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Academic year: 2021

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Sezione 3

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Cap. 1 – I PITTORI LUCCHESI NELLE COLLEZIONI PRIVATE

In questa parte del lavoro ho effettuato un primo censimento dei nomi di artisti lucchesi citati negli inventari. Ho, a volte, utilizzato inventari già editi, alcuni dei quali ampiamente studiati, in particolare quelli della quadreria Conti sui quali si è focalizzata l’attenzione della critica a seguito dell’intervento classico di apertura di Haskell. Altre volte ho preso in considerazione inventari già citati dalla letteratura ma soltanto parzialmente pubblicati. In questi casi ho provveduto ad integrare le parti mancanti effettuando gli opportuni riscontri presso l’Archivio di Stato di Lucca. Ho anzitutto lavorato sui fondi delle famiglie Cenami, Garzoni, Guinigi, Mansi, Sardi, Sardini, consultando i quali ho rintracciato un numero complessivo di ventotto inventari. Ho poi effettuato ricerche ex novo, attingendo in particolar modo al fondo dei Pubblici Banditori così da recuperare altri documenti, non ancora citati negli studi.1 Ho consultato un numero cospicuo di inventari selezionando, tra questi, quelli che menzionassero dipinti. Alla fine del lavoro avevo a disposizione settanta diversi inventari tra i quali ho scelto quelli che facessero menzione di artisti lucchesi, ventitre. Nel compiere questa ricerca sono stato difatti guidato dall’intenzione di redigere una sorta di censimento delle presenze di questi ultimi all’interno delle collezioni cittadine.

Ho proceduto nel lavoro estrapolando sistematicamente da questi documenti, la più parte risalenti al Settecento, le voci relative ad opere attribuite ad artisti lucchesi. È vero che, nella maggior parte dei casi, non possiamo verificare le attribuzioni via via proposte. Soltanto una porzione assai limitata delle opere in essi citate è difatti, sino ad oggi, identificabile con certezza o comunque con un buon margine di approssimazione. Conviene peraltro considerare che spesso gli estensori degli inventari tendono ad esagerare, proponendo nomi di autori tra i più celebri con scopi, per dire generalmente, di tipo speculativo. È difficile che un simile criterio possa aver orientato l’attribuzione di opere agli artisti lucchesi, la maggior parte dei quali era conosciuta nel solo ambito locale.

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Sembra cioè ragionevole pensare che, quando uno di essi appare citato, il riferimento possa essere considerato, se non certo, almeno in parte indicativo dell’area geografica di pertinenza del dipinto.

Comunque sia, compiendo questa indagine ho mirato, non a verificare l’attendibilità delle indicazioni di paternità, ma a individuare la frequenza con la quale i diversi artisti locali sono citati. Così facendo ho cercato di intendere in che modo i lucchesi pensavano alla tradizione figurativa cittadina. L’infittirsi di specifici nomi o, al contrario, la rarefazione per non dire mancanza di altri costituisce difatti un indizio significativo poiché definisce una vera e propria scala di valori. Il quadro che emerge dalla mia ricerca non corrisponde affatto alla effettiva ricchezza e allo sviluppo della cultura figurativa locale. Così, la pittura cinquecentesca è quasi integralmente ignorata, ad eccezione di due soli nomi, Lorenzo Zacchia e Benedetto Brandimarte, rappresentati da un’opera ciascuno. Per quanto riguarda il Seicento siamo di fronte ad una situazione altamente peculiare visto che il nome di gran lunga più rappresentato è quello di Pietro Paolini, con 94 dipinti. A questo fanno seguito i nomi di Giovanni Coli (48) 2 Giovanni Marracci (31), Antonio Franchi (26), Simone del Tintore e Francesco del Tintore, ognuno rispettivamente con 20 dipinti, la coppia Giovanni Coli e Filippo Gherardi (17), Girolamo Scaglia (13), Pietro Testa (11), Paolo Guidotti (6), Paolo Biancucci (4), Pietro Ricchi (3). È comprensibile possa mancare il nome di Matteo Boselli,3 specializzato nella realizzazione di pale d’altare e probabilmente poco avvezzo a eseguire “quadri da stanza” (ma avrebbe potuto comunque realizzare opere di stampo devozionale). Stupisce invece la rarefazione di opere di Paolo Biancucci, pittore di notevole livello e documentato in città almeno per tutti gli anni Quaranta. Anche il numero di opere riferite allo Scaglia è senz’altro largamente inferiore a quelle effettivamente presenti nelle case, come mostra il catalogo che attualmente gli si riconosce. Questa situazione può, almeno in parte, spiegarsi pensando che, nel gruppo dei dipinti riferiti al Paolini, siano comprese opere, affini magari nella veste visiva ma a tutti gli effetti realizzate da altri artisti.

