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Dalla guerra del 2003 ad oggi

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Dalla guerra del 2003 ad oggi

3.1 11 settembre 2001: i perché del conflitto

L’attacco terroristico alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e la successiva campagna contro il terrorismo scatenata dall’amministrazione Bush furono le cause principali della guerra in Iraq a partire dal marzo 2003.

Il cambiamento di strategia americana che determinò la nuova invasione dello stato mediorientale risale però a molto prima. A partire dagli anni Novanta, con la caduta dei regimi comunisti ed il riconoscimento definitivo degli Stati Uniti come potenza egemone in tutto il mondo, iniziò a farsi strada un’ideologia definita neoconservatorismo che, concentrandosi sulla società americana, era fortemente critica nei confronti delle conquiste sociali della seconda metà del Novecento: per questa corrente di pensiero il ’68, il pacifismo ideologico, la cultura gay, il terzomondismo e gli eccessi della democrazia partecipata erano considerate pericolose teorie che dovevano essere combattute con forza1.

In politica estera l’ideologia “neocon” era aggressiva ed interventista e aveva come unico scopo quello di permettere agli Stati Uniti di mantenere la posizione di vantaggio sul resto del mondo, posizione faticosamente conquistata nel corso della seconda metà del XX secolo: lo stato avrebbe dovuto sfruttare la superiorità economico-militare per spengere sul nascere qualsiasi minaccia proveniente da altri stati2.

La concezione del ruolo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto svolgere nel mondo traspare a partire dal Defense Policy Guidance3, un documento del 1992 che segnò la

nascita ed il debutto politico del gruppo che annoverava tra le sue fila nomi che di lì a poco avrebbero influenzato pesantemente la storia americana; tra i firmatari c’erano infatti Cheney, Libby e Wolfowitz, ovvero lo zoccolo duro del movimento. Questo documento sosteneva il dominio assoluto degli Stati Uniti, l’impegno ad evitare l’ascesa di ogni nazione potenzialmente ostile e l’uso della guerra preventiva contro gli stati accusati di produrre armi di distruzione di massa. Oltre a questi ideologi,

1 G. Mammarella, op.cit., p.88

2 J.Lobe, A.Olivieri, I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, Milano,

Feltrinelli Editore, 2003, pp.8-10.

3 Una copia del documento in questione è reperibile all’indirizzo internet

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facevano parte del movimento altre personalità importanti come Condoleeza Rice e Donald Rumsfeld ed altri neoconservatori impegnati nei media come Richard Perle, Robert Kagan e Charles Krauthammer.

Molti di questi il 26 gennaio 1998 firmarono una lettera inviata a Clinton che metteva in guardia gli Stati Uniti rispetto ad una pesante minaccia proveniente dal Medio Oriente; secondo i neoconservatori il rischio per la sicurezza degli americani si chiamava ancora Saddam Husayn, in quanto il ra’is voleva porsi come l’antagonista principale degli Stati Uniti e dei suoi alleati mediorientali riappropriandosi completamente delle sue riserve petrolifere non appena fosse riuscito a sviluppare le armi di distruzione di massa:

La sicurezza mondiale nei primi anni del XXI secolo sarà in gran parte determinata dal modo in cui affronteremo questa minaccia […] A breve termine, ciò implica la volontà di intraprendere un’azione militare, vista l’inutilità degli interventi diplomatici4.

La pressione esercitata da questo schieramento ottenne presto i suoi risultati: a seguito della decisione irachena di interrompere le ispezioni Onu, il Congresso elaborò una strategia ideata da Wolfowitz stanziando circa 100 milioni di dollari per finanziare una rivolta contro Saddam nella speranza che questo portasse alla sua caduta5. Nel dicembre dello stesso anno, dopo l’ennesimo tentativo da parte del ra’is

di sottrarsi ai controlli, Clinton dette inizio all’operazione Desert fox, un duro bombardamento da parte di piloti americani e inglesi che per tre giorni martellarono il paese provocando la morte di centinaia di persone6. Questo non era certo l’unico

attacco statunitense in Iraq, infatti, nonostante la guerra ufficiale contro lo stato mediorientale si fosse conclusa a fine febbraio 1991, gli anglo-americani continuavano ad effettuare raid in territorio iracheno da ormai sette anni7.

Durante tutti gli anni Novanta i neoconservatori avevano continuato ad elaborare le loro teorie. Quella da loro delineata era una “politica imperiale” che permetteva agli Stati Uniti di condurre le proprie missioni senza l’aiuto di nessun altro paese. Gli stati Uniti potevano decidere unilateralmente di muovere guerra alle nazioni a loro ideologicamente ostili senza l’attesa delle decisioni altrui. Le organizzazioni

4 La lettera in versione italiana è reperibile al link

http://www.ossin.org/misc-press-room/lettera-clinton-iraq.html.

5 B. Rubin, Crisies in the contemporary Persian Gulf, New York, Tylor and Francis, 2013,

pp.185-186.

6 J.M Benjamin, op.cit, p.143. 7 Ivi, p.32.

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internazionali come l’Onu e il suo Consiglio di Sicurezza (accusate di impotenza) potevano essere ignorate e l’importanza degli storici alleati, come gli stati europei, era pesantemente ridimensionata.

George W. Bush inizialmente non era un neoconservatore, ma si appassionò ben presto a quell’ideologia estremizzante e attiva del ruolo americano nel mondo. Lo stato americano aveva il compito di promuovere i suoi valori all’estero. Nonostante questi presupposti nei primi mesi del suo governo non si verificarono grossi cambiamenti se non quelli di svincolare gli Stati Uniti da alcuni trattati internazionali.

Con l’Iraq non ci fu alcun passo aggressivo ed anzi il nuovo presidente sembrò inizialmente disinteressarsi del Medio Oriente, visto che a tre mesi dal suo insediamento non aveva ancora scelto un delegato per l’area.

Gli avvenimenti dell’11 settembre determinarono un drastico cambio di strategia da parte degli Stati Uniti, che, in seguito agli attacchi alle Twin Towers ed al Pentagono, adottarono un marcato interventismo tanto da iniziare l’operazione Enduring

freedom nel 2001 contro il regime afghano dei talebani.

Da quel momento in poi entrarono nel linguaggio comune espressioni come “asse del male” o “stati canaglia” per indicare gli stati ostili alla potenza americana e divenne famosa la teoria dell’attacco preventivo: qualsiasi paese nel mondo che avesse anche lontanamente minacciato la potenza USA sarebbe potuto entrare nel mirino di quest’ultima per operazioni militari. Con queste decisioni Bush iniziò una guerra di durata indefinita contro i nemici degli Stati Uniti che vennero presto identificati nei deboli paesi di Afghanistan ed Iraq.

Tra i presunti stati ostili, l’Iraq era quello più debole. Gli Stati Uniti consideravano anche la Corea del Nord e l’Iran nel novero di coloro che avrebbero potuto minacciare la potenza USA ma un attacco ad uno di questi due paesi probabilmente non sarebbe rimasto impunito: la Corea del Nord è un paese con un arsenale bellico superiore all’Iraq mentre l’Iran è una nazione di sessanta milioni di persone che vivono e sono protette da un territorio molto vasto. Viceversa l’Iraq era un paese allo stremo per dodici anni di sanzioni economiche che lo rendevano una possibile vittima.

Nonostante l’Iraq stesso e Saddam non avessero niente a che fare con l’attacco terroristico del 2001, fin dai primi momenti lo stato mediorientale fece la sua comparsa nei piani operativi statunitensi: l’11 ottobre 2001 Bush definì Saddam un

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uomo malvagio” che gli USA stavano seguendo con attenzione, mentre il 29 gennaio 2002, durante il suo discorso pubblico alla nazione, sostenne la necessità di un cambio di regime degli stati canaglia (Iraq compreso) perché questi stavano cercando di procurarsi armi di distruzione di massa8.

La pesante accusa di fabbricare armi non convenzionali (potenziale nucleare, chimico, biologico e gittata in grado di raggiungere gli Stati Uniti), unita a quella di essere colluso con gli attentatori dell’11 settembre, furono le cause scatenanti dell’attacco americano all’Iraq.

