sand era il cavallo che corse fino allo sfinimento, per un premio di duemila ghinee, nel Derby e al St Leger. In Serbia vennero assassinati il Re Alexander e la Regina Draga; Peter Karageorgovitch diventò Re e oscuri co- spiratori si raggrupparono intorno al trono come attori calati nei loro personaggi nonostante il teatro sia in fiamme. A Lon- dra lo Spettacolo del Selvaggio West di Buffalo Bill Cody tra- sformò un genocidio in spettacolo circense. A Kitty Hawk, nel- la Carolina del Nord, due fratelli riuscirono a far volar per cin- quantanove secondi una macchina più pesante dell’aria. In High Street, a Graithnock, la signorina Gilfillan soffriva d’insonnia.
Lei la definiva “il mio disturbo” non senza un certo compia- cimento. Peggiorò quando ormai l’anno volgeva al termine tan- to è vero che entro dicembre i suoi occhi sembravano non ave- re più palpebre. Durante la maggior parte delle notti, curava la propria solitudine alla finestra tenendo scostata la tendina di pizzo per fissare intensamente i condomini sull’altro lato della strada, giudicare le esistenze che si svolgevano al loro interno e
pensare che lei sarebbe morta lì. Il pensiero le provocava dolo- re e conforto allo stesso tempo. Sarebbe morta in mezzo a estranei, facce dure, voci rozze, mani che non sapevano usare le posate, canzoni da ubriachi sulle sofferenze dell’Irlanda con ac- centi scozzesi, bestemmie nella via, bambini che nutrivano le proprie infanzie di avanzi raccattati tra i rifiuti. Ma la sua morte sarebbe stata un affronto infinito per la sua famiglia, motivo di rabbia per suo padre nella tomba. E così, ogni notte, lei perfe- zionava la propria disillusione; i suoi rimpianti erano una pietra su cui levigare quelli della sua famiglia; e High Street era l’infer- no che loro avrebbero ereditato.
Nella tarda notte del 26 dicembre, una circostanza offrì ca- sualmente una speciale intensità alla sua autocommiserazione.
Sul lato opposto della via pavimentata di ciottoli, due finestre a un piano superiore erano ancora illuminate. Dietro a una delle due finestre, la signora Docherty stava per partorire. Quella sa- rebbe stata la quarta volta. E poteva considerarsi fortunata se era destinata a essere l’ultima. Qui, dove fame e disperazione avrebbero dovuto rendere sterili quasi tutti i matrimoni, la gen- te sembrava procreare con un’incoscienza quasi vendicativa. A lei risultava chiaro che i peccati dei padri erano i figli.
Dietro all’altra finestra, il signor Docherty se ne stava seduto nel minuscolo bilocale dei Thompson, emarginato in quel sen- so di inutilità che era il luogo degli uomini in quei particolari momenti, o confuso e imbarazzato dal proprio senso di colpa, o forse indifferente data la frequenza dell’evento. Una parte del folklore di High Street riguardava il martirio delle donne: mogli picchiate, salari sperperati in bevute nel tragitto tra la miniera e la porta di casa, un bimbo nato in una stanza in cui il padre era stordito di birra.
Lei sentiva che nel caso del signor Docherty era diverso. Lo conosceva solo come qualcuno con cui condividere il passare quotidiano del tempo – com’era con chiunque altro, qui. Prefe- riva non stabilire nessuna forma di amicizia. Pietà, disprezzo, o mera incomprensione, erano le distanze tra lei e tutta la gente del vicinato che conosceva solo per mezzo delle loro azioni più
spettacolari. La sua visione delle loro esistenze era stilizzata ed esplicita come un’opera lirica; ma anche allora era distorta da quelle lacrime versate per se stessa che, di continuo, offuscava- no il suo pensiero come se qualcosa avesse irrimediabilmente danneggiato un canale lacrimale.
La sua impressione del signor Docherty non era quella relati- va a un solo uomo ma a diversi. Era come se, tra tutti i ruoli di- sponibili che lei aveva assegnato alla gente della via (manesco con la moglie, ubriacone, barbone, o semplicemente uno dell’a- nonimo coro di poveri privi di forza di volontà), lui avesse de- ciso di non calarsi in nessuno ma recitasse più di una parte. Lo conosceva per uno di quelli che tornavano a casa dalla miniera, piccolo persino tra i suoi compagni di lavoro, membro di una segreta associazione di selvaggi neri, alcuni dei quali riempiva- no di sputi di polvere di carbone l’acciottolato. Ripulito, dentro a una giacca grossa e rigida, con una sciarpa di seta, un berretto sui capelli neri, aveva quasi un aspetto fragile, il viso esangue da far paura, come se il pallore fosse causato da una rabbia perma- nente. Eppure, in maniche corte, d’estate, il suo torace contrad- diceva il resto del suo aspetto fisico. Le spalle erano eroiche, ogni movimento faceva gonfiare un muscolo sugli avambracci.
Sotto la cintola, ritornava a essere fragile e nemmeno gli ampi pantaloni cancellavano l’impressione che le gambe fossero leg- germente incurvate.
Nelle belle giornate estive, quando la gente metteva le sedie fuori della porta di casa, lei l’aveva osservato giocare con i figli.
In quei momenti il suo coinvolgimento accanto a loro era tota- le. Ma ciò che la colpiva di più era l’immagine di lui che gli altri riflettevano. Era evidente che gli uomini che si fermavano con lui all’angolo della via gli volevano bene. Eppure lei aveva più volte avvertito la sensazione, passando vicino a loro, di una lie- ve distanza tra lui e chiunque altro. Era una sensazione strana, impalpabile, come se, dovunque si trovasse, lui volesse segnare un territorio. Aveva il vago sospetto che ciò non significasse nient’altro che il suo essere fisicamente formidabile. In High Street la misura più rispettata di un uomo tendeva a essere in-
torno al torace. Ma le sue osservazioni non facevano altro che cristallizzarsi in una parola – una parola che lei accettava a ma- lincuore: “indipendenza”.
Sentiva che era una parola ridicola in quel luogo. Quale pre- tesa poteva avere, chiunque vivesse lì, nel reclamare indipen- denza? Erano tutti schiavi di qualcosa – della miniera, della fab- brica, delle famiglie che crescevano murando le esistenze dei genitori, del bere che, con la fallace promessa di fuga, era di tutte le forme di emarginazione la più spietata. Chiunque fosse il mercenario a cui offrivano il loro servizio, l’autorità era pre- rogativa di un padrone comune: il denaro, il cui potere veniva generato dal fatto di non averne. La povertà era ciò che aveva portato lei in quella stanza. Definiva il territorio delle loro esi- stenze come un recinto. In quel territorio, tuttavia, il signor Docherty si muoveva come se si trovasse lì per sua scelta, come qualcuno che, inconsapevole delle catene che portava, non si era accorto di sanguinare.
Come in un’illustrazione dei suoi pensieri, lui usciva dal por- tone correndo, ancora nell’atto d’infilarsi la giacca, e diventava il rumore sempre meno udibile dei suoi scarponi giù per la via.
Era un brutto segnale. Poco prima lei aveva visto la signora Ritchie entrare. Una levatrice era più che sufficiente. I dottori erano solo un fastidio. Povera signora Docherty. Era una brava donna. Di lei dicevano che era una ‘donna decente’ – che era il tratto più nobile di High Street. Se si consideravano le tremen- de condizioni delle loro esistenze, la ‘decenza’ era un atto di eroismo. E ora lei giaceva in quella stanza, impegnata nello sforzo di incoraggiare un bimbo riluttante a uscire dal suo cor- po. La riluttanza era comprensibile.
Si sentì invadere, al pensiero di ciò che quel bimbo veniva costretto a incontrare, da una profonda frustrazione e fu di nuo- vo consapevole, acutamente, di tutta l’ingiustizia della propria vita. Si ricordò di suo padre, la benevola stabilità della sua pre- senza, l’immacolato e asettico ordine delle loro esistenze; le so- lenni uscite di tutta la famiglia; la scuola per giovani dame della signorina Mannering. Ogni ricordo di quel tempo, non importa
quanto frammentario o banale, dai baffoni di suo padre ai fiori che lei aveva ricamato su un tombolo, fu trattenuto in un alone di calore e rassicurazione. Ogni altra cosa, a partire dalla morte di sua madre, si trovava in una sorta di parziale oscurità, un’al- tra particella meramente e imperfettamente intravista di un caos da cui era tuttora in fuga. Persino la causa della morte di sua madre le era rimasta, fino a quel giorno, ancora oscura. Sapeva soltanto che si trattava di un male che aveva sparso il contagio su tutte le loro esistenze. Molto tempo dopo aveva capito che la bara nel salotto immerso nel buio conteneva, oltre al cadave- re di una donna, quello di un mondo. Suo padre era diventato qualcun altro, la casa aveva sviluppato l’atmosfera di uno squal- lido albergo in cui degli estranei s’incontravano per mangiare.
