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LA CRISI AZIENDALE: GLI STRUMENTI DI SISTEMAZIONE EXTRAGIUDIZIALE E GIUDIZIALE.

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Indice

INTRODUZIONE ... I

I. LA CRISI D’IMPRESA ...1

1. Premessa ...3

1.1. La crisi d’impresa nella letteratura economica ...3

1.2. Il filone aziendalistico ...9

1.3. Il filone strategico-manageriale ... 11

1.4. Il declino e la crisi ... 11

1.5. Le fasi evolutive della crisi: dall’ “incubazione” al definitivo dissesto ... 15

1.6.L’individuazione delle cause del declino e delle crisi d’impresa ... 18

1.6.1.Premessa ... 18

1.6.2.Cause delle crisi ... 19

1.7. Le ricerche empiriche sul caso italiano. ... 30

II. LA PREVISIONE DELLA CRISI D’IMPRESA ... 33

2. Premessa ... 35

2.1. Il fronteggiamento del rischio e dell’incertezza ... 40

2.1.1. Il rischio ... 42

2.1.2.L’incertezza ... 43

2.2. La prevenzione delle crisi aziendali: a livello strutturale e a livello operativo ... 44

2.3. Il controllo di gestione nei processi di risanamento aziendale ... 54

2.4. Il ruolo degli organi di controllo nella prevenzione delle crisi d’impresa ... 56

2.5. Sistemi di gestione delle crisi aziendali ... 61

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III.LE SOLUZIONI CONCORDATE DELLA CRISI D’IMPRESA ...67

3. Premessa ...69

3.1. La composizione stragiudiziale ...72

3.1.1. Modalità e finalità della composizione stragiudiziale ...73

3.1.2. L’iter della composizione stragiudiziale ...74

3.2. Riforma delle procedure concorsuali ...75

3.3. I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori ...76

3.4. Il concordato preventivo e il ruolo del dottore commercialista ...79

3.4.1. Le novità del correttivo ...85

3.5.Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ...87

3.5.1. Premessa ...87

3.5.2. La natura e il contenuto dell’accordo ...89

3.5.3. I presupposti e il procedimento ...92

3.6. La prima prassi dei tribunali ... 103

3.7. I piani di risanamento ... 111

3.7.1. Presupposti e contenuti ... 114

3.7.2. Formulazione del piano di risanamento ... 118

3.7.3. L’attestazione dell’esperto ... 130

3.7.4. La responsabilità dell’esperto ... 136

IV.ASPETTI CONTABILI E FISCALI NELLE SOLUZIONI CONCORDATE DELLA CRISI D’IMPRESA ... 137

4. Premessa ... 139

4.1. Aspetti contabili nel concordato preventivo ... 141

4.1.1.Documentazione prevista dall’art. 161 L.F. ... 142

4.2. Aspetti fiscali nel concordato preventivo – Le imposte dirette – ai fini IRES ed IRPEF. ... 146

4.2.1.Trattamento fiscale delle sopravvenienze attive ... 147

(3)

4.3. L’imposta regionale sulle attività produttive - IRAP - ... 149

4.4. Le imposte indirette – L’ IVA e le note di variazione IVA ... 151

4.4.1. L’imposta comunale sugli immobili -ICI- ... 154

4.4.2. L’imposta di registro ... 155

4.5. Aspetti contabili degli accordi di ristrutturazione dei debiti. ... 159

4.6. Aspetti fiscali negli accordi di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182bis L.F. – Le imposte dirette ... 161

4.6.1. Imposte indirette – IVA, Imposta di registro e ICI... 165

4.7. Aspetti fiscali nei piani di risanamento – Imposte indirette ... 166

4.7.1. Imposte dirette ... 169

4.8. L’istituto della transazione fiscale ... 170

4.8.1. Natura giuridica dell’istituto ... 173

4.8.2. Oggetto della transazione ... 174

4.8.3. La “previgente” transazione fiscale ... 178

4.8.4. La “nuova” transazione fiscale ... 181

4.8.5. L’applicazione dell’istituto nella pratica ... 184

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ... 191

BIBLIOGRAFIA ... 195

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I

INTRODUZIONE

La crisi d’azienda rappresenta un fenomeno alquanto articolato e particolarmente vasto, soprattutto nell’attuale contesto economico, caratterizzato da profondi mutamenti e da scarsità di risorse soprattutto finanziarie. Proprio per questo si è cercato in molti campi, dagli studi empirici alla realtà politica, di far fronte a questi fenomeni mediante lo studio delle modalità più adatte per prevenire il rischio di collassi o degenerazione di grandi realtà economiche.

Il nodo centrale della questione è soprattutto quello di proporre soluzioni credibili, che portino ad un rinnovamento aziendale completo e sostenibile nel lungo periodo, nella tutela e nel rispetto altresì delle esigenze dei diversi stakeholders che partecipano in maniera più o meno diretta alla vita dell’impresa, alla luce delle crisi aziendali degli anni Novanta e dai recenti crack finanziari di grandi realtà italiane quali Fiat, Parmalat e Cirio, che ne hanno lacerato la solidità economico-finanziaria, e la credibilità agli occhi del contesto esterno.

Di fronte a tale scenario si è accentuato l’interesse verso la ricerca di soluzioni alla crisi più efficaci, in grado di garantire un migliore equilibrio tra le esigenze contrapposte della tutela dei creditori e della conservazione del valore economico delle imprese insolventi.

I sistemi di gestione della crisi devono rispettare diverse caratteristiche fondamentali: essere robusti dal punto di vista delle capacità di prevenzione; permettere interventi efficaci in tempi rapidi; consentire di mettere in campo competenze imprenditoriali, manageriali e finanziarie di livello elevato; operare con un grado accettabile di trasparenza e di equità. Le tradizionali procedure giudiziali sono apparse inadeguate allo scopo, ciò spiega la diffusa tendenza a ricorrere a soluzioni stragiudiziali, realizzate attraverso accordi privati, condotti al di fuori della normativa fallimentare vigente.

(6)

II

L’attenzione verso queste soluzioni privatistiche si spiega soprattutto in funzione dei vantaggi che esse presentano rispetto alle soluzioni giudiziali, vantaggi riguardanti sia la maggiore elasticità che esse consentono nella gestione della crisi, potendo quest’ultima essere liberamente affrontata muovendosi al di fuori di vincoli posti dalla legge, sia i minori costi e i tempi più ridotti normalmente associati alla loro adozione.

Il presente lavoro, dunque, è finalizzato allo studio della composizione della crisi d’impresa in forma stragiudiziale.

Il capitolo primo ha il compito di dare una visione generale sul concetto di “crisi d’impresa”, si cercherà pertanto di offrire una panoramica attorno alla definizione di crisi d’impresa, nonché sull’individuazione e sull’analisi delle relative cause.

Sulla base di tali premesse, il capitolo secondo focalizza l’attenzione sulle modalità di prevenzione e di individuazione degli stati di crisi. Solo da un valido e approfondito lavoro di individuazione si possono impostare diagnosi corrette e interventi risanatori appropriati. In tale ottica, vengono presentati i principali strumenti di diagnosi della crisi, tra cui l’analisi dei bilanci, dei quozienti di bilancio, finanziaria, di mercato e della formula imprenditoriale.

Il capitolo terzo si concentra, invece, sulle soluzioni di risanamento dell’impresa in crisi, in particolare evidenzia le caratteristiche e l’iter formativo della soluzione stragiudiziale, vista come alternativa a quella giudiziale.

Tale capitolo rappresenta il fulcro del seguente trattato, in quanto pone alla luce i nuovi strumenti di sistemazione extragiudiziali, in particolare al concordato preventivo, alla nuova figura degli accordi di ristrutturazione dei debiti nonché al piano di risanamento, alla luce del recente decreto correttivo d.lgs. n. 169 del 12 settembre 2007.

