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ANALISI DELLE AZIENDE A CONDUZIONE FAMILIARE

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INTRODUZIONE

Le piccole e medie imprese rappresentano una parte importante dell’economia italiana, tanto da essere oggi da molti considerate come l’asse portante del sistema economico del nostro paese. Esse costituiscono un insieme articolato e complesso, soggetto a rapidi cambiamenti e capace di svolgere un ruolo determinante in un contesto che si evolve in modo imprevedibile. E’ così che la globalizzazione di molti settori economici, ritenuta una minaccia per le imprese di piccole e medie dimensioni, può dare invece, origine a nuove opportunità imprenditoriali.

I tratti caratteristici delle Pmi sono rappresentati dalla centralità dell’imprenditore nei processi decisionali e di governo, dalla diversità di esperienze e competenze necessarie per svolgere la direzione aziendale rispetto alle grandi imprese, dalla specificità delle contingenze di natura operativa e strategica e dalla rilevanza che assumono le relazioni personali nel rapporto con i vari stakeholder aziendali.

La tematica delle piccole e medie imprese è legata inevitabilmente a quella delle aziende familiari, poiché nonostante esistano family business di notevoli dimensioni, sono le imprese minori ad essere guidate nella stragrande maggioranza dei casi, da una famiglia proprietaria. L’impresa familiare, indiscussa protagonista del processo di industrializzazione, rimane ancora oggi, in Italia come in gran parte dei Paesi industrializzati, un elemento fondamentale della crescita economica e dello sviluppo della società civile.

Tale tipologia di impresa è caratterizzata da una stretta e spesso indissolubile ”simbiosi” tra la realtà familiare e quella imprenditoriale, che può essere “mutualistica” nel caso in cui comporti vantaggi reciproci per i due istituti o “antagonistica”, allorquando privilegi un istituto a discapito dell’altro. Soltanto da alcuni anni la letteratura economico-aziendale ha cominciato ad interessarsi a tale problematica, rivolgendo prevalentemente la

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propria attenzione alla trasmissione dell’attività aziendale dall’imprenditore proprietario alle nuove generazioni, fenomeno che gli studiosi di imprese familiari definiscono come successione imprenditoriale.

L’assetto di governo ed organizzativo dei family business, fortemente centrato su una o due figure chiave, rende infatti di vitale importanza il tema della loro sostituzione. La mancanza di eredi validi o la loro incapacità di gestire, magari in team, l’azienda finisce per determinare in tempi relativamente brevi un netto peggioramento delle performance economiche e sociali. La comprensione dei meccanismi che determinano il processo di ricambio generazionale all’interno delle imprese e ne favoriscono l’efficace svolgimento diventa perciò un fattore di grande rilevanza.

Definire principi e regole attinenti alla pianificazione ed alla gestione di tale problematica fornisce alle aziende familiari un supporto essenziale per governare con successo questo passaggio e, di conseguenza, per aumentare la propria competitività. Risulta tuttavia opportuno evidenziare che il problema della successione imprenditoriale è spesso l’ultima manifestazione di una serie di altri problemi che affondano le proprie radici più profonde nelle caratteristiche della relazione esistente tra famiglia proprietaria ed impresa e nelle modalità e strutture di governo utilizzate per controllare l’azienda.

In quest’ottica, la corporate governance, intesa come l’insieme di istituzioni e regole finalizzate a garantire un governo efficace ed efficiente nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nella vita dell’impresa, può rivelarsi uno strumento indispensabile nel scongiurare il rischio di sovrapposizione tra la famiglia, la proprietà e gli organi di governo aziendale. Il consiglio di amministrazione svolge un ruolo centrale nel processo di corporate governance. Nella realtà dei family business esso rappresenta uno strumento cruciale per la continuità aziendale in quanto i suoi compiti principali riguardano la gestione del patrimonio, della pianificazione strategica e della successione, ovvero la risoluzione di problematiche essenziali per il futuro dell’impresa e per quello della famiglia.

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Il presente scritto cerca di offrire uno spunto di riflessione sull’importanza della pianificazione del ricambio generazionale e delle strutture di governo più idonee a garantire la continuità ed il successo dell’impresa familiare. Il lavoro è strutturato in tre parti.

Nel primo capitolo, si effettua un’analisi del sistema capitalistico italiano, soffermandosi in modo particolare sulla sua evoluzione nel tempo e sulle tipologie di aziende maggiormente diffuse nel nostro paese. Dopo aver

esaminato la nuova definizione di piccola e media impresa fornita dall’ Unione Europea, ne vengono analizzati i ricorrenti punti di forza e di

debolezza e la loro rilevanza nel tessuto economico italiano. Si procede, quindi, a definire il fenomeno dell’impresa familiare attraverso i modelli proposti dalla teoria economica e ne vengono esaminate le diverse fasi evolutive e le dinamiche che si istaurano nel rapporto famiglia-impresa, le quali possono essere sia fonte di successo che di insuccesso nello svolgimento della funzione imprenditoriale.

Il secondo capitolo è dedicato allo studio del processo di ricambio generazionale. Vengono inizialmente descritte le caratteristiche peculiari di tale passaggio fondamentale per le imprese familiari, ponendo l’attenzione soprattutto sugli attori che partecipano al processo successorio e sulle configurazioni che quest’ultimo può assumere in relazione alle esigenze e alle attese delle generazioni coinvolte. L’analisi si sposta successivamente sulle diverse fasi che caratterizzano tale processo, cercando di offrire degli spunti di riflessione utili per una sua adeguata pianificazione e per un efficace passaggio del testimone tra i padri e i figli alla guida dell’impresa. Vengono, infine, esaminati i principali strumenti in grado di agevolare la buona riuscita della transizione generazionale, permettendo all’imprenditore-fondatore da un lato, di salvaguardare la funzionalità duratura dell’attività aziendale, e dall’altro, la simultanea presenza degli eredi nello svolgimento dei ruoli di controllo.

