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Nel nostro tempo, però, dopo il Concilio Vaticano II, il fedele è chiamato a ‘vivere’ la liturgia: la Chiesa, infatti, «si preoccupa vivamente che i fedeli partecipino all’azione sacra consapevolmente, pienamente e attivamente»

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8. CONCLUSIONI

In qual modo, dunque, dovrebbe rapportarsi il compositore, oggi, nei confronti della musica liturgica, in particolare di quella destinata alla messa?

Un tempo, chi scriveva per la Chiesa, non si poneva problemi di ordine tecnico-esecutivo; in pratica, la distinzione fra musica sacra e profana era determinata solo dalla funzionalità: un pezzo destinato alla liturgia aveva caratteristiche affatto diverse, ad esempio, rispetto ad un altro concepito per una scena d’opera, fosse solo per il testo.

Superato il problema della corretta destinazione, il musicista capace non avrebbe incontrato altri ostacoli di rilievo: gli esecutori, infatti, tanto nel teatro quanto nel tempio, erano generalmente professionisti e, di conseguenza, almeno in teoria, garantivano un livello esecutivo perlomeno decoroso. In pratica, fra compositore ed esecutori, in un ambito ordinario, non si ponevano problemi di ‘comunicazione’, a causa dalla scrittura; questa, infatti, sarebbe stata quasi sempre ‘decodificata’ dagli interpreti in modo soddisfacente.

Nel nostro tempo, però, dopo il Concilio Vaticano II, il fedele è chiamato a ‘vivere’ la liturgia: la Chiesa, infatti, «si preoccupa vivamente che i fedeli partecipino all’azione sacra consapevolmente, pienamente e attivamente».

(1) Poiché «il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne», (2) il credente, di conseguenza, è chiamato a partecipare all’atto musicale in prima persona; ma come può il compositore odierno rapportarsi direttamente con lui?

Prima di procedere oltre, è giusto considerare un problema di fondamentale importanza: con riferimento all'Italia, qual è il livello medio di cultura musicale generale di un cattolico? È possibile riformulare la questione, inglobando tutta la popolazione della Penisola: quanti italiani possono ‘vantare’ una conoscenza della musica, da un punto di vista tecnico,

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anche solo a livello elementare? La domanda è volutamente retorica; la risposta, purtroppo, scontata. Siamo uno dei paesi con la minor percentuale di alfabetizzazione musicale del mondo: come possiamo pretendere che il fedele partecipi attivamente, con il canto, alle azioni sacre?

Il Concilio, dunque, chiama il popolo alla partecipazione attiva, anche attraverso la musica. In generale, però, sono pochi i fedeli che sono in grado di aderirvi con cognizione; gli altri, infatti, non ‘rispondono’ adeguatamente (molte volte l’assemblea è muta o ‘fioca’) e, anche se volessero, non potrebbero, perché mancanti dei requisiti tecnici fondamentali, indispensabili per un contributo fattivo: almeno una lettura agevole della musica, in alternativa un buon orecchio, e un minimo di educazione alla coralità, al cantare insieme, ad ascoltare e a farsi ascoltare.

Il compito del compositore, perciò, si presenta improbo: scrivere per una massa altamente eterogenea di fedeli, nella quale una grandissima percentuale non capisce e non comprende ciò che di musicale è loro richiesto. Per il praticante, la frequenza della messa dovrebbe prevedere tutte le domeniche e le feste infrasettimanali di precetto, oltre a varie, particolari ricorrenze. In un anno, ogni assemblea dei fedeli, nel migliore dei casi, si riunisce per la celebrazione poco più di sessanta volte, cioè, al massimo, circa una volta ogni sei giorni. Di questi momenti, se scartiamo tutto il tempo che non è dedicato al canto, rimane ben poco: come possiamo pretendere che si giunga, per tutti, ad una dignitosa preparazione corale?

A questo punto, potremmo sentirci istigati ad imputare alla Chiesa un’accusa abbastanza pesante: quella, cioè, di aver assunto un atteggiamento troppo superficiale; di essere stata sprovveduta, nel pretendere che tutti gli osservanti, di punto in bianco, da ‘semplici’ ascoltatori, si dovessero trasformare in cantori, non solo del repertorio melodicamente più semplice, il popolare, ma anche di quello più raffinato e complesso, il gregoriano. Più che di una condotta approssimativa, però, crediamo sia più giusto intendere una concezione meravigliosa, tanto da rasentare l’utopia: un mondo cattolico nel quale ogni fedele possa esprimere la lode di Dio e la gioia del cuore, anche e soprattutto con il canto.