Quando l’attività della panetteria andò in crisi, il cuore di suo padre prese a perdere colpi come se fosse stato una holding fi- nanziaria. Le lasciò quel poco di denaro che aveva. I suoi due fratelli (legami familiari ripudiati: era così che si riferiva a loro nei suoi pensieri) non vollero avere niente a che fare con una sorella ancora da sposare. Si trasferì da Glasgow a Graithnock e poi, mentre la sua capacità di fingere diminuiva di pari passo con il suo capitale, le circostanze la condussero in High Street.
Un ricordo solitario, la persistenza del quale suggeriva che forse non era fortuito come sembrava, rimaneva dentro di lei come un indizio del caos che aveva sovvertito la serenità e l’or- dine dei primi anni della sua vita. Era accaduto al tempo della sua infanzia: una colazione in famiglia, c’era lei, e c’erano sua madre, suo padre, i suoi fratelli. La stanza, sopra la panetteria del padre, era luminosa e riscaldata nonostante la pioggerellina di novembre stesse ritardando la luce del mattino. La tavola era letteralmente coperta di cibo. Stavano chiacchierando e i due ragazzi ridevano un sacco quando lei notò suo padre dare un’oc- chiata veloce all’orologio. Si alzò e fece una domanda a chi sta- va giù nel negozio. La risposta che ricevette gli fece serrare le labbra.
Dieci minuti più tardi si udì bussare alla porta e un ragazzo di circa quattordici anni fu fatto entrare con una spinta nella
stanza. Si addossò alla porta, come se stesse cercando di rima- nere dietro a se stesso. La vecchia giacchetta che portava era di un adulto, le maniche erano arrotolate e mostravano la fodera interna, le tasche logore strisciavano contro le ginocchia dei calzoni lisi. Gli scarponi erano da ridere, assurdamente grossi, ricurvi sulle punte e sformati dai piedi di altri. S’intravedeva il cuoio capelluto in strisce bianche tra i capelli bagnati e appicci- cosi a causa della pioggia. La fretta sembrava aver reso ogni osso del suo viso ancora più appuntito e l’aveva costretto a tos- sicchiare per riprendere fiato. Al calore della stanza, comincio a sudare leggermente e il suo odore si mischiò sgradevolmente al profumo del cibo appena cucinato. I ragazzi si misero a ridac- chiare.
«Mi scusi, signore. Mi scusi tanto. Quello che è...»
Suo padre alzò la mano per farlo tacere. Tutti attesero che lui finisse di masticare il boccone.
«E così sei di nuovo in ritardo.»
I figli tacevano, ora. Il momento aveva acquisito una terribile solennità.
«Mi dispiace da morire, signore. È il mio fratellino. Non sta tanto bene. E allora, mia madre...»
«Le scuse non sono ragioni.» Suo padre scosse la testa con un’espressione triste. «Con questo di oggi siamo a tre in meno di quindici giorni. Ti avevo già avvertito prima, due volte. Quan- do tu arrivi tardi, le mie consegne vengono ritardate. Quando le mie consegne vengono fatte in ritardo, i miei clienti si lamen- tano e allora vanno a fare la spesa da un’altra parte. E di conse- guenza la mia attività ne soffre. Dovrai imparare ad assumer- ti le tue responsabilità verso altre persone. E finché non l’avrai imparato, io non posso permettermi il lusso di tenerti. Sei li- cenziato.»
Perché quel piccolo episodio le era rimasto impresso? Tutto quello che aveva significato per lei, a quel tempo, era l’autorità del padre – e la gentilezza della madre che era prevalsa contro la decisione più pratica di suo padre per fare avere al ragazzo l’intera paga di una settimana che, ricordava ancora, ammonta-
va a uno scellino. Eppure, di quando in quando, quella mattina- ta le tornava in mente, quasi senza volerlo, e la tormentava come se quel ragazzino mingherlino fosse stato la causa di tutto ciò che era accaduto in seguito e la sua presenza fragile e malata avesse infettato la loro vita come un microbo. Avvertì vaga- mente di essere più vicina alla soluzione dell’enigmatica equa- zione che le era stata presentata quella mattina: l’infrazione del ragazzo, e in aggiunta la punizione di suo padre, era in qualche modo uguale alla disintegrazione che era avvenuta successiva- mente nelle loro esistenze, era in qualche modo una formula per il tipo di caos in cui lei aveva imparato a vivere ma che non aveva accettato. E ciò era quanto lontano la portava la raziona- lizzazione, ovvero un sentimento vago – non quello che tenta- va di approfondire ma quello che preferiva soffocare.
Messa di fronte al fatto, come in quel momento, il suo meto- do era sempre lo stesso. Assumeva una dose di nostalgia, come una droga. Nell’atmosfera particolare di quella stanza, poteva indulgere in una sorta di trance retrospettiva, come un’estasi re- ligiosa. C’erano certi passaggi della sua vita che rivisitava in con- tinuazione – le sue personali beatitudini. Quella notte pensò al lungo muro di cinta del giardino, sul retro della casa, ricostruen- dolo fiore per fiore. Fu una sorta di sequenza allucinata senza logica quella di accorgersi del signor Docherty che ritornava su per la via insieme al dottore. Il lume a gas li identificò per un attimo ma poi furono inghiottiti all’imboccatura del vicolo.
Il signor Docherty guidò il dottore su per la scala buia, bussò delicatamente alla porta del proprio appartamento e lo fece en- trare. Poi attraversò il pianerottolo per andare da Buff Thomp- son ed entrò senza bussare per non svegliare i suoi figlioli. Mick e Angus erano stati sistemati a casa di Buff e dormivano sul di- vano-letto vicino alla porta. Aggie Thompson doveva essere tornata ad aiutare la signora Ritchie.
«Ah, sei tu, Tam» disse Buff che, sollevatosi a sedere, tossì piano e lanciò uno sputo a friggere nel fuoco. «Allora, è arriva- to?»
«Sì, è entrato adesso.» Tam posò la giacca su una sedia e si
sedette su uno sgabello. «Come sta Jenny?»
«Sempre lo stesso. Più o meno, sempre lo stesso. Aggie è andata da lei già da un po’.»
Rimasero seduti a fissare il fuoco come se fosse uno spetta- colo della lanterna magica. Il vento era lamentoso. Uno dei ra- gazzi si agitò per un attimo, turbato da un sogno. L’acqua si scaldava nel bollitore che Aggie aveva messo sulla piastra elet- trica. Tam allungò la mano e lo posò sul pavimento.
«Andrà tutto bene, Tam» disse Buff, calmo. «Se va come va il mondo, è fatta.»
«Già. Meglio se non va troppo esattamente come il mondo.»
Il loro era un silenzio vigile.
Nella stanza, appena dopo l’ingresso, la scena davanti alla qua- le si trovò il dottor Allan era come un tableau di tutto ciò che High Street significava per lui. Anche se l’indirizzo non era lo stesso, era entrato in quella stanza assai più spesso di quanto riuscisse a ricordare e vi aveva trovato lo stesso posto, le stesse donne, la stessa cerimonia segreta che avveniva da tempo infi- nito in un’aura di premurosa urgenza. Era come se tutto il resto fosse soltanto un’interruzione.
Il lume a gas funzionava a intermittenza, come il cuore di un uomo malato. Ridotto a un filo di luce, rendeva la stanza miste- riosa come una cappella. I mobili lucidi, impreziositi dalla pe- nombra, catturavano i frammenti della luce del focolare che guizzavano come candele in un tunnel. Gli oggetti di ottone emanavano una luce soffusa, come icone. Persino in quella de- bole luce la pulizia della stanza era un proclamo di se stessa.
Jenny Docherty aveva strofinato tutta la casa per proteggere il parto – come se il suo bimbo potesse morire a causa di un gra- nello di polvere. Accanto al fuoco, dove stavano i pantaloni di fustagno pronti per il mattino, c’era Aggie Thompson, intenta a controllare l’acqua che bolliva e a dire tra sé e sé «Dio la bene- dica, dottore. Farà un bel lavoro. Dio la benedica in questa not- tata» con la monotonia di un canto gregoriano. La signora Rit- chie era china sul divano–letto, avvolto nell’oscurità come in una caverna, e stava traducendo i sentimenti di Aggie in consi-
gli pratici. Sulle coperte del letto era stato steso un vecchio len- zuolo per farvi sdraiare sopra Jenny e sotto le sue cosce erano stati messi dei giornali. La vestaglia era arrotolata fin sopra la vita. Gambe e ventre, coperti di un velo di sudore, erano un anonimo gonfiore di carne, una primordiale battaglia contro dolori muscolari.
«Accendete la luce» disse il dottor Allan.
«Ah, dottore. È arrivato, grazie a Dio.»
«Devo lavarmi le mani» disse con tono deciso, augurandosi di calmare i nervi di Aggie Thompson assegnandole dei compi- ti. «Da quanto tempo si sono rotte le acque?»
«Più di un’ora, dottore» rispose la signora Ritchie. «E ha avu- to delle perdite di sangue. Speriamo che non faccia troppe sto- rie per uscire. Il fatto è che lei non riesce nemmeno a battere ciglio tra una contrazione e l’altra. Eppure, non si vede ancora niente. Se penso alle sofferenze che ha dovuto patire le altre volte...»