Riguardo la prima accusa, nonostante il ra’is avesse più volte cercato di non rispettare gli obblighi imposti e di occultare una parte di queste armi, si poteva, sin dalla fine degli anni Novanta, affermare che la maggior parte di queste erano andate ormai distrutte. Dalla fine della guerra con il Kuwait Saddam aveva infatti dato la sua completa disponibilità a controlli periodici da parte dell’UNSCOM e dell’AIEA, impegnandosi fin da subito a distruggere, rimuovere e rendere inoffensive le armi non convenzionali a sua disposizione. Erano stati i principali protagonisti ad affermare a più riprese la distruzione della quasi totalità degli armamenti.

Scott Ritter, vera e propria autorità nel campo del disarmo militare e ispettore ONU per sette anni durante i controlli sull’arsenale bellico iracheno, aveva rivelato in una lunga intervista telefonica con William Rivers Pitt (svoltasi tra il 16 e il 19 agosto 2002), noto commentatore e saggista americano, le seguenti verità:

Non c’è alcun dubbio che l’Iraq non abbia rispettato in pieno gli obblighi imposti dal Consiglio di Sicurezza nella sua risoluzione. Ma, d’altra parte, l’Iraq è quasi completamente disarmato dal 1998: abbiamo verificato l’eliminazione del 90-95% delle armi di distruzione di massa dell’Iraq. E, insieme a queste, di tutte le fabbriche utilizzate per produrre armi chimiche, biologiche e nucleari, nonché missili balistici a lungo raggio […] il fatto che non siamo in grado di dire dove sia finito quel 5-10% non significa che lraq ne sia ancora in possesso9.

In campo chimico l’UNSCOM in sei anni aveva invece ammesso di aver eliminato 690 tonnellate di materiale bellico chimico, 3.000 tonnellate di precursori chimici e ben 426 macchinari utilizzabili per la produzione di armi chimiche10.

8 Discorso del presidente Bush sullo Stato dell’Unione, 29 gennaio 2002

http://www.whitehouse.gov/news/releases/2002/01/20020129-11.html.

9 W.R. Pitt, Guerra all’Iraq, Roma, Fazi Editore, 2002, pp.46-47. 10 J.M Benjamin, op.cit, p.81.

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Rolf Eukes, direttore della stessa commissione, parlava così nel 1997 del potenziale bellico non convenzionale iracheno:

Tenuto conto dell’effetto cumulativo dei lavori compiuti nel corso degli ultimi sei anni trascorsi dal cessate il fuoco entrato in vigore fra l’Iraq e la Coalizione, poco resta da scoprire sulle capacità mantenute dall’Iraq in materia di fabbricazione di armi proibite11.

Poco tempo dopo queste dichiarazioni Rolf Eukes si dimise dalla carica e al suo posto subentrò Richard Butler, un diplomatico australiano con un passato da politico. Poco tempo dopo aver preso il controllo della missione le cose precipitarono: il 5 agosto 1998 l’Iraq sospese infatti la cooperazione con gli ispettori ONU12.

Lo stato iracheno accusò gli Stati Uniti e in particolar modo Richard Butler di essere al soldo della CIA, responsabile di spionaggio nei confronti di Saddam Husayn. Gli iracheni si lamentavano di quella che sembrava un’esasperante e voluta provocazione nei loro confronti: gli ispettori stavano violando aree che nulla avevano a che fare con la ricerca delle armi di distruzione di massa, zone riguardanti la sovranità, la dignità e la sicurezza dell’Iraq.

Il 14 novembre Saddam accettò il ritorno degli ispettori a patto che questi rispettassero la conduzione delle cosiddette “ispezioni nei siti sensibili”: questi potevano ispezionare le aree a patto che entrassero non più di quattro uomini alla volta e, una volta accertata la loro natura, se davvero era un sito concernente la sicurezza interna dell’Iraq e non destava alcuna preoccupazione, dovevano abbandonarlo immediatamente.

Il 9 dicembre avvenne il contrasto definitivo, poichè gli ispettori provarono ad entrare nella sede del partito Baath, ma, dopo che gli iracheni dichiararono la zona un sito sensibile, l’istruttore capo (seguendo gli ordini di Richard Butler) insistette per far permettere l’accesso ad una squadra molto più numerosa. Alla richiesta degli iracheni di rispettare il protocollo, la squadra si ritirò e accusò Saddam di non collaborare nelle ispezioni, accusa che portò agli attacchi anglo-americani già ricordati tra il 16 e il 19 dicembre13.

11 Terzo rapporto dell’Unscom risalente al 27 marzo 1996, che ha per oggetto l’istituzione di un

meccanismo di controllo delle importazioni dall’Iraq nel quadro definitivo della sezione C della Risoluzione 687 del 1991.

12 B. Rubin, op.cit., p.61.

13 Per ripercorrere in modo più approfondito gli eventi riguardanti le ispezioni tra il novembre e il

dicembre 1998 si può consultare il sito delle Nazioni Unite al link http://www.un.org/Depts/unscom/s98-1172.htm.

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Quella che è passata alla storia come la mancata collaborazione da parte del regime, e che è stata una delle prove cardine della presunta malafede del ra’is, non è stata altro che la richiesta di rispetto delle leggi e di difesa della propria sovranità avanzata da parte irachena. Le accuse di collaborazione tra Butler e la CIA furono infatti confermate nel marzo 1999, quando alcuni mezzi di informazioni inglesi riportarono la notizia che l’UNSCOM era infiltrato da spie14: per quasi tre anni, infatti, i servizi

segreti Usa avevano ascoltato le comunicazioni di Saddam utilizzando le installazioni segretamente predisposte dagli ispettori delle Nazioni Unite, lavorando per creare le condizioni per nuovi attacchi15.

Passarono più di quattro anni prima che una commissione potesse rientrare in Iraq per continuare il lavoro dell’UNSCOM. Infatti, nonostante le gravi violazioni statunitensi ormai accertate dai principali mezzi di informazione occidentale, il ra’is, a partire dal 13 novembre 2002, accettò la Risoluzione Onu 1441. Questa prevedeva l’accettazione incondizionata delle precedenti risoluzioni riguardanti il disarmo di armi di distruzioni di massa e il ritorno degli ispettori ONU sotto la guida di Hans Blix e Mohammed el Baradei.

Sebbene la libertà di movimento dei commissari fosse completa, potendo loro ispezionare qualsiasi sito ritenessero pericoloso senza limiti d’azione (persino i siti presidenziali16), la prova che lo stato iracheno detenesse le armi di distruzione, la

cosiddetta “pistola fumante”, non venne mai trovata ed anzi le due principali personalità della commissione accusarono l’amministrazione Bush di aver deciso troppo frettolosamente l’attacco senza seguire le indicazioni da loro fornite.

Blix ed el Baradei sostenevano infatti che se da una parte c’era ancora una grande avversione nel concedere alcune ispezioni a sorpresa in alcuni siti, non si poteva certo affermare al di sopra di ogni ragionevole dubbio che nel territorio iracheno fossero nascoste le tanto famigerate armi di distruzione di massa. Secondo loro i paesi ONU avrebbero dovuto rimanere in attesa di un secondo rapporto degli ispettori di metà febbraio, suggerendo anche l’istituzione di uno speciale corpo di sorveglianza dei siti già ispezionati in precedenza. Queste richieste non furono accolte positivamente dai falchi americani: Colin Powell cercò infatti di convincere l’opinione pubblica che la guerra non poteva attendere. Per lui il mondo non poteva

14 World: Middle East Unscom infiltrated by spies, BBC News, 23 march 1999.

http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/301168.stm.

15 Da “Iraq. Dossier nascosto”, video a cura di padre Jean-Marie Benjamin, 2001.

16 A. Zampaglione, Mossa a sorpresa di Saddam. Ispezioni nei siti presidenziali, in “La Repubblica”,

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aspettare che il ra’is mettesse le sue armi al servizio del terrorismo islamico. È passato alla storia il suo celebre discorso (poi rinnegato)17 al Consiglio di Sicurezza

delle Nazioni Unite del 5 febbraio 2003, nel quale, mostrando un campione di antrace, si disse sicuro del possesso iracheno delle armi non convenzionali e delle connessioni con i fondamentalisti.