2 Tra parentesi è indicato il numero dei dipinti attribuiti a ciascun pittore nella totalità degli

inventari che ho consultato.

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Per quanto riguarda la pittura del Settecento gli inventari attribuiscono nuclei significativi di dipinti a Gaetano Vetturali (73), Lorenzo Castellotti (64), Giovan Domenico Lombardi (47), Antonio Luchi il Diecimino (22). Relativamente limitata appare la presenza di opere di Pompeo Batoni (18), stabilito in pianta stabile a Roma ed evidentemente tutto fuorché provvisto della fisionomia del pittore ‘locale’. In rare occasioni compaiono i nomi di artisti “minori” come Francesco Gibertoni (19), Giovanni Domenico Paladini (12), e Padre Francesco Carlini (6) mentre un numero esiguo di opere sono ricondotte a Domenico Brugieri (3): dato singolare visto che il pittore è, assieme al Lombardi, tra i protagonisti della cultura figurativa locale nei primi decenni del secolo.

In sintesi, per tentare un bilancio, parziale e provvisorio, è evidente che gli estensori degli inventari pensavano alla produzione figurativa locale sulla base di alcuni nomi, che sembra godessero di una sorta di preferenza. È difficile individuare a questo stadio della ricerca le ragioni di un simile stato di cose, sul quale converrà riflettere vagliando attentamente caso per caso. È difatti evidente ad esempio che la prevalenza del Paolini trova ragione nel numero effettivo di quadri “da stanza” che questi produsse ma anche nel fatto che il suo nome non era ignoto alla letteratura artistica. Baldinucci gli aveva difatti dedicato una Vita dal tono elogiativo. Insomma, è logico pensare che, attribuendogli dipinti, gli estensori degli inventari fossero spinti dalla fama di cui l’artista godeva, anche al di fuori dei confini della Repubblica. D’altro canto Paolini ebbe allievi in gran numero, ai quali va accreditata la proliferazione di opere che presentano caratteri paolineschi ma non possono essere considerate autografe. Queste avranno con facilità sollecitato la confusione attributiva.

Al contrario, se si considerano gli artisti settecenteschi, un dato molto interessante è costituito dal riferimento di un gran numero di opere a Lorenzo Castellotti. Il pittore è difatti sino ad oggi conosciuto, oltre che per l’esecuzione di alcune pale d’altare, peraltro non numerose, per l’attività di frescante, più precisamente “figurista” nei grandi apparati decorativi realizzati assieme al quadraturista Bartolomeo De Santi. È dunque probabile che i suoi dipinti su tela siano attualmente integrati al catalogo di altri artisti lucchesi coevi, in particolar modo Lombardi nel caso delle scene di genere.

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Queste considerazioni hanno valore di semplici ipotesi, nella consapevolezza che soltanto approfondendo la ricerca possano essere riconosciute le ragioni della situazione che ho sopra prospettato. Spero peraltro che questo lavoro possa fornire, oltre che una sollecitazione, un qualche contributo alla prosecuzione dell’indagine.

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