«Non me lo voglio perdere.» Si tolse subito la giacca e si ar- rotolò le maniche. «Cosa ne dici, Jenny, eh? Mi sterilizzi questi ferri, signora Ritchie.» La donna prese il forcipe. «Abbiamo fat- to un buon lavoro con gli altri tre, vero?» Le labbra stavano per dire “certo, dottore” quando una fitta le cancellò le parole. Lui la tastò delicatamente, con attenzione. Sorprendentemente, nei momenti di tregua, non sembrava più vecchia dei suoi trent’an- ni ma quando veniva assalita dal dolore le scorrevano sul viso interi secoli. E ogni secolo avrebbe lasciato il proprio residuo.
In Hight Street non c’era molto tempo per godersi la propria gioventù.
«Penso proprio di sì. Ormai non manca molto.» Mentre con- tinuava a lavarsi le mani nel catino, non smetteva di parlare, più a beneficio di Aggie Thompson che di Jenny, ormai ben al di là del ricorso alle parole come palliativo.
«Devi avere un ventre tremendamente confortevole, lì den- tro, Jenny. I tuoi neonati non sono mai ansiosi di venire alla luce. Hanno bisogno di essere un po’ sollecitati. Asciugamano.
Grazie.»
Fuori, nella via, qualcuno aveva cominciato a cantare. Ag- gie ne era turbata e commentò con fastidio: «Orribile. Ma vi sembra il caso?»
«Ho sentito di meglio» disse il dottor Allan prendendo un batuffolo imbevuto di cloroformio. «Eh sì, Jenny, adesso basta.
Stai soffrendo come se dovessi partorire tre gemelli.»
La mano di lui fu un’improvvisa frescura sulla sua fronte. La metà inferiore del suo viso incontrò qualcosa di soffice che sembrò cancellare la linea della sua mascella. Lottò contro una oscurità che prima si abbatté su di lei, poi si gonfiò come un’onda altissima e infine la lasciò cadere. Da quella sensazione di vuoto emerse, come una corda a cui s’aggrappava la sua mente spezzandola, un lungo suono: la frase di una canzone.
«Josey Mackay» pronunciò Buff dopo averci pensato su in- tensamente per qualche secondo, come se avesse voluto identi- ficare il verso di uno degli uccelli più rari. «Ha fatto tardi ed è ancora per strada, stanotte.»
La canzone s’affievolì in borbottii sconclusionati da cui si poteva intuire che Josey era impegnato in un’accesa e incoeren- te discussione con se stesso. Dopo non molto tempo pronun- ciò una sorta di discorso ufficiale attraverso il megafono della sua ubriachezza: «Voi non avete idea di che cos’era. Voi non sa- pete niente della vita. Tutti quanti voi. Vi ho garantito il pane.
Io e quelli come me. A Mafeking.1 C’ero anch’io là. Per il Re e per la Patria. A Mafeking. Per la Regina e per la Patria.»
«Oh, Cristo. Sempre quella storia» sospirò Buff. «La dovrem- mo ribattezzare la Guerra dei Boriosi, eh?»
«La Guerra dei Boeri!» esclamò Josey con tono sprezzante. E poi, più cupo: «Onora i soldati. Feriti nell’atto di servire il Paese.»
«L’unica ferita di Josey è quella che infligge a sé stesso. Sta morendo di sete. È come ferire dei poveri spettatori innocenti.
Come sua moglie e i suoi bambini. Della sua indennità non sarà rimasto abbastanza nemmeno per un paio di bicchieri.»
«Dormite profondamente nei vostri letti, stanotte» replicò subito Josey con involontaria ironia. «Grazie ai nostri giovani soldati che dormono in terra straniera.»
Josey lanciò quell’ultimo richiamo stringendo il pugno. Quan- do ebbe finito, gli altri attesero altri bollettini. Ma il silenzio era stato ristabilito all’improvviso così come era stato spezzato.
«Dubito che l’abbiano portato via» disse Buff alla fine. «Lo seppelliremo domani mattina.»
Fuori, nella strada, Josey si era sbottonato senza tante ceri- monie e stava orinando contro il muro sotto la finestra di Buff.
Con l’istinto del soldato, i suoi occhi sorvegliavano la via avvol- ta nell’inverno. Avvertiva un viso, da qualche parte. Cautamen- te, non si voltò a guardare ma passò in ricognizione tutta la via nella mente cercando di mettere a fuoco di chi era quel viso.
Dopo aver deciso di chi si trattava, preparò il suo piano. Facen- do una brusca giravolta, urlò a pieni polmoni «Presentat! Arm!»
e presentò qualcos’altro. Poi, con la sua andatura dinoccolata, proseguì lungo la via riabbottonandosi i pantaloni.
La mano della signorina Gilfillan si allontanò con un saltello dalla finestra. La tendina di pizzo calò tra lei e la via, un’arma- tura inconsistente come le sue buone maniere. Il suo cuore protestò delicatamente. Quasi si mise a piangere di vergogna e rabbia. Indietreggiò di un altro passo, con la sensazione che la sua vita privata era in stato d’assedio, e in quell’istante vide una forma scura alla finestra dei Thompson.
«Non riesco più a vederlo» disse Buff. «Deve essere andato via.»
Si tirò indietro e andò a sedersi davanti al camino.
«Vai a dormire, Buff» disse Tam. «Hai bisogno di riposare.»
«No, no» disse Buff. «Mi piacerebbe vedere il piccolo.»
Le undici e venti. La lancetta dei minuti sembrava fosse stata bloccata dalla melassa. Il calore del fuoco, che si sprigionava da un mucchio di tizzoni, dava la sensazione di voler liquefare l’a- rea circostante. Se ne stavano seduti e raggomitolati al caldo.
Non dicevano molto, eppure il loro silenzio era un traffico più reale delle parole. Si conoscevano da tanto tempo. Tutti e due erano minatori. La loro amicizia si nutriva di infiniti frutti, pic- coli, invisibili, dimenticati, favori come l’aiutarsi a spostare mo- bili, il conversare all’ora del crepuscolo all’angolo della via, la
condivisione delle risate. Intensificare quegli atti rappresentava il senso di identità comunitaria che avevano i minatori – come se fossero una specie separata, diversa. Quando Buff tossiva, non era soltanto un suono che accidentalmente disturbava la quiete della stanza. Era parte di uno modo di vivere, una ruvi- dezza nata nei cunicoli della miniera che cresceva come un tu- more nel suo respiro. All’età di sessant’anni era, approssimati- vamente, quello che Tam, poco più che trentenne, sarebbe un giorno diventato. E come Buff era il futuro di Tam, così Tam era il suo passato. La pura e semplice presenza di uno dava maggiore risalto all’altro tanto che, per il semplice fatto di stare seduti lì, erano un dialogo, un modo di mettere ordine all’incer- tezza di quella notte e attribuirle un senso.
Quando mancavano dieci minuti a mezzanotte si udì un ru- more. Era una lacrima nell’immobilità della notte, alta, fred- da, perduta, che sembrò attraversare la casa, come se volesse svelare il silenzio della città stessa. Dal foro che aveva provoca- to, sanguinava un pianto continuo. Scambiandosi un’occhiata da una parte all’altra di quel suono, i loro occhi si spalancarono in un sorriso.
«È arrivato qualcuno» disse Buff.
Tam si stava dirigendo verso la porta quando Buff lo fermò.
«Aspetta ancora un po’, Tam.» Anche Buff si era alzato. «Ci sono delle cose da sistemare. Ti chiameranno quando sarai ri- chiesto.»
I successivi minuti non ebbero nessun’altra funzione se non quella di essere una sorta di anticamera. Tam si mise a cammi- nare avanti e indietro, dentro di loro, girando intorno allo sga- bello, andando alla finestra e tornando indietro verso la porta, trasformando la stanza in un paesaggio della sua impazienza.
Ogni volta che passava davanti a Buff, gli sorrideva e faceva un futile cenno della testa o faceva l’occhiolino o sospirava «Eh!»
come se Buff fosse al contempo diversi conoscenti e ognuno di loro dovesse essere salutato, anche se distrattamente. Un paio di volte batté il pugno destro nel palmo della mano sinistra di- cendo «Allora, muovetevi» con un brusco tono di sfida. Una
volta si arrestò per mormorare alle assi di legno del pavimento
«Deve essere andato tutto bene» con aria confidenziale e poi ri- prese a camminare, a passi misurati, come se volesse, con quel movimento, stabilire l’esatta dimensione della sua felicità.
«Ma certo. E comunque sento che non gli manca il fiato nei polmoni» disse Buff. «Però è una bella ingiustizia, eh? Affronti tutta quella fatica per nascere e la prima cosa che ti fanno è di darti uno schiaffone sul culo.»
La battuta aprì una valvola per sfogare la tensione accumula- ta in tutta la sera ed entrambi scoppiarono in una risata. La pre- occupazione di Tam si scaricò in una sorta di isteria controllata.
«Eh sì» disse. «Eh sì.» Tutti e due annuivano e sorridevano. Il momento era una cospirazione, un patto suggellato: due uomi- ni complici nel concordare che la paura di uno non era stata notata dall’altro.
Si aprì la porta ed entrò Aggie.
«Allora? Tutto bene?» Tam le stava già passando accanto per andare di là.