Per Saddam il possesso delle armi più letali del mondo rimane l’ultima carta da giocare per realizzare il suo ambizioso progetto. Il dittatore iracheno è fermamente determinato a conservare le sue armi di distruzione di massa. Ma anche a fare di più. […] Abbiamo anche foto dal satellite che indicano che materiali vietati sono stati spostati di recente da numerose fabbriche irachene di armi per la distruzione di massa. […] É un tema legato al terrorismo. La nostra preoccupazione non trae origine soltanto da queste armi, ma anche dal modo con cui esse possono essere collegate ai terroristi e alle organizzazioni terroristiche, che non hanno alcuna remora ad usare questi strumenti contro gente innocente. Il legame tra Iraq e terrorismo risale a decenni fa. […] Quello che oggi voglio portare alla vostra attenzione è la connessione, forse ancora più sinistra, che esiste tra l’Iraq e la rete terrorista al-Qaeda, connessione che allea le organizzazioni terroristiche classiche ai moderni metodi di assassinio18.

A distanza di qualche mese, dopo la retromarcia di Powell, anche la Casa Bianca fu costretta ad ammettere l’errore19.

La tesi della forte connessione tra il regime di Saddam e le organizzazioni fondamentaliste islamiche fu la seconda grande accusa dei vertici americani nei confronti del ra’is.

L’accusa di collaborazione tra Saddam e la sigla terroristica di al-Qaida è risultata un controsenso sin dal principio per la differente concezione del potere tra i due soggetti. Difficile pensare che il dittatore, da sempre favorevole al laicismo (e che aveva combattuto una guerra di durata quasi decennale contro l’Iran khomeinista), avesse deciso di fornire le presunte armi di distruzione di massa ai suoi nemici ideologici. Il pensiero di al-Qaida è certamente poco compatibile con la repubblica irachena, che era infatti la più occidentalizzata delle società arabe con una Costituzione che garantiva la proprietà, il culto e la predicazione delle tre religioni

17 A.F. D’Arcais, Sull’Iraq non avevamo prove, in “La Repubblica”, 4 aprile 2004, p.10.

18 Il video integrale dell’intervento di Colin Powell è reperibile al link

https://www.youtube.com/watch?v=ErlDSJHRVMA.

19 Si può consultare il sito della Casa Bianca al link

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monoteiste e la presenza di circa 600.000 cristiani in Iraq (tra i quali Tareq Aziz, vice-ministro per più venti anni) lo confermava.

Secondo Scott Ritter:

Saddam è un dittatore laico. Ha passato più di trenta anni a dichiarare guerra al fondamentalismo islamico, facendolo a pezzi. Ha combattuto una guerra contro l’Iran in parte a causa del fondamentalismo islamico. In Iraq oggi sono in vigore leggi che sentenziano la pena di morte per il proselitismo in nome dello wahabismo, anzi per qualsiasi forma di islamismo, ma sono particolarmente accaniti nel loro odio dei wahabiti, che, si sa, è la religione di Osama bin Laden. È noto l’odio di Osama bin Laden nei confronti di Saddam Husayn. Lo ha chiamato apostata, un’accusa che implica la pena di morte20.

Negli Stati Uniti si crearono ben presto due distinti gruppi con opinioni divergenti sui presunti legami di Saddam: da un parte c’era il Pentagono e Colin Powell, che di volta in volta cercavano di convincere l’opinione pubblica di questa pericolosa alleanza; dall’altro c’era l’FBI che si dimostrava cauto e dichiarava che le prove nei confronti del ra’is non fossero poi così convincenti. Qualche anno dopo fu proprio il Federal Bureau Investigation a parlare di informazioni di dubbia qualità e credibilità: la definizione fu infatti quella di “inappropriate work”21, come riporta l’articolo di R.

Jeffrey Smith, pubblicato il 6 aprile 2007 sul “Washington Post”.

Anche la tesi secondo la quale ci sarebbero stati legami tra i vertici di Baghdad e gli attacchi alle Torri Gemelle è sembrata fin da subito inverosimile e non è mai stata confermata. I falchi americani (in particolare Donald Rumsfeld, segretario della difesa) hanno infatti insistito su quella che loro ritenevano la prova madre dei collegamenti tra la sigla terroristica e lo stato iracheno. Un presunto incontro a Praga il 9 aprile 2001 tra uno dei leader degli attentatori dell’11 settembre Mohammed Atta e un ufficiale dei servizi segreti iracheno (Ahmad Khalil Ibrahim Samir al Ani). In realtà, dopo poco tempo, la “Prague Connection” è stata smentita dai servizi segreti cechi, dall’FBI e dalla CIA, e a riprova di ciò la Commisione d’indagine sugli attentati dell’11 settembre dichiarò:

The FBI has gathered evidence indicatinh that Atta was in Virginia Beach on April 4 (as evidence by a bank surveillance camera photo), and in Coral Springs, Florida on April 11, where he and Shehhi

20 W.R. Pitt, op.cit., p.74.

21 R.J Smith, Hussein's Prewar Ties To Al-Qaeda Discounted, in “Washington Post”, 6 aprile 2007,

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leased an apartment. On April 6,9,10 and 11 Atta’s cellular telephone was used numerous times to call varous lodging estabilisment in Florida from cell sites within Florida. […] According to the Czech government, Ani, the Iraqi officer alleged to have met with Atta, was about 70 miles away from Prague on April 8–9 and did not return until the afternoon of the ninth, while the source was firm that the sighting occurred at 11:00 A.M. When questioned about the reported April 2001 meeting,Ani— now in custody—has denied ever meeting or having any contact with Atta22.

Oltre a queste due motivazioni, Bush ne rivelò una terza, ovvero l’obbiettivo di abbattere un regime tirannico per esportare la libertà e la democrazia nel martoriato paese. Anche questa giustificazione dell’intervento armato provocò numerose polemiche. Come poter “esportare” l’idea democratica in un paese che ha sempre contrapposto, anche ferocemente, le tre comunità maggioritarie? Come mettere d’accordo le tre zone che dal 1921 si combattevano l’una con l’altra?

Ciò che si andava prospettando per il destino dello stato iracheno era un modello euro-atlantico lontano anni luce dalla cultura e dai modelli-socioculturali.

Il modello democratico occidentale, scoperchiando il vaso di pandora iracheno, avrebbe infatti premiato e messo al potere la forte comunità sciita del sud (circa il 60% della popolazione)23, che si sarebbe potuta avvicinare all’Iran creando di fatto

una sempre più ampia fascia di territorio contro gli interessi americani. I sunniti (pur essendo una minoranza), avevano da tempo monopolizzato il potere e difficilmente avrebbero deciso di rinunciarvi pacificamente mentre i curdi (circa il 20% della popolazione) avrebbero puntato ad un’ampia autonomia amministrativa o all’indipendenza, frantumando definitivamente il paese.

Sotto questo punto di vista le parole di Massimo Fini su quello che sarebbe potuto accadere con questo attacco sono sembrate quasi premonitrici:

Si arriverà quindi a una guerra di tutti contro tutti di cui stiamo assistendo ai prodromi: sunniti contro sciiti, sunniti e sciiti contro gli occupanti, frange sciite e frange sunnite alleate contro altre frange sciite e sunnite, turcomanni contro curdi […] e il motivo etnico e nazionalista prevarrà su tutto. Insomma la guerra civile e la libanizzazione dell’Iraq24.

La dittatura di Saddam Husayn, per quanto feroce, era da tempo un argine e un equilibrio contro l’anarchia nel paese. La destituzione violenta del ra’is avrebbe

22 National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, Final Report, pp. 228-229.

http://govinfo.library.unt.edu/911/report/911Report.pdf.

23 A. Vanzan, op.cit., p.100.

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quindi probabilmente portato ad un vuoto di potere nel quale ogni comunità avrebbe cercato di prevalere sull’altra in uno scenario di guerra civile senza tregua.

A livello teorico poi la democrazia difficilmente può funzionare con l’imposizione di un governo di un altro stato, per di più senza nessuna legittimazione internazionale. La democrazia è soprattutto un fattore endogeno che può avvenire o dall’alto grazie ad una democratizzazione guidata delle élites politiche oppure da processi che provengono dal basso, dalla popolazione. I mezzi violenti delle guerra, nonostante le bombe intelligenti e le operazioni chirurgiche di cui parlavano i vertici americani, avrebbero di sicuro coinvolto i cittadini che (come poi sarebbe successo) avrebbero visto i potenziali liberatori più come nemici che come alleati.

Oltre a queste tre motivazioni ufficiali con cui gli Stati Uniti giustificarono l’invasione dell’Iraq, nel corso del tempo sono state fatte una serie di ipotesi sui reali obbiettivi di questa politica estera così aggressiva nei confronti del regime di Saddam.