Nell’ultimo capitolo, invece, si affrontano tali strumenti dal punto di vista aziendalistico, in particolare degli adempimenti contabili e di bilancio che le procedure richiedono ai soggetti protagonisti, quali la tipologia e la natura dei

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III documenti contabili o situazioni patrimoniali, i soggetti preposti alla loro redazione, i principi e criteri da seguire, nonché l’esame degli aspetti fiscali.

Per quanto riguarda gli aspetti fiscali, saranno trattate sia dal punto di vista delle imposte dirette che indirette, con un approfondimento particolare per quanto riguarda il nuovo istituto della <<transazione fiscale>>, alla luce della recentissima Direttiva emanata da Equitalia in tema di rateazione dei debiti fiscali.

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1

I.

LA CRISI D’IMPRESA

Sommario: 1. Premessa

1.1 La crisi d’impresa nella letteratura economica 1.2 Il filone aziendalistico

1.3 Il filone strategico – manageriale 1.4 Il declino e la crisi

1.5 Le fasi evolutive della crisi: dall’” incubazione” al definitivo dissesto 1.6 L’individuazione delle cause del declino e delle crisi d’impresa

1.6.1 Premessa 1.6.2 Cause delle crisi

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3

1. Premessa

Nel corso degli anni diverse discipline si sono occupate del problema della crisi d’impresa: dall’economia aziendale all’economia politica, agli studi giuridici. Ciascuna di esse ha analizzato tale fenomeno da più punti di vista, approfondendo alcuni aspetti trascurandone altri, contribuendo così alla sua interpretazione e comprensione. In questa prima parte del lavoro, verrà posta l’attenzione sull’analisi delle diverse teorie, avendo riguardo da un lato alla nozione di crisi, nonché alla sua specificazione empirica che ne viene data, e dall’altro a fornire un primo quadro sistematico dei principali fattori di crisi aziendali.

1.1. La crisi d’impresa nella letteratura economica

Nell’ambito degli studi economici il tema della crisi d’impresa ha ricoperto uno spazio crescente nel corso del tempo. In tal senso si possono distinguere due diversi periodi di sviluppo degli studi in esame: il primo va dall’inizio del XIX secolo alla prima metà del XX secolo; il secondo dal dopoguerra ai nostri giorni.

In linea generale il contributo della letteratura economica, soprattutto nel primo periodo nel quale ha avuto origine, ha serbato uno spazio assai modesto allo studio delle specificità delle crisi d’impresa. Per contro nello stesso periodo si sono sviluppati degli studi che hanno trattato il problema della crisi riferendolo all’intero sistema economico. Dal dopoguerra si sono sviluppati, invece, due filoni di letteratura economica nei quali il problema della crisi occupa uno spazio assai più ampio. Si tratta della letteratura sulla crisi dei sistemi produttivi e di quelle sulle crisi settoriali. Ancora una volta, punto di riferimento non è la singola impresa, ma l’intero sistema economico, sia esso settorialmente o geograficamente definito. Negli anni più recenti, di pari passo con il contributo

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4

che ha caratterizzato fino ad allora la letteratura sulla crisi dei sistemi complessivi, ha preso vita il formarsi e il consolidarsi di un filone di studi specifico sulla crisi d’impresa, analizzata questa volta dal punto di vista manageriale, ossia dal punto di vista di chi deve prevederla, diagnosticarla e gestirla.

Il concetto di crisi d’impresa ha subito diverse connotazioni durante i diversi stadi di sviluppo del sistema economico: nella società pre-industriale il termine crisi d’impresa faceva riferimento alla scomparsa di un’attività mercantile, e quindi veniva a coincidere con il concetto di fallimento. Assumeva, perciò significato negativo, cioè nella mancanza di moralità nelle relazioni commerciali e, di conseguenza come furto nei confronti dei creditori, che in base al diritto comune potevano rivalersi sui beni e sul corpo del fallito. Nel XIX secolo, caratterizzato dalla nascita e lo sviluppo del sistema capitalistico, la crisi aziendale era identificata nella mancanza di profitto e nella conseguente scomparsa dell’impresa dal mercato. Questo evento, aveva una sua connotazione per qualche verso positiva: infatti, l’espulsione dal mercato delle imprese non efficienti erano considerati eventi naturali e necessari per garantire la migliore allocazione delle risorse e la crescita del sistema economico1. Alla fine del secolo

scorso, nella società che Lewis e Stanworth definiscono del << Capitalismo burocratico>>, il termine crisi d’impresa indicava un fenomeno ancora diverso, cioè lo squilibrio tra le attività e le passività aziendali, ossia mancanza di liquidità e nella conseguente incapacità dell’impresa di far fronte alle proprie obbligazioni. Questa nuova concezione deriverebbe dal riconoscimento dei cicli economici, ossia eventi imprevedibili in grado di causare il declino delle imprese. In questo periodo, il fenomeno ha perso, inoltre, la valenza di fenomeno irreparabile che provoca necessariamente la scomparsa dell’impresa: viene riconosciuta la possibilità di <<correggere gli errori>> e di risanare l’impresa. Si

1 Secondo le teorie classiche e neoclassiche, come è noto, l’impresa è un’entità astratta con un

compito preciso: trasformare i fattori di produzione in beni da offrire ai consumatori. L’efficienza di questo processo è garantita dal meccanismo concorrenziale, che in assenza di imperfezioni, provoca l’espulsione dal mercato delle imprese meno competitive.

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5 inizia, anche se implicitamente, a distinguere la crisi dal fallimento. Nello stadio evolutivo del sistema economico, ossia della cosiddetta società <<post-industriale>>, si è sviluppato un altro concetto di crisi d’impresa, che si affianca a quello appena ricordato: il trasferimento da parte delle imprese di diseconomie sull’ambiente esterno. Ciò è dovuto alla consapevolezza dell’esaurimento delle risorse naturali e dei crescenti rischi ecologici, che ha indotto le imprese, a includere nel proprio bilancio i costi umani e sociali derivanti dalle loro attività.

In tale ottica la crisi e il fallimento assumono significati diversi rispetto a quelli sopra descritti: esprimono cioè la produzione da parte d’imprese di elevati costi umani e sociali che dovrebbero portare alla loro scomparsa, anche se, dal punto reddituale, fossero imprese di successo. Tra queste definizioni, solo due sono state recepite all’interno della letteratura economica: quella che fa riferimento alla scomparsa dal mercato delle imprese non competitive e quella che si riferisce al trasferimento da parte delle imprese di diseconomie sull’ambiente esterno. Sebbene queste due definizioni siano concettualmente diverse, mettono in luce un aspetto particolare delle crisi aziendali: i loro effetti non investono solo l’impresa di per sé, ma l’intero o vaste parti del sistema economico. Questo aspetto non è una novità, in quanto rispecchia a pieno l’impostazione degli studi economici. Quindi, lo studio della crisi aziendale, è affrontato in maniera indiretta, trovando spiegazione nell’ambito delle relazioni tra domanda e offerta (crisi da sovrapproduzione.)2, in quello dei rapporti tra

classi sociali (crisi come effetto delle contraddizioni dell’economia capitalistica)3

e in quello della necessaria ciclicità dell’andamento economico (crisi come fase

2 Intesa come squilibrio tra la capacità di produzione di beni materiali e la capacità di

consumo della società. Si possono distinguere, due interpretazioni contrapposte: quella di coloro che consideravano la crisi un evento congiunturale e patologico ( cfr. Ricardo), derivante cioè da fattori esterni al sistema produttivo, e di coloro che consideravano la crisi un fenomeno strutturale, legato alla natura stessa del sistema produttivo (cfr. Sismondi e Malthus, con la loro tesi sulla critica della legge degli sbocchi), in A. TEDESCHI-TOSCHI, Crisi d’impresa tra

sistema e management, Egea, Milano,1993.

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6

recessiva all’interno di un ciclo continuo)4. La considerazione più immediata che

emerge dall’analisi della letteratura fin qui analizzata riguarda il fatto che, la crisi per gli economisti dell’inizio del XIX secolo era cosa ben diversa dalla crisi cui si riferiscono gli studiosi della fine del XX secolo, e ciò è dovuto dallo sviluppo della teoria economica che in questo lasso si è evoluta e ha modificato consistentemente il concetto stesso di crisi.