«Per l’amor di Dio! Aspetta, ragazzo!» Era rossa e accaldata per l’eccitazione provocata da quella sorta di santuario. Per al- cuni secondi quella esperienza generò un’alchimia dentro di lei che la faceva incongruamente sentire quasi fanciulla – una civettuola sessantenne. «Ma cosa pensi che ha fatto fino a ora?
Scoregge? Lasciala riposare. Non è ancora pronta per te.»
«Ma va tutto bene?» Sapeva, dall’espressione di lei, che anda- va bene ma sentiva il bisogno, superstizioso, di mostrarsi umile attraverso quella domanda nel caso venisse punita la sua pre- sunzione.
«Sì, Tam, va tutto bene. Benissimo.» La sua rassicurazione di- ventò licenza di prenderlo in giro. «Non grazie a te. Se solo tu vedessi che cosa è costato il tuo godimento a quella ragazza.
Abbiamo fatto una fatica tremenda per far venire al mondo quella pallottolina di carne.»
«Che cos’è?» domandò lui.
«È una femminuccia. No. Volevo dire: un maschietto!» L’ec- citazione l’aveva lasciata sinceramente confusa.
«Cavolo, donna!» esclamò Buff. «Alla faccia della precisio- ne! Se non è di colore, sarà bianco. Sei chiara e limpida come la melma!»
«Chiudi il becco tu.» Il bimbo era una buona scusa, per tutti, di prendersi una vacanza dai soliti comportamenti. «Che cosa ne sai tu? Quando ti giravi dall’altra parte e ti addormentavi era perché avevi finito il tuo lavoretto, per quel che ti riguardava.»
Era un’acidità fermentata nel tempo che veniva servita quando l’occasione la rendeva appetibile. «Sì, Tam, proprio così. È un maschietto.»
«Sarà vecchio prima di riuscire a vederlo.»
Un tocco alla porta lo contraddisse. Era la signora Ritchie.
Andando di là, formarono un piccolo corteo che dava spintoni dietro di lei. Buff era la coda. Appena entrò nella stanza, Tam assunse il controllo della situazione. Il suo orgoglio era il mae- stro di cerimonia. Agitò la mano destra in direzione della mo- glie con un segreto gesto affettuoso e le sorrise. Appena lavato, il suo viso esibiva un dolce gonfiore di spossatezza su cui il sorriso aleggiava fragile come un fiore. Gli occhi erano già ap- pesantiti dal sonno. Tam sollevò il bimbo avvolto in un lenzuo- lo e, mentre controllava che il ripensamento di Aggie corri- spondesse alla realtà, lo tenne in alto, nelle sue mani, per inven- tariare la sua perfezione. Aveva capelli neri, una massa ribelle di ciocche che se ne andavano in tutte le direzioni. Su una tempia c’era una macchia di sangue rappreso. Il suo visetto sembrava un pugno rivolto al mondo. L’attorcigliato rimasuglio di ombe- lico appariva vulnerabile. Mani, piedi, pisello. Era arrivato tutto equipaggiato per fare la sua parte.
La stanza era abbastanza pulita. I detriti del parto erano stati accuratamente rimossi. Il dottor Allan era in piedi, con le spalle rivolte al fuoco del camino, di nuovo con la giacca indosso e un’espressione gentile, intento a coprirsi per la camminata di ri- torno a casa.
«Grazie, dottore» disse Tam. «Aggie, c’è un goccio di whi- sky, lì, nella credenza. Per il dottore.»
«No, grazie. Tornerò più tardi. E adesso sarebbe meglio se ci
togliessimo dai piedi e lasciassimo dormire la ragazza. Ci vorrà ancora un po’ prima che riesca a riprendersi.»
«Solo un minuto. Ne beva un sorso. Questa notte, per quel che mi riguarda, è come se fosse Hogmanay.»2 Sapendo che Tam Docherty non teneva alcolici in casa, il dottor Allan decise di non offenderlo per la provvista speciale che aveva fatto. «E un goccio anche per Buff.»
«Che cos’ha fatto per meritare un whisky?» Aggie aveva tro- vato il whisky e due bicchieri che Tam aveva già preparato.
«Ti ho sopportato per quarant’anni» disse Buff.
«Bene.» Il dottore sollevò il suo bicchiere. «Brindiamo a... al nostro nuovo arrivato. Avete già pensato a un nome?»
Tam sollevò il neonato e lo mise di fronte a tutti. «Cornelius Docherty, per sua informazione.»
Il nome sembrò annegarlo, come un abito regale indossa- to da un moscerino. Il dottore si bagnò le labbra.
«È un nome terribilmente impegnativo per un omettino così piccolo.»
«Ci farà l’abitudine. Non si preoccupi.»
«E tu, Tam?» domandò Aggie. «Mi sembra che un goccetto ti farebbe bene.»
«No, grazie, Aggie. Sono già abbastanza ubriaco senza aver bevuto.»
«Ti offrirei il mio, Tam» disse Buff guardando con un’e- spressione sconsolata il bicchiere ormai vuoto, «se solo riuscissi a trovare almeno una goccia.»
Il dottore bevve un altro sorso e, con tono pensieroso, come se il whisky fosse una filosofia, disse: «Allora, questo che cosa lo farete diventare? Un induista? Avete già due religioni in casa.»
«Già ora è tutto quello che vorrei farlo diventare. Mi va bene così. Un perfetto piccolo essere umano. Che cos’altro potrei volere? L’unica cosa che voglio è di vederlo crescere. E diventa- re qualcosa di più.»
«Di certo dovrà crescere. Prima che sia pronto per la mi- niera.»
«Non sarà mai pronto per la miniera. Non questo. Scaverà
con la testa. In cerca di idee.» Fece l’occhiolino al bimbo. «Vero, Conn? Metto il suo nome nella lista di quelli che diventeranno primo ministro. Lo faccio subito domani mattina.»
La risata di tutti salì fino a diventare una marea di dolce ap- pagamento. La signora Ritchie si sedette accanto al fuoco sorri- dendo soddisfatta di se stessa. Buff gustava il suo whisky cen- tellinandolo a piccolissimi sorsi. Aggie ripose quella tentazione nella credenza. Jenny si era estraniata nel suo torpore, il suo corpo un relitto alla deriva abbandonato alla propria spossatez- za. Una sua esangue mano era stretta in quella di Tam Docher- ty che, intanto, usava l’altro braccio per cullare il neonato. Il dottor Allan si chinò verso il cuscino pregno del suo calore alle sue spalle. Mentre la sua professionalità appariva disarmata per la stanchezza, osservava quella scena di una fortezza di persone costruita a scopo protettivo – forse inefficacemente – intorno a un neonato. Si ricordò che, appena nato il bimbo, l’aveva depo- sitato ai piedi del letto, un pacco di inutile carne, per occuparsi della madre. Era stata la signora Ritchie a sculacciarlo per por- tarlo alla vita. Ne avrebbe parlato lei e il racconto si sarebbe poi gonfiato nel ripeterlo, sarebbe diventata la storia di una vita strappata dalle fauci della morte. Il bambino era nato portan- dosi appresso leggende ed era diventato, nell’atto di nascere, qualcosa di più di quello che era. Per Tam Docherty era esistito prima di lui stesso, era stato un nome, un’idea, nell’attesa di di- ventare carne. Egli intravide un tacito ma profondamente trat- tenuto senso di trionfo in ciò che tutte quelle persone condivi- devano. Al di là di quello che gli avevano riservato le loro esi- stenze, questo era ciò che avevano salvato – un nuovo inizio senza macchia. Conn era circondato da tutti loro, rosso come una ferita ancora fresca, e al dottor Allan parve, all’improvviso, che fosse già oppresso dall’impossibile carico del peso di tutte le loro esistenze. Nel momento in cui il dottore portò di nuovo il bicchiere alle labbra, il brindisi diventò un fatto privato. E con esso venne formulato un solenne augurio per il risultato di questo inizio che loro avevano sognato. Fu espresso ancora più intensamente perché nessuno sarebbe riuscito nemmeno per
un secondo a osare di crederci.
Sul lato opposto della via, la figura della signorina Gilfillan, alta e pallida come una candela, sembrava emanare un barlume nella cornice della sua finestra. Intorno a lei, con le finestre dei caseggiati che parevano sventrati dalle ombre e i vicoli aperti come solchi abbandonati, High Street sembrava morta come Pompei, una desolazione in cui la gente era cristallizzata nelle sordide pose delle proprie esistenze striscianti. Nella sua mente echeggiava ancora, in mezzo a esse, il suono del pianto del neo- nato che proveniva dalla finestra illuminata. Le giunse non come una nascita ma come un muro contro la morte. La disperazione che trasudava l’aveva già rivendicata a sé. Nessuno di loro, lì, aveva una sola possibilità di farcela. Osservando una scogliera di nuvole sfaldarsi lentamente al vento, avvertì che stava ceden- do a una sensazione d’impotenza e il cuore le si contrasse fino a diventare un ciottolo. La rassicurazione del passato si diradò come vapore lasciandola tremante in un vuoto abitato da ciò che la gente chiamava “progresso”. Lei lo avvertiva solo come una presenza maligna, come un mostro delle leggende, favolo- so se rivolto al futuro, divoratore se ripiegato nel passato, una sequenza auto-generatrice di deformità. Mentre quest’anno moriva, quale successore, più orrendo di se stesso, avrebbe ge- nerato?