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Nel terzo capitolo, infine, si analizza il sistema di corporate governance nella realtà delle aziende familiari. Lo studio si concentra in modo particolare sulle caratteristiche dei modelli di governo, che rappresentano una manifestazione diretta delle modalità in cui la famiglia proprietaria decide di impostare il suo rapporto con l’impresa. Particolare attenzione è rivolta al consiglio di amministrazione, attraverso un esame approfondito delle sue funzioni e dei diversi ruoli che questo è in grado di svolgere, contribuendo in misura rilevante al miglioramento dei risultati aziendali e alla continuità delle imprese familiari. Si introduce, quindi, il modello della leadership collegiale, descrivendone i benefici e i limiti ed evidenziando le condizioni generali per un suo efficace utilizzo. Il lavoro si conclude con l’esame degli ulteriori organi di cui la compagine proprietaria può servirsi nel governo dell’impresa, ponendo particolare attenzione alla rilevanza che gli accordi di famiglia possono avere nel salvaguardare la continuità dell’impresa e nel rafforzare la coesione tra i familiari impegnati in azienda.

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CAPITOLO 1

LE PMI NEL CONTESTO ITALIANO.

ANALISI DELLE AZIENDE A CONDUZIONE FAMILIARE

1.1. Il modello capitalistico italiano

I sistemi economici delle nazioni maggiormente sviluppate si possano ricondurre a due modelli fondamentali: il capitalismo neoamericano, tipico dei sistemi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna) e il capitalismo renano, caratteristico dell’Europa centro-settentrionale e del Giappone1.

Il modello neoamericano è definito anche market oriented o outsider system per la grande valenza che da al ruolo del mercato dei capitali come strumento in grado di disciplinare il management e incentivare la creazione di valore per gli azionisti. Esso è la manifestazione del liberismo e delle strutture del mercato finanziario, dove la Borsa è l’elemento centrale del sistema economico. Gli azionisti non sono coinvolti direttamente nella gestione delle imprese ma si concentrano sulla ricerca di un profitto nel breve periodo (sotto forma di dividendi e di capital gain).

La proprietà è estremamente variabile e non coincide quasi mai con il controllo che è affidato generalmente a manager esterni, l’importanza della piccola e media impresa sia in termini di numero di addetti impiegati che di ricchezza prodotta, è piuttosto bassa rispetto ai modelli di capitalismo alternativi, come quello renano o ancor di più quello italiano.

1 CENCIARINI R.A., DALLOCCHIO M., DELL’ACQUA A., ETRO L.L., Un Ponte per la crescita. Imprese, Banche e Finanza per il futuro del Sistema Italia, Gangemi, Roma 2006.

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Il capitalismo renano è anche definito network oriented o insider system, in quanto conferisce grande importanza alle relazioni tra imprese industriali e finanziarie e per la presenza di una coalizione di azionisti di controllo. Il gruppo industriale e finanziario è il tipico modello di assetto istituzionale della grande impresa operante in questi sistemi economici (Zattoni, 2006). Tale forma di capitalismo può essere descritto come un modello di economia sociale di mercato: al suo interno l’impresa si esprime sia come insieme di mezzi ordinati al conseguimento di un obiettivo reddituale che come comunità di persone portatrici di diversi interessi. La Borsa è poco rilevante, il capitale di rischio è stabile e gestito per grossa parte dalle banche e da investitori istituzionali, che partecipano direttamente al governo delle imprese. Il personale ha notevole importanza nella gestione aziendale e le piccole e medie imprese rivestono un ruolo rilevante sia per numero di occupati che per ricchezza generata.

Il capitalismo italiano ha alcune caratteristiche simili al modello renano, come la continuità della proprietà, la partecipazione delle istituzioni finanziarie, la poca rilevanza del mercato borsistico. Tuttavia, il sistema delle imprese italiane presenta aspetti per certi versi unici che ne impediscono l’assimilazione ad altre realtà2:

 elevata influenza delle piccole e medie imprese sul prodotto interno lordo e sul numero di imprese, soprattutto nelle attività industriali;

 larga diffusione, tra le Pmi, di un modello di gestione familiare (fig.1), basato sull’azione diretta dell’imprenditore, affiancato da dirigenti solo in caso di dimensioni di un certo rilievo (coincidenza tra proprietà e controllo);

 riguardo le grandi imprese, concentrazione della proprietà in poche mani e conseguente stabilità del controllo con prevalenza di controllo familiare e presenza di incroci azionari tra dieci/quindici grandi famiglie industriali;

2 ZATTONI A., Assetti proprietari e Corporate Governance, Egea, Milano 2006.

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 forte partecipazione dello Stato (cosiddetto Stato imprenditore) e degli enti locali, che fino a poco tempo fa detenevano la proprietà di una quota rilevante delle grandi imprese.

Figura 1.1. Distribuzione della proprietà nelle imprese italiane

* Note: Famiglie include le imprese individuali; Amministrazioni pubbliche include amministrazioni centrali, amministrazioni locali, enti di previdenza; Istituzioni di credito include la Banca Centrale; Società e quasi società non finanziarie include le società non finanziarie a prevalente partecipazione statale. FONTE: CENCIARINI ET ALL (2006)

La quotazione sul mercato azionario è limitata a poche centinaia di società, restando al di fuori della Borsa molte aziende di notevoli dimensioni.

Le cause principali dello scarso uso del mercato azionario sono riconducibili agli elevati costi per la quotazione ed alla complessità burocratica e documentale da rispettare. E’ evidente la mancanza di public company di tipo anglosassone, con il sistema bancario che non partecipa direttamente al

Famiglie Società e quasi 53%

società non finanziarie

24%

Estero 6%

Assicurazioni 2%

Istituzioni di credito

7%

Amministrazioni pubbliche

8%

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controllo delle imprese ma tuttavia le influenza in vari modi essendo il principale fornitore di capitali a breve e medio termine. Comunque, le banche italiane, diversamente dal contesto tedesco, non interferiscono nella gestione se non in situazione di crisi.

Un’ulteriore peculiarità è rappresentata dalla scarsa presenza negli assetti proprietari delle società quotate di investitori istituzionali (fondi d’investimento e fondi pensione), ovvero istituzioni finanziarie specializzate nella funzione di intermediazione proprietaria che raccolgono capitali di famiglie e lo investono nelle imprese con finalità esclusivamente patrimoniali;

ciò genera la mancanza nella nostra economia di uno strumento fondamentale per una raccolta significativa di capitali di rischio. Storicamente, il processo di industrializzazione ha preso avvio solo sul finire del XIX secolo ed il suo sviluppo ha riguardato soprattutto i settori dell’industria pesante, sostenuti dalle commesse pubbliche e al riparo dei dazi3. L’economia italiana espande in questo modo interi settori strategici, come quello dell’energia elettrica e dell’acciaio, andando anche incontro ad alcuni insuccessi che costringono lo Stato ad intervenire per salvare le imprese in difficoltà.