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A partire dagli anni ’70 l’attenzione degli studiosi sulla problematica della crisi del sistema economico in senso lato, si è progressivamente spostata verso la crisi settoriale5. Con ritmo crescente, le crisi d’impresa hanno cessato di essere

fenomeni episodici, legati all’incapacità dell’imprenditore e di managers o a loro comportamenti colposi o delittuosi, e sono divenuti fenomeni ricorrenti in concomitanza con la serie di eventi negativi che hanno coinvolto i sistemi industriali di tutti i paesi. Basti pensare alle variazioni dei livelli di costo del lavoro: causa di crisi era strettamente collegata al fatto che la struttura produttiva, nel caso quella italiana, era in gran parte costituita da produzioni di tipo labour intensive6, oppure dallo shock petrolifero dell’ottobre 1973, con il conseguente

rialzo dei prezzi dell’energia e poi delle materie prime, provocando corrispondenti variazioni nei costi di produzione, a scapito di Paesi in larga misura dipendenti dall’estero nell’acquisizione di fonti di energia e di materie prime. La somma di questi fenomeni mette in crisi ampi settori a tecnologie relativamente semplici, specialmente nei settori maturi. L’incapacità a fronteggiare questi eventi negativi, è ridotta anche dal motivo della fragilità della

4 La condizione di equilibrio, seppur variamente definita, era interpretata come norma

teorica, come punto di riferimento verso il quale confluiscono i sistemi. Le fluttuazioni cicliche ne costituiscono le deviazioni e le crisi le deviazioni anormali, improvvise. Cfr. A. TEDESCHI-TOSCHI, Crisi d’impresa tra sistema e management, op. cit. pag. 38 e ss.

5 Si veda i numerosi lavori empirici che hanno preso in esame alcuni comparti dell’industria

italiana particolarmente colpiti dalla crisi: es. settore chimico, automobilistico, siderurgico e infine di quello del tessile-abbigliamento.

6 La struttura produttiva italiana si caratterizzava infatti per una composizione settoriale che

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7 struttura finanziaria: alto indebitamento a breve e povertà di capitale di rischio (causata dalla debolezza del mercato finanziario e da una politica, pubblica per lungo tempo ostile all’investimento azionario). Altro fattore importante è stato l’entrata del nostro Paese nel Sistema Monetario Europeo (1979), con la conseguente forte attenuazione della politica di svalutazione dei cambi, ritenuta fino ad allora un’arma importante nella concorrenza internazionale.

A partire dalla metà degli anni ’90 e in particolare nel primo scorcio del nuovo millennio, l’economia mondiale ha subito un processo di profonda trasformazione che ha cambiato la natura dei prodotti, i sistemi di produzione e distribuzione di beni e servizi, la dimensione e la localizzazione dei mercati di sbocco. Cause principali l’accelerazione dei processi di globalizzazione e rivoluzione tecnologica, e in particolare per l’Europa, l’unificazione monetaria.

La crescita della pressione competitiva internazionale in tutti i settori, ha spinto i paesi più industrializzati a ricollocare la propria produzione in parte verso il settore del terziario avanzato (informatica, ricerca, servizi finanziari innovativi) e in parte verso settori ad alta tecnologia meno soggetti alla concorrenza, acquisendo vantaggi competitivi che si sono tradotti in una forte crescita della produttività globale dei fattori della produzione. L’Italia ha affrontato questa fase nuova dell’economia mondiale con una struttura poco permeabile all’innovazione e da condizioni di contesto non sempre troppo favorevoli (infrastrutture, costi energetici, eccesso di regolamentazione). La crisi di competitività del sistema produttivo italiano riguarda in particolare il settore industriale. Il carattere distintivo delle crisi aziendali degli anni Novanta, risiede nella loro complessità, nei modi di manifestazione, nelle soluzioni adottate per il loro fronteggiamento. Non è allora casuale, che negli ultimi anni, nell’ambito del dibattito intorno ai meccanismi che regolano e condizionano la competitività dei sistemi–paese e delle imprese7, si sia riservata l’attenzione ai sistemi di gestione

7 Tra questi i meccanismi di governance delle istituzioni e delle imprese, i modelli di sistema

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8

delle crisi aziendali, ossia meccanismi istituzionali (regolamentati da leggi o affidati alla libera iniziativa delle parti), di gestione dell’insolvenza, in grado di operare con modalità sempre più vicine alle regole del mercato. Oggi, nei sistemi economici moderni, caratterizzati da un intenso dinamismo dei mercati, da continui cambiamenti tecnologici, tutte le aziende sono costantemente esposte al pericolo di una caduta delle performance. In un simile contesto, anche il concetto di crisi aziendale ha subìto una graduale trasformazione. E’ ormai abituale distinguere fra due situazioni differenti8: quella di declino, inteso come riduzione

della capacità reddituale e indebolimento della situazione finanziaria, e quella di crisi in senso stretto, intesa come condizione di perdite economiche forti e strutturali, unite a manifestazioni non occasionali di insolvenza.

Nel seguito del capitolo, esamineremo in dettaglio le caratteristiche dei sistemi di gestione delle crisi aziendali, anche attraverso un’analisi comparativa di tali sistemi di gestione adottati nelle principali economie avanzate.

In definitiva all’interno della letteratura sulle crisi settoriali, hanno iniziato ad assumere rilevanza come cause di crisi aspetti più microeconomici, quali soprattutto l’andamento della domanda di beni specifici, la sua distribuzione all’interno dei diversi mercati, nazionali ed esteri, il comportamento del consumatore, le tecnologie specifiche del settore, le forme di produzione basate su sistemi arcaici e cosi via.

Deriva da ciò che con ricorrenze sempre più frequenti entrano in crisi:

- Interi settori o parte di essi, come conseguenza del cambiamento generale delle condizioni operative e degli equilibri preesistenti (crisi diffuse);

- Singole aziende, in relazione a specifiche debolezze, generate dai turbamenti e dalle variabilità ambientali (crisi particolari).

regole attraverso cui promuovere l’imprenditorialità e la nascita di nuove imprese (cfr. Barca, 1994; Airoldi e Forestieri, 1998).

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9 La conseguenza è il mantenimento in vita solo delle aziende più efficienti, o più innovative, che hanno saputo proteggersi dai rischi.

1.2.

Il filone aziendalistico

Il tema della crisi d’impresa costituisce da sempre oggetto di attenzione da parte degli aziendalisti italiani, fornendo diverse nozioni che mirano a definire tale fenomeno, anche se si possono riscontrare divergenze interpretative su tale concetto. Diversamente dalla letteratura economica, la crisi d’impresa dal punto di vista aziendalistico è affrontato a livello della singola impresa.

Questa letteratura trova origine nel periodo storico della depressione degli anni ‘30, fino al suo pieno sviluppo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80. Concettualmente, si sono venuti a sviluppare in modo indipendente, due grandi filoni di analisi: il primo filone che ha affrontato la problematica della previsione delle insolvenze aziendali, individuando gli <<strumenti di difesa>> per le imprese, considerate nella loro veste di investitori, nei confronti della crisi delle imprese da esse finanziate. Questi strumenti, si sono accresciuti nel tempo, divenendo, per certi versi, fondamentali nell’autodiagnosi delle proprie crisi.

Il secondo filone di analisi, assai più recente e complesso del primo, è rappresentato dagli studi che hanno affrontato le problematiche del fenomeno dal punto di vista manageriale, ossia in termini di gestione della crisi dall’interno dell’impresa.

Gli aziendalisti legano il concetto di crisi alla teoria sulla natura dell’impresa; Zappa, sostenendo l’origine istituzionalista dell’impresa9, ritiene

che essa sperimenti una situazione di crisi qualora vengano meno i presupposti e

9 La concezione istituzionalista considera l’impresa come istituto economico duraturo, dotato

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10

gli elementi istituzionali come la stabilità di governo o l’autonomia imprenditoriale, l’orientamento di lungo termine.