LIBRO I
«Questa sarà una bella notte chiara per la pesca di frodo» disse Tam. «Vieni via con noi stanotte, Dougie?»
«No. Però, a pensarci bene, sono tentato.»
«Su dalle parti di Silverwood sarebbe l’ideale. Dove Barney vide il fantasma. Che ne dici?»
«Quella, sì, che è stata una notte davvero indimenticabile.»
Era un sabato sera estivo. Tam e Jenny Docherty erano fuo- ri, davanti alla porta d’ingresso, in compagnia di Dougie Mc- Millan e sua moglie, Mag. Le donne erano sedute nelle due se- die che Tam aveva portato fuori. Conn, ancora troppo piccolo per avere le briglie sciolte come Mick, Angus e Kathleen che erano nel parco, stava giocando tranquillo ai loro piedi, già ab- bastanza abile nell’evitare l’ora di andare a letto facendosi nota- re il meno possibile.
«Teniamoci di nuovo pronte per la grande corsa ai super - mercati» stava dicendo Jenny.
«Ah, sì.» Mag scosse la testa.
Era un’espressione coniata dai vecchi che stazionavano al- l’angolo della via per l’inizio dell’esercizio trimestrale della Co- op. Jenny criticava la possibilità che veniva data a certa gente di sfruttare quelli che lei chiamava “i loro amici”. Il metodo era abbastanza semplice anche se non privo di rischi.
Poiché i dividendi erano buoni, di solito più di dieci penny per ogni sterlina, alcuni membri avevano l’abitudine di permet- tere a chi non lo era di comprare merci a nome loro con l’inte- sa che il dividendo proveniente dall’acquisto sarebbe andato ai
membri. Dato che gli ordini venivano solo registrati e non ve- nivano pagati fino alla fine del trimestre, i non membri poteva- no godersi un breve senso utopico di lusso senza affrontarne i costi.
«Il giorno del rendiconto» sentenziò Mag.
«Proprio così» disse Jenny. «Ma il costo non è solo in de- naro.»
Dato che viveva accanto al droghiere, Jenny ne aveva visto gli effetti un sacco di volte: le famiglie “correvano” al negozio all’inizio del trimestre, si accalcavano come locuste intorno ai banconi, portavano via provviste alimentari in cesti per indu- menti, carrelli, trattori. La stretta arrivava alla fine del trimestre.
Cominciavano le visite furtive a casa di gente come Suzie Tem- ple, in New Street, che si favoleggiava possedesse una fortuna (nonostante vivesse in una casa in cui le sedie reggevano grazie a strisce di scatole di plastica di margarina inchiodate per tenere insieme i pezzi). Gli occhi di alcune donne avevano sguardi preoccupati e disperati. Veniva chiamata “la febbre del super- mercato”.
«Dicono che Suzie Temple non se la passi tanto bene» dis- se Mag.
«Cristo, quella sì che è stata una notte avventurosa.» Dougie la stava ricostruendo nella sua memoria. «Ti ricordi? Io ero se- duto sul ciglio della strada e stavo legando insieme i conigli. Li tenevo appesi intorno al collo.»
«Barney, se non sbaglio, era andato a ballare.»
«Sì. Era buio pesto. Mi alzo e gli domando: “Barney, che ora sarà?”»
Tam stava cominciando a sorridere.
«Si ferma, rigido come un cadavere. L’unica cosa che riusciva a vedere era il bianco delle code dei conigli che si agitavano nel buio. E scappa via come un razzo.»
«Senza prendere una direzione precisa. Salta le siepi, attraver- sa di corsa i campi. Mi hanno poi detto che si poteva mettere su una fattoria con tutto il letame che gli si era attaccato ai pan- taloni.»
«E di sicuro anche la sua personale miscela di letame ap- piccicata dentro.»
Erano scoppiati a ridere tutti insieme e Tam si era appoggia- to al muro per sostenersi.
«”È giunta la tua ora”» ricordò Tam. «Questo ha raccontato lui di ciò che gli aveva detto il fantasma.»
Altre famiglie, lungo tutta High Street, avevano messo fuori le sedie e chiacchieravano sotto i dolci raggi del sole. Una fami- glia benestante – marito, moglie e due figlie – stavano facendo una passeggiata venendo verso il punto in cui si trovavano Tam e gli altri. Era una cosa che accadeva abbastanza di frequente.
Un discreto numero di famiglie dei quartieri benestanti faceva- no di quella passeggiata un evento in un sabato sera estivo. Po- teva essere un’esperienza interessante.
In quella particolare occasione, l’uomo stava indicando qual- cosa alla moglie mentre passavano accanto a Tam. Una frase del suo discorso giunse fino a loro: «È incredibile che della gente viva qui.» Le ragazze tenevano gli occhi fissi a terra e sbatteva- no le palpebre con apprensione. L’uomo diede un leggero buf- fetto sulla testa di Conn mentre gli passava accanto. Conn sol- levò il capo e sentì la mano di suo padre irrigidirsi, come un el- metto, sul suo capo.
Poi udì la voce del padre fendere la calma dei suoi giochi come il lampo di un fulmine.
«Perché non hai portato una scatola di fottutissimi biscot- ti, eh? Così ce li potevi lanciare!»
La madre di Conn sibilò: «Tam.»
A un tratto Conn provò una sensazione che avrebbe dimen- ticato, ma che avrebbe avvertito di nuovo in anni successivi: un quadro familiare totalmente sicuro e protetto si trasformava al- l’istante in qualcosa di estraneo e spaventoso. Vide e sentì ma non riuscì a comprenderlo.
L’uomo si fermò ma non si voltò.
«Bene, signore» disse Tam, molto pacato. «Venga di nuovo a farci visita.»
«Per favore, Tam, per favore» bisbigliò Jenny.
La donna, che camminava a braccetto del marito, lo spinse via. Il viso di Jenny era rosso.
«Che ti è preso, Tam?» domandò Dougie, intimidito dallo sguardo lanciatogli da Tam.
«Vuoi dire che non ti sei accorto di niente? Dove cazzo vivi, Dougie?»
Qualche granello della polvere di quel breve momento esplo- sivo si sedimentò in Conn per sempre.
High Street era la capitale dell’infanzia e dell’adolescenza di Conn. Il resto di Graithnock era solo provincia. High Street, come luogo e come popolazione, era una cosa speciale. Tutti quelli che erano stati ammassati dalle circostanze come pecore nel suo tragitto di circa cento metri, avevano fallito nello stesso modo. Era una colonia penale per coloro che avevano com- messo il reato di povertà, un vizio che di solito era ereditario.
High Street e il suo proseguimento, Soulis Street e Fore Street, tracciava una linea retta fino alla Croce, nel centro della città. Insieme, erano state, in passato, la via principale della cit- tà, un quartiere residenziale per ricchi. Ma quando questa linea predominante era stata soppiantata da quella approssimativa- mente parallela di Portland Street e King Street, il quartiere più vecchio, come un tratto di terra diventata palude, era stato ab- bandonato ai poveri. Tra la flora e la fauna meno imponente che vi si trovava ora, rimaneva lo spettrale ricordo occasionale di un più grandioso passato, come un monumento in mezzo alle erbacce. Uno di questi era il nome che la gente dava a uno degli edifici in Foregate (così veniva comunemente chiamata Fore Street). L’edificio era noto come Millerton Close e si dice- va che fosse stata la residenza di città di Lord Millerton il quale aveva un vasto possedimento vicino a Graithnock. Durante l’in- fanzia di Conn, Millerton Close accolse nei suoi angoli più re- moti coperti di muffa, a vari intervalli, un alcolizzato, una fami- glia che soffriva di rachitismo, una madre tisica di sei bambini.
In quel duro clima la gente sviluppava alcune caratteristiche
che erano comuni a tutti loro. Là dove si possedeva quasi nulla, il condividere era un riflesso generato dalla precauzione. L’uni- co patrimonio che potevano possedere era quello di contare gli uni sugli altri. Quasi tutto poteva essere preso in prestito, da un centesimo alla bombola del gas a un abito scuro per i funerali.
Le mogli si facevano visita a vicenda senza cerimonie. Gli uomini si riunivano spontaneamente, ogni sera, all’angolo della via e diventavano, di volta in volta, una scuola di lancio di mo- netine contro il muro, un sommesso coro di voci maschili, un parlamento senza poteri. D’estate, specialmente, rimanevano più a lungo, fino a quando il cielo non si era sfogato e immalinco- nito diventando cenere sopra le loro teste. I bambini, quando non erano a scuola, raramente stavano in casa durante il giorno ma li si potevano trovare distribuiti a caso nei cortili sul retro delle case, agli ingressi dei caseggiati e agli angoli del parco vici- no, come se fossero proprietà comune. Era inteso che l’autorità dell’adulto più vicino poteva essere esercitata su tutti. Conn im- parò subito che quando qualsiasi adulto gli chiedeva di fare una commissione, l’autorità dei suoi genitori approvava la richiesta, persino nel caso della vecchia signora Molloy (segretamente chiamata “testa grossa” dai ragazzi a causa delle strane escre- scenze sparse su tutto il cuoio capelluto), che invariabilmente lo incoraggiava al rispetto delle regole con le parole: «Ehi, tu, con quel testone e niente dentro.»