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La realtà, però, è diversa. L'Istituzione ecclesiastica, prima di tutto, è consapevole che il trapasso fra ascolto 'passivo' e canto attivo non può compiersi per tutte le parti della liturgia. Pio XII, ad esempio, auspica nuovamente che «sia ripristinato il canto Gregoriano anche nell’uso del popolo, [ma solo] per la parte che ad esso popolo spetta», alternando

«secondo le norme prescritte la loro voce alle voci del sacerdote e della cantoria». (3)

In secondo luogo, la Chiesa conosce bene che questo processo di trasformazione radicale del credente difficilmente potrà avverarsi senza educazione, senza un qualsiasi progetto didattico, senza una vera e propria

‘catechesi’ a carattere musicale. Già alla fine dell’Ottocento, si auspicava

«che i reverendissimi ordinari procurassero di fondare o perfezionare, ove già esistano nei rispettivi istituti ecclesiastici, massime nei seminari, le scuole di musica figurata secondo i metodi più perfetti e accertati», come «che nei principali centri della penisola si aprissero scuole speciali di musica sacra, per allevare buoni cantori, organisti e maestri di cappella». (4)

In prima istanza, dunque, il rinnovamento musicale non includeva la massa dei fedeli. Con la sempre più crescente esigenza di ritornare all’antica, 'mitizzata' partecipazione attiva del popolo, il progetto di educazione musicale per la liturgia, però, avrebbe inglobato a poco a poco anche tutti i credenti. Sempre Pio XII auspica che «gli ordinari e gli altri sacri pastori curino attentamente che i fedeli, fin dall’infanzia, imparino le melodie gregoriane più facili e più in uso e se ne sappiano valere nei sacri riti liturgici». (5) Contemporaneamente, selezionate scholae cantorum dovevano riuscire «di esempio e di stimolo a coltivare e a seguire con diligenza il canto sacro». (6) Al di fuori dell’ambito strettamente liturgico, infine, la Sede apostolica invita calorosamente gli ordinari a proteggere, promuovere e favorire tutti i «pii sodalizi, costituiti per l’istruzione del popolo nella musica sacra o per approfondire la cultura di quest’ultima». (7) L’alfabetizzazione musicale delle masse, dunque, doveva essere portata avanti sotto la diretta responsabilità dei chierici, avvalendosi anche dell'ammaestramento offerto

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dai cori liturgici e dalle associazioni musicali d’ambito sacro. Tutto questo già prima della grande riforma del Concilio.

Dopo il Vaticano II, l’acculturamento musicale deve giungere anche ad ogni singolo fedele, perché «non c’è niente di più solenne e fastoso, nelle sacre celebrazioni, di un’assemblea che, tutta, esprime con il canto la sua pietà e la sua fede». La «partecipazione attiva di tutto il popolo, che si manifesta con il canto», s’intende realizzare pienamente attraverso un progetto didattico mirato, che, iniziando dagli interventi più semplici, come le acclamazioni, le risposte e le litanie, passi a generi di maggiore impegno, come le antifone, i salmi, i versetti, i ritornelli, gli inni e i cantici. Dopo avergli fatto ‘conquistare’ questi spazi, alla fine, «con una adatta catechesi e con esercitazioni pratiche si conduca gradatamente il popolo ad una sempre più ampia, anzi fino alla piena partecipazione a tutto ciò che gli spetta». (8) Nell’istruzione Musicam sacram, con maggior vigore, si ribatte sul tema dell’educazione musicale del popolo: «Tra i fedeli siano istruiti con speciale cura nel canto sacro i membri delle associazioni religiose di laici, affinché contribuiscano più efficacemente a sostenere e promuovere la partecipazione dei fedeli». (9)

Il passo successivo, per la storia della cultura musicale italiana, è sconvolgente. Per la prima volta nel nostro Paese, in un documento ufficiale a carattere normativo, si richiede l’alfabetizzazione musicale per tutti (i credenti), indistintamente, rispettando le peculiarità di ogni singolo individuo:

«La formazione di tutti i fedeli al canto sia promossa con zelo e pazienza, insieme alla formazione liturgica, secondo l’età, la condizione, il genere di vita e il grado di cultura religiosa dei fedeli stessi, iniziando già dai primi anni di istruzione nelle scuole elementari». (10)

Un'appropriata educazione dei fedeli all'arte dei suoni, perciò, è fondamentale, per attuare pienamente la riforma della liturgia e rendere sempre più consapevoli e partecipati gli interventi musicali nel rito, sia per il popolo sia per il coro: infatti, «quanto più educata e preparata al canto è un'assemblea, tanto più la “schola”, formata dai suoi componenti più dotati, si esprime con autentico senso artistico e spirituale». (11) Il coro, dunque, fa

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parte dell'assemblea e si distingue da questa solo per la collocazione all'interno del tempio e il particolare ufficio che è chiamato a svolgere. Più il popolo è educato al canto più la schola si arricchisce; più il coro trae forza più l'energia si ritrasmette all'assemblea, in un continuo crescendo di vicendevole potenziamento cultuale e spirituale. Dopo una generica istruzione musicale, «è dunque necessario provvedere all'educazione e alla formazione liturgica sia dell'assemblea sia della “schola”. L'educazione riguarda naturalmente i canti liturgici, perciò sacri, essendo appunto il canto, unito al testo, parte necessaria e integrante della Liturgia, che è sacra». (12)

Oggi, a cinquant’anni dalla Sacrosanctum concilium, principale documento di riferimento nel mondo cattolico post-conciliare, quali sono stati gli sviluppi nell’ambito della tanto auspicata formazione musicale?

Praticamente, è stato fatto poco o nulla. Non solo è mancata l’educazione al canto nei confronti dei fedeli, ma anche, inspiegabilmente, verso coloro che avrebbero dovuto condurre la crociata contro l’ignoranza musicale nel mondo cattolico: gli ecclesiastici, i chierici, i seminaristi, i novizi e gli studenti degli istituti e delle scuole ecclesiastiche.

