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1 Tzvetan Todorov e la scoperta dell’altro.

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Academic year: 2021

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1 Tzvetan Todorov e la scoperta dell’altro.

Avessi pur cento lingue e cento bocche e una voce di ferro, non riuscirei, no, a esprimere tutte le sofferenze dei prigionieri, a elencare tutti i nomi dei caduti!

Virgilio, Eneide, VI, 625-627.

Tzvetan Todorov dedica il suo straordinario lavoro La Conquête de l’Amérique. La question de l’autre alla memoria di una donna maya massacrata dai cani, per aver rifiutato di diventare

schiava e oggetto di un conquistador spagnolo nel XVI secolo.

Di questa donna non sappiamo nulla: non avendo nome non ha individualità.

È stata completamente spersonalizzata, come una figura di carta, senza consistenza, senza passato, senza futuro.

Diego de Landa, nella sua Relazione sullo Yucatán, regione della quale era stato nominato vescovo, non ritiene importante riportarne l’identità, mentre documenta bene il nome del capitano che l’aveva fatta prigioniera.

Todorov, invece, tre secoli dopo, sceglie di omaggiare il coraggio e la fermezza di una donna sconosciuta, simbolo della resistenza alle violenze perpetrate dagli invasori, determinando un precedente e restituendo dignità all’identità negata, all’alterità di genere, di cultura, di civiltà.

Il volume, infatti, non parla solo dell’altro, del suo annientamento e della sua cancellazione, ma è a lui specificamente destinato e consacrato.

Il dolore, la tragedia improvvisa, la violenza insensata e devastante, l’orrore della brutalità e delle stragi, analizzate e documentate con grande attenzione, sono trasformate in testimonianza storica ma soprattutto in memoria collettiva e partecipata, per dare voce a chi non può più narrare, “per far sì che questo racconto e molti altri simili non siano dimenticati”.

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Ma come parlare dell’altro e, soprattutto, all’altro?

Questo si chiede Todorov e, per cercare una risposta, decide di affrontare “la problematica dell’altro esterno e lontano”

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ripercorrendo le tappe di una storia di conquista ed esclusione, di sopraffazione e sconfitta, scegliendo di stare dalla parte di chi non ha potuto fornire la sua versione e la sua testimonianza.

Per Todorov infatti si afferma, proprio a partire dalla scoperta dell’America, la tendenza degli europei ad annullare la diversità, a piegarla con prepotenza a modelli precostituiti e totalizzanti, riproponendo stereotipi basati su pregiudizi dettati dall’ignoranza e da “una presunta superiorità di valori”

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, spengendo la scintilla di unicità che caratterizza l’alterità.

1 Tzvetan Todorov, La Conquête de l’Amérique. La question de l’autre, Paris, Éditions du Seuil, 1982 (trad.it. di Aldo Serafini, La conquista dell’America. Il problema dell’ « altro », Torino, Einaudi, 1984, p. 299).

2 Ivi, p. 5.

3 Ivi, p. 217.

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“A partire da quell’epoca, e per circa trecentocinquanta anni, l’Europa occidentale ha cercato di assimilare l’altro, di far scomparire l’alterità esteriore, e in gran parte ci è riuscita. [...]

Gli europei dimostrano notevoli qualità di elasticità e improvvisazione, che permettono loro di imporre dovunque con facilità il proprio modo di vita”.

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La rapidità con cui gli spagnoli riescono a penetrare nell’interno, la capacità di comprendere le divisioni interne alle comunità, l’abilità con cui essi riescono a sfruttare le fragilità degli indigeni, sorpresi e intimoriti di fronte all’arrivo di questi uomini così diversi da loro e di cui non comprendevano le violenze e le razzie, consentono di innescare il processo di sottomissione, asservimento e sterminio che ridurrà la popolazione delle Indie, nel giro di un secolo, da circa 80 milioni a soltanto 10 milioni.