Amaduzzi10, invece, vede la crisi come fenomeno patologico di decadenza

graduale delle condizioni di gestione che trova fondamento nell’esistenza di equilibri economici, finanziari e patrimoniali11. Questi tre equilibri costituiscono

differenti aspetti di un fenomeno unitario, pertanto è necessario per l’impresa tenere presenti le interrelazioni che li uniscono, al fine di evitare che gli effetti di propagazione in caso di crisi di uno di esse possa far entrare l’impresa in una sorta di circolo vizioso12. Questa teoria a mio parere, è insufficiente in quanto

analizza gli effetti, commettendo l’errore di individuare le crisi “manifeste” ignorando l’eventualità di crisi “possibile”. Infatti, alcuni autori13, individuano

diversi stadi delle crisi, che successivamente illustreremo dettagliatamente, contraddistinti dal diverso impatto che essi hanno sulle condizioni generali dell’impresa.

Infine altri autori14 parlano di “stati di debolezza e stati di dissesto”,

distinguendo tra crisi latenti e crisi manifeste15.

10 A. AMADUZZI: Il sistema dell’impresa nelle condizioni prospettiche del suo equilibrio –

Roma – 1956.

11 Equilibrio economico, inteso come l’attitudine dell’impresa a produrre con continuità un

flusso di reddito soddisfacente in una prospettiva di lungo periodo; equilibrio finanziario, consistente nel perseguimento della solvibilità aziendale sia nel sopravvivere nel presente, sia per far fronte ai fabbisogni di capitali futuri scaturente dallo sviluppo dell’impresa nel lungo periodo. Tale solvibilità deve quindi essere intesa sia a livello strutturale, nel lungo periodo, come correlazione tra investimenti e finanziamenti aziendali (equilibrio finanziario in senso stretto), sia a livello immediato, come pareggio tra entrate e uscite monetarie (equilibrio monetario); equilibrio patrimoniale, ovvero l’attitudine dell’azienda a mantenere una solidità patrimoniale necessaria a garantirle l’esistenza, lo sviluppo e la crescita.

12 Ad esempio un disequilibrio economico, che produce perdite nel tempo, peggiora la

situazione patrimoniale riducendo il capitale netto. Tale disequilibrio economico, unitamente ad un disequilibrio patrimoniale, può pregiudicare la solvibilità dell’impresa e quindi agire negativamente anche sull’equilibrio finanziario.

13 Vedi L. GUATRI in Crisi e risanamento delle imprese, 1989

14 CAVALLINI-PAOLONE: Il deterioramento del sistema delle condizioni d’equilibrio

dell’azienda, Giuffrè, 1992

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11 In generale, quindi la letteratura aziendale considera lo stato di crisi come rottura di un equilibrio "precario", che si può sviluppare progressivamente su diversi stadi. Pur non concordando con il numero degli stadi, gli aziendalisti ritengono che la soluzione del risanamento sia strettamente correlata allo stadio in cui ci si trova e alla tempestività con la quale si interviene.

1.3.

Il filone strategico-manageriale

All’origine dei comportamenti aziendali vi sono le idee, i valori e gli atteggiamenti di fondo della proprietà e del management16. Sono queste idee che

informano le strutture, i meccanismi, i processi che si svolgono in azienda.

La prevenzione della crisi17, si fonda essenzialmente nelle “equazioni

personali” della proprietà e del management, nelle loro capacità di diffondere coraggio e prudenza, visione e concretezza, ma anche di mostrare strutture e strumenti che assicurino una valutazione e un controllo dei rischi. Ciò al fine di tenere conto, del bilanciamento dei rischi “necessari” e “volontari”18, per

individuare tempestivamente segnali di crisi e avere la possibilità di porvi rimedio con adeguati interventi. Questo è particolarmente critico per le aziende medio - grandi in cui il controllo è applicato a realtà molto complesse, che devono pertanto dotarsi di strumenti adeguati.

1.4. Il declino e la crisi

16 Nella dottrina aziendale si parla di corporate management’s belief o di OSF

(Orientamento strategico di fondo).

17 Analizzato in dettaglio nel prossimo capitolo.

18 Rischio necessario: deriva dal fatto di operare in un sistema economico soggetto a

vulnerabilità non facilmente prevedibile; rischio volontario: che dipendono da scelte dell’azienda.

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12

La storia delle imprese è quasi sempre un’alternanza di successi e di insuccessi, o se vogliamo di fasi positive e negative che tuttavia sono prevalentemente di breve durata e a carattere ciclico: a questi alti e bassi le aziende di vari settori sono abituate, almeno quelle solide, non se ne preoccupano più di tanto. Se durante le fasi positive l’impresa ha saputo predisporre adeguati meccanismi per fronteggiare eventuali fasi negative, non sortiranno effetti eccessivamente dannosi e contribuiranno all’eliminazione delle imprese marginali e quindi alla riduzione dell’affollamento competitivo del settore. Ma l’alternanza di successi e insuccessi va ben oltre la ciclicità. Vi sono problemi di declino originati da fenomeni strutturali: non di rado ciò avviene tra la sorpresa generale, poiché le cause dell’insuccesso, più o meno maturate internamente, si mantengono a lungo latenti ed esplodono improvvise ed inattese. Poiché l’efficienza, la posizione concorrenziale, la redditività, la capacità di produrre flussi finanziari ecc. anche quando appaiono saldamente raggiunti, vanno continuamente monitorati e confermati. Non occorre molto perché simili condizioni, nell’arco di pochi anni, e anche in tempi più brevi, possano essere modificati da eventi esterni ed interni, che lentamente deteriorano. Si parla quindi di equilibrio precario19

.

Chi non è in grado via via di adattarsi al mutare dell’ambiente e della concorrenza, o non si rende conto di alcuni processi interni di deterioramento, va incontro al declino: e dal declino si può passare a profonde crisi. E’ evidente che grande attenzione dovrebbe essere dedicata:

- a cogliere per tempo i sintomi premonitori del declino evitando la trasformazione in crisi;

- a ricercare tempestivamente le vie del turnaround, cioè il ripristino dell’equilibrio economico e finanziario, quando il declino o la crisi sono in atto.

19 Si intende un equilibrio che risente delle mutazioni dell’ambiente in cui l’impresa vive ed

opera e dell’inefficacia del comportamento della proprietà del management. Inefficacia in termini di inerzia organizzativa, squilibrio da crescita, “errori dell’imprenditore”, frodi e così via. Si pensi ai recenti crack di Cirio e Parmalat o al caso Enron agli inizi del nuovo millennio.

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13 In merito al primo punto, come abbiamo già detto, il problema fondamentale è la carenza di <<cultura> delle crisi. Ci rendiamo conto, in tal caso, del declino incipiente solo quando esso ha già provocato guasti seri, talvolta irreparabili, ad esempio, quando si evidenziano perdite rilevanti, oppure perdite latenti lasciate a lunghi periodi di incubazione, e poi “esplose” dal nulla, non essendo state interpretate come sintomi significativi.

Definiamo quindi il concetto di declino. I concetti di declino e di crisi possono essere definiti anche su basi quantitative, in collegamento con la Teoria di creazione del valore 20 la quale com’è noto, individua nell’accrescimento del

valore del capitale economico il fondamentale obiettivo aziendale. E’ il noto ∆W, inteso come variazione del capitale economico misurato con un’appropriata formula: ad esempio, W=R/i (con R = reddito annuo <<normale>> atteso ed i = tasso di capitalizzazione), se si assume il metodo reddituale puro21. Quando a

seguito di tale misurazione si palesano accrescimenti nulli o negativi della grandezza in questione, ciò significa che l’impresa non realizza adeguatamente la propria finalità di autogenerazione nel tempo22. Così il declino è definito da una

performance negativa in termini di variazione del valore del capitale economico, cioè della <<distruzione>> di valore nel tempo. Deriva da ciò che un’impresa è in declino quando perde valore nel tempo. Esso deriva, in estrema sintesi, dal deterioramento dei flussi reddituali e delle “attese” inerenti a tali flussi.

