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1) Terapia elettroconvulsivante INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

1) Terapia elettroconvulsivante

La terapia elettroconvulsivante (TEC), consiste nell’induzione di una crisi convulsiva mediante l’impiego di uno stimolo elettrico sul cervello, mentre il paziente è in anestesia generale e in condizioni di rilassamento muscolare (Conti L. e coll., 1999).

Questa tecnica pur essendo attualmente accettata dalla comunità scientifica come presidio terapeutico efficace e sicuro per il trattamento di molti disturbi mentali nella comune pratica clinica, continua a suscitare opinioni controverse e ad essere spesso oggetto di polemiche. La fama negativa che ha investito questo tipo di terapia è dovuta all'uso eccessivo che se ne è fatto al momento della sua introduzione, ma anche alla rappresentazione non sempre veritiera che ne è stata data in letteratura e in cinematografia.

1.1.) Cenni storici

Scoperto in Italia nel 1938, l'elettroshock (TEC, terapia elettroconvulsivante) costituisce, nella storia della terapia dei disturbi psichiatrici, uno dei primi trattamenti di natura medica. I farmaci

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psicotropi, infatti, sono stati introdotti solamente alla fine degli anni cinquanta.

Dobbiamo a J. Von Wagner-Jauregg (1857-1940), psichiatra austriaco, l'introduzione in psichiatria delle terapie da shock con la piretoterapia (trattamento terapeutico che consiste nel provocare, con mezzi di diversa natura, un'elevazione transitoria e ripetuta della temperatura corporea) e con la malarioterapia (piretoterapia ottenuta inducendo nel paziente dagli 8 ai 12 accessi febbrili, previa inoculazione di un ceppo malarico). Nel 1927, allo studioso, fu attribuito il premio Nobel per la medicina e la fisiologia, come riconoscimento per la scoperta della possibilità di curare una malattia, inducendone un’altra. Nel 1933, lo psichiatra tedesco M. Sakel con l'insulinoterapia valorizzò le proprietà convulsivanti del coma ipoglicemico, osservando che il trattamento ripetuto con lo shock insulinico induceva un miglioramento stabile nei pazienti schizofrenici. L.M. Von Meduna, sempre negli anni trenta, osservò nei preparati istologici del cervello di soggetti epilettici un’iperplasia gliale non riscontrabile in quelli degli schizofrenici. Da questo, dedusse un antagonismo biologico tra le due condizioni patologiche. Tentò di trattare pazienti epilettici con trasfusioni di sangue prelevato da pazienti schizofrenici, ma non ottenne alcun risultato. Intraprese quindi la strada opposta e usò come sostanze adatte a indurre le convulsioni prima l'olio

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di canfora (1934) e, in seguito, il cardiazol (1936), ottenendo buoni risultati nella cura dei pazienti schizofrenici. Durante quegli anni, furono utilizzate molte altre sostanze capaci di indurre le convulsioni, fra cui il bromuro di acetilcolina, proposto nel 1937 dall'italiano A.M. Fiamberti. Animato da queste suggestioni teoriche, U. Cerletti, affiancato da L. Bini, sperimentò la corrente elettrica per indurre convulsioni, impiegandola per la prima volta nel cane. Dal confronto degli effetti legati all'uso dell'insulina, del cardiazol e della corrente, quest'ultima risultò il veicolo più inerte perché non presentava i rischi del coma insulinico, né le esperienze angosciose e dolorose del cardiazol, che per questo motivo fu pressoché abbandonato come tutti gli altri mediatori fino ad allora adoperati. Il nuovo metodo rappresentò un'innovazione significativa nell'ambito delle terapie convulsivanti, in particolare per la sua flessibilità che ha consentito, nel tempo, progressivi affinamenti della tecnica.

Nel 1937, al 1° Congresso di psichiatria, a Muensingen, in Svizzer a, Bini presentò i primi risultati e introdusse il termine elettroshock-terapia. Verificata l'affidabilità della tecnica, la terapia elettroconvulsivante fu rapidamente accolta dai clinici con grande entusiasmo ed ebbe una diffusione mondiale: un anno dopo la presentazione dei risultati presso

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l'Accademia Medica di Roma, nel 1938, varcò i confini dell'Europa e fu ammessa ufficialmente negli Stati Uniti.

La TEC fu la prima terapia capace di modificare concretamente il decorso di molteplici condizioni psicopatologiche e venne utilizzata in quasi tutti i disturbi psichiatrici. Da un lato, un'ampia letteratura contemporanea (pari a quella attuale sulla farmacoterapia) che documentava la sua efficacia nelle situazioni psicopatologiche più diverse e, dall'altro, la mancanza di presidi terapeutici altrettanto efficaci, autorizzavano i clinici ad applicare la TEC anche quando l'indicazione non fosse stata rigorosamente comprovata. Solo in seguito all'introduzione dei farmaci psicotropi nel trattamento delle malattie psichiatriche, alla fine degli anni cinquanta l'utilizzazione della terapia elettroconvulsivante conobbe il suo primo declino.

D'altra parte fin dalla sua scoperta la TEC, accanto all'interesse e all'entusiasmo generati dai successi terapeutici, ha evocato nel pubblico e anche nel mondo accademico sentimenti fortemente negativi, rinforzati da impropri impieghi della corrente o da rappresentazioni prive di rispondenza scientifica. I pregiudizi radicati e l'assunzione di posizioni ideologiche intransigenti hanno esercitato un condizionamento sia sull'utilizzazione del metodo, sia sulla ricerca ad esso collegata. L'impiego forse eccessivo della terapia elettroconvulsivante nei primi

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anni della sua introduzione ha contribuito alla sua successiva limitazione. Per questi motivi nel 1975 lo Stato della California e, nel 1977, altri sette Stati americani hanno sancito rigidamente le indicazioni per la TEC. I dati del National Institute For Mental Health (NIMH) hanno evidenziato, per il periodo dal 1975 al 1978, un calo dell'utilizzazione di tale terapia di circa il 43%. In Italia il ricorso alla TEC è relativamente poco frequente e circoscritto ad alcuni centri specializzati nelle strutture pubbliche, mentre è più diffuso nelle strutture private.

Nel 1990 un gruppo di specialisti dell’American Psychiatric Association (APA) concluse una sperimentazione clinica durata 3 anni affermando che : “[…] a mezzo secolo dalla sua introduzione, la TEC è ancora un trattamento importante […]”.

Nel 1993 The New England Journal of Medicine pubblicò un articolo intitolato “Terapia elettroconvulsivante: una moderna procedura medica” in cui si dichiarava: “[…] la TEC si è ormai affermata come un importante metodo per il trattamento di alcune forme di depressione […]. Nei pazienti depressi i più forti indicatori di risposta alla TEC sono i deliri ed il rallentamento psicomotorio: circa il 90% dei pazienti con depressione psicotica rispondono a questo trattamento […]”

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Nel 1996 il Comitato Nazionale di Bioetica, dopo un’attenta analisi delle tesi favorevoli e contrarie alla TEC, dichiarò che: “ […] la TEC è efficace in diverse forme di depressione, soprattutto in quelle con sintomi deliranti e/o rallentamento motorio, nella depressione resistente agli antidepressivi triciclici […]”.

Il Ministero della Sanità nel 1998 ne ha riconosciuto l'efficacia stabilendo alcune norme operative relative alle indicazioni, alla modalità di esecuzione e alla minimizzazione dei rischi. Nei paesi dell'America Settentrionale ed in alcune aree europee l'interesse per la TEC si è riacceso negli anni Ottanta, come è dimostrato dall' istituzione di gruppi di ricerca e di commissioni di indagine. L' APA, negli Stati Uniti e il Royal College of Psychiatrists in Gran Bretagna hanno reso noti numerosi risultati sull'efficacia e la sicurezza della terapia elettroconvulsivante. La sicurezza del trattamento è stata ripetutamente affermata in numerose recenti pubblicazioni e sono disponibili molti studi sul meccanismo di azione della TEC. Al momento la TEC risulta essere il trattamento antidepressivo con i più alti tassi di risposta; questa infatti è efficace nell’85-90% dei casi di depressione maggiore, mentre i farmaci antidepressivi lo sono nel 60-65% dei casi (Nobler & Sackheim, 2001; Shergill & Katona, 2001).