Il fatto è sorprendente, se si tiene conto che nei seminari, «data l'importanza della musica sacra [...], gli alunni devono ricevere da maestri competenti quella formazione musicale, anche pratica, che sarà necessaria nel loro futuro ufficio di presidenti e di moderatori nelle celebrazioni liturgiche», in modo che «conoscano e gustino le migliori opere musicali del passato e sappiano scegliere, nella moderna produzione, le composizioni artisticamente valide e dignitose». (13) Il risultato, però, è un altro e sotto gli occhi di tutti: sembra, infatti, che la maggior parte degli odierni sacerdoti, nei seminari, non abbia ricevuto un'adeguata preparazione musicale, espressamente e obbligatoriamente richiesta dai programmi di studio. (14) La frattura fra teoria e prassi è evidente. Lo stesso Giovanni Paolo II denuncia che la riforma dell’educazione musicale in ambito liturgico «attende di essere pienamente realizzata». Il pontefice, pertanto, ritiene «opportuno richiamarla, affinché i futuri pastori possano acquisire una adeguata sensibilità anche in questo campo». (15)

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Accertata la difficile attuazione dell'ambizioso e meritorio programma, la Sede apostolica, perciò, è costretta a rivedere la meta che era stata prefissata: non si può più pretendere che la Chiesa educhi il fedele all'arte del canto, quindi che l'assemblea partecipi da protagonista consapevole alle parti musicali. Per attenuare la tensione irrisolvibile che si era creata fra teoria e pratica, forse anche per rendere l’obiettivo di un’acculturazione musicale generale più facilmente perseguibile, Benedetto XVI valorizza il ruolo della schola e dei cantori specialisti, perché chi ha «il dono del canto»

può «far cantare il cuore di tante persone nelle celebrazioni liturgiche». (16) In pratica, il Concilio pretende che la componente musicale e l'assemblea si collochino sullo stesso piano. Nel corso della storia, però, la musica e i fedeli (cattolici) si sono sempre trovati su livelli diversi e contrapposti: compositori ed esecutori da una parte, «muti spettatori»

dall'altra. Occorre innalzare, perciò, la 'piattaforma' dell’assemblea allo stesso livello di quella musicale: così teorizza la riforma. Ciò che era difficile da realizzare, con la mancata attuazione di previsti, mirati interventi, è divenuto impossibile: di conseguenza, perché il grado delle due entità possa coincidere, risulta molto più semplice abbassare quello del livello musicale.

Questa decisa 'flessione' non interessa solo la musica liturgica, ma tutto l'apparato rituale, nel quale l'annullamento, ove possibile, di ogni barriera fra presbitero e laico sembra dover essere perseguito con ogni mezzo, anche rinunciando alla tanto citata «bontà» delle forme. La 'commistione', in generale, interessa la sfera del sacro e del profano, per cui la laicizzazione della liturgia è un fenomeno in atto, che avanza con sempre maggiore determinazione.

L'abbassamento del livello di decoro artistico e liturgico a quello, presunto, del popolo non educato, però, solo se in via transitoria, potrebbe rappresentare un formidabile metodo didattico: l'apparato rituale dovrebbe sì 'umiliarsi' al grado più basso, ma per poi innalzare e dirigere convenientemente la cultura e i gusti dell'assemblea, attraverso una vera e propria catechesi liturgico-musicale, per giungere alla piena attuazione della

«actuosam participationem».

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Proprio il concetto di 'partecipazione attiva', però, ha portato anche a malintesi, equivoci e forzature, giacché, dai più, è stato interpretato come semplice 'intervento'. Tutti sembrano capaci di svolgere qualsiasi compito e, se non vi riescono in modo adeguato, poco importa: conta solo che il fedele abbia espresso la volontà di 'donare' qualcosa di sé; il risultato e, ancor di più, la presenza divina nello svolgersi dell'azione sacra passano in secondo piano.

«Nell'assemblea, che si riunisce nella Messa, ciascuno ha il diritto e il dovere di recare la sua partecipazione, in diversa misura e a seconda della diversità di ordine e di compiti»: (17) da questo principio derivano i ministeri e gli uffici liturgici. Fra quelli spettanti al popolo, circoscritti all'aspetto musicale, sono riconosciuti quelli esercitati dalla schola cantorum o coro, dall'organista, dal salmista o cantore, dal maestro di coro e da altri musicisti. Nella maggior parte dei casi, quando un devoto si offre per svolgere un certo ufficio, quel posto, quasi certamente, è suo: ma se suona, canta o dirige in modo inadeguato?

Un conto è offrire un servigio perlomeno decoroso; un altro è quello di ottenere solo un pessimo risultato, lontano dal perseguire «il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli». (18) È chiaro che nessuna offerta dell'uomo può essere degna della Divinità, eccetto quella del rinnovamento dell’estremo sacrificio del Figlio. È dovere dell’assemblea, però, pur nella consapevolezza di non riuscire mai a presentare qualcosa di meritevole, sforzarsi ugualmente per cercare di raggiungere il massimo livello possibile, non circoscritto al singolo individuo ma relativo a tutta la collettività.