Un’ulteriore distinzione introdotta riguarda una particolare figura di declino, definito <<declino controllato>>. Esso va collegato alle situazioni in cui il

20 L. GUATRI, Turnaround: declino, crisi e ritorno al valore, Milano, Egea, 1995.

21 La misurazione di ∆W è da compiere, secondo le impostazioni anglosassoni, coi metodi

finanziari (attualizzazione dei flussi di reddito per 5-10 anni e del <<valore finale>> dell’impresa). Le nostre preferenze sono i metodi reddituali; ma misure sono possibili anche con metodi misti patrimoniali/reddituali e con altre formule. La principale critica ai metodi finanziari è che essi esprimono sostanzialmente valori potenziali e non valori di capitale economico.

22 Secondo Guatri e Vicari (1994, pagg. 79-80):<<La finalità che possiamo attribuire

all’impresa, l’unica finalità che abbia senso, è la continuazione dell’esistenza attraverso la

capacità di autogenerazione nel tempo, che avviene mediante la continua creazione di valore economico. Solo in questo senso si può parlare di finalità dell’impresa (..)>>.

(22)

14

declino dipende da condizioni esterne, senza che siano ravvisabili errori sostanziali di conduzione manageriale. Sono tipiche ad esempio nei settori maturi, con capacità produttive eccedenti, o soggette a spinte concorrenziali che provengono da ogni lato per mancanza di barriere all’entrata.

La crisi in senso stretto rappresenta un’ulteriore degenerazione rispetto alle condizioni del declino. Tecnicamente, si tratta di uno stato di grave instabilità originato da rilevanti perdite economiche (e di valore del capitale) che impattano negativamente sui flussi finanziari generando situazioni di illiquidità (carenza di cassa), perdita di fiducia da parte degli stakeholders (clienti, fornitori, personale, comunità finanziaria in generale), insolvenza –ossia dall’incapacità di far fronte regolarmente ai pagamenti in scadenza – e quindi, dissesto, ossia uno squilibrio patrimoniale definitivo23. La crisi, propriamente intesa, è dunque la fase

conclamata ed esteriormente apparente del declino, cioè continuazione della stessa traiettoria negativa delle vicende dell’impresa, in cui l’aggravamento degli squilibri economici e finanziari è pienamente percepito all’esterno24.

La distinzione tra declino e crisi, è importante per spiegare come, in generale, il declino può rappresentare un passaggio del tutto normale della vita di un’impresa; questa può essere vista come una continua dialettica tra momenti di declino e fasi di “ristrutturazione volontaria” per ricostituire pienamente i vantaggi competitivi. Nello stesso tempo, però il confine tra declino e crisi è molto sottile:: ritardi di azione, interventi parziali, crescenti pressioni esterne possono facilmente vanificare i tentativi di turnaround e preludere, quindi, a squilibri irreversibili. Concettualmente, appare arbitrario fissare un limite all’erosione prodotta dalle perdite (in termini di reddito e di valore) per stabilire quando comincia la <<crisi>>.

23 Mentre l’insolvenza è misurata in termini di flussi ed evidenzia una situazione di tensione

finanziaria (flussi di cassa generati nell’unità di tempo sono insufficienti a far fronte alle obbligazioni derivanti dai contratti in essere), il dissesto è misurato in termini di stock, ed evidenzia una patologia aziendale tale per cui il valore delle attività è insufficiente a garantire il rimborso dei debiti.

(23)

15

1.5. Le fasi evolutive della crisi: dall’ “incubazione” al definitivo

dissesto

La natura fisiologica del fenomeno <<crisi aziendale>> trova conferma nel fatto che anche le imprese ed i settori in cui esse operano (normalmente connesse alla tipologia di produzione) presentano un ciclo di vita [Tavola 1] che, come il ciclo di vita del prodotto prevede quattro fasi: introduzione, sviluppo, maturità e declino.

1. Introduzione: questa fase presenta un volume di vendite limitato e in lenta crescita con assenza di profitti a causa dei notevoli costi di start-up della produzione e di collocazione sul mercato.

2. Sviluppo: in questa fase si nota andamenti in forte crescita tanto nelle vendite quanto nei profitti.

3. Maturità: rappresenta il “culmine” del volume delle vendite con profitti abbastanza buoni anche se in progressiva diminuzione.

4. Declino: l’ultima fase prevede vendite e profitti in progressivo calo fino al termine del ciclo di vita (ovvero uscita dell’impresa dal mercato).

(24)

16

E’ importante chiarire che, soprattutto nelle fasi di introduzione e di declino l’impresa si trova maggiormente esposta a rischi di crisi anche se dovuti a fenomeni di debolezza diversi tra loro.

Nella fase di introduzione le risorse dell’impresa sono assorbite dal suo sforzo di affermazione sul mercato, pertanto una crisi congiunturale può risultare pericolosa per via della scarsità di risorse, ma è più facilmente rimediabile a parità di circostanze. La difficoltà in proposito è spesso l’individuazione della crisi, cioè dei sintomi (in particolare squilibri ed inefficienze – 1°stadio)25 che la

caratterizzano; in questa fase si erodono gradualmente, e a seconda dei casi, come abbiamo già detto in precedenza, le risorse aziendali. Si ha un processo cioè di depauperamento le cui manifestazioni formali sono l’assorbimento delle riserve di bilancio e di quote di capitale, le cui manifestazioni sostanziali sono l’erosione della liquidità, l’appesantimento dei debiti, la riduzione delle risorse destinate a funzioni essenziali (R&S, marketing, formazione, comunicazione). Quindi questa prima fase detta anche “incubazione” è di importanza fondamentale, in quanto se adottati i giusti interventi di risanamento o tecniche di salvaguardia, riusciamo a contrastare l’insorgere della crisi, o quanto meno a rallentarne lo sviluppo.

Nella fase di declino, invece, i profitti si presentano in progressivo e in definitivo calo, pertanto normalmente non risulta facile, né conveniente, tentare il salvataggio. Ecco che in questa fase, si vengono a generare perdite economiche (2°stadio) di varia gravità, che prima si attenuano e poi diventano negativi e conseguentemente, si ripercuote nella diminuzione di fiducia e dell’affidabilità dell’impresa. Al di là di un certo limite, la crisi esplode nell’insolvenza

25 Secondo GUATRI il percorso che porta alla crisi si struttura in 3 stadi: all’origine delle

crisi ci sono fenomeni di squilibri e di inefficienze, (1° stadio) che possono essere di origine interna o esterna; essi portano speso alla produzione di perdite (2° stadio). Col ripetersi e col crescere d’intensità delle perdite, la crisi imbocca l’ultimo stadio, che è l’insolvenza (3° stadio), cioè l’incapacità manifesta di fronteggiare gli impegni assunti, oltre il quale si apre lo stadio finale del dissesto, inteso come incapacità permanente dell’attivo di fronteggiare il passivo. Vedi L. GUATRI in Crisi e risanamento delle imprese , Giuffrè, 1989 .

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17 (3°stadio), che ne è la manifestazione appariscente e spesso clamorosa. Essa cessa di essere solo un fatto interno all’azienda, più o meno noto, e genera una serie di effetti palesi quali l’incapacità a fronteggiare le scadenze alla perdita di fiducia e di credito, alla perdita progressiva della clientela. Tutto l’organismo ne viene profondamente sconvolto e in ogni caso, sono necessari, per tentare il salvataggio, interventi profondi sia a livello di capitale che si management. La storia dei dissesti aziendali è spesso contrassegnata da tardivi riconoscimenti dei sintomi di crisi, dall’illusione che spinge ad escludere lo stato di crisi o a minimizzarne la portata, dal timore di adottare misure idonee perché inevitabilmente dolorose. In tali contesti si tende a comunicare all’esterno una situazione economica-finanziaria e patrimoniale alterata26 modificando alcune

poste di bilancio e nascondendo la situazione reale in cui versa l’azienda. L’effetto finale di tali comportamenti è il processo di disfacimento e di depauperamento sempre più grave, fino al limite dell’irreversibilità.