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Nonostante i massacri perpetrati nel Nuovo Mondo, il disprezzo e l’indifferenza degli spagnoli nei confronti dei nativi non è totale come si è solitamente portati a pensare.

In realtà, infatti, è ben documentata da lettere, diari e cronache del tempo, una certa attrazione di Cortés e delle sue truppe per il popolo azteco, per i suoi costumi, le sue città e i suoi mercati.

Come possono la distruzione e l’annientamento seguire lo stupore di fronte all’efficiente organizzazione sociale delle comunità e alla raffinatezza dei gioielli e delle stoffe o l’entusiasmo di fronte alla solidità e alla bellezza di torri e fortezze?

Analizzando i testi pervenutici, Todorov nota come, in verità, le parole di lode e di ammirazione degli spagnoli siano riferite solo a cose, mai a persone.

Ciò significa che, se non si riconosce l’altro come soggetto, degno di rispetto in quanto essere umano, l’interesse e l’attenzione rivolta all’arte, ai manufatti, alle suppellettili e alla maestosità delle costruzioni, rimangono solo sterile e vuota apparenza legata al piacere estetico o alla funzionalità di un’architettura, poiché non vi è alcuna considerazione dell’elemento umano che ha progettato, disegnato, abitato e vissuto quelle opere:

“Simile al turista d’oggi, che, quando viaggia in Africa o in Asia, ammira la qualità dell’artigianato senza che lo sfiori nemmeno l’idea di condividere la vita degli artigiani che producono quegli oggetti, Cortés va in estasi davanti alle produzioni azteche, ma non riconosce i loro autori come individui umani da porre sul suo stesso piano. [...]

Cortés si interessa alla civiltà azteca, e al tempo stesso le resta completamente estraneo”.

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L’ammirazione può addirittura accentuare e acuire la distanza tra europei e nativi, proprio perché spesso la tipicità e la specificità di una cultura altra vengono scambiate per eccentricità o stravaganze, tutt’al più degne di essere catalogate o scelte come campione per collezioni private.

4 Ivi, pp. 300-301.

5 Cfr. su questo punto Todorov, op.cit., p. 162.

6 Ivi, p. 158; p. 160. Corsivo mio.

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3 Con la conquista delle Americhe, lo spazio dell’altro è stato completamente interdetto e, con esso, anche quello della parola.

Eppure, nella barbarie spagnola, esistono esperienze, come quelle di Diego Durán, Bernardino de Sahagún, Gonzálo Guerrero e, per certi aspetti, Cabeza de Vaca, e che prefigurano l’avvento di una nuova prospettiva con cui rivolgersi all’altro, il dialogo, prerogativa di una società che si interroga sul valore dell’identità, della pluralità, della differenza.

Come sottolinea Taylor, il bisogno di riconoscimento e la centralità del dialogo costituiscono il terreno su cui si fonda e si consolida l’esperienza umana:

“Per comprendere quale sia la stretta connessione fra identità e riconoscimento dobbiamo prendere in considerazione un aspetto cruciale della condizione umana (…).

Questo aspetto cruciale della vita umana è il suo carattere fondamentalmente dialogico. [...]

Noi definiamo sempre la nostra identità dialogando, e qualche volta lottando, con le cose che gli altri significativi vogliono vedere in noi (…).

Ma, comunque la pensiamo a questo proposito, la formazione e la conservazione della nostra identità rimangono, a meno di un tentativo eroico di rompere con l’esistenza normale, dialogiche per tutto il tempo che viviamo. (…)

La mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con gli altri”.

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Dunque la costruzione dell’identità non solo passa attraverso lo sguardo dell’altro ma soprattutto si costruisce e si ridefinisce costantemente durante l’intero arco della nostra vita.

L’altro gioca un ruolo fondamentale nella sua strutturazione proprio perché “noi non possiamo mai vedere interamente noi stessi; l’altro è necessario per completare (…) la percezione del sé, che l’individuo stesso realizza solo in maniera parziale”.