La prima ha riguardato il bene più prezioso dello stato iracheno: il petrolio. Nelle manifestazioni americane che precedettero l’inizio della guerra, si videro spesso cartelli con il motivo “No alla guerra del petrolio”. Molti sono infatti gli intellettuali e le persone comuni che credevano che un ruolo fondamentale nella decisione USA era da ricondurre alle immense riserve di oro nero dello stato mediorientale. Stando ad un sondaggio pubblicato il 5 dicembre 2002 dal “New York Times” 25 circa il

22% degli americani riteneva che il petrolio fosse il motivo principale delle decisioni guerrafondaie delle élites americane ed anche in Europa era questa la tesi più accreditata tra quelle che possono rientrare nelle “motivazioni ufficiose”. In Italia, ad esempio, nell’interessante libro-inchiesta scritto da Umberto Rapetto e Roberto di Nunzio, che chiamava in causa i pareri di importanti giornalisti, scrittori, direttori di testate, opinionisti e politici, quella del greggio fu la risposta più utilizzata sulle reali motivazioni della guerra in Iraq26.

Lo stato mediorientale disponeva di 112 miliardi di barili ovvero circa 15 miliardi di tonnellate che corrispondeva a circa il 10,8% delle riserve mondiali; il territorio iracheno era però in parte inesplorato e le risorse potevano aumentare cospicuamente fino ad arrivare a 300 miliardi di barili, facendo dell’Iraq il paese che, oltre ad avere

25 Sondaggio effettuato in 27 paesi. Cfr. "A Rising Anti-American Tide", International Herald

Tribune, Parigi, 5 dicembre 2002.

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il greggio da raffinare tra i meno cari al mondo, deteneva un quarto di tutte le riserve di mondiali di oro nero27.

La cronica fame di petrolio dei paesi occidentali e degli Stati Uniti in particolare era nota ormai da tempo: secondo il documento “Le sfide energetiche per il XXI secolo”28, reso noto nel 2000 da un gruppo di ricerca guidato dall’ex segretario James

Baker, il mondo era pericolosamente vicino allo sfruttamento massimo delle sue risorse con una dipendenza sempre più marcata nei confronti dei paesi arabi. In questo quadro l’Iraq rappresentava un elemento fondamentale per la soluzione del problema «costituendo un vero e proprio regno del petrolio in cui la loro influenza sarà preponderante nei paesi intorno al Mar Caspio e nel Golfo»29.

Tutto ciò è ancora più comprensibile se si analizza la posizione del grande dell’altro gigante petrolifero nell’area: l’Arabia Saudita. Questo paese forniva infatti il 17% del fabbisogno americano di greggio e, possedendo circa il 25% delle riserve mondiali, con le sue decisioni di aumentare o diminuire la produzione influiva direttamente sui profitti delle compagnie petrolifere americane.

Il paese del regno dei Saud era da tempo un fedele alleato degli Stati Uniti, ma gli eventi del settembre 2001 (quindici dei diciannove attentatori erano di nazionalità saudita) avevano dimostrato tutta la fragilità dello stato e incrinato il rapporto tra i due paesi: Osama bin Laden era un eroe nazionale e il fondamentalismo minava un sistema politico arcaico che rischiava di implodere in poco tempo. Gli statunitensi potevano raggiungere due obbiettivi: instaurare un regime clientelare a Baghdad, con la prospettiva di avere molta più influenza sul prezzo del greggio a discapito dell’OPEC, di cui l’Arabia è uno dei membri più importanti30, e assicurare contratti

estremamente vantaggiosi alle proprie multinazionali che avrebbero registrato incassi miliardari.

Oltre alla questione petrolio sembra che altre implicazioni, come quelle di carattere geopolitico, siano state decisive nella decisione statunitense di dichiarare guerra al ra’is.

Come detto, il paese saudita non era più affidabile come un tempo ed era visto come un paese potenzialmente ostile che forniva aiuti all’islam integralista ed ortodosso; un Iraq senza Saddam, con la sua strategica posizione al centro dell’area del Medio

27 Ivi, pag.74.

28 Il documento è rintracciabile al link

http://www.cfr.org/energy-policy/strategic-energy-policy-challenges-21st-century/p3942.

29 L. Gruber, I miei giorni a Baghdad, Milano, RCS Libri, 2003, p.106. 30 N. Solomon, R. Erlich, Bersaglio Iraq, Rizzoli Editore, Milano, 2003, p.153.

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Oriente, poteva essere considerata l’alternativa più soddisfacente al regno dei Saud. Il riequilibrio del Medio Oriente e l’importanza di un Iraq laico come nuovo “cavallo di troia” nel centro della regione era di fondamentale importanza per poter avere mano libera e imporre la propria forza in una della regioni più complicate dell’intero globo.

Contemporaneamente, l’invasione e la tutela del paese sarebbe stata una vittoria di enorme proporzione per Israele e per i neoconservatori americani che appoggiano incondizionatamente la nazione ebraica.

Saddam, durante la Guerra del Golfo del 1990-1991, aveva risposto ai bombardamenti americani lanciando decine di missili SCUD sullo stato ebraico. La mossa, in realtà più strategica che ideologica (mettere in difficoltà i paesi arabi facenti parte dell’alleanza), non ebbe a quei tempi la risposta militare, ma creò un precedente che Israele non aveva dimenticato. Come se non bastasse il regime, fin dall’inizio dell’Intifada del 2000, aveva aiutato economicamente i palestinesi versando milioni di dollari alle famiglie di coloro che erano morti (anche per attentati suicidi). La destra israeliana sperava che la caduta del ra’is accelerasse l’estromissione di Arafat e la nascita di un governo palestinese più morbido. Inoltre, con la caduta del regime, due nazioni dell’area ostili ad Israele si sarebbero travate in seria difficoltà perché circondati da stati filo-americani: la Siria stretta tra Iraq, Turchia, Israele, Giordania e Arabia Saudita; l’Iran dallo stato iracheno, dalla Turchia, dagli stati del Golfo, dal Pakistan e dall’Afghanistan da poco sotto tutela americana31.

L’ultima implicazione riguarda ciò che è già stato analizzato, ovvero l’impegno e la promessa di Bush di combattere una guerra di durata indefinita tra il bene e il male (identificato nei talebani e in Saddam) per poter assicurare pace e tranquillità ai propri cittadini dopo i fantasmi post 11 settembre: Bush autoproclamò se stesso come l’argine ad una guerra totale che poteva essere evitata soltanto con la forte presa di posizione della nazione più potente del mondo.

Oltre a ciò, fedele alla linea dei neoconservatori, Bush e la sua cerchia volevano sfruttare questo momento favorevole (dopo la caduta dell’Unione Sovietica erano l’unico paese in tutto il mondo che poteva, e può, prendere le decisioni unilateralmente) per rafforzare la loro potenza militare. Dall’inizio della guerra in Afghanistan gli Stati Uniti avevano aperto – o progettavano di aprire – nuove basi in

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Qatar, Yemen, Giordania e Gibuti, ampliando quelle già esistenti in Arabia Saudita, Kuwait, Oman e Bahrein32.

Queste sono quindi i motivi della guerra: da una parte le motivazioni ufficiali riguardanti il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e la democratizzazione dell’Iraq per cacciare il demone Husayn; dall’altra tutta una serie di motivazioni “ufficiose” (considerate attendibili da numerosi intellettuali) riguardanti i vantaggi geopolitici e militari, la fame di petrolio, il rafforzamento di Israele e la promessa di sicurezza fatta da Bush davanti al proprio paese.

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3.2 Cronologia ed avvenimenti della guerra convenzionale

La Casa Bianca aveva deciso ormai da tempo che il ra’is Saddam Husayn dovesse essere destituito e il paese politicamente riorganizzato in una democrazia. Ciò andava però messo in pratica il prima possibile, poiché Bush aveva un grande sostegno popolare (secondo un sondaggio il 71% degli americani erano a favore della guerra e il 72% riteneva sufficienti gli sforzi compiuti per ottenere il sostegno di altri paesi all’intervento militare)33 che con il tempo rischiava però di affievolirsi.