E’ quindi di vitale importanza, focalizzare le cause del problema per intervenire alla radice del “male” nell’ardua lotta alla sopravvivenza.

26 Per nascondere le perdite vengono adottati numerosi espedienti contabili tra i quali: la

sottovalutazione di componenti negativi di reddito di origine stimata (ammortamenti, quote di fondi rischi); la sopravvalutazione di componenti positivi di reddito di origine stimata (rimanenze finali, capitalizzazioni delle immobilizzazioni tecniche); la capitalizzazione di costi ad utilità pluriennale non corrispondenti a beni dotati di materialità; evidenziazione di plusvalenze (per cessioni a terzi o a controllate); la rivalutazione di beni patrimoniali (titoli, partecipazioni, immobili).

(26)

18

1.6

L’individuazione delle cause del declino e delle crisi

d’impresa

1.6.1 Premessa

Anche se il declino può costituire il preambolo di una crisi vera e propria, accade frequentemente che aziende sostanzialmente solide possano incontrare periodi di difficoltà e di perdite economiche che non segnalano un male profondo, ma solo che è giunto il momento di procedere ad una ridefinizione delle strutture aziendali e dell’impostazione strategica. Da questo punto di vista, declini improvvisi delle performance sono ormai diventati un evento abituale per la maggior parte delle imprese, almeno nei settori caratterizzati da normali forme di competizione. Anche se nelle situazioni di mero declino la sopravvivenza dell’impresa non è in discussione e il nucleo delle risorse aziendali resta intatto, il ritorno ad adeguati livelli di redditività può richiedere ingenti interventi e soluzioni dolorose. Ben altro impegno richiede comunque il recupero dalla crisi, la cui riuscita è sempre altamente incerta e comunque condizionata da pesanti costi che gli stakeholder dell’azienda devono sopportare.

Profondamente diversi anche i fattori causali che stanno alla base del declino e della crisi. Spesso, la riduzione della capacità reddituale è originata da quell’invitabile rigidità al cambiamento che contraddistingue soprattutto le grandi organizzazioni, a fronte di cambiamenti ambientali improvvisi ed accelerati, anche organizzazioni sane possono rimanere provvisoriamente spiazzate e pagare con una fase di redditi insoddisfacenti il tempo necessario per annullare il ritardo.

Una crisi vera e propria dipende invece da fenomeni più infrequenti e complessi, che configurano uno stato genuinamente patologico. Si deve sottolineare immediatamente che la crisi aziendale, in genere, non dipende da un

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19 solo fattore causale, né da un insieme ben definito di fattori. Per esemplificazione di classificazione si è cercato di separare quegli aspetti più legati a fenomeni esterni come gli elementi di ciclicità congiunturale, aspetti di innovazione tecnologica, dagli aspetti più legati a fattori interni e quindi alle tipicità e carenze gestionali27. Per comodità di identificazione, si è proceduto a questa distinzione,

peraltro proposto dalla letteratura, ma ovviamente le interrelazioni tra i fenomeni sono sempre strette, in quanto le aziende operano in un ambiente economico e quindi gli effetti degli elementi esterni e interni sono concomitanti. In ultima analisi, si richiameranno alcune delle conclusioni cui sono pervenute, in argomento, le ricerche empiriche sul caso italiano.

1.6.2 Cause delle crisi

Secondo la letteratura aziendale in tema di cause più comunemente riscontrabili che originano le crisi, un’esemplificazione ci è fornita distinguendo tra:

- Cause esterne - Cause interne.

27 S. PIVATO, Elementi di economia e gestione dell’impresa, 1999 – distingue due tipi di

cause, che si differenziano per la loro natura e per il tempo di manifestazione all’interno del processo degenerativo di crisi:

- Cause primarie: sono date dai fattori, di tipo ambientale o interno, che determinano

un’incapacità strutturale dell’azienda a mantenersi in stabili condizioni di economicità;

- Cause secondarie: sono date dai fattori, a loro volta di tipo ambientale o interno, che si

producono dopo che le cause primarie hanno dato origine a uno stato patologico, e ne moltiplicano gli effetti, ostacolando la risoluzione della crisi ed eventualmente affrettandone la conclusione negativa.

Non prende in considerazione come distinto fattore di crisi gli errori del management; infatti, in linea di principio, tutte le crisi aziendali possono essere ricondotte a qualche forma di cattivo management. Anche quando intervengono fattori ambientali al di fuori del controllo della direzione aziendale, si può sempre sostenere che il management avrebbe potuto prevedere tali fenomeni e pianificare per tempo adeguati interventi di prevenzione e risposta. [….].

Questa conclusione sarebbe di scarso aiuto per la comprensione delle cause specifiche della patologia onde evitare nuovi errori od illusori tentativi di recupero che non possono che aggravare i costi privati e sociali della crisi.

(28)

20

Nelle cause esterne possiamo distinguere:

A. Motivi macro-economici: carenza del sistema paese, debolezza dei mercati finanziari, inadeguatezza del sistema bancario, mutamenti della legislazione di settore, ecc…

B. Movimenti culturali: il movimento no global (nel caso di Nike o McDonald’s), l’ecologismo, l’igienismo…

C. Eventi catastrofici: guerra, attacchi terroristici ( es. 11 settembre 2001 per le compagnie aeree), disastri ecologici (es. Cernobyl per l’industria nucleare). D. Dinamiche settoriali: aumento dell’intensità della concorrenza, calo della domanda, overcapacity, affievolimento delle barriere all’entrata ecc…

Di solito, queste cause, seppur importanti ed incisive, non sono quasi mai il motivo principale di una crisi, ma appunto, contribuiscono ad accelerare e ad aggravare un declino che non trova quasi sempre all’interno la sua causa principale.

Per quanto riguarda le cause interne, lo stesso Guatri fornisce una classificazione più analitica dei fattori interni, classificazione incentrata sulla distinzione tra un approccio soggettivo e uno oggettivo [Tavola 2].

Il primo individua cause di natura soggettiva, cioè riconducibili al fattore umano, quale principale protagonista del successo o insuccesso di una realtà imprenditoriale. In primis viene messo sotto accusa il management, dalla cui scarsa capacità quasi sempre dipende in larga parte il cattivo andamento dell’azienda. In secondo luogo le critiche vengono indirizzate nei confronti degli azionisti, dalle cui politiche la crisi trae talvolta origine od alimento28. Altre

critiche possono investire i finanziatori (si pensi all’eccessiva <<fiducia>> concessa dalle banche) e gli addetti a determinate funzioni aziendali (produzione, vendita ecc.) in connessione a constatate loro inefficienze.

28 Si pensi ed esempio alla scarsa disponibilità a conferire mezzi propri, ad eccessive

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21 Tavola 2- Andamento delle crisi

Fonte: AlixPartners

La cattiva direzione è comunque sempre in prima linea tra le cause di declino. Ciò può accadere, secondo ricerche empiriche condotte in USA29 per una

serie di ragioni.

a) Una prima ragione è la direzione affidata, almeno in via di fatto, ad un solo uomo. Condizione ritenuta necessaria, oltre che nelle piccole imprese, anche nelle medio-grandi aziende. L’esperienza ha dimostrato più volte che una guida monocratica che non ammette né critiche né confronti risulta a lungo andare inefficace e pericolosa. Per cui la presenza di un management articolato che partecipa alle decisioni è una condizione essenziale.

b) La debolezza del management, composto da persone non competenti, non all’altezza dei compiti loro affidati. Spesso questa condizione deriva talvolta dai periodi di gestione monocratica, in quanto il “primo uomo” non desidera circondarsi di persone autorevoli; altre volte nasce semplicemente a una serie di scelte errate: il c.d. <<cattivo management>>.

c) Il cambiamento del management si profila come un processo accidentato e disordinato, che passa attraverso una serie di conflitti tra le diverse funzioni

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22

aziendali. Spesso, le fasi di cambiamento del management, se non affrontate nella maniera più idonea, possono essere all’origine del declino delle imprese.

d) Un’ulteriore ragione è l’eccesso di burocrazia: la struttura manageriale diventa troppo rigida, incapace di adattarsi al mutare delle situazioni, con basso grado di creatività, legata a concetti e modi di operare divenuti troppo obsoleti.

e) Da ultimo viene citata la scarsa o nulla capacità dei consigli d’amministrazione di controllare efficacemente e di incidere sull’attività del management.