Rafforzare la palese anarchia della loro vita sociale e, allo stesso tempo, stabilire un ordine era un codice di comporta- mento così complesso da confondere anche il visitatore più acuto e attento. Eppure era tacitamente compreso persino dai più giovani cittadini di High Street fin dal momento in cui co- minciavano a pensare. Uno dei principi fondamentali era la tol- leranza. Vivendo in un contesto in cui le circostanze ingiganti- vano le prove ordinarie della vita in terribili rischi e sembrava- no disporle secondo l’imprevedibilità e l’ingegnosità di un cor- so di commando d’assalto per la sopravvivenza, la gente impa- rava ad accettare i crolli che provocava. Dietro a ogni altro ba- nale avvenimento si nascondeva un punto di tensione a cui po-
vertà, disperazione e un opprimente senso di inferiorità aveva- no contribuito pesantemente per anni. Di conseguenza, le fru- strazioni tendevano a esplodere, a intervalli variabili, in chiun- que.
A volte gli uomini si disintegravano clamorosamente pic- chiando la moglie, una limpida sera d’estate, fino a farle perdere conoscenza o attaccandosi a una bottiglia di whisky di pessima qualità per due settimane di seguito. Tali manifestazioni di falli- mento non incontravano nessuna approvazione ma nemmeno sollecitavano disprezzo eterno. Erano troppo reali per subire anche quello.
High Street era intransigente in fatto di diritti che, sebbene non fossero magari facilmente comprensibili a un estraneo, erano molto reali nella vita del luogo e formavano un invisibile reticolo di barriere e diritti di passaggio. Era, per certi versi, moralità di riflesso, spesso motivata dall’obiettivo di non rende- re impossibili i termini di un’esistenza già di per sé difficile. Ep- pure, dietro, c’era anche un profondo – per quanto soffocato – senso di ciò che significava essere uomo, la consapevolezza che c’erano aree solo ed esclusivamente tue che, se venivano viola- te, forze tremende potevano venire invocate.
L’adulterio, per esempio, era un fenomeno raro. Questo era in parte dovuto alla natura pubblica delle vite private: in effetti era il logoramento di fare i conti con famiglie allargate a pro- mulgare leggi contro le dinamiche di tali situazioni. L’eccesso di lavoro è un grande promotore della castità. Ma era soprattutto perché un tale passo ti portava verso un pendio oscuro e scivo- loso e assai lontano dal sicuro terreno della prevedibilità. Là dove, in una società più garbata, una simile azione poteva signi- ficare la vivisezione di una sofferenza privata in un luogo pub- blico, in High Street – dove l’edificio di un tribunale per cause di divorzio sembrava tanto distante, quanto doveva essere sem- brata la corte dell’imperatore da una delle fortezze sparse lungo la Grande Muraglia – la tendenza veniva invertita. La situazione diventava più privata, veniva iniettata affinché fermentasse nel cranio di un uomo. La gente distoglieva lo sguardo, in attesa di
sviluppi. Il più comune era ciò che loro chiamavano con ragge- lante semplicità “un calcione”. Accadeva semplicemente che gli uomini venivano considerati fasci di impulsi conflittuali spesso impossibili da misurare e, di solito, imperfettamente guidati da un logoro autocontrollo. Se uno lanciava una provocazione, sa- peva che poi doveva aspettarsi un uragano.
Per il resto, là dove il reato era veniale, la violenza aveva i suoi atti formali. Due uomini, la domenica mattina, stabilivano di andare in un campo vicino: si toglievano le camicie e siste- mavano la questione con una scazzottata. Ma queste soluzioni manuali del problema erano rare. I rapporti erano così accura- tamente incanalati grazie a infiniti piccoli contatti quotidiani e interminabili conversazioni, da venire classificati secondo una gerarchia, basata sull’istinto, che andava da quelli con cui qual- siasi battuta o atteggiamento era permesso a quelli che sarebbe stato da idioti provocare. Quasi in cima a essa si trovava Tam Docherty.
Tam piaceva molto a tutti e avrebbe potuto piacere di più se la gente avesse saputo che in lui c’era ancora tanto altro da ap- prezzare. Ma lui si teneva quasi sempre nell’ombra. Atteggia- menti minacciosi e confusi rispetto alla Chiesa, alla vita della classe operaia e alle condizioni di lavoro, oscuravano i chiari contorni della sua natura, come nuvole dense di potenziali sca- riche temporalesche. All’angolo, l’argomento del sacerdozio sembrava aggravargli il catarro in gola tanto che le parabole de- gli sputi diventavano più frequenti. E tuttavia lui diceva poco. Il suo nome non era un suono piacevole per ben più di un diret- tore di miniera nella regione. Viveva in un suo personale clima di improvvise esplosioni – momenti di contagiosa solarità che non si potevano prevedere e brevi inverni di isolamento malin- conico che, a quanto pare, non erano collegati a eventi accaduti intorno a lui.
Lo stesso Conn aveva avvertito tutto ciò addirittura fin da quando era bambino. Aveva imparato a vivere tranquillamente in mezzo a furiose manifestazioni di affetto che lo facevano gi- rare vertiginosamente nelle mani del padre al di sopra di un
cerchio di facce sorridenti, a silenzi immobili, a scoppi d’ira im- provvisi che sua madre era esperta nel neutralizzare. L’ira era la cosa più spaventosa perché di solito era incomprensibile.
Ma per Conn, High Street era una seconda madre che aveva i suoi metodi segreti per esorcizzare ogni preoccupazione. Im- parò i ricorrenti umori del luogo come si fa con una storia fa- vorita, assaporando, muto per il piacere, i passaggi che più gli piacevano: gli incontri del sabato mattina di gruppi di bambini, quando c’erano anche quelli più grandi, romantici come carce- rati nei loro momenti di libertà da scuola, favolosi per le inim- maginabili esperienze, concentrati nello studio di piani che gli trasmettevano un’estasi di paura mentre il fine settimana si estendeva davanti a loro come un continente; il momento, poco prima di cena, quando gli uomini di quella che gli adulti chia- mavano “lo squadrone speciale” arrivavano dalla fonderia Tow- nholme e i loro scarponi sprigionavano scintille sull’acciottola- to; quando gli uomini stavano all’angolo e magari lo circonda- vano protettivi, oppure quando il padre, appoggiato contro il muro, trasformava le gambe in un cantuccio sotto al quale Conn si accoccolava e niente poteva toccarlo; quando la strada si abbandonava all’oscurità e una madre si sporgeva dalla fine- stra del caseggiato e prendeva al laccio il figlio semplicemente chiamandolo per nome nell’imminente crepuscolo.
Dalla cima di High Street si poteva scendere verso Menford Lane, una via che moriva, come il progresso, in una fabbrica.
Nelle sue crepe s’insinuava l’odore di lana, tinture e sudore uma- no, un fungo che dispensava cupi sogni di mascolinità. I mac- chinari digrignavano dietro a finestre annerite masticando urla e risate. Veniva sommerso il canto di una donna. Dopo le sue ombre, la via ti feriva gli occhi con la sua luminosità. La zona chiamata The Gates era gradevole. Si passava in mezzo alle case, prima sotto un arco, poi lungo una via sopraelevata e infi- ne si oltrepassava un cancello. Era tutto un manto erboso die- tro agli edifici da cui pendeva il bucato, verdi poggi che scende- vano verso il fiume. I soldati bivaccavano sotto lenzuola goc- ciolanti. I pirati discutevano al lavatoio. E poi arrivavano le ma-
dri, annunciate dalle loro urla.
Accovacciandoti, come se stessi cercando qualcosa sull’ac- ciottolato, potevi sbirciare dentro il Mitchell’s Pub. La porta era sempre aperta. Nella penombra si muovevano gli uomini, lon- tani mille miglia. Si bagnavano le labbra nei boccali. Le voci si levavano come riccioli di fumo volando fuori nella via. Le pa- role indugiavano stranamente prima di scomparire, eccitanti ma senza fissarsi nella memoria. A volte usciva un uomo che si fer- mava, si metteva a ridere e frugava nelle tasche in cerca di un penny. La vetrina del negozio della signora Daly era abbastanza bassa per riuscire a guardarci dentro, la lingua vagava con l’im- maginazione sulle scatole che apparivano come nitidi segmenti di colore, come orchidee finte. All’interno, lei andava avanti e indietro in una garbata confusione di abiti fruscianti e parole si- bilate, ammucchiava caramelle toffee che sapevano di aceto su un pezzo di carta, contava dolcetti al cocco o gocce di anice oppure offriva biscotti alla menta e cannella con la sorpresa dentro che uno addentava speranzoso.