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1.2.) Indicazioni

La principale indicazione al trattamento della TEC è senza dubbio rappresentata dalla depressione maggiore, sia nelle forme bipolari che in quelle unipolari. In particolare è impiegata nei casi di depressione resistente, cioè quelli che non hanno risposto a due o più trattamenti antidepressivi appartenenti a classi diverse assunti per dosaggi e tempi adeguati. I pazienti con grave depressione ad insorgenza acuta, con anedonia, sentimenti di abbandono, rallentamento o agitazione psicomotoria, con perdita di appetito e di peso, riduzione della libido e idee di suicidio, hanno maggiori probabilità di rispondere alla TEC. La TEC viene impiegata anche nel trattamento della mania, come trattamento di seconda scelta, quando non si è ottenuta risposta appropriata ai sali di litio, ai neurolettici o agli anticonvulsivanti. Nella mania confusa e nei pazienti bipolari con decorso a rapida ciclicità, che mostrano scarsa risposta ai trattamenti farmacologici, rappresenta invece il trattamento di prima scelta. Così come per la depressione, anche per la mania, la mancata risposta alle terapie psicofarmacologiche è predittiva di minor risposta alla TEC.

Altre indicazioni sono rappresentate dalla catatonia, condizione psicomotoria caratterizzata da inerzia e perdita dell’attività motoria, e

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dalla sindrome maligna da neurolettici, una sindrome caratterizzata da rigidità muscolare ed ipertermia associati ad alterazioni dello stato di coscienza, leucocitosi ed aumento delle CPK che si sviluppano in associazione con l’uso di un farmaco neurolettico. In questi disturbi l’efficacia è stata ampiamente dimostrata da diversi studi. La TEC può essere indicata anche nelle depressioni gravi dell'anziano, soprattutto nelle forme pseudo- demenziali ed in tutte quelle situazioni cliniche in cui, per intolleranza soggettiva o per la presenza anche di patologie organiche, la terapia farmacologica è controindicata. Nella gravidanza la TEC deve essere preferita ai farmaci, soprattutto nei primi tre mesi. Altra condizione psicopatologica elettiva è la psicosi puerperale per i suoi aspetti mutevoli ed estremamente rischiosi, per la necessità di una rapida risoluzione e per la controindicazione dei farmaci.

1.3.) Controindicazioni

Le patologie dell’ apparato cardiovascolare, respiratorio e del SNC, rappresentano la condizione di maggior rischio per questa terapia. In particolare, per l'apparato cardiocircolatorio, costituiscono una controindicazione le lesioni miocardiche significative recenti, i gravi disturbi del ritmo, la presenza di lesioni valvolari, i gravi stati ipertensivi, una grave insufficienza coronarica e la presenza di un

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aneurisma aortico. Il pacemaker non rappresenta una controindicazione alla TEC.

Le malattie emboligene in evoluzione, come le flebiti, rappresentano una controindicazione alla TEC sia per la possibilità che le contrazioni muscolari nel corso della convulsione provochino il distacco di trombi, sia perché gli anticoagulanti, che comunemente assumono questi pazienti, possono favorire il prodursi di emorragia cerebrale.

Rappresentano egualmente una controindicazione assoluta tutte le sindromi febbrili o infiammatorie acute, la miastenia gravis, il distacco di retina e le gravi endocrinopatie, fra le quali in particolare il feocromocitoma. Tra le patologie del SNC i tumori cerebrali o le lesioni occupanti spazio aumentano il rischio perché determinano un aumento della pressione endocranica; in queste condizioni potrebbero presentarsi erniazioni di parti dell’encefalo per l’ulteriore incremento di pressione endocranica indotto dalla TEC.

Le malattie dell’apparato respiratorio (bronco-pneumopatie croniche ostruttive, asma, polmoniti) devono essere valutate dal punto di vista anestesiologico affinché non si presentino complicanze al momento della ventilazione durante e dopo la TEC.

Nelle situazioni in cui la TEC sia l’unica terapia possibile, anche se in presenza di condizioni ad altro rischio, è necessario porre maggior

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attenzione nella preparazione del paziente, nell’esecuzione delle applicazioni e predisporre presidi farmacologici e strumentali specifici per eventuali emergenze.

1.4.) La tecnica

La terapia elettroconvulsivante consiste nell'induzione di una convulsione simil-epilettica generalizzata mediante il passaggio di corrente elettrica. La terapia viene eseguita da uno staff di medici specializzati che comprende uno psichiatra e un anestesista e si svolge secondo un protocollo rigoroso e ben consolidato articolato in fasi successive. È opportuno che la terapia venga praticata in un ambiente idoneo e dotato dei presidi necessari per fronteggiare le possibili complicazioni, in regime di ricovero o di day-hospital. La valutazione che precede il trattamento dovrebbe comprendere la raccolta di un’anamnesi generale con esame obiettivo, esami ematochimici, elettrocardiogramma con visita cardiologica, TC e RM dell’encefalo per escludere patologie cerebrali occupanti spazio ed eventualmente una radiografia del torace per i pazienti che fumano più di venti sigarette al giorno. Deve essere effettuata una valutazione anestesiologica, per indagare eventuali allergie a farmaci anestetici. E’ necessario inoltre indagare sui farmaci assunti dal paziente per sospendere eventualmente il

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litio durante tutta la durata del ciclo (l’associazione litio/TEC incrementa gli effetti collaterali cognitivi) e ridurre le dosi degli antidepressivi triciclici e serotoninergici. Devono essere invece assunti tutti quei farmaci che compensano le patologie internistiche concomitanti: antianginosi, antiaritmici, broncodilatatori, corticosteroidi e farmaci per il glaucoma.

La tecnica si articola in tre fasi: I) Narcosi

L'introduzione, nel 1963, dell'anestesia generale nella terapia elettroconvulsivante ha rappresentato la prima innovazione significativa nel trattamento. Circa 30 minuti prima viene eseguita una preanestesia con un farmaco anticolinergico (atropina solfato) alla dose di 0.02 mg/kg per via intramuscolare, con lo scopo di ridurre le reazioni neurovegetative derivanti dalla terapia, la bradicardia postictale e l'ipersecrezione nel tratto respiratorio. Viene poi praticata l'anestesia generale con l'iniezione per via endovenosa di un anestetico a breve durata d’azione, il Tiopentale sodico, alla dose di 3-4 mg/kg. Indotta la narcosi, si procede alla curarizzazione con la somministrazione, sempre per via endovenosa, di una dose di cloruro di succinilcolina (0.5-1mg/kg), al fine di ottenere una paralisi, completa o parziale, della muscolatura striata, compresi i muscoli respiratori. L'induzione del

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rilassamento muscolare impedisce le conseguenze delle brusche contratture (per esempio lussazioni e fratture) che si verificano durante la terapia, molto frequenti in passato.

II) Induzione della convulsione

La corrente è somministrata attraverso due elettrodi, sulla cui superficie viene applicato un sottile strato di una sostanza conduttrice che, riducendo l'impedenza del tessuto epidermico, aumenta la conduttività. Gli elettrodi vengono applicati alle tempie: da entrambe le parti nella regione fronto-temporale, nella TEC bilaterale, oppure nella regione temporo-parietale destra e al vertice, nella TEC unilaterale. La durata della convulsione, normalmente di circa 25 secondi, viene registrata nella modificazione del tracciato elettroencefalografico con la comparsa delle polipunte, onde a basso voltaggio corrispondenti alla fase tonica e a quella clonica della crisi epilettica generalizzata, che si dissolvono al termine della convulsione. La quantità di energia necessaria ad indurre la convulsione viene calcolata con il metodo dell’età (Petriedes & Fink, 1996), secondo la formula: Joule= ½ dell’età.

III) Rianimazione

Dopo la fase convulsiva si procede alla respirazione artificiale. La paralisi dei muscoli respiratori che si protrae per alcuni minuti (fino alla totale eliminazione per via renale della succinilcolina iniettata) rende

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infatti necessaria la respirazione assistita fino alla ripresa di quella spontanea, prima addominale e poi toracica. Dopo circa 5 minuti, il paziente si risveglia in un leggero stato confusionale che regredisce rapidamente.