A tal proposito durante la grande crisi mondiale degli anni Trenta, che colpisce lo sviluppo delle fragili imprese industriali italiane e a cascata le grandi banche universali che ne detenevano le partecipazioni di controllo, il Governo costituisce nel 1933 l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che avrà il compito di assumere il controllo delle partecipazioni industriali possedute fino a quel momento dalle tre più grandi banche del paese (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma). Questa iniziativa di ridistribuzione del controllo societario, la più grande mai avvenuta nel nostro paese, porta l’IRI a detenere il controllo del 40% del complessivo capitale azionario delle imprese italiane.

3 CENCIARINI R.A., DALLOCCHIO M., DELL’ACQUA A., ETRO L.L., Un Ponte per la crescita. Imprese, Banche e Finanza per il futuro del Sistema Italia, Gangemi, Roma 2006, op.cit., p.41.

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Lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra produce una crescita economica mai vista prima (c.d. miracolo economico4) che spinge l’Italia a diventare una delle più importanti nazioni a livello mondiale ma non tocca in maniera significativa le caratteristiche di fondo del nostro capitalismo, ancora caratterizzato dal blocco del mercato per il controllo societario a causa della presenza di grandi gruppi familiari, da una continua ingerenza dello Stato nell’economia per mezzo delle grandi imprese pubbliche e da una forte regolamentazione del mercato in diversi settori, almeno fino al momento delle privatizzazioni avvenute nella seconda metà degli anni novanta.

Si tratta di un modello atipico, non riconducibile né al sistema neoamericano, incentrato sulla Borsa e sulle public company, né al sistema renano, dove le banche svolgono un’attività di controllo, selezione e correzione della gestione delle imprese. L’atipicità italiana si concretizza nel mancato sviluppo della Borsa e nella sottocapitalizzazione delle imprese, in un contesto nel quale le banche si limitano a svolgere la sola funzione di intermediazione evitando finora coinvolgimenti diretti nella vita delle imprese.

Solo di recente, in conseguenza di alcune privatizzazioni, del processo di globalizzazione e della formazione di un’Europa allargata – anche a causa dell’approvazione di nuove normative, su tutte Basilea II – il modello italiano sembra acquisire nuove connotazioni, nonostante la prevalenza delle piccole e medie imprese, della gestione familiare e del finanziamento attraverso il debito (nelle PMI per oltre il 60% a breve termine) siano peculiarità che sembrano destinate a durare ancora a lungo.

1.1.1. Tipologie di aziende presenti nel nostro paese

La piccola e media impresa è quindi il tipo di attività economica più rappresentativa del sistema capitalistico italiano ed è caratterizzata da semplici forme societarie e dalla coincidenza dei ruoli di conferente il capitale di

4 BARCA F., Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi. Donzelli, Roma 2010.

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rischio e di manager nella figura dell’imprenditore. Sinteticamente le imprese italiane possono essere classificate all’interno delle seguenti categorie:

1. piccole e medie imprese familiari indipendenti;

2. piccole e medie imprese aggregate nella forma di costellazioni e localizzate prevalentemente all’interno dei distretti;

3. grandi gruppi piramidali controllati da singole famiglie o da coalizioni di azionisti;

4. grandi imprese e grandi gruppi controllati dallo Stato e dagli enti locali;

5. cooperative e consorzi;

6. filiali di multinazionali estere.

Si analizzeranno ora brevemente solo i primi tre tipi di imprese in quanto oggetto di studio del presente lavoro. Riguardo la prima categoria, le piccole e medie imprese familiari indipendenti costituiscono la tipologia più diffusa nel sistema capitalistico italiano. Vi rientrano infatti le imprese individuali (circa 2.700.000 unità), le società di persone ( circa 800.000 unità) e molte delle 531.590 società di capitali ( di cui oltre il 90% sono società a responsabilità limitata). La loro rilevanza è confermata dal fatto che esse producono una parte consistente del prodotto interno lordo del sistema industriale italiano. Vi sono tre caratteristiche principali, oltre alle ridotte dimensioni, che contraddistinguono tali imprese5:

 un piccolo team di vertice, che attraverso le proprie idee e capacità determina le strategie aziendali e l’orientamento strategico di fondo.

Questa situazione incrementa la rapidità nei processi decisionali che spesso è uno dei fattori su cui si basa il successo di molte realtà di piccole dimensioni;

 ambiti competitivi ristretti (di segmento, geografico, di settore, di integrazione), dovuto alla particolarità delle formule imprenditoriali di tali imprese;

5 ZATTONI A., Assetti proprietari e Corporate Governance, Egea, Milano 2006, op. cit., p.194.

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 sovrapposizione famiglia-impresa, che può essere totale o parziale e la cui influenza può variare in base alla presenza o meno tra i familiari di una concezione di autonomia dell’impresa dalla famiglia.

E’ quindi evidente che le convinzioni e la storia della famiglia proprietaria influenzano notevolmente le caratteristiche dell’impresa. L’assetto proprietario è costituito per la maggioranza o la totalità da pochi azionisti legati tra loro da vincoli di parentela e gli obiettivi aziendali sono generalmente condizionati dalle aspirazioni individuali dell’imprenditore6. Nella seconda categoria si trovano le piccole e medie imprese aggregate nella forma di costellazioni e localizzate prevalentemente all’interno dei distretti, ovvero gruppi di aziende legate da rapporti di collaborazione intensi che si manifestano principalmente attraverso le forme di subfornitura e distretto.

In caso di subfornitura un’impresa si impegna a produrre un particolare componente per conto di un’altra impresa, solitamente di grandi dimensioni.

Questo tipo di relazione si manifesta più frequentemente nei settori della lavorazione dei metalli, del legno, delle materie plastiche, dell’abbigliamento e dell’edilizia e vede oggi una preferenza da parte delle grandi imprese nel ridurre il numero di imprese subfornitrici rispetto al passato e nel favorire una loro maggiore qualificazione ed una collaborazione di progetto maggiormente proficua.

I distretti sono invece piccole aree geografiche in cui è presente un elevato numero di Pmi operanti nella medesima filiera produttiva (ne sono esempi Como per la seta, Cantù per i mobili, Murano per i vetri, Prato per il tessile, Sassuolo per la ceramica, Imola per la meccanica e Carrara per il marmo). Questo tipo di relazione tra imprese è tipica del modello di sviluppo economico italiano, principalmente diffuso nel nord del paese sia riguardo l’attività industriale che quella agricola e turistica (Zattoni, 2006).