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L’altro quindi è non solo completamento dell’Io ma soprattutto è indispensabile affinché questo possa formarsi pienamente.

L’individuo non può bastare a se stesso né tantomeno il suo sviluppo emotivo e conoscitivo può darsi nell’isolamento perché il suo agire non può estrinsecarsi a pieno senza la presenza di qualcuno che testimoni, osservi, partecipi.

A questo proposito, Alessandro Dal Lago riprende il concetto arendtiano di pluralità e di sguardo:

“Il fatto di presentarsi agli altri è legato strettamente alla pluralità: noi non saremmo uomini plurali se gli altri non ci vedessero come tali. E, d’altra parte, noi siamo consapevoli di questa pluralità proprio perché siamo visti”.

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Questa presa di coscienza si avvia a partire dal fatto che l’uomo vive insieme ad altri uomini, che è, per così dire, immerso nell’altro, grazie al quale comprende il valore della pluralità, che

7 Charles Taylor, The politics of Recognition, Princeton University Press, Princeton, 1992 (trad.it.di Gianni Rigamonti, “La politica del riconoscimento”, in Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 17; 18; 19).

8 Tzvetan Todorov, Mikhaȉl Bakhtine. Le principe dialogique, suivi de Écrits du Cercle de Bakhtine, Paris, Éditions du Seuil, 1981 (trad.it. di Anna Maria Marietti, Michail Bachtin. Il principio dialogico, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1990, p. 130). Cfr. su questo punto Charles Taylor, art.cit., p. 18.

9 Alessandro Dal Lago, “Hannah Arendt: la delusione della filosofia”, in G. Gaeta, C. Bettinelli, A. Dal Lago, Vite attive. Simone Weil, Edith Stein, Hannah Arendt, Roma, Edizioni Lavoro, 1997, p. 76. Corsivo mio.

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4 non caratterizza solo le sue potenzialità e abilità, ma che è condizione dell’essere visti, cioè dell’essere al cospetto degli altri.

Ed è proprio la pluralità che illumina la condizione umana attraverso la costruzione di uno spazio condiviso, di un ampio ventaglio di prospettive che si dispieghino in “un dialogo, in cui nessuno ha l’ultima parola, in cui nessuna delle voci riduce l’altra allo stato di semplice oggetto e in cui ognuno trae vantaggio dalla propria esteriorità rispetto all’altro”.

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Bachtin, nel suo studio sull’elemento dialogico in Dostoevskij, imposta un’equazione tra essere e comunicare che si sviluppa nella relazione osmotica tra l’io e il tu, in una zona di confine.

“L’esistenza dell’uomo (sia quella esteriore che quella interiore) è una profondissima comunicazione.

Essere significa comunicare. [...] Essere significa essere per l’altro e, attraverso l’altro, per sé. L’uomo non ha un territorio interiore sovrano, ma è tutto e sempre al confine, e, guardando dentro di sé, egli guarda negli occhi dell’altro e con gli occhi dell’altro [...].

Non posso fare a meno dell’altro, non posso diventare me stesso senza l’altro: devo trovare me stesso nell’altro, trovando l’altro in me (in un riflettersi e accettarsi reciproci)”.

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L’uomo vive al confine, nella sottile linea che separa e distingue.

Ed è proprio su questo limite che si costruisce lo sguardo antropologico, il tentativo di stabilire un contatto autentico con l’altro, di comprendere il suo mondo, i suoi valori, le espressioni della sua cultura.

10 Ivi, p. 303.

11 Michail Bachtin, K pererabotke knigi o Dostoevskom, (1961) in Kontekst 1976, Moskva, 1977 (trad.it. Piano per il rifacimento del libro su Dostoevskij, in L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, a cura di Clara Strada Janovic, Torino, Einaudi, 1998, p. 324).

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