Il numero totale delle applicazioni somministrate nel singolo ciclo varia in funzione della diagnosi, della gravità della malattia, della rapidità della risposta e del tipo di risultato a un eventuale precedente trattamento con la TEC. Per la depressione sono necessarie 6 o 8 applicazioni, anche se in alcuni casi ne servono 10 o 12, mentre in altri sono sufficienti 3 o 4. Il miglioramento clinico si verifica dopo 3 o 4 sedute, ma a volte anche dopo la prima il paziente presenta un evidente miglioramento. Nel trattamento della mania, invece, sono richieste da 8 a 12 applicazioni. Per la schizofrenia è necessario sottoporre il paziente a 15 o più applicazioni (fino a 20 secondo alcuni autori) prima di considerare la TEC inefficace.

I pazienti catatonici presentano un miglioramento già dalla prima applicazione, ma il ciclo deve essere completato fino a 6 o 8 sedute, per evitare la ricaduta.

I pazienti effettuano sedute di TEC con cadenza bisettimanale. Il numero delle sedute è stabilito dal medico specialista curante in base alle condizioni cliniche del paziente.

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1.5.) Effetti collaterali

La TEC è generalmente un trattamento molto sicuro e i rischi di morbilità e mortalità non superano di solito quelli associati alla sola anestesia (il tasso di mortalità è stimato a 1 ogni 10.000 pazienti). I principali effetti collaterali sono cognitivi (Antunes e coll., 2009).

Nella maggior parte dei pazienti stato confusionale e disorientamento si manifestano nelle due ore successive all’ applicazione e sono spesso accompagnate da nausea e cefalea che hanno breve durata. Raramente si presenta lo stato confusionale post-ictale che non regredisce del tutto e può evolvere verso il delirium. I disturbi della memoria si presentano come amnesia anterograda e retrograda, sono presenti nel 75% dei casi e sono reversibili. Nel primo caso, il paziente ha difficoltà a ricordare gli eventi avvenuti durante la TEC; nel secondo caso, il paziente non ricorda gli avvenimenti accaduti immediatamente dopo la TEC. L’amnesia anterograda ha breve durata, mentre il recupero dell’amnesia retrograda è generalmente più lento (6-8 settimane). La TEC può causare un aumento transitorio della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e del carico di lavoro cardiaco, condizioni che possono ess ere molto dannose per pazienti con patologie cardiovascolari. Altri effetti collaterali molto frequenti sono il mal di testa post-ictale e il dolore

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muscolare. Il mal di testa ha tipicamente un carattere pulsante a localizzazione frontale, è di solito lieve e si verifica più frequentemente nei pazienti giovani. Anche se la sua eziologia non è nota, sembra avere una componente vascolare marcata e può essere associato ad aspetti tecnici del trattamento. Di solito risponde agli analgesici comuni, ma alcuni pazienti hanno mal di testa più grave e necessitano di un trattamento profilattico con un farmaco antinfiammatorio non steroideo (FANS) o di un trattamento con farmaci specifici anti-emicrania. Dolori muscolari possono seguire alla TEC, più spesso dopo il trattamento iniziale. Questo dolore è molto probabilmente dovuto ad intense contrazioni muscolari associate alla somministrazione di miorilassanti depolarizzanti come la succinilcolina. I pazienti possono anche provare dolore della mascella, a causa di una stimolazione diretta dei muscoli massetere e temporale. I pazienti possono avvertire nausea che può essere associata a mal di testa o può essere un effetto collaterale dell'anestesia. In questo caso può essere utile il trattamento profilattico con farmaci antiemetici.

Tuttavia, non vi è alcun modo per i pazienti di conoscere quali effetti collaterali si manifesteranno fino a quando non hanno iniziato il trattamento. E' quindi importante informare i pazienti dei possibili effetti collaterali e trattare i sintomi specifici che si presentano.

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1.6.) TEC e disturbo bipolare.

L’efficacia della TEC nel trattamento dei disturbi bipolari è stata ampiamente dimostrata. Secondo uno studio effettuato da Mukherjee e dai suoi collaboratori nel 1994, l’80% dei pazienti mostra notevole miglioramento nel trattamento della mania (Mukherjee e coll., 1994). Più recentemente, nel 2000, Daly e i suoi collaboratori hanno dimostrato l’efficacia della TEC anche nella depressione Bipolare.

Ci sono poche prove per le differenze di remissione e velocità di risposta alla terapia elettroconvulsiva tra i pazienti con disturbo bipolare e quelli con disturbo unipolare. Nello studio effettuato da Daly e dai suoi collaboratori, nel 2001, è stato dimostrato che i pazienti con depressione bipolare presentano un miglioramento clinico più rapido e richiedono meno cure rispetto ai pazienti con disturbo unipolare. Nello stesso studio Daly confrontò la remissione e la velocità di risposta dei pazienti con disturbo unipolare e bipolare trattati con la TEC. Ne risultò che i pazienti con depressione unipolare e bipolare non differivano in tassi di risposta o remissione, ma i pazienti con depressione bipolare avevano mostrato una risposta più rapida rispetto ai pazienti con depressione unipolare. Nel 2004 Prudic ha confermato che non ci sono differenze nelle percentuali di risposta/remissione in pazienti unipolari e bipolari, ma i pazienti

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unipolari resistenti ai trattamenti farmacologici con episodi di più lunga durata necessitano di un numero maggiore di trattamenti (Prudic e coll., 2004).

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2) I Disturbi dell’umore.

2.1.) Epidemiologia ed eziopatogenesi

I disturbi dell’umore sono una patologia molto diffusa nella popolazione generale: circa il 20% nell’arco della vita va incontro ad episodi depressivi o maniacali con un rapporto di 3:1 tra forme unipolari e bipolari.

La depressione maggiore nel corso della vita ha una prevalenza del 21.3% nelle donne e del 12.7% negli uomini (Kessler, 2003) con una frequenza doppia nelle donne documentata in diversi paesi ed in diversi gruppi etnici (Weissman & Kleraìman, 1997; Weissman e coll., 1996; Lutch & Kasper, 1999).

Il disturbo bipolare ha una prevalenza che varia tra l’1% e il 5% nella popolazione generale (Jonas e coll., 2003). La prevalenza lifetime del disturbo bipolare I è dello 0.4% (Kessler e coll., 1994) e per il disturbo bipolare II varia dallo 0.5 al 3% (Bauer & Pfenning, 2005).

Diversi sono i fattori di rischio:

Predisposizione genetica: la percentuale dei casi con una componente ereditaria è stata calcolata tra il 50% e l’ 80% (Merikangas & Kupfer, 1995).

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Età: i disturbi dell’umore possono manifestarsi a qualsiasi età, ma più frequentemente nella fascia di età tra 18 e 44 anni (in media 30 anni). E’ stata osservata una correlazione inversa tra trasmissione genetica e età di insorgenza.

Sesso: Il disturbo depressivo maggiore ha frequenza doppia nelle donne rispetto agli uomini, il disturbo bipolare I ha pari distribuzione tra i due sessi (Bauer & Pfenning, 2005), il disturbo bipolare II viene descritto con una frequenza doppia nelle donne (American Psychiatric Association, 2000).

Stato civile: I pazienti bipolari sono più frequentemente celibi, nubili e separati. Tale evenienza può essere spiegata con l’insorgenza della patologia in età precoce e pertanto con l’influenza negativa della malattia sui rapporti affettivi, oppure con la possibilità che lo stress legato alla separazione costituisca una causa scatenante (Andrade e coll., 2003).

Classe sociale: I pazienti bipolari appartengono spesso a ceti sociali elevati, forse perché le caratteristiche temperamentali di tipo ipertimico favoriscono l’affermazione sociale ed economica (Weissman e coll., 1996).

L’eziopatogenesi dei disturbi dell’umore è di tipo multifattoriale. I fattori che interagendo tra di loro contribuiscono alla comparsa di un disturbo

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dell’umore sono: la predisposizione genetica, gli eventi che avvengono precocemente nella vita, gli stress fisici o psicosociali recenti o in corso. L’ipotesi eziopatogenetica della patologia depressiva più accreditata è stata per molto tempo quella monoaminergica secondo cui la riduzione dei fisiologici livelli dei neurotrasmettitori serotonina e noradrenalina sarebbe alla base della sintomatologia depressiva (Bunney e coll., 1965; Wong e coll., 2004). La deplezione monoaminergica potrebbe essere causata da un processo patologico sconosciuto, dallo stress, o da alcune classi di farmaci. I farmaci antidepressivi sarebbero efficaci sui sintomi poiché in grado di ripristinare la trasmissione monoaminergica. Tale ipotesi presenta però alcuni aspetti contradditori: alcuni farmaci antidepressivi efficaci non determinano aumento della trasmissione monoaminergica; di contro anfetamine e cocaina, che non hanno azione antidepressiva, determinano un aumento della trasmissione monoaminergica. Inoltre gli antidepressivi incrementano rapidamente i livelli delle monoamine, ma l’effetto terapeutico si sviluppa dopo 2-3 settimane dall’assunzione (Nestler, 1998) e alcuni pazienti non rispondono al trattamento. Queste osservazioni quindi suggeriscono che altri fattori sono sicuramente coinvolti nella biologia della depressione e che l’effetto antidepressivo è il risultato di una serie più complessa di

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eventi cellulari tra i quali l’aumento della quantità di neurotrasmettitori può essere solo una tappa iniziale.