A questo proposito, è sintomatica la rubrica n. 39 del Messale Romano, sull'acclamazione prima del Vangelo: «L’Alleluia e il versetto prima del Vangelo, se non si cantano, si possono tralasciare». (19) Questa parte della messa si ritrova in ogni celebrazione eucaristica, per tutto l'anno, tranne che in Quaresima. L'«Alleluia», quindi, se è 'solo' declamato, non è ritenuto pienamente decoroso rispetto alla propria natura e al rito in cui è inserito:

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perciò, è forse meglio sopprimerlo piuttosto che offrirlo in maniera poco degna.

Analogamente, il volontariato a tutti i costi, scambiato con la 'partecipazione attiva', non deve essere obbligatoriamente accettato, se il livello del 'servizio' offerto non è perlomeno decente. La partecipazione attiva ai sacri triti non significa essere 'protagonista' a tutti i costi, almeno nel senso più esteriore del termine: il popolo non pronunzia la formula di consacrazione, non proclama il vangelo, non tiene l’omelia; eppure partecipa attivamente a tutti questi momenti, in primo luogo con la presenza fisica, poi con la mente e il cuore. Oggi, però, in tempi di continua laicizzazione, sembra che abbia valore solo ciò che è visibile, tangibile, concreto.

Da sempre, la Chiesa si preoccupa perché ciò che nei riti non riesce decorosamente sia tralasciato. Ad esempio, solo per la parte strumentale, l'improvvisazione è il genere più idoneo a rivestire musicalmente la sacra liturgia. Chi improvvisa, infatti, riesce a 'riempire' le parti che gli competono e gli eventuali, inaspettati 'vuoti', nell'azione liturgica, che potrebbero crearsi: il tutto aprendo e chiudendo l'intervento musicale al momento giusto, proponendo tipologie esecutive idonee al tipo di composizione dell’assemblea, allo strumento a disposizione, al tempo liturgico generale o alla particolare ricorrenza della chiesa locale. Per questo, «è indispensabile che gli organisti e gli altri musicisti, oltre a possedere un'adeguata perizia nell'usare il loro strumento, conoscano e penetrino intimamente lo spirito della sacra liturgia in modo che, anche dovendo improvvisare, assicurino il decoro della sacra celebrazione, secondo la vera natura delle sue varie parti, e favoriscano la partecipazione dei fedeli». (20) Chi non è capace di improvvisare in modo perlomeno decoroso, però, si astenga dal farlo, poiché

«l'improvvisare detto a fantasia sull'organo», qualora non si «sappia fare convenientemente, cioè in modo da rispettare […] le regole dell'arte musicale», nuoce, di conseguenza, a «quelle […] che tutelano la pietà ed il raccoglimento dei Fedeli». (21)

In ogni tempo, i documenti magistrali sono sempre stati o rispettati o disattesi. In campo liturgico, anche chi ha l'autorità di 'arginare' certe

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manifestazioni, non proprio ortodosse, permette, invece, che siano portate avanti, privilegiando l'individualismo alla collettività, con grave danno per l'unità del Cattolicesimo. La Chiesa, nel nostro tempo, non può «nascondere la preoccupazione con la quale si osservano i più svariati e frequenti abusi che vengono segnalati dalle diverse regioni del mondo cattolico: confusione dei ruoli, […] crescente perdita del senso del sacro, […] misconoscenza del carattere ecclesiale della Liturgia». (22)

Nelle rubriche del Messale e della Liturgia delle ore, (23) ad esempio, ritroviamo diverse precisazioni e raccomandazioni, obblighi e divieti riguardanti la musica liturgica nel contesto dell’azione sacra; diverse volte, però, non sono mai completamente rispettati. I casi sono due: o c'è 'ignoranza', nel senso che non si conosce adeguatamente la normativa, o c'è 'conoscenza', ma unita alla consapevolezza di eludere la disposizione. Che senso ha discutere di liturgia e poi ignorare completamente ciò che è indicato con chiarezza?

Molti, purtroppo, fanno ciò che vogliono e, in fatto di musica, si sentono in grado di esprimere giudizi tanto sommari quanto superficiali; come se la piena comprensione dell'arte dei suoni non richiedesse un profondo studio preventivo; come se la responsabilità musicale della liturgia potesse essere affidata al primo venuto, solo perché si è offerto di prestare il proprio servizio con gratuità. Non mancano, poi, forme di 'prostituzione cultuale', nelle quali si permette che la purezza del rito si contamini con generi musicali insulsi o non pertinenti, benché proibiti dalle 'leggi liturgiche', (24) solo perché si spera che possano attirare più persone in chiesa: si guarda più alla quantità che alla qualità, al numero più che alla persona, all’esteriorità più che alla sostanza.

Per qualsiasi motivo, però, «commette un falso chi da parte della Chiesa presenta a Dio un culto contrario al modo per divina autorità stabilito dalla Chiesa e diventato usuale nella Chiesa». (25)

Poco di buono potrà avverarsi, quindi, se le direttive degli organismi centrali saranno continuamente e superficialmente disattese; anzi, un'insufficiente sensibilizzazione alla disciplina e al rispetto delle norme, come in ogni ambito della società civile, porterebbe solo all'anarchia. La

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Chiesa è la prima a riconoscere l'importanza di una precisa educazione, antidoto contro i settarismi e le divisioni, rivolta a coloro che saranno le guide religiose del domani: «Il seminario deve far comprendere ai futuri sacerdoti la gravità di questi pericoli, e far loro non solo accettare, ma amare l'obbedienza». (26) La 'rivoluzione' conciliare, infatti, non deve dare adito a personali e soggettive interpretazioni, poiché «chi approfitta della riforma per darsi ad arbitrari esperimenti, disperde energie e offende il senso ecclesiale». (27)

Il momento che la Chiesa sta attraversando non è dei più semplici.