Il presidente USA, timoroso di trovare problemi in seno al Consiglio di Sicurezza Onu, si era cautelato in settembre facendo votare al Congresso l’autorizzazione a ricorrere alla forza. Al Senato erano stati 77 i voti favorevoli contro 23 contrari mentre alla Camera i si erano stati 296 (e 133 i no)34. Le preoccupazioni di Bush

erano fondate poiché tra febbraio e marzo si tenne una dura contrapposizione diplomatica tra Stati Uniti e Gran Bretagna da una parte e Francia, Germania, Cina e Russia dall’altra; questi ultimi paesi erano infatti convinti che senza l’autorizzazione dell’Onu ad intervenire gli americani stessero infrangendo le regole del diritto internazionale. Tra l’altro, la decisione americana di proseguire per la propria strada aprì una serie di incomprensioni anche a livello europeo: da una parte c’era la già citata Gran Bretagna con Italia, Spagna e i paesi dell’est europeo appena entrati nella NATO, dall’altro i contrari rappresentati da Francia, Germania e Belgio. Preoccupati dalla minaccia del veto francese e russo i vertici americani decisero quindi di ritirare la proposta di risoluzione che autorizzava l’utilizzo della forza e di continuare il processo senza l’avallo dell’organizzazione.

Che l’avvicinamento alla guerra sarebbe stato difficile Bush lo aveva sempre creduto, ma probabilmente non fino a questo punto. Precedentemente aveva infatti già dovuto subire uno smacco clamoroso poichè la Turchia, fedele alleato (membro della Nato e candidato all’Unione Europea), aveva incredibilmente negato il dispiegamento di truppe americane nel proprio territorio impedendo l’ipotetica apertura di un fronte nord del conflitto35.

Nei giorni precedenti all’attacco il presidente americano decise di convocare un ultimo summit (vertice delle isole Azzorre) il 16 marzo con Tony Blair ed il Primo

33 L.Gruber, op.cit., p.119.

34 Il testo originale è reperibile al link https://www.govtrack.us/congress/bills/107/hjres114/text. 35 D. Filkins, Threats and responses: Ankara, turkish deputies refuse to accept american troops, in

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ministro spagnolo José Marìa Aznar per porre le basi per l’inizio dell’azione militare contro Saddam: l’obbiettivo era una collaborazione militare per liberare il paese e aiutare i suoi cittadini a costruire un nuovo Iraq unitario e rispettoso delle diverse anime lo costituivano.

Per fare ciò si costituì quella che venne definita da Bush la “Coalition of willing” (la coalizione dei volenterosi): 45 paesi estremamente eterogenei (dall’Italia alla Colombia, dalla Turchia all’Albania, dalla Spagna ell’Estonia) avrebbero inviato contingenti importanti o simbolici (meno di 1.000 unità con l’obbiettivo di aiutare la leadership americana in questa avventura)36.

Il 17 marzo Bush dette a Saddam un ultimatum di due giorni alla scadenza del quale iniziò l’attacco dell’esercito USA.

Lo squilibrio delle forze in campo tra la coalizione e i militari iracheni era simile a quello del 1991, probabilmente più profondo. L’esercito era infatti composto da circa 400.000 uomini poco motivati a combattere, che ai primi attacchi americani si volatilizzarono. In seguito alle ispezioni Onu era stato completamente cancellato il potenziale bellico iracheno; oltre alle armi nucleari, biologiche e batteriologiche erano stati imposti limiti a Saddam anche per ciò che riguardava i missili balistici con gittata superiore a 150 km (gli Scud B), vero punto di forza dell’ex potenza mediorientale. In più gli iracheni non avevano più potuto acquistare strumenti ad alta tecnologia (radar, comunicazione e ricognizione) che limitavano la difesa e le postazioni di difesa erano state eliminate in modo sistematico durante tutti gli anni Novanta37. Nonostante l’impressionante superiorità numerica dell’esercito iracheno,

l’armamento, la preparazione e la catena di comando erano completamente allo sbando e ben poco poteva fare anche l’élite della Guardia Repubblicana. Lo strapotere tecnologico degli americani era spaventoso.

Gli Stati Uniti si presentavano con una strategia diversa (ma non per questo meno efficace) rispetto all’ultima guerra condotta contro il ra’is. Il piano si rifaceva al

Revolution in Military Affairs (RMA), una riflessione su un nuovo modo di condurre

la guerra che si stava affermando nel paese americano. Le indicazioni che provenivano da ciò erano le seguenti: «preminenza della velocità, forze più leggere, catena di comando flessibile, simultaneità, forze ridotte, grosso lavoro di intelligence

36 Per una lista completa della coalizione, i numeri e le possibili motivazioni della partecipazione si

può vedere il lavoro del prof. Bruce Lusignan, professore della Stanford University (California) reperibile al link http://web.stanford.edu/class/e297a/The%20Coalition%20of%20the%20Willing.htm.

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e utilizzo in larga scala di bombe intelligenti»38. Se nel primo conflitto erano stati

impiegati 500.000 uomini, nella guerra del 2003 le truppe erano circa la metà mentre l’utilizzo bombe di precisione salì dal 7 al 68%39.

Nonostante la riduzione numerica dei soldati in favore di una maggior velocità e precisione gli Stati Uniti mantenevano comunque una forza d’urto spaventosa. In Arabia Saudita, in Oman e nell’Oceano Indiano gli USA schierarono centinaia di aerei da combattimento mentre circa 100 navi da guerra erano schierate nel Golfo e nel Mediterraneo; reparti terrestri erano invece già pronti in Kuwait, Bahrein, negli Emirati Arabi Uniti, in Giordania e a Gibuti.

Secondo il generale statunitense Franks che avrebbe condotto le operazioni, l’attacco terrestre e quello aereo dovevano iniziare contemporaneamente. Le principali direttrici erano tre e provenivano tutte dal Kuwait: il V corpo avrebbe costeggiato l’Eufrate dalla parte occidentale passando da Najaf e Karbala per poi attraversare il fiume nei pressi della capitale (per attaccarla da ovest); i marines si sarebbero recati a Nassiriya attraversando prima l’Eufrate e poi il Tigri (nei pressi di al-Kut) per attaccare Baghdad dalla parte opposta; gli inglesi si sarebbero fermati a Umm Qasr e Bassora (vicinissimi al confine con il Kuwait) coprendo l’avanzata del resto delle truppe. Una direttrice secondaria sarebbe stata nell’estremo nord, dove la brigata aviotrasportata e le forze speciali si sarebbero recate a Mosul e Kirkuk40.

La guerra convenzionale iniziò il 20 marzo alle 5.30 circa con l’attacco dell’aviazione e la penetrazione a terra di forze speciali in diverse parti del paese (seguendo le tre direttrici); da parte dell’esercito iracheno ci fu invece una parziale difesa con missili lanciati verso le truppe americane di stanza in Kuwait. Già nella tarda mattina Saddam Husayn faceva capolino in televisione per muovere un appello al popolo a resistere, equiparando gli Stati Uniti al diavolo. La sera, alle 23.30 circa, un nuovo pesante bombardamento nel centro di Baghdad diretto ai ministeri e ai palazzi presidenziali nei quali si credeva che si stesse rifugiando il ra’is.

La debole contraerea irachena, cieca per la mancanza di radar, subiva per tre giorni pesanti bombardamenti nella capitale (la maggior parte) e al nord. A Baghdad, Tikrit, Mosul e Kirkuk nella sola giornata del 22 marzo vennero portate a termine più di mille missioni dai cieli che produssero un numero imprecisato di morti. Nelle

38 A. Beccaro, op.cit., p.24. 39 Ivi, p.30.

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stesse ore gli americani riuscivano ad occupare due aeroporti ad ovest entrando dall’Arabia Saudita.

Se gli iracheni non potevano reagire agli attacchi dal cielo, stessa cosa non si poteva certo dire per quanto riguarda l’attacco terrestre. È vero che l’offensiva era stata impressionante (aveva già portato in due giorni ad una penetrazione paragonabile a quella definitiva della guerra del 1991), ma i soldati iracheni non stavano facendo altro che aspettare gli americani nelle città.

Una volta arrivati a Nassiriya gli americani vennero attaccati con raffiche di mitragliatrice; una gruppo poco addestrato sbagliò ad interpretare il Gps sbagliando strada per ritrovarsi pesantemente attaccati ( su 30 soldati, 11 furono uccisi e 9 catturati). La battaglia di Nassiriya, che andò avanti fino al 2 aprile, fu il primo segnale di ciò che si sarebbe scatenato di lì a pochi mesi.