La scoperta che il trattamento a lungo termine con farmaci antidepressivi produce cambiamenti adattativi nei recettori delle monoamine e nei meccanismi di trasduzione del segnale a valle (Sulser e coll., 1978), ha spostato il focus della ricerca sugli effetti cronici che gli antidepressivi esercitano sulla concentrazione di neuro- peptidi, di fattori di crescita e rispettivi recettori e di molecole coinvolte nei processi di trasduzione del segnale (Duman e coll., 1997; Manji e coll., 2001; Coyle e coll., 2003). L’ipotesi monoaminergica è evoluta in quella che oggi è nota come ipotesi molecolare della depressione.

Recentemente è stata descritta un’ associazione tra i disturbi dell’umore e i fenomeni di plasticità neuronale che coinvolgono l’azione dei fattori neurotrofici, come il brain-derived neurotrophic factor (BDNF), la cui espressione è regolata dall’attività neuronale.

Il BDNF è infatti implicato nei meccanismi che regolano la neurogenesi, la sopravvivenza cellulare e la plasticità sinaptica. Ricerche effettuate negli ultimi anni dimostrano che tale fattore potrebbe essere implicato anche nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore. Studi clinici e preclinici hanno dimostrato una riduzione del volume neuronale dell’ippocampo adulto in corso di stress o depressione (Warner-Schimdt

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& Duman, 2006). Tali riscontri atrofici, più tipici di una patologia neurodegenerativa, hanno suggerito l’ipotetico coinvolgimento delle neurotrofine e soprattutto del BDNF anche nei disturbi dell’umore e sono alla base della più recente ipotesi neurotrofica secondo cui la depressione è associata a ridotti livelli di BDNF e i trattamenti antidepressivi agiscono attraverso complessi meccanismi molecolari che hanno come tappa finale l’aumento dell’espressione del BDNF (Duman, 2002).

Studi preclinici hanno confermato che la maggiorparte dei farmaci antidepressivi in uso sono in grado di incrementare l’espressione genica del BDNF nella corteccia di modelli murini (Tardito e coll., 2006; Mannari e coll., 2010).

Un recente studio di meta-analisi ha confermato che i livelli di BDNF nel siero di pazienti depressi sono inferiori rispetto a quelli di controlli sani e aumentano a seguito di un trattamento antidepressivo (Sen e coll., 2008).

Inoltre i livelli periferici di BDNF appaiono inversamente correlati con la gravità della sintomatologia depressiva (Karege e coll., 2002, 2005; Piccinni e coll., 2008), con il numero degli episodi nonché con i sintomi depressivi più rappresentativi della disfunzione a carico dell’asse HPA

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(Hypotalamus-Pituitary-Adrenal) come le alterazioni del pattern ipnico ed il rallentamento psicomotorio (Dell’Osso e coll., 2010a).

Pazienti affetti da depressione bipolare presentano livelli plasmatici di BDNF inferiori rispetto a pazienti con depressione unipolare e a controlli sani (Dell’ Osso e coll., 2010b).

Una riduzione dei livelli periferici di BDNF è stata descritta anche in pazienti bipolari in fase maniacale non trattati farmacologicamente (Machado-Vieira e coll., 2007), in pazienti bipolari al primo episodio di malattia (Palomino e coll., 2006) e in pazienti con depressione geriatrica a esordio tardivo (Shy e coll., 2010).

Un aumento del BDNF sia sierico che plasmatico dopo la TEC è stato riscontrato in pazienti depressi farmaco-resistenti (Bocchio-Chiavetto e coll., 2006; Marano e coll., 2007; Okamoto e coll., 2008; Piccinni e coll., 2009; Hu e coll., 2010); in particolare, lo studio di Piccinni e coll. (2009) ha dimostrato un incremento dei livelli di BDNF solo nei pazienti che hanno risposto clinicamente alla TEC e che erano i pazienti con i livelli basali meno bassi. Questi risultati suggeriscono una possibile utilità dei livelli plasmatici di BDNF al baseline come un predittore di risposta alla TEC in pazienti depressi drug-resistant.

Una stretta correlazione è presente anche tra i disturbi dell’umore e il sistema endocrino; quadri depressivi o maniacali possono manifestarsi in

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corso di patologie endocrine (disfunzioni tiroidee, morbo di Cushing), di fisiologici cambiamenti ormonali (fase premestruale, postpartum) o in seguito alla somministrazione di ormoni (corticosteroidi, anticoncezionali orali). Il sistema più studiato è l’asse HPA che risulta essere iperattivo nei disturbi dell’umore: rispetto ai soggetti sani i pazienti depressi presentano più alti livelli di cortisolo e un’alterazione delle variazioni diurne di secrezione dello stesso.

In condizioni di stress è stato descritto un aumento del rilascio di CRF (corticotropin - releasing factor) a livello ipotalamico ma anche di altre regioni cerebrali come l’amigdala, responsabile dell’aumento dei livelli di cortisolo e di noradrenalina (Wong e coll., 2000). Le anomalie funzionali a livello dell’asse HPA sembrano essere inoltre responsabili dei cambiamenti strutturali cerebrali osservati nei soggetti depressi (aan het Rot e coll., 2009). Lo stato di ipercortisolemia cronica determina una down-regolation dei recettori glucocorticoidi nell’ippocampo e una ridotta sintesi di BDNF che può contribuire all’atrofia ippocampale (Charney & Manji, 2004; Duman & Monteggia, 2006).

2.2) Quadri clinici

Il DSM IV distingue i disturbi dell’umore in due grandi categorie: i disturbi unipolari, caratterizzati da episodi a polarità esclusivamente

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depressiva e i disturbi bipolari, caratterizzati invece dall’alternarsi di episodi depressivi ed espansivi.

I disturbi bipolari si dividono a loro volta in:

 Disturbo bipolare I: si caratterizza per l’alternarsi di episodi depressivi e maniacali o misti, con o senza manifestazioni psicotiche.

 Disturbo bipolare II: comprende quelle forme caratterizzate da uno o più episodi depressivi maggiori alternati ad almeno un episodio maniacale spontaneo.

 Disturbo ciclotimico: si caratterizza per la presenza di numerosi episodi ipomaniacali e fasi depressive che non soddisfano i criteri per l’episodio depressivo maggiore per almeno due anni.

I disturbi dell’umore comprendono quindi due quadri clinici principali: la depressione e la mania. Gli stati misti rappresentano una condizione intermedia in cui sono presenti gli elementi di entrambi i quadri sindromici.

La depressione maggiore è una condizione patologica caratterizzata da

umore depresso, alterazioni cognitive, psicomotorie e neurovegetative che comporta un peggioramento della qualità della vita e un aumento della morbilità e della mortalità (Bromet e coll., 2011; Ustün e coll., 2006).

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Secondo il DSM-IV la caratteristica essenziale di un Episodio Depressivo Maggiore è un periodo di almeno due settimane durante il quale è presente umore depresso o perdita di interesse e piacere per tutte le attività. L’individuo deve anche presentare almeno altri quattro sintomi tra:

 alterazioni dell’appetito o del peso: nella maggior parte dei pazienti l’appetito è ridotto;

 alterazione del sonno: insonnia (nella maggior parte dei casi) o ipersonnia (sottoforma di prolungamento del sonno notturno o di aumento del sonno durante il giorno);

 alterazioni dell’attività psicomotoria: agitazione (incapacità di stare fermi, passeggiare avanti e indietro), oppure rallentamento (eloquio o pensiero rallentato, movimenti più lenti);

 ridotta energia quasi ogni giorno, anche in assenza di attività fisica;

 sentimenti di svalutazione e di colpa quasi ogni giorno;

 difficoltà a concentrarsi, pensare o prendere decisioni: i pazienti possono apparire facilmente distraibili o possono lamentare disturbi mnesici;

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 ricorrenti pensieri di morte o ideazione suicidaria, pianificazione o tentativi di suicidio.