6 CIPOLLETTA I., Capitalismo familiare e piccola impresa in Italia, Economia Italiana, n.2, 2004.

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I punti di forza dei distretti sono:

 concentrazione di un’offerta di lavoro con competenze specifiche;

 intensità delle relazioni sociali tra gli imprenditori;

 vantaggi in tempi e costi di comunicazione e trasporto.

L’abilità nel migliorare continuamente la qualità del prodotto e nel rispondere tempestivamente alle esigenza della clientela hanno permesso alle piccole e medie imprese italiane di competere con successo a livello internazionale, anche se di recente alcuni tra i principali distretti italiani hanno eroso le proprie quote di mercato in seguito alla competizione crescente proveniente dai paesi in via di sviluppo. Ad ogni modo la composizione degli aggregati aziendali ha permesso ai distretti di acquisire dimensioni simili a quelle di concorrenti medio-grandi e al sistema economico italiano di limitare le spiacevoli conseguenze sul livello di competitività internazionale legate alle ridotte dimensioni delle proprie imprese.

Passando ora ad analizzare la terza categoria, cioè i grandi gruppi piramidali controllati da singole famiglie o da coalizioni di azionisti, si può evidenziare come nella realtà italiana la grande impresa assuma la forma di gruppo, ovvero di un insieme di imprese o società giuridicamente indipendenti, legate da partecipazioni azionarie, che ne consentono il controllo di tutte le attività o alternativamente ne semplificano il coordinamento. Questa tipologia di imprese è costituita da una struttura piramidale con a capo una holding, centro direttivo di tutte le attività del gruppo, controllata quasi sempre da un unico nucleo familiare e da pacchetti azionari posseduti da società e gruppi amici. Tale rete di partecipazioni azionarie ha come conseguenza la creazione di alleanze finanziarie che sono cruciali ai fini della stabilità del controllo e per scongiurare eventuali ingressi poco graditi nella compagine societaria7. L’assetto istituzionale è complesso a causa della frammentazione della struttura azionaria di alcune società del gruppo e la strategia aziendale

7 FORTUNA F., Corporate Governance. Soggetti, modelli e sistemi, FrancoAngeli, Milano 2002.

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viene generalmente determinata dalla holding con lo scopo di massimizzare i benefici per i propri azionisti di controllo.

Questa situazione, se da un lato ha permesso ad alcuni imprenditori di governare notevoli investimenti con piccole quote di capitale, dall’altro genera spesso un conflitto di interessi tra azionisti della capogruppo e azionisti di minoranza delle società controllate. Per di più si verifica una situazione di fragilità finanziaria, essendo i ricavi delle controllanti legati alla redditività delle società operative, cosicché quando questa si dimostra non soddisfacente tutto il gruppo rischia di non riuscire ad affrontare adeguatamente i propri debiti finanziari.

1.1.2. Luci e ombre del sistema imprenditoriale italiano

Il tessuto economico del nostro paese sta vivendo una transizione da un sistema chiuso e poco incline alla concorrenza ad un sistema sempre più globale e competitivo, dove la qualità del made in Italy non è più sufficiente ad affrontare l’avanzata dei competitors. Diversi sono i punti di forza su cui il sistema può fare affidamento, in primis il patrimonio imprenditoriale che rappresenta una riserva di capitale umano con capacità di iniziativa e spirito di sacrificio e costituisce una parte importante della ricchezza nazionale. L’Italia è infatti uno tra i paesi che ogni anno crea il maggior numero di nuove imprese, le quali sono oltretutto caratterizzate da i più alti tassi di sopravvivenza8.

Inoltre passione per il prodotto, sensibilità al design, qualità e competenza tecnica, attenzione al cliente sono tutti fattori di successo che sono alla base dell’affermazione del made in Italy a livello internazionale.

Fondamentale è lo stile italiano nel fare impresa, attraverso la capacità di confrontarsi sui mercati e la volontà di affrontare la sfida della crescita.

8 CENCIARINI R.A., DALLOCCHIO M., DELL’ACQUA A., ETRO L.L., Un Ponte per la crescita. Imprese, Banche e Finanza per il futuro del Sistema Italia, Gangemi, Roma 2006.

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Purtroppo il modello di sviluppo dell’impresa italiana presenta anche diversi punti di debolezza. Infatti, come già osservato precedentemente nel corso del presente lavoro, lo scenario italiano è caratterizzato da un numero elevatissimo di micro, piccole e medie imprese che influiscono notevolmente sulla performance dell’economia italiana, dalla riduzione della rilevanza delle grandi aziende e da una complessa e rara crescita dimensionale delle proprie imprese (fig. 2). E’ ancora l’imprenditore a determinare con la sua capacità ed esperienza il successo delle Pmi, aiutato solo in rari casi dai suoi più stretti collaboratori, situazione che crea resistenza al cambiamento ed alla crescita.

Si tralascia quindi la possibilità di avvalersi di un management formato da persone competenti, in grado di indirizzare l’azienda verso un percorso di crescita e di far superare la visione strettamente familiare dell’impresa.

Permangono le scarse ambizioni, la bassa propensione all’innovazione e la trascurabile presenza nel settore della media tecnologia e dell’ high tech.

Buona parte delle altre imprese opera nei settori maturi ad alta intensità di lavoro non qualificato come il calzaturiero, l’abbigliamento, il tessile e i mobili, la cui produzione è soggetta spesso a delocalizzazione nei paesi in via di sviluppo.

A questo scenario si unisce la mancata transizione nel tempo verso i settori più specializzati che spiega come mai buona parte delle imprese italiane siano sempre più assediate dalla crescente concorrenza dei paesi emergenti.

Purtroppo le strategie di miglioramento continuo dei prodotti e dei processi produttivi utilizzate in passato per affrontare la concorrenza oggi non sono più sufficienti in quanto utilizzate anche da imprese di altri paesi; diviene quindi cruciale orientarsi verso l’innovazione investendo in ricerca e sviluppo ed in nuovi processi di business9. Manca, infatti, in Italia proprio tale capacità di focalizzarsi sulla ricerca di base in grado di garantire dei vantaggi competitivi

9CALDERINI M., GARRONE P., PALMIERI S., VERGANTI R., L’impresa dell’innovazione. La gestione strategica della tecnologia nelle Pmi. A cura dell’Associazione Italiana della Produzione, Il Sole 24 ORE, Milano 2004.