D'altra parte, è anche vero che l'istituzione ecclesiastica ha oltrepassato il secondo millennio di vita, superando periodi ben più difficili di questo. Forse, la sua vera forza si basa proprio su una linea teologica inflessibile, su alcuni principi indiscutibili, lasciando, non giuridicamente, ma de facto, una certa, tollerata 'flessibilità' anche ai sacerdoti e alle singole comunità.

Per ogni comunità, tra gli uffici e i ministeri riguardanti la parte musicale, non compare una precisa, primaria figura: quella del compositore. Non è certamente un caso. Dal compositore, infatti, dipendono la creazione di nuova musica rituale e l'incremento del repertorio liturgico. Senza di lui non avrebbero ragione di esistere il maestro di coro, il cantore e l'organista: la Chiesa, perciò, gli riconosce implicitamente un ruolo 'eccezionale'. In ogni collettività, infatti, di solito si trovano uno o due fedeli che cercano di 'guidare' il canto dell’assemblea; meno frequente è la presenza di un organista, anche se dilettante; più raro ancora un regolare servizio offerto da una seppur modesta schola, con relativo direttore. Fra i 'protagonisti' della musica liturgica, il compositore, da un punto di vista statistico, è la figura di più difficile reperibilità: per questo, i documenti non lo possono contemplare fra gli uffici ordinari. In più, egli ha il compito arduo e responsabile di musicare adeguatamente il testo sacro, non solo da un punto di vista artistico, ma anche e soprattutto da quello liturgico. Non intendiamo affermare che sia meno difficoltosa l'esecuzione o la direzione rispetto alla composizione, ma semplicemente che sia più facile trovare 'dilettanti' fra i cantori, gli organisti e i direttori che non fra i compositori.

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La 'partecipazione attiva' dell'assemblea, dunque, nei documenti, non investe la sfera compositiva, lasciando a figure più 'professionali' il compito di produrre adeguati lavori in campo rituale. Dopo il Concilio, però, si sono moltiplicati 'compositori' improvvisati, che, fra l'altro, non rispettano le più elementari norme musicali e liturgiche (le rubriche del messale, ad esempio, sono regole, non consigli o suggerimenti).

Per riconoscere se un brano sia adatto o meno alla liturgia, non è corretto affidarsi solamente all'’istinto: è giusto, invece, procedere in modo razionale, basandosi su ciò che riportano gli scritti ufficiali. Fra questi, al momento, quello in assoluto gerarchicamente superiore a tutti, in materia liturgica e musicale, è dato proprio dalla costituzione apostolica, emanazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, Sacrosancrum Concilium; di conseguenza, per la sola parte musicale, la relativa istruzione applicativa, Musicam sacram. Seguono tutti i documenti emanati o promulgati dalla Sede apostolica, dalle Conferenze episcopali e dai vescovi: (28) «Assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica». (29)

Proprio la competente autorità territoriale dovrebbe confermare la sostituzione «con altri testi [de]i canti d'ingresso, d'offertorio e di comunione che si trovano nel Graduale», nonché «approvare il testo di questi canti»: (30) tutti i testi in circolazione sono stati approvati? Ci si preoccupa di conoscere se il testo di un canto che sarà utilizzato nella liturgia sia stato preventivamente ratificato?

L'approvazione dell'autorità territoriale non riguarda solo i testi in volgare non contemplati dal Graduale, ma anche diverse parti melodiche: ad esempio, ogni nuova melodia del Padre Nostro, (31) così come le parti musicali inedite destinate al sacerdote e ai ministri. (32) Ancor di più, secondo l'ultima edizione del Messale, le Conferenze episcopali devono «approvare melodie adatte, specialmente per i testi dell'Ordinario della Messa, per le risposte e le acclamazioni del popolo e per riti particolari […]. È loro competenza, inoltre, giudicare quali forme musicali, [e] quali melodie […] sia lecito ammettere nel culto divino». (33)

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Purtroppo, sono in circolazione molti canti, non compresi nei repertori liturgici legittimamente riconosciuti, che sono utilizzati con sfacciata disinvoltura nella celebrazione eucaristica: la situazione, dunque, sembra oramai priva di controllo.

Una 'controrivoluzione', però, sta lentamente avanzando. Le prime avvisaglie sono già state avvertite: Benedetto XVI, nel 2007, promulga una legge per dare dignità giuridica e salvaguardare il 'vecchio' Messale di Giovanni XXIII, del 1962, (34) quindi solo in latino e secondo il rito di Pio V, sostituito nel 1970 dal rito paolino postconciliare, ma, de iure, mai abrogato.