I sintomi devono durare per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno per due settimane consecutive. L’esordio può essere improvviso, più frequente nelle forme bipolari, o può essere preceduto da prodromi come labilità emotiva, tensione, astenia, inappetenza, insonnia, cefalea, per alcuni giorni o settimane.

La durata dell’episodio depressivo maggiore è in media di 6-12 mesi, ma talvolta gli episodi possono essere molto più brevi o superare i 2 anni (depressione cronica, 15-20% dei casi).

La risoluzione è graduale, in giorni o settimane, nella maggior parte dei casi. Non sempre però si ha una completa risoluzione dell’episodio; nel 30-60% dei casi si instaura una sintomatologia residua con manifestazioni depressive attenuate.

Se l’episodio depressivo fa parte del disturbo bipolare, può risolversi in maniera improvvisa, nel giro di poche ore.

L’episodio maniacale è definito da un periodo durante il quale vi è un

umore anormalmente e persistentemente elevato, espanso o irritabile. Secondo i criteri del DSM IV, questo periodo deve durare almeno una settimana e deve essere accompagnato da almeno tre sintomi addizionali tra:

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 autostima ipertrofica che va dalla fiducia in se stesso priva di critica alla grandiosità marcata;

 diminuito bisogno di sonno: il soggetto si sveglia prima dell’ora abituale, sentendosi pieno di energie;

 maggior loquacità rispetto al normale o spinta continua a parlare : l’eloquio maniacale è pressante, ad alta voce, rapido e difficile da interrompere;

 distraibilità: i soggetti non sono capaci di filtrare gli stimoli esterni irrilevanti;

 aumento dell’attività finalizzata (sociale, lavorativa, scolastica o sessuale) oppure agitazione psicomotoria o irrequietezza;

 eccessivo coinvolgimento in attività ludiche che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose.

Per fare diagnosi di episodio maniacale, i sintomi devono essere tali da compromettere l’attività lavorativa o sociale o da richiedere l’ospedalizzazione, oppure devono esserci manifestazioni psicotiche. Inoltre l’episodio non deve essere causato da una droga o dall’esposizione a una tossina e non deve dipendere dagli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale (tumore cerebrale, sclerosi multipla …).

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L’esordio è più rapido di quello della depressione ed è generalmente preceduto, per 3-4 giorni, da sintomi prodromici come iperattività, espansività e loquacità aumentata, spese eccessive, maggior energia e appetito.

La durata della fase maniacale varia da pochi giorni a 4-6 mesi e la risoluzione può essere brusca oppure può richiedere diversi giorni.

In caso di recidiva, la sintomatologia tende a ripresentarsi con le stesse caratteristiche degli episodi precedenti.

L’ipomania, letteralmente “mania lieve”, si distingue dalla mania per la

sintomatologia (meno grave e intensa) e per l'impatto negativo inferiore sulla vita e sulla produttività dell'individuo.

Secondo il DSM-IV-TR per parlare di "ipomania" è necessario che i sintomi espansi si protraggano per almeno quattro giorni e non siano tali da richiedere l’ospedalizzazione.

2.3.) Depressione farmaco-resistente

Un discorso a sé richiede la depressione resistente ai trattamenti. Il concetto di depressione resistente è stato introdotto ufficialmente per la prima volta nel 1974 da Leiman ma, nonostante questo sia un argomento di grande interesse, molto studiato e con un’ampia letteratura a riguardo,

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non è stata data ancora una precisa definizione di questa problematica e non ne è stata identificata una sicura eziologia.

Circa 1/3 dei pazienti trattati per depressione maggiore non risponde in modo soddisfacente a un primo trial con antidepressivi (Thase & Rush, 1997); dati ancora più pessimistici emergono dallo studio STAR-D (Trivedi e coll., 2006) che ipotizza un 50% di non risposta a un trial con antidepressivo e meno del 30% di remissione. Osservazioni di follow-up rivelano inoltre che circa il 20% rimane sintomatico 2 anni dopo l’esordio del disturbo (Paykel, 1994) e che, anche dopo molteplici interventi terapeutici, fino al 10% dei pazienti è ancora depresso (Souery e coll., 1999). La diagnosi corretta, comprensiva della valutazione delle eventuali comorbidità mediche e psichiatriche e della tipizzazione della depressione con particolare attenzione al riconoscimento dei markers di bipolarità, rimane l’elemento essenziale per evitare la somministrazione di trattamenti inadeguati e quindi inefficaci. Per declinare i grad i di resistenza è fondamentale porre l’attenzione sull’adeguatezza del trattamento non solo per quanto concerne la scelta della molecola, ma anche dei tempi e delle dosi di assunzione dello stesso. In molti casi si assiste infatti a errori terapeutici che condizionano l’efficacia della terapia, quali per esempio la prescrizione di dosaggi inadeguati di farmaco, o i tempi delle cure insufficienti, inferiori a 4-6 settimane.

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Occorre infine menzionare l’esistenza di fattori legati al paziente come determinanti della scarsa risposta terapeutica: la bassa compliance in primis, l’eventuale presenza di comorbidità medica non nota o non dichiarata, le variazioni individuali della farmacocinetica, l’errata assunzione della terapia prescritta.

Tra i più importanti sistemi proposti per la stadiazione della depressione resistente al trattamento si fa spesso riferimento a quello proposto da Thase e Rush (1997) che individua sei diversi stadi:

 Stadio 0 (pseudoresistenza): mancata risposta a un primo trial con antidepressivo di provata efficacia inadeguato per dosi e tempi.

Stadio I: mancata risposta a un trial con antidepressivo a dosi e con modalità adeguate.

Stadio II: mancata risposta a 2 trials con antidepressivi di classi differenti.

Stadio III: mancata risposta a 2 o più trials di cui almeno 1 con triciclici.

Stadio IV: mancata risposta a 2 o più trials di cui almeno 1 con IMAO.

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Stadio V: mancata risposta a 2 o più trials di cui almeno uno associato a un ciclo di TEC bilaterale (considerata il gold standard per la depressione farmaco-resistente).

2.4.) Complicanze

I disturbi dell’umore possono condizionare pesantemente l’esistenza del paziente, deteriorandone la vita affettiva, sociale e lavorativa.

L’abuso di alcool e stupefacenti e il rischio di suicidio, stimato nelle forme bipolari, circa 30 volte superiore a quello della popolazione generale (Chen & Dilsaver, 1996), sono le complicanze più diffuse. E’ importante quindi intervenire tempestivamente per evitare l’aggravarsi di eventuali altre patologie organiche, il verificarsi di condotte autolesive e l’abuso di alcool.

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3) Disturbi dell’umore, compromissione cognitiva e

demenza.

3.1.) Disturbi dell’umore e compromissione cognitiva.

Alterazioni cognitive sono state osservate in pazienti con disturbi dell'umore, sia nella fase depressiva che in quella maniacale (Waddington e coll., 1989; Bulbena e coll., 1993).

I pazienti affetti da depressione maggiore hanno un deficit della performance cognitiva lieve o moderato rispetto ai soggetti sani e i deficit di concentrazione e attenzione, così come di apprendimento e di memoria e in qualche misura delle funzioni esecutive, sono più gravi quando il paziente è depresso di quando egli si trova in uno stato di remissione. Ci sono diversi fattori che preannunciano alterazioni più gravi del funzionamento cognitivo nei disturbi dell'umore: i pazienti che hanno maggior probabilità di manifestare deficit più gravi sono quelli con una storia di episodi ricorrenti e con sintomi psicotici (Bora e coll., 2007; Martinez-Aran e coll., 2008).

Diversi studi dimostrano che i pazienti con disturbo bipolare presentano compromissione neuro-cognitiva non solo durante gli episodi acuti, ma anche durante la fase eutimica (Torres e coll., 2007).