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di lungo periodo. Un ulteriore punto critico è rappresentato dal sistema finanziario, gravato per troppi anni dall’insostenibile peso del debito pubblico ed ancora oggi incapace di valutare e sostenere validi progetti imprenditoriali e di agevolare la crescita delle imprese sui mercati internazionali.

Figura 1.2. Principali indicatori delle imprese italiane

Fonte: Eurostat, 2011 (anno 2011, valori percentuali)

Oggi Italia ed Europa nel suo complesso si trovano nella delicata situazione di affrontare quelle sfide da cui dipenderà il loro futuro: la competizione lanciata dagli Stati Uniti sotto il profilo dell’innovazione e dai paesi emergenti riguardo al livello dei costi, i vincoli legati agli accordi di Maastricht e l’attuale stagnazione dell’economia. Sfide che potranno essere vinte solo attraverso una forte spinta verso la modernizzazione ed il cambiamento.

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N° imprese N° dipendenti

Grande (>250 dip.) 0,1 20,2

Media (50-249 dip.) 0,5 12,6

Piccola (10-49 dip.) 4,6 21,2

Micro (1-9 dip.) 94,8 46

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1.2 Le piccole e medie imprese: caratteri generali

Le piccole e medie imprese (PMI) svolgono un ruolo fondamentale all’interno del sistema economico italiano, messo in evidenza nel corso degli anni da numerosi studi di natura economica e politica e da analisi statistiche.

Col tempo la concezione delle PMI si è modificata, infatti se dal dopoguerra all’inizio degli anni settanta le imprese di grandi dimensioni ricoprivano un ruolo predominante nei principali paesi industrializzati a seguito dello sviluppo industriale e la piccola impresa si trovava in condizioni di dipendenza, a partire dalla metà degli anni settanta i cambiamenti avvenuti nel contesto economico e l’instabilità presente in molti settori hanno ridato importanza ad elementi tipici delle imprese di minori dimensioni come la velocità di risposta ai cambiamenti dell’ambiente esterno e la flessibilità organizzativa e produttiva10.

Le piccole e medie imprese, infatti, si sono dimostrate maggiormente capaci nell’ adattarsi ai cambiamenti della domanda interna ed esterna e nel modificare i propri criteri produttivi rispetto ai più ristretti vincoli di costo.

Ciò ha prodotto quei cambiamenti a livello di localizzazione e specializzazione che hanno portato alla configurazione attuale del sistema produttivo nazionale. Le PMI svolgono un ruolo centrale nell’economia europea. Nell’Unione europea allargata, composta da 28 paesi, circa 23 milioni di piccole e medie imprese forniscono intorno ai 75 milioni di posti di lavoro e rappresentano il 99% di tutte le imprese. Fino al 2003, però, esse non erano mai state classificate in modo unitario, in quanto, ogni paese membro faceva riferimento a definizioni e scale dimensionali diverse. Il 6 maggio 2003 l’Unione Europea adotta una raccomandazione (entrata in vigore nel 2005) con la quale precisa ed unifica i criteri di classificazione, aggiornando quelli già espressi nella precedente raccomandazione del 1996.

10 ALBERTI F., CORTESI A., SALVATO C., Le piccole imprese. Struttura, gestione, percorsi evolutivi, Carocci, Roma 2004.

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La raccomandazione considera impresa “ogni entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica. In particolare sono considerate tali le realtà che esercitano un’attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone e le associazioni che esercitino un’attività economica”. La riflessione comunitaria è stata promossa al fine di aumentare la coerenza e l'efficacia delle politiche comunitarie a sostegno delle PMI limitando, così, il rischio di distorsione della concorrenza.

PMI non significherà più "piccola e media impresa", ma

"microimpresa, piccola e media impresa". Le microimprese erano già definite nella precedente raccomandazione, ma l'unico requisito individuato era quello del numero dei dipendenti (inferiore a 10) e in sostanza la categoria non era mai stata chiamata in causa né dall'Unione Europea né dai singoli stati membri11. Ora, invece, sembra acquistare rilevanza nello scenario economico e viene equiparata alle altre due categorie.

Fatturato e stato patrimoniale sono alternativi ai fini dello status di PMI, quindi è sufficiente che uno solo dei due superi i parametri fissati. I nuovi parametri, più alti rispetto a quelli del 1996, sono stati calcolati sulla base dell'adeguamento all'inflazione e alla crescita del PIL. Uno dei principali obiettivi dell’UE è proprio quello di garantire un equo e giusto accesso alle misure di assistenza. In particolare si cerca di promuovere il sostegno alle PMI: nel migliorare l’accesso al capitale; nel promuovere l’innovazione e facilitare l’accesso alla ricerca e sviluppo12. La nuova definizione è riassunta nella tabella di seguito presentata.

11 VARACCA CAPELLO P., ZATTONI A., Criteri per definire e classificare le piccole e medie imprese, Working Paper, Università Bocconi, Milano 1995, n.3.

12 COMMISSIONE EUROPEA, La nuova definizione di PMI: guida dell’utente e modello di dichiarazione, Ufficio delle pubblicazioni, Lussemburgo, 2006, disponibile sul sito http://ec.europa.eu.

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Tabella 1.1. Parametri di identificazione delle PMI

Piccole Imprese Medie Imprese DEFINIZIONE COMUNITARIA Precedente Nuova Precedente Nuova DIPENDENTI OCCUPATI

(numero) 10 – 49 10 – 49 50 – 249 50 – 249 FATTURATO ANNUO

non superiore a (ml. di EURO) 7 10 40 50

TOTALE ATTIVO PATRIMONIALE non superiore a (ml. di EURO)

5 10 27 43

Fonte: Cenciarini R.A., Dallocchio M., Dell’Acqua A., Etro L.L., Un Ponte per la crescita. Imprese, Banche e Finanza per il futuro del Sistema Italia, Gangemi, Roma 2006.

Uno dei tratti caratterizzanti il profilo di una PMI, che influenza più di tutti i comportamenti di mercato, è rintracciabile nella presenza dominante dell’imprenditore e della sua famiglia nella gestione d’impresa. Nella maggior parte delle PMI, l’imprenditore, la sua storia, le sue origini, i suoi limiti, finiscono per incidere e orientare tutte le decisioni. Le strutture organizzative sono semplici, con un ridotto numero di livelli gerarchici, è lasciato poco spazio ai manager, i sistemi operativi e di gestione sono quasi assenti, la comunicazione e le relazioni sono meno codificate, più informali e spontanee.