E’ dunque il funzionamento della macchina aziendale nel suo complesso a essere sottoposto ad osservazione e questo tipo di approccio non si rivela, però, il più significativo ed adatto a descrivere la complessa realtà della crisi aziendale. Ciò in quanto la crisi può dipendere da fenomeni e da forze che sfuggono al dominio degli uomini d’impresa.

Per tali ragioni è più opportuno adottare uno schema di tipo obiettivo nella descrizione e nell’analisi delle cause della crisi. In quest’ottica possiamo distinguere cinque tipi fondamentali di crisi, in funzione delle cause che le provocano30:

I. Crisi da inefficienza;

II. Crisi da sovraccapacità/rigidità; III. Crisi da decadimento dei prodotti;

IV. Crisi da carenza di programmazione/innovazione; V. Crisi da squilibrio finanziario./patrimoniale. Vediamole più in dettaglio.

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23

1.6.2.1 Crisi da inefficienza.

E’ determinata quando una funzione o aree aziendali operano con rendimenti e quindi con costi non <<in linea>> con quelli dei concorrenti. Ne risulta che l’efficienza è da intendere in senso relativo, cioè con riguardo ai reali competitori, mentre un giudizio assoluto di solito non interessa. Questo comporta, ad esempio, che in un Paese protetto, in cui tutti operano in condizioni assolute di inefficienza, assuma rilevanza il confronto tra le imprese: il pericolo consiste nel risultare al di sotto del livello di efficienza dei competitori presenti sui mercati rilevanti per l’impresa. L’area nella quale tale situazione si manifesta con più chiara evidenza è quella produttiva. Varie ragioni possono determinare un livello dei costi superiore alla media del settore o comunque superiori rispetto alle migliori aziende concorrenti: obsolescenza tecnologica degli impianti, mano d’opera non adeguatamente qualificata, mano d’opera non ottimizzata quantitativamente, problemi di ordine logistico, eccessivi costi di approvvigionamento, livello di retribuzione, ecc…

Talvolta le imprese in condizioni di inefficienza, per le difficoltà di rapportare i propri dati a quelli dei concorrenti (sui quali hanno limitate informazioni) non si rendono pienamente conto dello stato in cui versano. Il ritardo nella presa di coscienza del problema, e perciò il differimento nel tempo di interventi riparatori, è così all’origine di processi silenziosi di declino. Le condizioni di inefficienza risultano perciò aggravate dall’incapacità di diagnosi che caratterizza l’impresa interessata. Nelle imprese complesse, situazioni di efficienza e inefficienza possono variamente presentarsi nelle varie <<aree>> in cui l’impresa opera, ad esempio si parla di inefficienza commerciale, amministrativa, organizzativa, ecc…

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24

1.6.2.2 Crisi da sovraccapacità/rigidità

E’ data da una consistente riduzione della domanda di acquisto dei prodotti con eccesso di capacità produttiva a livello settoriale aziendale. Spesso, infatti, le imprese sono organizzate, attrezzate e dimensionate per rispondere ad un volume di domanda superiore a quello effettivo in quanto esse cercano di conseguire economie di scala accettando il rischio di non riuscire a saturare sempre la capacità dei propri impianti: tuttavia il sovradimensionamento comporta anche dei costi di struttura fissi (da ciò il binomio sovraccapacità/rigidità) che, in presenza di volumi di produzione insufficienti (causa lo scarso controllo dell’impresa sulla domanda), causano perdite economiche crescenti al ridursi dei volumi di produzione.

Le situazioni più frequentemente all’origine delle difficoltà sono le seguenti: - Duratura riduzione del volume della domanda per l’impresa (con conseguente diminuzione della dimensione reale dei ricavi) originata da fenomeni di sovraccapacità produttiva a livello dell’intero settore;

- Duratura riduzione del volume della domanda per l’impresa connessa alla perdita di quote di mercato;

- Sviluppo dei ricavi inferiore alle attese, a fronte di investimenti fissi precostituiti per maggiori dimensioni;

- Un caso particolare di declino da rigidità, non connesso a situazioni di sovraccapacità, si ha per variazioni all’aumento dei costi non controbilanciate da corrispondente variazione dei prezzi, soggetti a controlli pubblici.

Se le informazioni disponibili inducono a ritenere che l’insufficienza della domanda sia un fenomeno transitorio, può essere rischioso mettere in atto interventi correttivi che modifichino troppo la struttura aziendale compromettendone il futuro riadeguamento al riprendere della domanda. In tal caso è meglio continuare ad operare in modo diseconomico fino al momento in cui si avrà un rialzo della domanda.

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25

1.6.2.3 Crisi da decadimento dei prodotti.

Le crisi da decadimento dei prodotti traggono origine dalla riduzione dei margini positivi tra prezzi e costi al di sotto del limite necessario per la copertura dei costi fissi o comuni ( non imputati al prodotto) e per garantire una sufficiente misura di utile. L’assenza di utili e la mancata copertura, anche parziale, dei costi fissi o comuni trascina l’azienda nelle fasi preliminari della crisi: manifesta dapprima motivi di squilibrio; e successivamente provoca perdite. Gli strumenti operativi che consentono di misurare il fenomeno in esame, cioè la redditività del prodotto, sono il margine lordo ed il margine di contribuzione31.

Tale situazione, può essere rappresentata in vari modi, ma l’indirizzo più efficace32, distingue il problema in due parti:

1) Crisi da decadimento dei prodotti; 2) Crisi da carenze ed errori di marketing.

La crisi da decadimento dei prodotti, è legata al fatto che il mix di prodotti offerto da un’impresa si rivela, di solito gradualmente, inefficace e non più in grado di reggere la concorrenza. I prodotti, ad esempio, in quanto non tempestivamente aggiornati o rinnovati, si dimostrano poco attrattivi e perciò deboli. Ciò è dovuto per esempio a carenza di capacità innovative, agli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, ad insuccessi subiti in tal campo ecc…33.

31 Il margine lordo fa riferimento ad un costo di prodotto calcolato escludendo determinate

categorie di costi comuni, cioè di costi non agevolmente imputabili al singolo prodotto; ad esempio ne sono esclusi i costi comuni amministrativi, commerciali e finanziari. Possono essere compresi o esclusi, a seconda dei casi, i costi comuni industriali: si parla più precisamente di margine lordo industriale. Il margine di contribuzione fa invece riferimento ad una figura di costo di prodotto calcolata escludendo i costi fissi.

32 Tale separazione è quella seguita da L. GUATRI in “Turnaround: declino, crisi e ritorno

al valore”, Egea, 1995

33 Si ricordi a titolo di esempio il caso italiano, alla fine degli anni ’70 dell’azienda

farmaceutica, la Carlo Erba, che vide avvicinarsi alla maturità un prodotto che era stato il fattore fondamentale del suo successo. Solo la fusione con al Farmitalia, che aveva prodotti più aggiornati ma una storia di risultati meno rilevanti alle spalle, consentì di evitare una fase di sicuro declino.

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26

Le crisi da decadimento dei prodotti sono tipicamente espresse da due fenomeni: sotto il profilo commerciale, dalla tendenza a perdere quote di mercato; sotto il profilo contabile, come abbiamo visto in precedenza, dalla differenza negativa del margine lordo o di contribuzione.