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Torrent e coll. (2006) hanno effettuato uno studio per confrontare le funzioni cognitive dei pazienti con disturbo bipolare di tipo I e II con quelle di un gruppo di controlli sani. Lo studio valutava 71 pazienti bipolari eutimici (38 con disturbo bipolare di tipo I, 33 con disturbo bipolare di tipo II), che sono stati confrontati in base a parametri clinici e neuropsicologici (ad esempio, le funzioni esecutive, l'attenzione, la memoria verbale e visiva) con 35 soggetti sani di controllo. Rispetto ai controlli, i pazienti bipolari hanno mostrato deficit significativi nella maggior parte delle funzioni cognitive inclusa la memoria e l’ attenzione. Inoltre i pazienti con disturbo bipolare II avevano un livello intermedio di prestazioni tra il gruppo dei bipolari I e il gruppo di controllo.

Due recenti lavori d i review e metanalisi della Letteratura hanno confermato l’associazione tra la gravità della storia e del decorso del disturbo bipolare e la gravità della compromissione nei pazienti di domini cognitivi quali attenzione, memoria e funzioni esecutive (Robinson e coll., 2006; Torres e coll., 2007).

La presenza di deficit cognitivi nei pazienti con disturbo dell’umore è un elemento che non va trascurato nella pratica clinica poiché questo si correla ad un peggior funzionamento psicosociale e alla presenza di sintomi residui di malattia.

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3.2.) Disturbi dell’umore e demenza

Con il termine “demenza”, si indica una sindrome caratterizzata da una riduzione delle funzioni cognitive (memoria, ragionamento, linguaggio , attenzione) tale da compromettere le attività lavorative e le relazioni interpersonali (Langa KM. e coll., 2001). Nel 50-60% dei casi la demenza è dovuta alla malattia di Alzheimer (Alzheimer Disease, AD), patologia che prende il nome da Alois Alzheimer, il neurologo che la identificò per la prima volta nel 1906. In circa il 10% dei casi è dovuta a lesioni ischemiche e viene denominata “demenza vascolare”. Nel restante 15-20% è dovuta alla presenza contemporanea di malattia di Alzheimer e di lesioni ischemiche; in quest’ultimo caso viene definita “demenza mista”.

La prevalenza della demenza conclamata è calcolata intorno al 5% dei soggetti di età maggiore ai 65 anni (con oscillazioni tra il 3,4 e il 6,7 %), ma se si considerano le forme latenti (che non hanno richiesto ancora l’intervento medico), i tassi di prevalenza raggiungono il 10-20% (American Psychiatric Association DSM IV, 2002). Il numero di persone affette da demenza è in aumento. Pertanto l'individuazione precoce di possibili precursori della demenza, la diagnosi e il trattamento dei fattori di rischio modificabili rivestono un'importanza sempre maggiore (Förstl

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e coll., 2009). Un ruolo centrale è giocato dal concetto di decadimento cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI) perché esso in molti casi rappresenta una fase precoce della AD. Il MCI è una condizione comune tra gli anziani ed è definito come un deterioramento della memoria e dell'attenzione che non interferisce significativamente con le attività della vita quotidiana anche se è superiore a quello che ci si aspetterebbe in base all'età del soggetto e il livello di istruzione (Etgen e coll., 2011). In circa il 10% - 20% dei pazienti con MCI, i segni di demenza si manifestano nel giro di 12 mesi (Winblad e coll., 2004). Quindi il riconoscimento di MCI consente l'identificazione tempestiva dei pazienti con alto rischio di sviluppare demenza e aumenta la rilevanza dei fattori di rischio modificabili.

Tra i fattori di rischio attualmente riconosciuti troviamo l’età, la storia familiare (una persona che ha un familiare di primo grado affetto da AD, ha un rischio 2-4 volte maggiore rispetto a chi non lo ha). Altri fattori di rischio, di cui non è ancora accertato il ruolo nella eziopatogenesi della demenza, sono un basso livello di istruzione, il fumo, fattori di rischio cardiovascolare (ipertensione, arteriopatia obliterante degli arti inferiori, diabete mellito, dislipidemie) e la sindrome di Down (Birns, 2009; Biessels e coll., 2006).

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La depressione è stata associata con un rischio doppio di sviluppare AD. Uno studio effettuato da Saczynski e coll. (2010), ha esaminato l'associazione tra sintomi depressivi e incidenza di demenza in un follow-up di 17 anni su 949 partecipanti con età media di 79 anni di cui il 63,6% erano donne. I sintomi depressivi, valutati al baseline con il Center for Epidemiologic Studies Depression Scale (CES-D), sono stati rilevati nel 13.2% del campione. Il 21,6% dei soggetti reclutati che erano depressi all'inizio dello studio hanno sviluppato demenza rispetto al 16,6% di coloro che non erano depressi. Lo studio ha anche trovato un rapporto tra la gravità della depressione e la probabilità di sviluppare AD: per ogni aumento di 10 punti sulla scala di valutazione della depressione, il rischio di sviluppare demenza aumenta di quasi il 50%. Anche Dotson e coll. hanno indagato per cercare un rapporto dose-dipendente tra il numero di episodi depressivi ed il rischio di MCI e di demenza. Sono stati analizzati 1.239 adulti con anamnesi negativa per disturbo dell’umore e deficit cognitivi al momento del reclutamento. Circa il 10% dei partecipanti ha sviluppato demenza nel corso del follow-up di 25 anni. Di coloro che hanno sviluppato demenza, il 35% aveva avuto almeno un episodio di depressione; tra coloro che non hanno sviluppato demenza, solo il 23% aveva avuto un episodio depressivo. Un episodio di depressione è stato associato con un aumento dell' 87% nel

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rischio di demenza e almeno due episodi di depressione hanno più che raddoppiato il rischio (108%). Il Rotterdam Scan Study (Geerlings e coll., 2008), uno studio prospettico di popolazione, ha dimostrato che i pazienti con una storia di depressione hanno il rischio circa doppio di sviluppare AD rispetto alla popolazione generale ed il rischio è ancora maggiore se si considera il gruppo con depressione early-onset (esordio < 60 anni).

Anche in pazienti bipolari il rischio di sviluppare demenza aumenta con il numero di episodi affettivi (Kessing & Andersen, 2004) e due studi prospettici (Kessing e coll., 1999; Kessing & Nilson, 2003) hanno dimostrato che la presenza di depressione (singola o ricorrente) o di disturbo bipolare determina un maggior rischio di demenza non solo rispetto alla popolazione generale, ma anche rispetto a pazienti con nevrosi, osteoartrite o diabete.

Questi dati supportano quindi l'ipotesi della depressione come fattore di rischio per la demenza. La prevenzione delle recidive di depressione negli adulti più anziani potrebbe quindi prevenire o ritardare l'insorgere della demenza.

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3.3.) Disturbi dell’umore e alterazioni strutturali cerebrali.

Negli ultimi decenni i progressi raggiunti nelle tecniche di neuroimaging, soprattutto di tipo funzionale, hanno consentito di approfondire la ricerca neurobiologica sui disturbi dell’umore. Gli studi di neuroimaging nell’ambito dei disturbi dell’umore sono complementari a quelli di tipo neuropsicologico, seppur questi ultimi siano più sensibili. Studi di RM hanno evidenziato che il volume dell’ ippocampo di soggetti con una storia di episodi depressivi maggiori (EDM), in remissione e senza comorbidità medica al momento dell’analisi, risulta significativamente inferiore rispetto a quello di controlli sani. Il grado di atrofia correla positivamente con un decorso più grave di malattia in termini di durata e numero degli episodi (Sheline e coll., 1996). Lo stesso autore, qualche anno più tardi, ha dimostrato, studiando 38 pazienti depresse che gli antidepressivi possono avere un effetto neuroprotettivo poiché l’atrofia ippocampale è risultata reversibile durante i trattamenti farmacologici (Sheline e coll., 2003).

Le anomalie neuro-anatomiche più frequentemente riscontrate in pazienti adulti con disturbo bipolare sono l'allargamento del ventricolo laterale e le iperintensità della sostanza bianca. Le prove di un coinvolgimento della sostanza bianca nel disturbo bipolare provengono da studi che

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dimostrano riduzioni del volume della materia bianca (Kieseppa, 2003). Inoltre, McDonald e coll. hanno rilevato nei probandi di pazienti affetti da disturbo bipolare una riduzione della sostanza bianca nelle regioni frontale sinistra e temporo-parietale, e un significativo ingrandimento del ventricolo destro (McDonald e coll., 2004).