Questo modello gestionale paternalistico e autoritario fa sì che il processo decisionale sia accentrato e rapido, e ciò costituisce sicuramente un fattore critico di successo in quanto in un contesto estremamente dinamico, un’organizzazione flessibile e con meno burocrazia riesce a reagire più velocemente ai cambiamenti. In un’ottica di elaborazione strategica, però, la mancanza delle figure manageriali, la semplificazione delle procedure e la

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rinuncia alla programmazione ed alla pianificazione a medio/lungo termine, possono considerarsi punti di debolezza tipici delle PMI.

Uno tra i problemi principali tipici di tale tipologia di imprese è la limitatezza delle risorse finanziarie. Vi sono spesso situazioni di sottocapitalizzazione e strutture finanziarie squilibrate. Le motivazioni sono rintracciabili:

 in un atteggiamento di diffidenza verso l'espansione da parte dell’imprenditore che, come unico (o quasi) detentore del capitale di rischio non vuole rischiare di perdere il controllo della sua impresa;

 nella presenza di vincoli finanziari anche a causa dello scarso potere contrattuale nei confronti delle istituzioni finanziarie e dei fornitori.

La piccola e media impresa è generalmente orientata al prodotto e questo garantisce molto spesso un’elevata qualità e specializzazione che gli permette di aderire maggiormente alle esigenze specifiche del cliente. Inoltre la creatività imprenditoriale si combina perfettamente con la struttura produttiva flessibile. A livello di fattori di mercato si attribuisce alle PMI un elevato grado di efficienza e innovazione oltre alla capacità di conquistare quote di mercato rilevanti in una determinata nicchia.

Nel settore di riferimento, però, “tendono ad assumere una posizione generalmente non dominante ed hanno la tendenza a adottare strategie reattive od adattive”13. Il dibattito sull’internazionalizzazione delle PMI è stato per lungo tempo caratterizzato da una sorta di sfiducia circa le possibilità effettive di sviluppo internazionale di queste imprese. I dati recenti invece dimostrano che le variabili dimensionali non discriminano più tra esportatrici e non esportatrici; il contributo delle PMI al mercato globale è sempre più rilevante.

Numerose imprese italiane minori hanno mostrato vitalità imprenditoriale e hanno prosperato, in termini di redditività, pur mantenendo

13 ARCARI A., L’impatto delle specificità gestionali delle PMI sui criteri di progettazione dei sistemi informativi e amministrativi, pubblicato dall’Università dell’Insubria di Varese, Facoltà di Economia, 2004, p. 20.

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le caratteristiche proprie della piccola dimensione. Superficialmente, si potrebbe giustificare la stabilità della piccola impresa sulla base della ridotta turbolenza che ha coinvolto i mercati nei decenni passati, rispetto alla complessità dell’attuale contesto competitivo.

In realtà, anche in passato si sono verificate condizioni di turbolenza ambientale per la piccola impresa, non dissimili da quelle attuali.

Ciononostante molti sono stati i casi di piccole imprese che non solo sono riuscite a mantenere la propria posizione sul mercato, ma hanno anche registrato performance migliori rispetto ad altre organizzazioni aziendali di dimensioni quantitative superiori.

1.2.1. Vantaggi e svantaggi delle piccole dimensioni

Per capire le ragioni dell’esistenza e del successo delle imprese minori, è necessario individuare i principali punti di forza di tali aziende ed allo stesso tempo, è indispensabile analizzarne gli aspetti di vulnerabilità spesso alla base dei loro problemi. I principali punti di forza delle PMI sono rappresentati da:

 flessibilità organizzativa: rapporti diretti e informali fra imprenditore e personale che portano ad una maggiore facilità dei flussi informativi all’interno dell’azienda (Alberti, Cortesi, Salvato, 2004);

 localismo: stretto legame e integrazione dell’azienda nel territorio locale, dovuti alla condivisione di valori economici, sociali e culturali che rende più semplice rapportarsi con la clientela, con i media locali, con le autorità pubbliche e le altre istituzioni;

 partecipazione e motivazione del personale: questi due aspetti sono spesso incentivati dalla relazione diretta con l’imprenditore ed in alcuni casi anche da eventuali legami di parentela con quest’ultimo;

 capacità di attrarre/trattenere potenzialità in termini di risorse umane:

nelle PMI le conoscenze sono spesso ristrette a poche persone, ovvero

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l’imprenditore e i suoi collaboratori più stretti; ciò rende tali conoscenze uniche e difficilmente imitabili dai concorrenti;

 flessibilità produttiva: possibilità di offrire un prodotto o servizio altamente personalizzato e di adeguare velocemente la struttura operativa ai cambiamenti della domanda, sia a livello quantitativo che qualitativo14;

 contatto diretto con la clientela: elevata capacità di fidelizzazione dei clienti, dovuta all’abilità di instaurare relazioni di fiducia reciproca, di attenzione alle esigenze e ai dettagli che spesso risulta essere un vantaggio competitivo rispetto ai rivali. Questo aspetto è inoltre cruciale per poter interpretare e anticipare i cambiamenti di gusti e le tendenze del mercato.

L’attenzione alle relazioni umane si riflette anche nei rapporti con i partner commerciali e di filiera, allo scopo di sviluppare collaborazioni durature nel tempo;

 ampia conoscenza del mercato di riferimento: questa è indispensabile per poter individuare opportunità e minacce esterne adeguando velocemente la propria strategia competitiva e il proprio orientamento strategico di fondo.