Le stesse difficoltà incontrate a Nassiriya si stavano verificando nelle altre due città che erano state attaccate, cioè Umm Qasr e Bassora. Umm Qasr era una città portuale di grande importanza perché permetteva uno sbocco sul Golfo e fu infatti uno dei primi obbiettivi della coalizione. L’attacco venne sferrato da inglesi e polacchi che dovettero combattere casa per casa per ben cinque giorni prima di avere la meglio di una inaspettata resistenza portata avanti dagli autoctoni. A Bassora sempre gli inglesi avevano incontrato gravi difficoltà, ma, dopo qualche giorno di cruenti combattimenti, erano riusciti a vincere le resistenze irachene catturando numerosi soldati fedeli al ra’is.

Tuttavia, come già accennato, l’avanzata da sud verso nord era stata rallentata dalla tenace resistenza a Nassiriya e da una tempesta di sabbia, che iniziò il 25 marzo rallentando di molto le operazioni sul campo.

Questi giorni di stallo nel sud del paese furono l’occasione per un primo bilancio che, sebbene nascosto all’opinione pubblica, non era per niente confortante. Le principali critiche che vennero avanzate furono due: l’errata previsione che il regime sarebbe crollato dopo pochi giorni e l’estrema leggerezza delle forze militari. L’offensiva era giunta ad un buon punto ma tutto si poteva dire tranne che gli iracheni non stessero opponendo resistenza, poiché focolai di rivolta popolare erano presenti in tutte le città attaccate e la Guardia Repubblicana non sembrava volersi arrendere prima di aver provato a fermare l’azione degli eserciti della coalizione.

Il 26 marzo si aprì il fronte nord con circa 1.000 paracadutisti che atterrarono a Bashur, vicino Erbil, dove i soldati, che si unirono ai peshmerga curdi, dovevano

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occuparsi dell’aeroporto locale per permettere l’atterraggio di degli aerei con circa 2.000 uomini e 400 mezzi41.

Il generale Franks, diminuita l’intensità della tempesta, decise che era giunto il momento di proseguire verso la capitale Baghdad e in pochi giorni sferrò un attacco in altre due importanti città, Najaf e Karbala. A Najaf, importante città sacra del mondo sciita, erano schierati numerosi uomini e mezzi pesanti iracheni che costrinsero gli americani in una accanita battaglia. Questo fu lo scontro più pesante nella prima settimana di guerra, tanto che si contarono in una settimana (fino al 3 aprile, quando la città venne dichiarata conquistata) circa 1.000 morti42.

A Karbala, a circa 100 km da Baghdad, ci fu invece il primo vero scontro tra la Guardia Repubblicana e l’esercito della coalizione. Lo scontro che si tenne tra le tre divisioni del corpo di élite iracheno (Baghdad, Medina e Hammurabi) fu molto cruento e venne preceduto da pesanti bombardamenti da parte americana. Centinaia di appartenenti al corpo iracheno furono uccisi, mentre molti altri furono catturati. Il numero ridotto di combattenti iracheni permise ai combattenti della coalizione di occupare un’ampia fascia di territorio intorno alla città e ciò fu fondamentale per due motivi: da un lato dette la possibilità di attaccare da ovest (la zona sud era densamente abitata e sarebbe stato difficile bonificarla per intero), dall’altro permise alle altre truppe di passare indenni accanto alla città per continuare a dirigersi verso la capitale, vero obbiettivo dell’intera operazione.

Tra l’1 ed il 4 aprile si svolsero i combattimenti determinanti per poter entrare nella capitale: a dieci giorni dall’inizio della guerra il risultato sembrava ormai deciso. A sud di Baghdad gli americani stavano impartendo dure sconfitte alle sacche di resistenza irachene: ad al-Kut, sul fronte orientale, si erano confrontati con la Guardia Repubblicana (sezione Baghdad), riuscendo a conquistare il ponte che attraversava il Tigri per consentire il passaggio di migliaia tra uomini e mezzi; a Najaf si stavano invece concludendo le operazioni di accerchiamento. A Nassiriya l’aviazione appoggiava le azioni delle forze speciali (segno che le aree lasciate indietro rappresentavano comunque delle incognite) mentre ad Hillah, città tra al-Kut e Karbala, furono rinvenuti due missili al-Samoud II, una delle poche scoperte di materiale bellico di una certa consistenza. Al nord invece entravano in azione le forze speciali per bloccare tutti i movimenti tra Tikrit e Baghdad.

41 Ivi, p.49.

42 S. L. Myers, Tank e corpi speciali per fermare i marines, in “La Repubblica”, 25 marzo 2003,

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Tra il 3 ed il 4 aprile iniziò la battaglia per prendere il controllo della capitale. Le direttrici dell’attacco furono due: da ovest ci si preparava all’attacco per riuscire ad espugnare l’aeroporto internazionale, mentre da sud una divisione dei marine (che aveva conquistato il giorno prima un ponte sul Tigri) doveva accerchiare la zona sud della città. Il 5 l’aeroporto internazionale a ovest era totalmente sotto controllo degli americani: ciò semplificò di molto il compito delle divisioni perché permise lo sbarco continuo delle truppe poco fuori la città.

Lo stesso giorno iniziò l’ Operazione thunder run43 da parte delle truppe ammassate

a sud. Queste dovevano fare una prima puntata all’interno di Baghdad toccando i palazzi del regime per uscire dalla città ad ovest, ricongiungendosi con le forze stanziate all’aeroporto internazionale44.

Con queste due fondamentali operazioni, aiutate dall’incessante martellamento aereo, la capitale venne circondata su tutti e quattro i lati in due giorni. Il 7 le truppe (dopo aver diviso la città in zone) iniziarono la penetrazione in città. Nonostante le sporadiche resistente di qualche feddayn i temuti combattimenti casa per casa non ci furono e già il 9 aprile, dopo solo quattro giorni dall’inizio dei combattimenti, i militari americani erano padroni della maggior parte del territorio della capitale. Lo stesso giorno ci fu l’episodio simbolo di tutta la guerra: nel centro cittadino una squadra di marines con l’aiuto della popolazione locale abbattè la statua di Saddam, segnando simbolicamente la fine del potere di Saddam. A Baghdad, come nel resto del paese (il 6 gli inglesi erano entrati nel centro di Bassora, l’11 i peshmerga curdi con l’aiuto degli americani avevano conquistato Kirkuk), le forze della coalizione avevano il pieno controllo della situazione e la guerra si poteva dire ormai conclusa. Questi giorni di estrema incertezza certificarono i primi problemi di controllo del territorio che si paleseranno negli anni seguenti. Nella capitale, priva di acqua corrente, energia elettrica e linee telefoniche iniziarono numerosi saccheggi da parte della popolazione degli edifici pubblici, dei musei, delle biblioteche e di tutto ciò che capitasse a tiro. La folla (la maggior parte proveniente dai sobborghi più poveri della capitale) attaccò qualsiasi simbolo del potere di Saddam: le sedi del partito, le stazioni di polizia e i ministeri venivano spogliati di tutto ciò che aveva valore per poi essere dati alle fiamme. Il caos e l’anarchia, incoraggiati dalla passività

43 W. Murray, R. Scales, The Iraq war, a military history, Harvard, Harvard University Press, 2005,

pp.209-215.

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americana, durarono diversi giorni e iniziarono a scemare a partire dal 17 aprile (erano iniziati con la caduta della statua del ra’is).

L’1 maggio il presidente degli Stati Uniti George W. Bush pronunciava la fine della guerra a bordo della portaerei Abrahm Lincoln. Il conflitto convenzionale, costato la vita a 108 persone della coalizione e tra i 10.000 e 20.000 iracheni (di cui circa 5.000 civili)45 era terminato. La fase più delicata era la ricostruzione politica di uno stato

così difficile ed eterogeneo come quello iracheno.

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3.3 Dalla fine della guerra convenzionale al “Surge”

Dopo la vittoria della coalizione seguì un lento ed inesorabile deterioramento della situazione che fece piombare il paese nel caos. Conclusa la guerra convenzionale, il conflitto si ripresentò infatti a livello interno tra una pluralità di attori che avevano ciascuno il proprio obbiettivo e le proprie strategie per raggiungerlo. Gli errori americani sulla gestione del dopoguerra furono lampanti: si sottostimarono i costi umani ed economici; si sovrastimarono le possibilità di coinvolgimento degli altri paesi; si cercò di riformare in un breve lasso di tempo una società che aveva pesanti problemi di convivenza tra le varie realtà; non si disarmarono le milizie; non si crearono da subito delle forze regolari in grado di far fronte ai preventivabili contrasti che sarebbero sorti.