(35) Non si tratta di un gesto 'esteriore', perché la facoltà di applicare il rito tridentino non spetta all'autorità competente, ma, in pratica, ai singoli fedeli, qualora ne facciano richiesta, con l’obbligo di essere esauditi. (36) Sembra quasi che la Chiesa, rispetto al rito rinnovato, abbia falsamente abbandonato il secolare tridentino, lasciandolo invece 'scorrere', parallelamente, come una specie di rete di 'salvataggio' per le più antiche tradizioni rituali. (37) Che senso avrebbe avuto, altrimenti, affrontare una nuova edizione del Messale di Pio V nel 1962, quando già tre anni prima, nel 1959, era già stato dato «il primo annuncio del Concilio»? (38)

Proprio il Vaticano II, di fatto, decretò l’uso delle lingue nazionali, poiché il loro uso poteva «riuscire di grande utilità per il popolo». (39) Il latino, però, sarebbe dovuto rimanere la lingua ufficiale, non solo a livello teorico, ma anche pratico: non per nulla, l’editio typica delle varie uscite del Missale Romanum paolino, 1970, 1975 e 2002, è proprio nella lingua ecclesiastica per antonomasia, promulgata direttamente dalle Sede Apostolica. Le versioni

‘regionali', invece, sono curate delle rispettive Conferenze episcopali territoriali. Da un punto di vista giuridico, quella in latino, frutto di un piano normativo di maggiore rilevanza, il papa rispetto al 'semplice' vescovo, sovrasta quella delle Conferenze. In realtà, i fatti si sono svolti diversamente:

le lingue volgari, per 'rivoluzione popolare’, sono divenute ordinarie; il latino, invece, è stato 'degradato' a lingua reazionaria, superata, considerata retaggio di un passato in cui il popolo non partecipava attivamente alla liturgia.

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In effetti, poteva anche essere così, ma, prima di tutto, la questione, lo abbiamo già affermato, deve essere contestualizzata. In seconda battuta, poi, che dire di altre confessioni cristiane dei nostri giorni, come, ad esempio, quella ortodossa: lì, in quale misura il popolo partecipa alla sacra funzione?

l’iconostasi, forse, non divide in maniera netta e visibile la navata dal santuario, spazio riservato esclusivamente ai sacerdoti? come possiamo affermare che il rito romano di Paolo VI sia 'migliore' solo perché il popolo sembra partecipare più attivamente ai sacri riti?

È corretto dare un opportuno spazio alle lingue nazionali, certo, ma ciò non significa abbandonare incondizionatamente la lingua liturgica universale, poiché «il Concilio è ben lontano dall'aver bandito il latino, anzi al contrario:

la sua esclusione sistematica è un abuso non meno condannabile della volontà sistematica di alcuni di mantenerlo esclusivamente». (40) Occorre discernimento. In più, forse, serve un ritorno ad un vero modello di spiritualità, vissuto non col 'fare', ma con l''essere': un tipo di partecipazione che possa sgorgare direttamente dal cuore, nel quale anche la musica del popolo diventi esigenza dell’assemblea e non inutile e antiestetica forzatura.

Non tocca a noi decidere. Sarà la Chiesa stessa che, se lo riterrà opportuno, saprà bene organizzare il nuovo assetto, per vincere la sfida che si è imposta: una partecipazione popolare piena, ma anche del tutto consapevole. Questa sembrerebbe proprio la strada intrapresa dal nuovo pontefice, Francesco, eletto dopo le drammatiche dimissioni di Benedetto XVI.

Allo stesso modo, partecipare musicalmente ai sacri misteri non significa semplicemente e necessariamente cantare con la bocca, ma anche con il cuore, condividere emotivamente ciò che il testo liturgico e la musica riescono a suscitare. Di recente, Benedetto XVI ha ribadito questo concetto:

«La partecipazione attiva dell’intero Popolo di Dio alla liturgia non consiste solo nel parlare, ma anche nell’ascoltare, nell’accogliere con i sensi e con lo spirito la Parola, e questo vale anche per la musica sacra». (41) Sembra che sia in atto un ritorno al trascendente: l’ascolto ‘musicale’, sia della lingua

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latina sia della musica, come scoperta delle risonanze interiori che il suono, anche della parola sacra, può far scaturire.

Un esempio implicito viene dal Lezionario. Le rubriche richiedono che

«il salmo responsoriale di norma si eseguisca in canto»: (42) in effetti, i testi dei ritornelli, in genere, sono sintetici e già rivestiti di una certa musicalità.

Nella nuova edizione, (43) però, è stato aggiunto altro contenuto, per riportare una traduzione più fedele all'originale: spesso, perciò, i ritornelli sono ora più lunghi e 'faticosi', rispetto a quelli della precedente versione. Da un punto di vista musicale, è difficile, talvolta quasi impossibile trovare una linea melodica che sia incisiva e facilmente memorizzabile dall’assemblea; forse, il 'compito' della nuova edizione è anche quello di scoraggiare il canto del salmo? o se fosse il contrario?

In pratica, ogni versetto o testo, di qualsiasi lunghezza, può essere cantillato o cantato, senza creare grossi problemi, in un unico modo:

facendolo corrispondere, cioè, a schemi come quelli che si utilizzano per i toni salmodici. (44) Nella nuova edizione del Lezionario, i testi più lunghi dei salmi responsoriali, di primo acchito meno adatti dei precedenti ad essere messi in musica, non potrebbero esser stati adottati, invece, anche per

‘costringere’ chi canta ad utilizzare toni salmodici gregoriani o altri simili moduli, combinando, così, praticità di esecuzione e ritorno a forme musicali più antiche, semplici, nobili e 'liturgiche'?