Le PMI presentano, però, anche dei punti di debolezza legati alle piccole dimensioni, ovvero:

 frequente impiego di personale poco qualificato: le figure professionalmente più valide sono poco attratte dalle piccole imprese o difficilmente ne fanno parte per molto tempo. Infatti la figura dell’imprenditore può limitare le opportunità di carriera e la crescita professionale di altri soggetti che in questo modo si sentono maggiormente motivati ad approdare in aziende di più grandi dimensioni;

 debolezza finanziaria: costituita dalla difficoltà di ottenere finanziamenti, per sostenere adeguatamente la crescita. E’ un problema riguardante soprattutto le micro-imprese, quelle più giovani e quelle del Centro-Sud Italia ed è dovuto alla preferenza da parte degli intermediari finanziari di valutare le scarse disponibilità patrimoniali di queste aziende piuttosto che

14 PRETI P., Piccole e medie imprese di successo, Economia&Management, vol.6, 2004.

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le reali opportunità imprenditoriali; inoltre spesso nelle PMI un altro aspetto negativo è rappresentato dalla sovrapposizione tra il patrimonio della famiglia e il patrimonio aziendale;

 focalizzazione sugli aspetti produttivi: l’interesse prevalente nelle piccole imprese è di frequente rivolto alla specifica attività produttiva, a scapito di aspetti gestionali quali attività di marketing, finanza, controllo di gestione, logistica e sviluppo del personale. La gestione viene intesa, quindi, come un’attività prettamente tecnica e ciò può rappresentare un limite per l’azienda nel rispondere efficacemente agli stimoli provenienti dall’esterno;

 difficoltà di avviare e gestire processi di ricerca e sviluppo per l’innovazione: tale problematica è collegata all’impossibilità delle PMI, sia in termini di capitale finanziario che di capitale umano, di affrontare gli investimenti necessari a tal fine;

 assenza di gestione strategica e di cultura manageriale: ciò si manifesta attraverso l’identificazione dell’impresa con la persona dell’imprenditore, la scarsa attitudine a sviluppare un’attività di gestione strategica e la mancanza di cultura manageriale. Nelle aziende guidate da imprenditori più giovani, però, queste carenze si attenuano in quanto esse presentano un grado di conoscenze manageriali e di dinamismo notevolmente superiore;

 eccessivo accentramento dell’attività di guida in capo all’imprenditore: vi è una notevole influenza sui processi da parte dell’intuito e dell’esperienza dell’imprenditore, che tendono a sostituire tutti gli strumenti di programmazione e controllo di cui le PMI avrebbero solitamente bisogno15. Questo provoca una carenza organizzativo-gestionale, sia riguardo alla definizione dei ruoli che nella formalizzazione ed esplicitazione della strategia. Il personale non si sente, quindi, coinvolto negli obiettivi di lungo periodo dell’azienda in quanto questi non sono

15 ALBERTI F., CORTESI A., SALVATO C., Le piccole imprese. Struttura, gestione, percorsi evolutivi, Carocci, Roma 2004. op.cit., p.34.

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chiari. L’imprenditore può arrivare ad essere così in “simbiosi” con l’impresa da infondere addirittura la propria cultura e il proprio stile di vita all’organizzazione aziendale. Ciò spesso costituisce il rischio principale per quelle PMI che, identificandosi fortemente con la figura dell’imprenditore, concludono il proprio ciclo di vita in corrispondenza della cessazione dell’impegno professionale di quest’ultimo, non riuscendo a sopravvivere al passaggio generazionale.

1.2.2. L’importanza delle PMI nella realtà italiana.

Come si è già precedentemente osservato, il panorama economico nazionale è caratterizzato in gran parte da micro, piccole e medie imprese che rappresentano il 99,9% delle unità produttive, danno lavoro al 79,8% degli occupati nazionali, oltre a fornire il 72,5% del valore aggiunto16. Inoltre offrono un contributo rilevante per la bilancia commerciale, come dimostra la forte apertura alle esportazioni delle PMI delle regioni centro-nordorientali del nostro paese. Un’analisi più approfondita ci rivela che la struttura dimensionale delle imprese si presenta molto differenziata al proprio interno.

Infatti notiamo che:

• Il 94,8% è rappresentato da micro-imprese (0-9 addetti), con il 46% di occupati;

• Il 4,6% da imprese di piccole dimensioni (10-49 addetti), con il 21,2% di occupati;

• Lo 0,5% da imprese di medie dimensioni (50-249 addetti), con il 12,6% di occupati.

L’Italia occupa una posizione di primato nel contributo delle PMI al valore aggiunto e all’occupazione: a confronto con l’area OCSE, guardando al solo valore aggiunto manifatturiero, le imprese con meno di 250 addetti

16 ISTAT, Rapporto Annuale 2014.

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contribuiscono con percentuali che vanno da un minimo del 29% in Germania ad un massimo del 57% in Italia.

Il sistema produttivo italiano è ancora caratterizzato da una grande frammentazione, con circa 4,4 milioni di imprese attive nel 2012 che impiegavano circa 16,7 milioni di addetti. In ambito europeo il tessuto produttivo del nostro paese continua a segnalarsi anche per un alto livello di imprenditorialità, con quasi 64 imprese ogni mille abitanti (dato 2011), un valore tra i più elevati d’Europa (sono 38,8 in Francia, 27 nel Regno Unito, 26,4 in Germania). A livello dimensionale vi è la presenza preponderante di micro e piccole imprese (con meno di 50 addetti, tabella 2): le unità produttive relative a queste categorie rappresentano il 99,4 per cento del totale, coinvolgono oltre i due terzi dell’occupazione complessiva e producono il 51,9 per cento del valore aggiunto totale.

Ulteriori elementi emblematici del nostro sistema produttivo sono il peso occupazionale delle microimprese (meno di 10 addetti) e la relativa scarsità di grandi imprese (250 e più addetti)17. Le microimprese assorbono in Italia il 46 per cento dell’occupazione, dato notevolmente più alto rispetto alle altri grandi economie europee. D’altro canto le imprese di grandi dimensioni sono circa tremila (in Germania sono oltre 9 mila, nel Regno Unito quasi 6 mila e in Francia oltre 4 mila), ed impiegano il solo 20,2 per cento delle unità lavorative (circa il 37 per cento in Germania e Francia e il 27,7 per cento in Spagna).

Tale peculiarità è messa in evidenza anche guardando alla sola industria manifatturiera, infatti l’incidenza delle grandi imprese italiane in termini di valore aggiunto sul totale della manifattura nazionale è pari al 34,8 per cento, rispetto ad un dato del 55 per cento rappresentante la media dell’ Unione Europea (65,4 per cento in Germania). Secondo una studio Istat in Italia sono presenti 199 distretti nei quali sono occupati circa un terzo degli addetti delle

17 ONIDA F., Se il piccolo non cresce, Il Mulino, Bologna 2004.

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piccole e medie imprese italiane. E’ interessante notare come tali distretti siano localizzati in prevalenza nel nord-est (125); altri 59 si trovano nel nord- ovest e solamente 15 nel Mezzogiorno. Nelle aree distrettuali emerge un differenziale positivo di crescita rispetto alle altre aree del paese, principalmente riguardo al segmento delle microimprese con 1-2 addetti, che aumentano l’occupazione del 15,8% nelle aree distrettuali e dell’8,5% nelle altre aree e con riferimento alla classe di imprese di dimensioni immediatamente superiore18.