Di fronte al mercato alimentare, un enorme caseggiato al- l’angolo di Union Street, c’era l’ingresso al parco. Si trovava alla fine di un ripido pendio e non potevi non correre; attraversan- do il ponte in gruppo, diventavi una mandria di cavalli. Sotto di te, scorrendo lungo i cortili sul retro di High Street, il fiume era visibile per un centinaio di metri di varietà amazzonica. A mon- te, oltre la fabbrica, formava una cascata in prossimità delle Roc- ce Nere planando poi in una vasta pozza d’acqua in cui uomini e bambini nuotavano d’estate. L’acqua era scura – profonda ol- tre sei metri, dicevano. Con l’acqua che bagnava le sponde, si raccontavano storie di cani finiti sul fondo. Proseguendo il suo corso, il fiume raccoglieva poltiglia bluastra dalla fabbrica e la faceva mulinare in forme fantastiche che poi svanivano fram- mentandosi in migliaia di minuscoli rivoli sulle rocce prima di allungarsi, proprio quando passavano sotto il ponte tendendosi come brandelli di pelle, e formare una piccola cascata di un metro in un ribollire di spruzzi in mezzo a cui, nella stagione giusta, di quando in quando, volteggiava qualche trota a pelo
d’acqua. Infine si fiondava sotto l’arco della ferrovia e si allon- tanava. Il ponte conduceva dentro al Kay Park, un campo da gioco erboso con un palco della musica al centro.
In uno dei cortili di Soulis Street fabbricavano ruote. Quan- do ti trovavi là dentro, respiravi segatura, come essere all’inter- no del tronco di un albero. Nei giorni in cui ti sentivi coraggio- so, potevi portare un amico e intrufolarti nelle stalle sotto l’ar- co della ferrovia che segnava l’inizio di Foregate. Dietro ciascu- na porta, il crepuscolo veniva immagazzinato in enormi lastro- ni caldi, delicatamente venati di colpi di sole. La polvere di le- gno volteggiava inventando arabeschi nell’oscurità. Sentivi la presenza invisibile di un cavallo che diventava reale appena ti giungeva il suo sbuffare. Poi risuonava il battere di uno zoccolo e tu ti mettevi a correre. In giro c’erano sempre persone che andavano e venivano – una foresta di facce.
Casa voleva dire sicurezza. I Docherty erano fortunati ad avere due stanze a differenza di quasi tutti gli abitanti della via.
C’era il soggiorno con due letti pieghevoli. In uno dormiva Conn mentre suo padre e sua madre dormivano nell’altro. Da lì si accedeva alla cucina, piccolissima. Nella stanzetta sul retro dormivano Mick e Angus. Kathleen usava il letto che veniva ri- piegato e tenuto nella credenza dietro la porta sul retro. Il foco- lare era una presenza fissa e lo spazio intorno era una sorta di palcoscenico dove accadevano le cose migliori, dove il padre gli raccontava le storie, dove gli altri si sedevano la sera a parlare mentre lui fingeva di dormire, dove poteva osservare il corpo del padre uscire dal bagno di zinco mentre l’acqua diventava nera. Era la regolarità con cui capitavano le stesse cose, ogni giorno, nella sua casa, a dargli il massimo conforto.
Meno male che c’era la fondamentale stabilità di quella routi- ne, dato che i suoi rapporti all’interno della famiglia erano piut- tosto confusi. Solo la madre e Mick erano sempre se stessi. In braccio alla madre si trovava il posto migliore – e per di più sempre disponibile – che conoscesse. Persino quando lei era arrabbiata, era assai probabile che arrivasse un supplemento di coccole. La pazienza di Mick era incrollabile: gli permetteva di
fare la lotta con lui, di prenderlo a pugni, minacciarlo; e la sua unica reazione era di ridere.
Invece suo padre era tanti uomini diversi; e non tutti erano simpatici. Kathleen spesso trattava la presenza di Conn come un ingombro imprevisto e tante volte aveva provato a sbatterlo fuori mentre spazzava il pavimento. Angus era il peggiore. Gio- care con lui era per Conn come far funzionare un macchinario che non sapeva usare. Quasi ogni giorno il suo pugno scattava come un pistone e ogni volta Conn non riusciva a capire quale leva aveva tirato. Tutte le volte che si trovava nei paraggi di An- gus, Conn si teneva pronto per scappare.
Eppure, persino quelle incertezze erano diventate una specie di ricorrenza fissa. I primi anni di vita insegnarono a Conn che le cose non si potevano cambiare. Tutto quello che succedeva era che il padre ogni sera tornava dalla miniera e sua madre gli scompigliava affettuosamente i capelli quando lo metteva a dor- mire. Il Tempo era High Street, Angus quando faceva il prepo- tente, Mick quando rideva, Kathleen quando era impegnata nel- le faccende domestiche.
E infine, un giorno, dovette andare a scuola. Lo stupì che la sua evidente espressione di rifiuto ad andarci non ne avesse bandito la necessità. Dalle macerie del suo vecchio senso di si- curezza colse alcune strambe percezioni: il petto di Kathleen stava diventando rotondo; Mick riusciva a toccare la parte alta della porta con un salto; Angus riusciva a sollevare un secchio pieno d’acqua. Che lui dovesse andare a scuola faceva sempli- cemente parte della stranezza complessiva.
E così ci andò. E presto l’accettò. Non si accorse che An- gus era l’unico in famiglia che frequentasse la sua stessa scuola, in fondo alla via. E non si rese conto che Mick e Ka- thleen ne frequentavano un’altra.
Non molto tempo dopo avere iniziato a frequentare la scuola di High Street, una sera Conn rientrò in casa dai suoi giochi con l’aria rassegnata aspettandosi di essere spedito a letto. Ma due cose nella stanza mandarono all’aria la routine: suo padre, che era tornato tardi dalla miniera e aveva appena finito di la- varsi, era ancora nudo fino alla cintola e stava asciugando una camicia pulita davanti al camino le cui fiamme sfaccettavano il suo corpo in superfici luminose; il nonno Docherty, seduto ac- canto al fuoco, fumava una pipa di creta annerita. A Conn pia- ceva il nonno. Era scuro e magro, con mani enormi e una voce gentile che non apparteneva a quell’ambiente. Quando la fami- glia di Conn andava a trovarlo a casa sua, lui parlava quasi esclu- sivamente a Conn e, se non c’era suo padre, lo lasciava giocare con degli strani grani consunti che teneva nella tasca della giac- ca.
Quella sera fece l’occhiolino per invitare Conn a mettersi da- vanti a lui, in piedi, tra le sue gambe. Se ne stava seduto lì, a fis- sare Conn con una specie di dolente affettuosità che il bambi- no non riusciva a comprendere. L’immensità delle sue mani oscurava completamente la pipa al punto che sembrava tenesse in pugno del fuoco. Conn, a disagio perché avvertiva l’estranei- tà della situazione nella stanza, tentò di divincolarsi. Era come se non fosse più un luogo unico ma diviso in vari settori. Suo padre stava impiegando troppo tempo nell’asciugare la camicia.
La madre era totalmente assorbita nel ripiegare il bucato nel ce- sto. Il nonno lo fissava con uno sguardo ipnotico. Kathleen, se-
duta su uno sgabello, osservava con interesse il nonno.
Conn fu contento quando sua madre disse: «Vai fuori, figlio- lo, a giocare ancora un po’. Kathleen, sorveglia il piccolo.» Ka- thleen fece un verso d’insofferenza ma lo accompagnò fuori e suo nonno lo lasciò andare malvolentieri.
Appena i figli furono usciti, Jenny Docherty posò il cesto del bucato, si riassettò una ciocca di capelli sciolta dietro l’orecchio e disse con tono vivace: «Bene, devo dire una cosa ad Aggie. Ci vediamo prima che vai via.»
«Va bene, Jenny» disse il Vecchio Conn.
«Non va bene niente!» La voce di Tam la fermò. «Aspetta, Jen. Questa è casa tua e hai il diritto di ascoltare quello che si dice qui.»
«Non c’è problema, Tam.»
«Lo so che non c’è. Perciò rilassati.»
I passi di Conn rimbombarono davanti all’ingresso, di sotto.
Poi la stanza si riempì lentamente di silenzio. Jenny tornò a oc- cuparsi del bucato accarezzando e ripiegando ripetutamente, senza motivo, gli indumenti: messa di fronte alla futilità di quel- lo che stava per accadere, ciò l’aiutava a calmarsi. Questo, alme- no, era qualcosa che offriva un immediato riscontro, il conforto e il calore della sua famiglia.
Fuori c’era ancora abbastanza luce ma le piccole finestre fun- zionavano da filtro modificando il giorno marginalmente alle due estremità in modo che l’alba veniva ritardata e il crepusco- lo, come ora, veniva anticipato. La stanza stava già annegando nella penombra.
«Le giornate si stanno accorciando» disse il Vecchio Conn.
«Eh sì. L’inverno non è lontano.»
Jenny provò pena per lui, ma era un sentimento ingabbiato nel risentimento che lei covava per l’atmosfera che proprio lui aveva creato. Osservò Tam che infilava la camicia nei pantaloni e sperò che non si alterasse a causa della conversazione che sta- va per iniziare. Gli scodellò un abbondante piatto di minestra e, servendoglielo sul tavolo accanto alla finestra, provò per lui un impotente sentimento d’amore. Sapeva che si era fermato a
bere ed era per quel motivo che era arrivato a casa più tardi.