Il problema della 'liturgicità' di un brano, in effetti, è vasto e complesso.

È sempre stato ribadito, nei documenti, che il canto gregoriano sia il genere principe, per quanto riguarda la musica rituale. Fino a tutto l'Ottocento, però, non si danno precise indicazioni su come debbano essere plasmate le nuove composizioni, che aspirino ad entrare, di diritto, nella celebrazione. Già dal Medioevo, con forza, si sottolinea che la nuova musica liturgica non debba contenere elementi profani, né a questi fare esplicito o implicito riferimento.

Con il Motu proprio di Pio X, però, non ci si limita a riaffermare l'estraneità della componente 'laica' nella musica che vuol dirsi liturgica; in più, si cerca di spiegare quali siano le qualità che la devono contraddistinguere: quindi, non solo «santa», cioè 'non profana', ma anche

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«buona» e «universale», in altre parole artisticamente irreprensibile e generalmente riconoscibile per la sua destinazione e collocazione.

L'anno 1903, perciò, rappresenta la nascita 'giuridica' del genere musicale «liturgico». Ciò significa che le musiche in precedenza impiegate nelle sacre celebrazioni erano in tutto e per tutto adatte al rito, a patto che non fossero implicate nel genere profano. Dal XX secolo in poi, però, questo requisito non è sufficiente, giacché si richiede anche un certo 'stile': non solo, quindi, come la musica non debba essere, ma anche come essa si debba presentare.

Donella, da un lato, retrodata la valenza del genere musicale liturgico anche alle opere precedenti il Motu: le grandi messe di Bach e Beethoven, perciò, non sono da lui considerate rituali, principalmente perché ritenute troppo lunghe. Allo stesso modo, la pratica dell'alternanza è da lui definita

«assurda», poiché non fa percepire all'ascolto dell’assemblea porzioni di testo sacro. Simili affermazioni sono antistoriche e, lo abbiamo già accennato, non tengono conto dalla giusta contestualizzazione cui deve essere sottoposto qualsiasi fenomeno storico-culturale. Una durata 'sintetica' dello svolgimento dei sacri riti, così come la percezione chiara e generale delle parole, rappresentano acquisizioni consuete per il nostro tempo e la nostra cultura, ma queste non possono assolutamente essere trasposte in ambiti temporali e sociali da noi cronologicamente distanti, senza il rischio di inquinare il giudizio del liturgista, del musicologo e dello storico.

Da un altro punto di vista, però, non possiamo essere d'accordo neppure con Giombini. Il modello di proporzione impiegato fra gli strumenti e la scrittura utilizzati in ambito sia profano sia liturgico dai vari Bach, Mozart e Beethoven, per lui musicisti di ieri per musica del passato, non può essere applicato ai Beatles e Rolling Stones, gruppi musicali di oggi per musica del presente, perché scavalca direttamente il Motu di Pio X: a parte l’aspetto profano, evidente già nella sola parte ritmica del modello pop, dando per scontata, per alcuni brani, una certa componente artistica, non si può certo definire lo 'stile' della musica rock abbinabile al modello liturgico, perché già inequivocabilmente compromesso con altri ambiti.

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È pur vero che nell'istruzione Musicam sacram sono riprese e 'amplificate', dal Motu proprio, solo le qualità concernenti la «santità» e

«bontà», lasciando in secondo ordine, pur senza rinnegarla, la componente

«universale» della musica liturgica. (45) In compenso, però, è stato introdotto con maggiore cognizione il concetto di 'funzionalità', per cui «la musica liturgica deve […] rispondere a suoi specifici requisiti: la piena aderenza ai testi che presenta, la consonanza con il tempo e il momento liturgico a cui è destinata, l'adeguata corrispondenza ai gesti che il rito propone. I vari momenti liturgici esigono, infatti, una propria espressione musicale, atta di volta in volta a far emergere la natura propria di un determinato rito». (46)

A questi requisiti, dunque, devono attenersi i compositori che intendono cimentarsi con nuove opere da inserire degnamente nella liturgia. Il punto interrogativo, al quale è già stato dedicato ampio spazio, riguarda la partecipazione attiva dell'assemblea. È qui che, prima ancora che il compositore si rapporti con il canto 'improvvisato' dei fedeli, la Chiesa dovrebbe forse esigere con rigore l'applicazione delle norme scritte, ad iniziare, in primo luogo, dall'educazione musicale dei presbiteri e, in seguito, a quella dei fedeli.

Al momento, tuttavia, il musicista liturgico appare sempre disorientato, ora più di cinquant’anni fa, quando almeno credeva che il periodo transitorio, di trapasso dal vecchio al nuovo rito, potesse durare un tempo ragionevole.

Un conto è comporre in modo semplice per gente musicalmente educata; un altro, invece, per chi non può capire ciò che gli è proposto. Nel primo caso,

‘semplicità' fa rima con 'nobiltà'; nel secondo, invece, con 'povertà', ma nel senso deteriore di 'sciatteria'. Il livello qualitativo di un'opera destinata alla liturgia, la più volte citata «bontà», non può essere abbassato. Adesso, però, per rispettare i dettami conciliari, il compositore è quasi costretto a scrivere, sì, ma per chi non sa leggere.