Due studi hanno descritto le iperintensità della sostanza bianca come indicatori di resistenza al trattamento e di prognosi peggiore nel disturbo bipolare (Moore e coll., 2001; Regenold e coll., 2008).

Riscontri atrofici agli studi di neuroimaging sono meno frequenti nei pazienti bipolari trattati con litio di cui recentemente sono stati descritti gli effetti neuro protettivi e neurotrofici (Moore, 2009), attraverso l’aumento della plasticità neuronale (Manji e coll., 1999). Studi in vivo hanno confermato gli effetti protettivi e potenzialmente rigenerativi del litio sul cervello in pazienti con disturbo bipolare (Kempton e coll., 2008; Bearden e coll., 2007; Kessing e coll., 2008 ; Moore e coll., 2000, 2009 ).

Un solo studio recente ha dimostrato che il trattamento a base di litio sembrerebbe ridurre il rischio di demenza (Kessing e coll., 2008).

Strakowsky e coll. (2005) hanno proposto un modello neuroanatomico dei disturbi dell’umore, secondo il quale una ridotta modulazione prefrontale delle strutture subcorticali e temporali facenti parte del

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sistema limbico anteriore (amigdala, striato inferiore e talamo) sarebbe alla base della disregolazione dell’umore. L'amigdala è una regione chiave implicata nell’ elaborazione di stimoli emotivamente salienti, comprese le espressioni facciali emotive. Non è chiaro, tuttavia, se un’attività anomala dell'amigdala durante l'elaborazione di emozioni positive e negative rappresenti un marcatore di disturbo bipolare. Inoltre Strakowsky e coll. (2005) hanno notato che alcune anomalie dello striato e dell’amigdala sono già presenti precocemente nel corso della malattia e possono anche anticiparne l'esordio, mentre altre regioni anatomiche (verme cerebellare, ventricoli laterali e regioni prefrontali inferiori), possono rappresentare gli effetti della progressione di malattia poiché sembrano degenerare in conseguenza del ripetersi degli episodi affettivi. L'ipotesi che il progredire del disturbo dell'umore produca alterazioni cognitive e di pari passo alterazioni cerebrali strutturali è suggerita dallo studio di Moorhead e coll. (2007), in cui la riduzione della funzione mnesica e la riduzione della materia grigia nella corteccia temporale mediale appaiono correlati all'intensità di malattia. Questa appare l'evidenza più forte in favore di una correlazione diretta tra decorso di malattia, cambiamenti strutturali cerebrali e alterazioni cognitive (Moorhead, 2007).

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4) Beta-amiloide.

La β-amiloide (Aβ) è un peptide e risulta il principale costituente delle placche senili extracellulari nel cervello dei pazienti con AD. Tutte le proteine dell’amiloide hanno un’identica struttura secondaria a foglietto beta e un loro anormale ripiegamento può determinare l’accumulo in vari organi o tessuti. Questo peptide si colora con il rosso congo, è relativamente resistente alla degradazione, attiva la risposta reattiva di astrociti e può essere direttamente neurotossico. La β-amiloide è composta da 42 (Aβ42) o da 40 aminoacidi (Aβ40) e si forma attraverso il clivaggio enzimatico da parte di β- e γ- secretasi della proteina precursore dell'amiloide (Amyloid Precursor Protein, APP) attraverso il “pathway amiloidogenico”. La APP è una proteina transmembrana costituita da 770 amminoacidi, formata da un dominio extracellulare/intraluminale (EC/IL), un’elica transmembrana e un corto dominio citosolico. Tale proteina è codificata da un gene situato sul cromosoma 21 ed è espressa in diversi tipi di cellule, soprattutto nel cervello, nel rene, nella milza e nel cuore. Sono state individuate, fino ad oggi, 10 isoforme derivate da splicing alternativo del trascritto del gene APP; le tre più comuni sono chiamate C (presente soprattutto nei

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neuroni), B ( presente per lo più nei linfociti) ed A e sono composte rispettivamente da 695, 751 e 770 amminoacidi.

Mentre la funzione fisiologica dell’APP non è ancora stata chiarita, anche se viene ipotizzato un suo ruolo nella sinaptogenesi, nei fenomeni di trasduzione del segnale, di adesione cellulare o del metabolismo del calcio (Zheng & Koo, 2006), la sua complessa maturazione proteolitica è invece conosciuta nel dettaglio.

Le fibrille di amiloide si generano attraverso il clivaggio della porzione N-terminale del dominio trans-membrana ad opera dell’enzima β-secretasi e all’interno del dominio trans-membrana per azione della γ-secretasi. Il clivaggio di APP da parte dell’α-secretasi preclude invece la sintesi di β-amiloide poiché il suo sito di taglio proteolitico è all’interno della sequenza aminoacidica di Aβ42. A seguito dell’azione dell’α-secretasi si formano due sottoprodotti di APP: il frammento APPα e il frammento C83; quest’ultimo viene ulteriormente metabolizzato dalla γ-secretasi che porta alla formazione di un altro segmento, detto p3 (Zhang e coll., 2011).

Per molto tempo si è pensato che la produzione di Aβ fosse un prodotto dell’errato metabolismo del suo precursore, ma in realtà è un normale sottoprodotto della APP ed è normalmente presente anche nei soggetti sani (Seubert e coll., 1992).

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Molti loci genici sono stati associati alle forme familiari di AD (early onset familiar Alzheimer disease, EO-FAD) ed il primo di questi è stato il gene che codifica per la APP sul cromosoma 21. E’ stato dimostrato che un eccesso di copie, come avviene nella trisomia 21, determina un decadimento cognitivo tipo AD e che le mutazioni determinano un aumento della produzione e dell’aggregazione di Aβ (Sheuner e coll., 1996). Sono stati identificati altri due loci genetici associati a EO-FAD sui cromosomi 14 e 1. I geni implicati codificano per proteine intracellulari altamente correlate, la 1 (PS-1) e la presenilina-2 (PS-presenilina-2), proteine costituenti il sito proteolitico della γ-secretasi. Mutazioni a carico di questi geni sono associate alle forme familiari di AD e ad un aumentato rapporto Aβ42/Aβ40 nel cervello di modelli murini (Borchekt e coll., 1996; Kumar-Singh e coll., 2006).

4.1.) β-amiloide: effetti neurotossici

L'accumulo del peptide β-amiloide (Aβ) in placche amiloidi è un fenomeno caratteristico della AD e ha indotto i ricercatori a cercare un’eventuale relazione tra la sua aggregazione e la neurotossicità.

La β-amiloide è inizialmente rilasciata come monomero; interazioni molecolari ne determinano poi l’aggregazione in oligomeri, protofibrille e fibrille che si accumulano nel cervello e formano placche insolubili. La

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maggior parte dei depositi nel parenchima cerebrale è costituita dalla forma più lunga Aβ42, che mostra una spiccata propensione all’aggregazione ed è la specie patogena principale.

L'aggregazione di Aβ è stata a lungo considerata un processo critico nella patogenesi della AD, ma dalla fine degli anni novanta l’attenzione dei ricercatori si è concentrata sul ruolo degli oligomeri solubili (Lambert, 1998). Gli oligomeri sono le specie più tossiche di β-amiloide, derivano da processi di aggregazione della forma monomerica che si realizzano in parte nel citosol e in parte a livello extraneuronale. Il numero di placche senili non correla con la gravità della malattia di Alzheimer (Terry e coll., 1991; Dickinson e coll., 1995), ma gli oligomeri solubili di Aβ sono responsabili della neurotossicità e sono collegati al grado di perdita sinaptica e alla gravità del decadimento cognitivo (Lue e coll., 1999; McLean e coll., 1999).

Anche se ad oggi c'è un ampio consenso sul ruolo svolto dagli oligomeri nella neurotossicità, i meccanismi attraverso i quali essi inducono la disfunzione delle cellule neuronali e infine la loro morte non sono del tutto chiari.

Poiché alcune forme oligomeriche sono citosoliche e altre sono extracellulari, il target aggredibile da entrambi i compartimenti sembra essere la membrana plasmatica. Sono state indagate diversi possibili

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meccanismi di danno cellulare tra cui: la disfunzione mitocondriale, il danno lisosomiale, il rilascio di amminoacidi eccitatori come il glutammato e conseguente eccitotossicità e l'attivazione anomala delle vie di trasduzione del segnale. La neurotossicità Aβ mediata ha inizio infatti con l’aumento intraneuronale dei livelli di calcio. Per spiegare la genesi della disregolazione del calcio nelle patologie associate a misfolding e aggregazione di amiloide, sono state postulate due ipotesi principali: l'attivazione di canali ionici preesistenti e la formazione di pori permeabili al calcio e agli oligomeri (Mattson e coll., 1992).