Non aveva bevuto molto e comunque lo faceva così raramente che bastava anche solo un boccale di birra. Gli occhi gli lucci- cavano per un quasi impercettibile bagliore d’ira.
Lei aveva imparato a riconoscere quei momenti e a decifrarli.
All’inizio aveva tentato di opporvisi. Ora non più. Non erano affatto frequenti e dato che lui li detestava esattamente come lei, tutto quello che si poteva fare era controllarli – come un’in- fermiera, finché non passava il dolore. Perché era dolore ciò che si annidava nei loro cuori. Tam disprezzava il modo in cui la gente di High Street considerava il bere: un mezzo per fuggi- re da se stessi. C’erano occasioni in cui gli piaceva bere qualco- sa. E quello andava bene. Ma ce n’erano altre, che entrambi ri- conoscevano, in cui il bere era un brindisi alla propria dispera- zione. Di queste occasioni provava sempre vergogna.
Tacitamente, entrambi comprendevano che c’era in lui una sorta di tumore maligno, una piccola escrescenza resa dura da un’amarezza che giaceva apparentemente innocua per gran par- te del tempo ma che veniva spasmodicamente attivata attraver- so un’accumulazione di impercettibili irritazioni. Quando quel- l’irriducibile nodo di frustrazione scaricava il suo pus, creava in lui un’allergia alla propria vita. Il risultato era rabbia contro qual- siasi cosa si trovasse nelle sue vicinanze in quel momento. Non durava per molto ma, quando esplodeva, era come essere inca- tenato dentro a un nubifragio. La sua ira poteva lanciare fulmi- ni su uno qualsiasi dei figli, anche su di lei, su un oggetto inani- mato. In casa avevano ancora un orologio che il suo pugno aveva pietrificato alle nove e dieci. Era riposto in un cassetto, come un cimelio della storia di famiglia, un pezzo di antiquaria- to di rabbia. Era diventato una battuta segreta tra di loro. A volte, quando la sua rabbia stava gonfiando, lei diceva, con tono tranquillo: «Ah, fra poco saranno le nove e dieci, Tam.» E lui si arrendeva a una risata d’imbarazzo.
Un altro colpo a salve a cui lei ricorreva era quello di dire, in- clinando la testa per vederlo di profilo: «Accidenti! Stai diven- tando brutto come Gibby Molloy.» Il figlio unico della vecchia
signora Molloy, che viveva da solo con lei, due porte più in là della loro, era l’esemplare locale di ira senza scopo. Ogni tanto, il sabato sera, si ubriacava fino a scivolare in uno stato di ardore rivoluzionario. Tornando a casa, si metteva metodicamente al lavoro – tra una fiumana di rumori di sottofondo che includeva un osceno elenco dei suoi nemici personali, denunce ripetute contro di “loro” e “voi” e slogan estemporanei di influenza va- gamente proletaria – per aprire, abbattendola, la porta del gabi- netto fuori nel cortile. Ogni domenica mattina, dopo una simile nottata, si alzava presto e, quietamente e con ammirevole preci- sione, riparava la porta mettendo una tenda davanti a quel pic- colo tabernacolo di pubblica decenza.
Chiunque lo vedesse impegnato in quell’occupazione lo tro- vava al suo meglio, di buone maniere e simpatico. Non alludeva mai alla nottata precedente ma andava avanti con il suo lavoro con amabile pazienza, come se stesse riparando il danno di un uragano molto localizzato. Nessuno tentava di analizzare quale oscura nevrosi collegasse periodicamente Gibby al suo gabinet- to in un alternarsi di conflitto e riconciliazione. Era uno sfogo che non dava fastidio a nessuno dato che il gabinetto rimaneva fuori uso una volta sola per poche ore della notte nell’arco di diversi mesi. Divenne un fenomeno sociale accettato, un occa- sionale argomento di conversazione. Qualcuno magari dice- va, «Di sicuro sta diventando più regolare, non ti pare? L’ultima volta che l’ha fatto non era proprio alla fine dell’anno scorso?»
Una delle battute più diffuse era che Gibby si stesse impegnan- do per realizzare la segreta ambizione di fare il manutentore di porte di gabinetti.
Classificando la rabbia di Tam insieme a quella di Gibby, Jen- ny riusciva a volte a negarla. Ma l’efficacia della sua ironia di- pendeva dal capire quando scivolava nell’impertinenza. Ebbe paura che ora fosse una di quelle volte. Mentre l’osservava star- sene seduto a tavola, i capelli ancora umidi dopo esserseli lavati, le mani che strappavano il pane a pezzettini per intingerli nella minestra, si sforzò di consolarsi pensando che se lui stava per entrare in una delle sue fasi di umore nero si sarebbe fatto per-
donare più tardi. In effetti, dopo, il suo umore tendeva a diven- tare espansivo come una prateria ed era come quando l’aveva conosciuto all’inizio. Con aria conciliante si rivolse al Vecchio Conn: «Vuoi della minestra?»
«No, grazie, Jenny. Ho appena finito di cenare a casa.»
Tornò a ripiegare il bucato per estraniarsi dalla loro presen- za. Il vecchio Conn si mise a dialogare con la sua pipa. Tam mangiava. L’unico segno che non tutto era normale era che il giornale (di solito Tam lo scorreva faticosamente durante la cena) era sul tavolo, ancora da leggere.
«Allora, papà» disse Tam. «Di che si tratta?»
«Oh. Ah, stavo facendo una passeggiata e ho pensato di fare un salto qui da voi.»
«Ah sì? Era da un anno o due che non venivi.»
«Non sono più giovane, Tam. Non esco più tanto, ormai.»
«Nessuno sta criticando.»
Le regole di quel loro scambio erano state stabilite. Tam ri- fiutava decisamente d’incontrarlo se non frontalmente. Il Vec- chio Conn, come sua abitudine, era lentissimo nel parlare. Ogni frase tendeva a essere il raccolto di lunghe riflessioni. Punteg- giava i silenzi con le parole. La sua cadenza, fantasma dei tempi andati nel Connemara, dava a una discussione pacata un tono malinconico mentre la gutturale cadenza lallan del figlio era una dissonanza, una stonatura.3
«Stai avvelenando il cuore di tua madre, figliolo» disse Conn che intendeva sollecitare indirettamente una reazione piuttosto che chiederla esplicitamente. «È tanto preoccupata.»
«Vedo mia madre ogni settimana. So quello che prova.»
«Davvero? A proposito del bambino?»
«Ah, me l’immaginavo che era per questo. Perché non va alla scuola cattolica.»
«Perché non ci deve andare, Tam? Con Angus è stato ter- ribile. E adesso sono due che vanno alla scuola protestante.
Perché li hai mandati là?»
«Perché è più vicina.»
«Oh, Tam!» Il vecchio trasmise in quell’esclamazione una
profonda tristezza e, allo stesso tempo, una terribile sentenza definitiva, come se fosse una scomunica. Sembrava sorpreso che Tam, con quella risposta blasfema ancora calda sulle lab- bra, potesse alzarsi dalla tavola e, strappato un piccolo angolo del giornale, andare al caminetto per accendersi una sigaretta.
Ammesso che ci fosse stata una conversazione, comunque era finita. Il Vecchio Conn era venuto a trovarsi davanti a un’o- pacità familiare che per lui era impenetrabile e incuteva paura.
Non importava quali pensieri avesse mai avuto una volta: il fat- to che ormai si fossero vanificati in atteggiamenti formali – che erano l’unica via percorribile in una situazione come questa – lo feriva brutalmente. Si ritirò dietro di essi con una sorta di au- tomatismo di facciata. Questi scambi, trasformati in formalità, costituivano un territorio di chiarezza a cui contribuivano en- trambi, dato che era la conclusione più volte sperimentata dei loro tentativi di incontrarsi su quell’argomento. Mentre il Vec- chio Conn leggeva al figlio il sermone della sua caparbietà, Tam, legandosi i lacci degli scarponi buoni sul lato del caminetto op- posto a quello dov’era il padre, lanciava le sue risposte rituali.
«Che cosa ti è successo? A volte penso che non avrei mai dovuto lasciare l’Irlanda.»
«Hai ragione. Così saremmo potuti morire tutti di fame in uno stato di grazia divina.»
«Da dove ti vengono questi pensieri? Sono blasfemi.»
«Crescono in miniera. Li puoi estrarre insieme al carbone.»
«Non mi stupisco se hai avuto problemi a conservare il lavo- ro. Le cose che dici... Non hai mai saputo stare al tuo posto.»
«Devo ancora trovarlo. Ma intanto il mio posto è dove mi capita di essere.»
«Guardati intorno! Hai una casa, una famiglia e un buon la- voro. Non ti rendi conto della fortuna che hai. Quando io sono arrivato qui...»
«Lo so, lo so. Hai bussato alla porta di Kerr, il muratore. E lui ti ha lasciato dormire in una baracca per due settimane. E tu hai lavorato per due settimane in cambio solo dei pasti. Ti met- teva la catena, la notte, papà?»