In attesa dell'auspicata educazione musicale per tutti, chi compone dovrà cercare di assecondare i principi e le norme che riguardano la musica liturgica, ma con la più grande cautela, tenendo conto che la partecipazione popolare dovrà essere trattata con il massimo riguardo: per l’estensione, la

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linea melodica, l'attinenza dell’accento della parola a quello musicale.

Elaborazioni più 'ardite', invece, saranno rivolte alla schola, ma sempre rivestite di una semplice, nobile solennità.

La Chiesa, infatti, auspica che «i musicisti animati da spirito cristiano comprendano di essere chiamati a coltivare la musica sacra e ad accrescere il suo patrimonio»; che «compongano melodie che abbiano le caratteristiche della vera musica sacra; che possano essere cantate non solo dalle maggiori scholae cantorum, ma che convengano anche alle scholae minori, e che favoriscano la partecipazione attiva di tutta l'assemblea dei fedeli. I testi destinati al canto sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla sacra Scrittura e dalle fonti liturgiche». (47)

È chiaro che la durata di una messa dei nostri giorni, ad esempio, non potrà equivalere quella di una messa barocca: i tempi sono cambiati.

Probabilmente, anche il livello esecutivo richiesto dovrà per forza adeguarsi agli organici odierni, formati, nella maggior parte dei casi, da semi- professionisti e, soprattutto, da dilettanti. Questo, anziché un punto debole, dovrebbe essere considerato dai compositori come un elemento interessante, rivolto a incrementare la formazione di un nuovo, valido repertorio 'didattico', non solo in senso musicale ma, ancor di più, liturgico.

Nuove fonti d'ispirazione, inoltre, saranno prese dalla pratica rivalutazione della lingua latina e dalla 'riammissione' del rito tridentino, dove, forse, la componente solo strumentale potrebbe ritrovare una propria, valida e moderna forma di espressione. (48)

Per riprendere la trama di un avvincente percorso musicale, ingiustamente interrotto dall'ignoranza e dal vandalismo culturale, figli immeritati della grande riforma del Vaticano II, occorre ancorarsi stabilmente a generi e forme inossidabili, che offrano solidità e sicurezza in mezzo alle migliaia di brani, in gran parte di discutibile liturgicità, del repertorio postconciliare. Dato che «nell’accostarsi alla musica occidentale non c’è niente di più naturale che partire dalla messa», (49) potremmo anche affermare che, oggi, «non c'è niente di più spontaneo che partire dalla messa, per riavvicinarsi alla vera musica liturgica».

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Nei primi secoli del Cristianesimo, l'Ordinarium era cantato da tutta l’assemblea. I compositori del nostro tempo, perciò, da una nuova prospettiva, potrebbero collocarvi, pur con tutte le immancabili limitazioni, la base per rilanciare l'intervento comunitario: non come ingombrante 'fardello', imposto dalla normativa, ma come scelta responsabile e consapevole. Il principio della «partecipazione attiva», così, risulterebbe salvaguardato e, nello stesso tempo, sarebbe recuperata l'antichissima e nobile consuetudine del canto assembleare. Stravinsky, Messiaen e Pärt hanno serrato i 'cerchi' delle loro messe: dopo quasi due millenni, parallelamente, i musicisti di oggi potrebbero chiudere l’anello evolutivo della messa musicale, che dal popolo

‘nasce’ e al popolo ritorna.

In generale, proprio dalla rivalutazione musicale dell'Ordinario, nuovamente considerato come elemento unificatore della celebrazione eucaristica, si giocherà il futuro della musica nei sacri riti. La messa attende nuove proposte, attente alle richieste del nostro tempo, ma che non scadano in forme deteriori di produzione musicale, di livello indecoroso e impresentabile. Molti artisti fremono, vogliono cimentarsi sul campo, donare alla Divinità la parte più preziosa del 'talento' che hanno ricevuto, ma questo lo possono fare solo evitando l'umiliazione di un rifiuto, solo se la loro fatica sarà apprezzata e utilizzata per il nobile scopo di 'servire' la liturgia. La Chiesa sa «bene che anche oggi non mancano compositori capaci di offrire […] il loro indispensabile apporto e la loro competente collaborazione, per incrementare il patrimonio della musica a servizio di una Liturgia sempre più intensamente vissuta»: (50) in effetti, «la Chiesa ha bisogno […] dei musicisti», (51) ma, al momento, non li ha ancora 'ufficialmente' convocati.

In attesa di ricevere la 'chiamata', i compositori liturgici non devono smettere di scrivere, ricercando «un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio», (52) per gettare un ponte fra passato e futuro e ricostruire, nella continuità del presente, l'unità del mondo cattolico. La

«nuova universalità» diverrà la prerogativa più importante della musica liturgica del domani: sarà possibile trovarla solo mettendo di nuovo «Dio al primo posto» (53) e considerando la Chiesa, non il singolo, «autentico

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soggetto della Liturgia»; (54) da essa, di conseguenza, scaturiranno

«santità», «bontà» e «funzionalità».

Il compositore deve ritrovare l'ispirazione per rinascere, la forza per ripartire, la volontà per andare avanti. Occorre nuovamente affidarsi all'immutabilità testuale dell'Ordinarium, al suo indiscusso prestigio, alla sua integra valenza formale ed estetica. I tempi, è vero, sono bui; ma sembra di vedere, anche se lontana, una seppur debole luce.

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