Secondo l’ipotesi dell’attivazione di canali ionici preesistenti, l'interazione della proteina amiloide con diversi canali permeabili al Ca+2 potrebbe condurre ad un aumento intracellulare di Ca+2. Secondo l’altra ipotesi invece gli oligomeri di amiloide possono formare pori calcio-permeabili non selettivi. Questa capacità, originariamente descritta per Aβ (Arispe e coll.,1993) è stata ipotizzata essere una proprietà comune della famiglia di proteine dell’amiloide (Quist e coll., 2005). Le diverse ipotesi non si escludono a vicenda ed i meccanismo descritti possono intervenire contemporaneamente.

Esperimenti condotti su colture neuronali hanno dimostrato che solo la somministrazione extracellulare di oligomeri solubili e non quella di monomeri o fibrille Aβ è in grado di produrre l’incremento dei livelli di

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calcio nel citoplasma neuronale (Demuro e coll., 2006). L’eccesso di calcio determina una cascata di eventi tra cui la produzione di specie reattive dell’ossigeno, l’alterazione della via di trasduzione del segnale e la disfunzione mitocondriale che hanno come ultimo effetto la morte del neurone.

Numerosi studi hanno dimostrato un effetto negativo degli oligomeri Aβ sulla plasticità neuronale. Gli oligomeri solubili, ma non i monomeri Aβ, hanno infatti dimostrato un effetto bloccante sulla Long Term Potentiation (LTP) ippocampale (Lambert e coll., 1998; Walsh e coll., 2002; Wang e coll., 2002; Klyubin e coll., 2005; Townsend e coll., 2006; Shankar e coll., 2007, 2008).

Esperimenti di laboratorio hanno mostrato una riduzione del numero di spine dendritiche quando i neuroni crescono in presenza di concentrazioni sub-nanomolari di oligomeri Aβ di derivazione cellulare. Poiché questo effetto è impedito dall’aggiunta di anticorpi diretti verso gli oligomeri e dato che i neuroni incubati in presenza di solo monomeri Aβ mostrano una distribuzione normale delle spine dendritiche, possiamo dedurre che gli oligomeri ne siano la causa specifica (Shankar e coll., 2007).

Uno studio recente condotto su modelli animali ha dimostrato che l’infusione endovena di Aβ solubile correla in acuto con lo sviluppo di

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un fenotipo depressivo. In particolare, i ratti Aβ-trattati hanno manifestato una significativa riduzione dell’attività di esplorazione ambientale e ciò lascia ipotizzare l’induzione di un deficit motivazionale ad opera della Aβ. Inoltre, i ratti Aβ-trattati hanno mostrato un marcato aumento del tempo di immobilità nel test del nuoto forzato, un modello comportamentale animale di depressione che riproduce lo stato di inibizione e rinuncia sul piano comportamentale tipico della condizione depressiva (Colaianna e coll., 2010). Gli stessi autori hanno studiato gli effetti biochimici dell’infusione di Aβ riscontrando una marcata riduzione del contenuto di serotonina e noradrenalina nella corteccia prefrontale dei ratti Aβ-trattati e una notevole diminuzione del BDNF. Gonzalo-Ruiz e coll. avevano precedentemente dimostrato che l’inoculazione di Aβ40 nel cervello di ratto era in grado di determinare una perdita di neuroni serotoninergici e noradrenergici a livello pontomesencefalico (Gonzalo- Ruiz e coll., 2003).

Inoltre Christensen e coll. (2008) avevano riscontrato una riduzione dei livelli di BDNF nella corteccia prefrontale e una riduzione dei recettori della serotonina 5-HT2A ippocampali 83 giorni dopo una singola iniezione ippocampale di Aβ42 nella sua forma aggregata.

Queste evidenze sono particolarmente interessanti dato che è ampiamente riconosciuto il ruolo centrale nella patologia depressiva

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della compromissione della trasmissione monoaminergica a livello prefrontale (Krishnan & Nestler, 2008).

Poiché sia le neurotrofine che i peptidi Aβ influenzano l’attività sinaptica, è probabile che i loro meccanismi siano correlati. Infatti Aβ inibisce la plasticità sinaptica e le neurotrofine la stimolano, mentre Aβ deprime la trasmissione glutammatergica e la LTP sinaptica, il BDNF le stimola (Snyder e coll., 2005).

Nei neuroni corticali in vitro, già a concentrazioni subletali, la Aβ è in grado di compromettere le vie di trasduzione del segnale associate al BDNF (Tong e coll., 2001). A concentrazioni più elevate è in grado di bloccare la fosforilazione di CREB (Tong e coll., 2004) e la sua traslocazione nucleare, inibendo pertanto la sintesi di BDNF (Arvanitis e coll., 2007; Arancio & Chao, 2007).

In vitro è stato dimostrato un effetto protettivo del BDNF contro la tossicità neuronale dei peptidi Aβ (Aranc ibia e coll., 2008); infatti il BDNF è in grado di stimolare direttamente la produzione di somatostatina, la quale attiva la degradazione dei peptidi Aβ (Saito e coll., 2005) ed è essa stessa un fattore neurotrofico (Blake e coll., 2004).

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4.2.) Beta-amiloide, depressione e deterioramento cognitivo.

La beta-amiloide è fisiologicamente presente nel cervello, nel liquido cefalorachidiano e nel sangue le sue variazioni nei liquidi biologici, sono oggetto di studio quali possibili markers per la diagnosi di AD.

Il peptide Aβ42 è il principale costituente delle placche senili (Selkoe, 2006) mentre il peptide Aβ40 è un componente della angiopatia amiloide cerebrale e il suo incremento plasmatico è correlato con la patologia microvascolare cerebrale, gli infarti lacunari e le iperintensità della sostanza bianca (van Dijk e coll., 2004; Gurol e coll., 2006). Queste due forme principali di β-amiloide, possono essere identificate nel liquido cefalorachidiano e nel plasma e sono oggetto di studio quali potenziali predittori di AD (Motter e coll., 1995; Galasko e coll., 1998).

Nel liquor, bassi livelli di Aβ42 sono fortemente associati sia con AD manifesta che con MCI (Motter e coll.,1995; Hansson e coll., 2006). Nel plasma, i risultati degli studi sono invece contrastanti anche se nella maggior parte dei casi sono emersi una riduzione della Aβ42, un incremento della Aβ40 e del rapporto Aβ40/Aβ42 nei pazienti con AD in fase conclamata e nei soggetti a rischio di AD e MCI (Graff-Radford e coll.,2007; Xu e coll., 2008).

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Okereke e coll. (2009), in un ampio studio di comunità su soggetti valutati all’età media di 60 anni e successivamente dopo dieci anni, hanno dimostrato che sia il rapporto Aβ40/Aβ42 a 60 anni che il suo incremento nel corso del periodo di osservazione correlano positivamente con il declino cognitivo globale.

Anche Seppala e coll. (2010), in un follow-up di 6 anni su pazienti di età compresa tra 60 e 76 anni, hanno rilevato che livelli plasmatici di Aβ42 e un rapporto Aβ42/Aβ40 bassi o diminuiti rispetto a osservazioni precedenti sono correlati con il declino cognitivo (Seppälä e coll., 2010). Yaffe e coll. (2011), in uno studio di comunità con follow-up di 9 anni su 997 anziani non dementi hanno riscontrato una associazione tra un basso rapporto Aβ42/Aβ40 e un basso livello di Aβ42 al baseline e il declino cognitivo successivo. L'associazione tra bassi livelli di Aβ42 e deterioramento cognitivo è risultata più forte nei soggetti con minore istruzione, più bassa alfabetizzazione e portatori dell’ allele APOE e4 (responsabile di una variante dell’apolipoproteina E meno efficiente nella degradazione di β-amiloide a livello cerebrale).

Risultati contrastanti si hanno invece da Mayeu e coll. (1999) e dal gruppo di Blasko (2010): i soggetti che successivamente hanno sviluppato AD avevano livelli plasmatici di Aβ42 più elevati rispetto a quelli che non hanno manifestato la demenza.

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