La prima mossa ufficiale degli Stati Uniti fu quella di istituire il 12 maggio la CPA (Coalition Provisional Authority) con a capo Paul Bremer (ex capo del controterrorismo al Dipartimento di stato), che aveva il compito di fornire il supporto per la creazione di un nuovo governo iracheno. Il paese fu poi diviso in tre aree di responsabilità: americana, inglese e polacca.

Tuttavia, come sarebbe stato ampiamente pronosticabile, la società si spaccò in più parti, creando dei veri e propri gruppi di insorti che crearono un clima di ostilità all’interno del paese. I due gruppi erano ovviamente sunniti e sciiti, che peraltro non erano neanche omogenei al loro interno. Tra i sunniti (che erano una minoranza abituata a detenere il potere nello stato) esistevano i nazionalisti e gli islamici, tra i quali il gruppo più attivo era quello di Qaida e del pericoloso capo Omar al-Zarqawi; gli sciiti avevano invece le milizie dell’ “Organizzazione Badr”(influenzata dall’Iran) e dell’ “Esercito del Mahdi”. C’erano poi i curdi che avrebbero cercato di trarre vantaggio da questo stato di incertezza cercando di costituire il nucleo di un futuro stato indipendente.

Il grave errore degli USA fu il non aver capito la complessità della società irachena, dichiarando guerra al paese troppo frettolosamente, senza un preciso piano di ricostruzione. Questo divenne immediatamente palese quando Bremer prese delle decisioni sbagliate che avrebbero condizionato negativamente gli anni a seguire. La prima fu quella del 16 maggio, la de-baathificazione della società con il “Coalition

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Provisional Authorithy Order”46. L’obbiettivo era quello di decapitare la leadership

del partito che comandava da sempre in Iraq e dimostrare che il Baath era morto e sepolto. Questo però significò eliminare di colpo circa 85.000 funzionari (burocrati, funzionari, docenti ecc..) di alta cultura, creando un danno che a lungo termine avrebbe fatto sentire la sua pesantezza. L’errore ancor più grave venne però fatto con il “2° Coalition Provisional Authorithy Order”47, che smantellò tutte le forze di

sicurezza irachene (polizia, esercito, servizi segreti). L’esercito, l’unica forza teoricamente in grado di assicurare l’unità all’interno del paese, fu azzerato. Centinaia di migliaia di persone (armate ed addestrate) rimasero disoccupate ed andarono a rinforzare le file degli scontenti del nuovo corso, unendosi ai rivoltosi che nei mesi a seguire si sarebbero contesi il potere a colpi di bombe ed attentati.

Il 13 luglio venne costituito il Cig (Consiglio interinale di governo) , un’istituzione di 25 membri scelti tra sunniti e sciiti con una struttura di presidente a turno, che aveva il compito di scrivere la nuova Costituzione, mentre il potere rimaneva saldamente in mano a Bremer, aumentando il malessere degli iracheni nei confronti degli americani.

L’insofferenza si certificò con i fatti di agosto. In realtà le bombe e gli attacchi di sunniti e sciiti andavano avanti dalla fine della guerra convenzionale, ma fu a partire da questo mese che la situazione peggiorò rapidamente. Il 7 agosto ci fu un esplosione all’ambasciata siriana che provocò la morte di 17 persone, il 19 un camion bomba uccise più di 20 persone (compreso il segretario Onu Sergio Vieira de Mello) 48, mentre il 29 una bomba nei pressi di una moschea sciita a Najaf uccise un

centinaio di fedeli. A novembre altri due attentati scossero la coalizione: il 2 alcuni insorti uccisero 16 militari USA, abbattendo un elicottero, mentre il 12 ci fu l’attacco a Nassiriya che causò la morte di 18 italiani.

Il 13 dicembre invece venne catturato Saddam Husayn nei pressi di Tikrit. Si pensava che con questo arresto le cose potessero migliorare, dato che si credeva che il regista di questi scontri fosse ancora l’ex dittatore, ma le cose non andarono così. Il 2004 iniziò infatti come era finito l’anno precedente visto che numerose esplosioni e attentati interreligiosi e azioni contro i militari stranieri si susseguirono49. Sunniti e

46 J. Dobbins, S.G Jones, B. Runkle, Occupying Iraq: A History of the Coalition Provisional

Authority, Pittsburgh, Rand Corporation, 2009, pp.112-119.

47 Ivi, pp.52-61.

48 M. Ponte, Bagdad, attacco all’Onu, in “La Repubblica”, 20 agosto 2003, pp.2-3.

49 I più gravi furono un attacco davanti agli uffici dei partiti curdi il 1° febbraio che provocarono la

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sciiti iniziarono due rivolte contro gli invasori che provocano diversi morti tra le forze della coalizione.

L’insurrezione sciita iniziò in marzo quando il comportamento sempre più aggressivo della milizia Mahdi portò alla decisione americana di chiudere il giornale e dichiarare fuorilegge il suo leader. La risposta non si fece attendere: gli sciiti decisero di combattere per riprendersi le città, tenendo impegnate per diversi mesi le truppe occidentali a Najaf, Nassiriya, Karbala e Sadr City. Soltanto a fine agosto si arrivò ad un accordo sul cessate il fuoco.

Per quanto riguarda la rivolta sunnita, il fatto scatenante fu l’uccisione di quattro contractors americani avvenuti a Falluja il 31 marzo, che furono assassinati ed i loro cadaveri appesi ad un ponte della città causando la reazione americana che bombardò pesantemente la città per due settimane. Tuttavia, a causa di forti pressioni politiche, la rivalsa americana si fermò. Negli Stati Uniti c’erano le elezioni presidenziali e Bush non poteva permettersi di prendere una decisione così dura a ridosso della tornata elettorale. Finite le elezioni l’operazione potè iniziare. Phantom fury fu violentissima: i marines rastrellarono casa per casa uccidendo un numero indefinito di persone, spesso senza capire se questi fossero civili o rivoltosi. Si contarono circa 2.000 uccisi e 1.200 catturati50.

Il rapporto tra gli iracheni e le truppe occidentali era peggiorato decisamente anche in virtù della pubblicazione di foto sconcertanti che documentavano il maltrattamento dei prigionieri della prigione di Abu Ghraib51 da parte dei militari americani. I

soldati. come poi venne appurato, torturavano i carcerati in modo sistematico allo scopo di ottenere informazioni o, peggio, per puro divertimento.

Tuttavia, nonostante tutto quello che stava accadendo, nel 2004 si registrarono anche i primi passi politici del nuovo stato. L’8 marzo il Consiglio interinale di governo sottoscrisse una Costituzione provvisoria, mentre il 28 giugno avvenne il passaggio di consegne tra la coalizione ed il nuovo governo iracheno, composto inizialmente da uomini esiliati dal regime di Saddam. La Costituzione prevedeva che il paese sarebbe dovuto diventare uno stato repubblicano, federale e democratico, mentre le istituzioni erano rappresentate dall’Assemblea Nazionale, il presidente del Consiglio, il Consiglio dei Ministri e l’autorità giudiziaria. Come presidente della repubblica

50 A.Beccaro, op.cit., p.81.

51 J. Ballard, From Storm to Freedom: America's Long War with Iraq, Annapolis, Naval Institute

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venne scelto Ghazi al Yawar, mentre Iyad Allawi (neurologo sciita con legami con la Cia) fu nominato Primo ministro.

Nel gennaio 2005 si svolsero le prime elezioni libere del dopo Saddam, con la speranza che queste fossero un passaggio importante verso la normalizzazione del paese. In realtà, ancora una volta, queste dimostrarono l’impossibilità di vedere l’Iraq come un paese unito che cercava di superare questo disordine politico-sociale che andava avanti da molto tempo. Tra l’altro, queste erano solo il primo passo di un percorso che aveva tre scadenze: entro il 15 agosto doveva essere eletta un’assemblea per redigere una nuova Costituzione, entro il 15 ottobre questa doveva essere approvata ed entro il 15 dicembre si sarebbero dovute tenere altre elezioni per formare un nuovo governo.