Tabella 1.2. Imprese e addetti per classe di addetti nei principali paesi Ue Imprese

N° addetti

Micro 0-9

Piccole 10-49

Medie 50-249

Grandi

>250

Totale

Paesi Imprese Attive

Germania 81,8 15,2 2,5 0,5 100,0

Francia 94,2 4,8 0,8 0,2 100,0

Italia 94,8 4,6 0,5 0,1 100,0

Spagna 94,1 5,1 0,7 0,1 100,0

Regno Unito 89,5 8,7 1,5 0,3 100,0

Paesi Addetti

Germania 19,2 23,3 20,5 37,0 100,0

Francia 29,7 18,7 15,0 36,6 100,0

Italia 46,0 21,2 12,6 20,2 100,0

Spagna 38,5 19,9 13,9 27,7 100,0

Regno Unito 18,0 19,4 16,2 46,4 100,0

Fonte: Elaborazione dati Eurostat, 2011 (anno 2011, valori percentuali)

18 Centro Studi Confindustria-Doxa, Indagine sulle piccole e medie imprese italiane, disponibile sul sito http://www.confindustria.it.

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1.3. Impresa familiare: definizione e caratteristiche

Il Family Business Group, organo costituito dalla Commissione Europea per trattare i principali problemi riguardanti le aziende familiari europee e per migliorare l’efficacia della sua azione di governo economico, ha proposto nel 2009 una definizione di azienda familiare. In sintesi, tale organo identifica la presenza di un family business qualora:

 la maggioranza dei poteri di voto è nel possesso della persona fisica che ha creato l’azienda o delle persone fisiche che hanno acquisito le quote di capitale dell’azienda (coniugi, figli o nipoti) ;

 la maggioranza dei poteri di voto può essere detenuta sia in maniera diretta che in maniera indiretta;

 almeno un rappresentante della famiglia è coinvolto nella gestione dell’azienda;

nelle aziende quotate, se la persona che ha fondato l’azienda o le persone che hanno acquisito il capitale (coniugi, figli o nipoti) possiedono almeno il 25% della quota di capitale.

Questa definizione, tuttavia, presenta dei limiti in quanto considera familiari, ad esempio, le imprese dove il fondatore controlla il 100 per cento del capitale ed è l’unico familiare che vi è impegnato oppure i casi di aziende dove siano impegnati due o più soci senza legami di parentela e affinità. Tale definizione è quindi condivisibile a patto che si faccia una precisazione: la

“natura familiare” si acquisisce solo quando il fondatore o i fondatori (in numero compreso tra le 4-5 unità) coinvolgono nei loro processi decisionali la famiglia di appartenenza19. In realtà, data la varietà che caratterizza le aziende familiari, si può affermare che non esiste ancora oggi una definizione unitaria ed univocamente riconosciuta dagli studiosi delle imprese a gestione familiare.

Alcuni vedono la modalità di distribuzione del capitale come l’elemento

19 CORBETTA G., Le aziende familiari. Strategie per il lungo periodo. Egea, Milano 2010.

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qualificante il family business, altri l’esercizio del controllo o ancora la prospettiva di continuità nelle componenti di proprietà e forma di governo.

Una parte di letteratura ritiene che vi sia un’impresa familiare qualora un nucleo familiare o due o più nuclei legati da stretti legami di parentela o affinità, investono nell’impresa capitali finanziari “a pieno rischio” o “a rischio limitato”, garanzie personali o reali e abilità manageriali20.

Si configura quindi in questo caso una interdipendenza se non una completa coincidenza tra la dimensione familiare e quella imprenditoriale, che evidenzia come la caratteristica peculiare di tale categoria di aziende sia il legame, quasi simbiotico, tra famiglia ed impresa. Considerando tale legame è possibile effettuare una prima classificazione dell’impresa familiare, distinguendo tra:

1. Imprese familiari in senso stretto 2. Imprese familiari allargate

Le variabili considerate per la definizione delle due categorie sono la concentrazione della proprietà da un lato e la concentrazione del controllo dall’altro (figura 3). Riguardo la prima variabile, essa può essere:

• alta, quando un ristretto numero di soggetti legati da rapporti molto stretti, possiede l’intero capitale di rischio dell’impresa;

• bassa, quando il numero dei conferenti il capitale aumenta ed i rapporti di parentela sono meno forti.

Passando ad esaminare la variabile “controllo”, si possono distinguere situazioni nelle quali le funzioni direzionali ed imprenditoriali sono svolte dalla famiglia proprietaria da altre dove alcuni incarichi sono delegati a soggetti esterni, fino al caso in cui riguardando la delega la totalità delle funzioni, si passa ad un’impresa di tipo manageriale.

20 CORBETTA G., DEMATTE’ C., I processi di transizione nelle imprese familiari, Mediocredito Lombardo (studi e ricerche), 1993.

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Figura 1.3. Imprese familiari in senso stretto e allargato

Concentrazione proprietaria ALTO MEDIO BASSO ALTO

Controllo MEDIO BASSO

Fonte: Corbetta, Demattè, 1993.

Le imprese familiari in senso stretto si collocano nei quadranti della matrice in alto a sinistra, in cui la proprietà è in mano a pochi soggetti con ruoli d’indirizzo strategico. Tali aziende, in genere di prima o seconda generazione, sono solitamente gestite con metodi e procedure informali, tipiche del “padre di famiglia”.Le imprese allargate, al contrario, sono quelle, successive alla seconda generazione, in cui le quote dell’impresa sono più disperse tra un maggior numero di soggetti, in cui i vincoli di parentela sono meno forti. Le funzioni direzionali sono affidate solo a taluni familiari mentre altri sono solamente azionisti o dipendenti e molto frequentemente all’interno dell’azienda sono presenti manager “esterni”. Corbetta propone una classificazione a partire da tre variabili (figura 1.4):

1. il modello di proprietà del capitale dell’impresa;

2. la presenza di familiari nel Consiglio di Amministrazione e negli organi di direzione;

3. la dimensione dell’organismo personale21.

21 CORBETTA G., Le imprese familiari. Caratteri originali, varietà e condizioni di sviluppo, Egea, Milano 1995, op.cit., p.82.

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