Altre volte, il decadimento è innescato non dai prodotti in sé, quanto dall’attività di marketing e più in generale dalle politiche commerciali seguite. Carenze ed errori che spesso appaiono all’origine del declino sono:

- Un mix di prodotti errato o con palesi carenze (ad esempio una gamma incompleta per soddisfare tutte le esigenze della clientela-obiettivo, prodotti che esigono più reti commerciali.)

- Caduta dell’immagine dell’impresa, o delle marche con cui essa si presenta (esempio carenza di investimenti pubblicitari, o semplicemente da pubblicità inefficace).

- Errori nella scelta dei mercati, del target di clientela o delle <<nicchie>> (disegno perseguito di presenza su tutti i mercati o su molti mercati, in luogo della concentrazione sui mercati nei quali fosse ragionevolmente possibile ottenere una presenza significativa, target di clientela sbagliata con dispersione ed inefficienza dei costi di marketing e di distribuzione.)

In sintesi, il decadimento dei prodotti si accompagna non di rado a carenza e ad errori di marketing, in quanto lascia sempre meno spazio alle iniziative ed agli investimenti interessanti l’area del marketing, e perché le esigenze di scelte affrettate accrescono sempre più le probabilità di errori.

1.6.2.4 Crisi da carenza di programmazione/innovazione

E’ il risultato di una sostanziale difficoltà di adattamento dei processi gestionali aziendali agli inevitabili mutamenti ambientali e di mercato. La mancata programmazione delle risorse e delle attività fa sì che problemi anche non particolarmente complessi si trasformino in fattori di crisi che sconvolgono

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27 la quotidianità dell’impresa costringendola a gestire una situazione di continua emergenza fino a renderla troppo debole per reagire efficacemente alle difficoltà. E’ necessario effettuare una verifica della possibilità/opportunità di procedere ad un riordino ed all’inserimento di risorse umane in grado di colmare le carenze organizzative. Nel caso in cui un’impresa di successo nel passato, crescendo, abbia raggiunto dimensioni tali da mettere in crisi il potenziale organizzativo della direzione, la soluzione può consistere nel mantenere l’attuale top management, depositario del know-how che ha condotto al successo, potenziandolo con risorse umane in grado di gestire l’evoluzione organizzativa dell’impresa. La Teoria del valore ha bene sottolineato il concetto che la disponibilità a disinvestire è un importante orientamento strategico, basato sul principio che nessun investimento, per quanto stabilizzato ed anche se è parte del nucleo centrale dell’attività svolta, è da considerare definitivo ed irrinunciabile. Ogni investimento deve sempre giustificare l’assorbimento delle risorse che provoca.

1.6.2.5 Crisi da squilibrio finanziario/patrimoniale

Gli squilibri di natura finanziaria e patrimoniale sono spesso indicati come causa di crisi, oltre che di declino. I sintomi di tale crisi vanno individuati nella carenza di mezzi propri finanziari e nell’eccessivo ricorso al credito, in uno squilibrato rapporto tra attivo consolidato e passivo con conseguente inadeguatezza delle riserve di liquidità disponibili. A titolo di esempio, possono essere motivi di tale crisi:

- Basso rapporto tra mezzi propri e indebitamento (eccessivo leverage); - Scarsa correlazione temporale tra debiti di finanziamento e struttura degli impieghi;

- Scarse possibilità di ottenere accesso al credito a causa della scarsa patrimonializzazione;

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28

- Insufficienza dei mezzi propri nel far fronte a difficoltà, imprevisti o fluttuazioni congiunturali.

Lo squilibrio finanziario è, senza dubbio, un possibile ed anzi probabile generatore di perdite economiche. Ciò dipende dall’eccezionale entità degli oneri finanziari, provocati dal pesante indebitamento e dal suo elevato costo. In tale condizione, in periodi favorevoli, quando le aziende sane guadagnano ampliamente, l’azienda squilibrata guadagna poco o mantiene a mala pena il pareggio; mentre non appena la congiuntura diventa negativa e le aziende migliori vedono contrarsi sensibilmente i loro risultati, è pressoché inevitabile che l’impresa squilibrata subisca serie perdite, che deteriorano ulteriormente le sue condizioni finanziarie. L’accumulo di perdite e l’accentuarsi degli squilibri pone non di rado l’azienda nell’impossibilità di reagire. Da un lato sono praticamente precluse le possibilità di ottenere dal mercato mezzi a titolo di capitale e a titolo di credito (banche e fornitori); dall’altro lato l’autofinanziamento è ridotto al minimo. Se le perdite continuano, è quasi fatale che l’azienda precipiti verso la crisi. Fintanto che non si traduce in manifestazioni di squilibrio e di dissesto finanziario, la crisi rimane più o meno latente, ma ciò non toglie che lo squilibrio finanziario sia, a sua volta, generato da altri profondi fattori di crisi: inefficienze, sovraccapacità/rigidità, decadimento dei prodotti, ecc…Queste sono di solito le varie cause che minano gradualmente la vitalità dell’azienda e che, tra l’altro, l’indeboliscono sul piano finanziario34.

Lo squilibrio finanziario si associa spesso ad un altro tipo di squilibrio che, più propriamente, possiamo chiamare <<patrimoniale>>. Esso consiste nella scarsità di mezzi vincolati all’azienda a titolo di capitale e di riserve rispetto ad altre componenti della situazione patrimoniale (indebitamento, totale dell’attivo) e della situazione economica (entità delle perdite effettive e potenziali). La

34 Va perciò sfatata, poiché inconsistente, la leggenda che identifica spesso negli squilibri

finanziari la ragione delle crisi aziendali. Questo è per lo più solo un modo superficiale ed inesatto per attribuire ad altri la responsabilità del declino e della crisi, che ricade invece ben più frequentemente sul management o sull’imprenditore, oppure che deriva da altre cause obiettive. [L. GUATRI in “Turnaround:declino, crisi e ritorno al valore” op. cit.]

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29 scarsità di mezzi propri espone più intensamente l’impresa al rischio di declino e di crisi, in quanto essa ha poche risorse da opporre alle perdite che si producono.

Da ciò l’ovvia conclusione che le imprese matrimonialmente squilibrate possono rapidamente passare dallo stadio delle perdite a quelli dell’insolvenza e del dissesto. L’elemento patrimoniale svolge due distinte funzioni. Nelle fasi iniziali del declino la debolezza patrimoniale appare, come una particolare componente delle difficoltà e degli squilibri finanziari. Nelle fasi successive, la componente patrimoniale è condizione essenziale per resistere al declino o alla crisi, cioè dalle perdite che ne derivano, consentendo più o meno ampi periodi di tempo per tentare le necessarie azioni di correzione e di recupero.

Oltre alla casistica presentata sopra, un'altra causa principale è la crisi da passaggio generazionale: si verifica a seguito della cessione della direzione aziendale, normalmente per motivi di anzianità dall’imprenditore di successo ai suoi eredi o successori. La conseguenza può essere limitata ad un diverso stile di direzione o può giungere fino al totale smarrimento dei <<punti cardinali>> in azienda da parte del personale, dei clienti e dei fornitori. Normalmente il problema coinvolge la totalità dell’impresa e spesso è aggravato dal fatto che la proprietà, in quanto tale, si ritiene intoccabile e inamovibile. Il rimedio più comune e sicuro consiste nell’inserimento o affiancamento di un nuovo management in grado di guidare l’impresa recuperando gli originari punti di forza e migliorando quelli di debolezza. Al fine di non disperdere importante know how e per il mantenimento della continuità aziendale, può essere utile verificare che la parte migliore del vecchio management non abbia lasciato l’impresa o non sia in procinto di farlo a causa di eventuali incompatibilità con i nuovi arrivati.

Figura

Tabella  3   -  Le  imprese  che  hanno  successo  e  le  imprese  in  crisi  presentano  profili  economico-finanziari,  gestionali  e  organizzativi  nettamente  differenziati almeno in alcune delle seguenti variabili
Tabella  6  –  Tassi  di  fallimento  2004-2006  delle  S.r.l.-  Valori  espressi  per  mille – (2002-2006 dati Infocamere 2007)

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