Tornando ai risultati elettorali del gennaio, gli sciiti fecero valere la loro maggioranza numerica, ottenendo un’importante vittoria mentre i sunniti boicottarono l’evento. Su 275 seggi l’ Alleanza Unita Irachena (sciita) ottenne 140 seggi, l’Alleanza Curda (Pdk e Ukp) 75 e la Lista Irachena (anch’essa sciita) 4052. Il

curdo Talabani venne designato presidente, l’arabo sciita Jaafari primo ministro53.

Rispettando pienamente i termini che erano stati delineati, il 13 settembre venne presentata la Costituzione mentre il 18 venne approvata. Il referendum popolare si svolse regolarmente il 15 ottobre e vide la vittoria dei si (con il 78% dei voti) con una buona partecipazione del popolo (63%)54. I sunniti si astennero con forza dal voto e

contestarono duramente la neonata carta costituzionale, che secondo loro istituiva un federalismo che avrebbe frantumato il paese perché avrebbe lasciato le loro province isolate senza la possibilità di partecipare alle decisioni.

Il processo istituzionale arrivò a compimento il 15 dicembre 2005, quando si tennero le elezioni parlamentari. L’affluenza fu molto alta, circa il 70%, ed i risultati furono i seguenti: l’Alleanza Unita irachena di al-Hakim ed al-Maliki ottenne ben 128 seggi (circa il 40% dei voti), l’Alleanza Curda di Barzani e Talabani 53 (21%) e il Fronte

per l’Accordo Iracheno di Hamid (formato dai sunniti pentiti di aver boicottato il

processo per creare la Costituzione) 44 (superando il 15%)55. Per capire quanto la

polarizzazione etnica e confessionale piuttosto che i programmi avessero influito sulle decisioni di voto basta vedere le cifre del partito Lista Irachena Nazionale

52 T. Abdullah, Dictatorship, Imperialism and Chaos. Iraq since 1989, London, Zed Books Ltd, 2006,

p.111.

53 A. Beccaro, op.cit., p.86. 54 G. Mammarella, op.cit., p.118. 55 T. Abdullah, op.cit., p.111.

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dell’ex primo ministro ad interim Allawi. Questo l’unico partito che aveva provato a superare le divisioni, provando a riunire più anime (leader sunniti, il Partito Comunista Iracheno, il Raggruppamento Repubblicano Iracheno e altri partiti sciiti, sunniti e turcomanni) prese appena l’8% (25 seggi).

Il 22 aprile, a circa quattro mesi dalle elezioni, Talabani venne eletto presidente della repubblica e al-Maliki Primo ministro.

Il suo programma si basava su tre pilastri: sanare il conflitto religioso; riformare ed irrobustire le forze di sicurezza; ricostruire le infrastrutture principali56. Dopo aver

presentato il governo di 37 membri (composto da sunniti, sciiti e curdi), al-Maliki rese noto il Piano di riconciliazione e dialogo nazionale.

Il piano, che doveva essere eseguito con l’aiuto di altri attori come Nazioni Uniti e Lega Araba, fu suddiviso in due parti. La prima si occupava della realizzazione di una Commissione composta da rappresentanti che si dividevano i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), mentre la seconda (composta da 24 punti) affrontava i principali di convivenza tra le diverse anime della nazione. Partendo da una definitiva debaathificazione della società, il primo ministro provava ad implementare: una riconciliazione (che avrebbe dovuto esser favorita da un’amnistia) e un accordo politico tra le confessioni; un’equa distribuzione dei proventi dell’oro nero; un piano di sicurezza per il paese attraverso la riduzione della violenza ed il contenimento delle milizie; un piano per affrontare la corruzione dilagante.

Gli sforzi però rimasero vani. A partire dal 22 febbraio 2006 era infatti scoppiata la guerra civile; in realtà le bombe e gli attentati non erano mai finiti ma come inizio convenzionale venne presa la data dell’attacco al santuario di Askariya, nella città di Samarra. Questo santuario risalente al decimo secolo aveva come obbiettivo quello di colpire la fede sciita che ben presto cercò di vendicarsi. Da marzo a dicembre ci furono migliaia di morti per scontri interreligiosi che si verificarono in più parti del paese57.

Questi sono solo alcuni esempi della carneficina che andò avanti per mesi: l’autobomba davanti ad una moschea a Baghdad il 7 aprile (80 morti), le esecuzioni sommarie di milizie sciite a partire dall’8 luglio (in seguito ad un attacco ad una moschea a sud-ovest di Baghdad), l’esplosione in un mercato di Sadr city il 1° luglio

56 A. Beccaro, op.cit., pp.92-93.

57 Per una panoramica completa delle vittime in Iraq mese per mese dal 2003 a oggi si può vedere il

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(60 morti), l’attacco in centro nella città di Mahmoudiya (48 vittime) il 17 luglio, gli attacchi coordinati nella capitale il 31 agosto (60 morti)58.

Oltre alla guerra interreligiosa di cui abbiamo parlato, ne esistevano altre due, cioè quella sunnita contro la coalizione e l’altra portata avanti dai terroristi di al-Qaida. Le forze americane continuavano a combattere con risultati alterni. Il 7 giugno il capo di al-Qaida al-Zarqawi venne ucciso in un attacco vicino Baquba59 e nelle

settimane successive ci furono ulteriori raid che fecero catturare circa 800 fondamentalisti.

Il 13 dello stesso mese prese avvio l’operazione Together forward, che coinvolse 75.000 soldati allo scopo di riprendere il controllo della capitale, ma gli attacchi, invece che diminuire, aumentarono. A luglio gli americani provarono allora a rilanciare con il Together forward II senza tuttavia ottenere risultati decisivi. Se la violenza iniziò a diminuire nella capitale, le azioni dei fondamentalisti e delle altre milizie si spostarono in altre parti del paese, lasciando intatta la situazione di fondo: la violenza continuava ad imperversare nello stato.

Gli Stati Uniti si resero conto che a distanza di tre anni ben poco si era risolto: la guerra convenzionale era finita da molto ma il caos che era presente nel paese stava avendo costi umani ed economici altissimi. Urgeva un cambio di strategia.

58 A. Beccaro, op.cit., p. 96. 59 J. Ballard, op.cit., pp.196-197.

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3.4 Dal “Surge” agli ultimi anni

Il surge è stato un cambio di strategia americano avvenuto nel 2007 e messo in atto dal nuovo generale Petraeus.

La drammatica situazione in cui versava il paese iracheno (con la conseguenza che a farne le spese erano anche i militari della coalizione, che contavano oramai più di 3.000 vittime), imponeva un rimodellamento della tattica militare e delle truppe USA. Le elezioni di medio termine, svoltesi negli Stati Uniti il 7 novembre 2006, registrarono una decisa bocciatura della politica di Bush, che perse entrambe le Camere60. I tre anni di occupazione dell’Iraq avevano avuto una pesante influenza sul

risultato, dato che Bush decise di allontanare il principale responsabile dell’avventura militare, il segretario della difesa Rumsfield. Al posto di quest’ultimo il presidente nominò Robert M.Gates, che, insieme a Petraeus, decise di porre in essere una strategia del tutto nuova.

Il surge aveva caratteristiche completamente diverse da quelle che erano state messe in atto fino a quel momento. Se la strategia che andava avanti dal 2003 aveva peggiorato il rapporto tra iracheni e americani per una serie di ragioni (incapacità di comprendere i reali bisogni della popolazione, bombardamenti dall’alto e pesanti operazioni che spesso e volentieri coinvolgevano civili), l’obbiettivo della nuova tattica andava in direzione completamente opposta.

Petraeus pensava che le truppe non dovessero avere soltanto compiti militari, ma avessero come mansione anche quello di entrare in sintonia con la popolazione locale per capirne i bisogni primari, conquistandone il cuore ancor prima che il territorio; soltanto con il miglioramento dei rapporti umani tra gli americani (che spesso venivano considerati degli invasori piuttosto che dei liberatori) e gli iracheni, si potevano togliere le forze che andavano di mese in mese ad irrobustire le fila degli insorgenti e dei fondamentalisti. A questo si doveva aggiungere un uso della forza impiegata con più moderazione ed una dislocazione sul territorio dentro le città. Un uso della forza più oculato significava essere pronti ad operazioni di terra limitando al massimo quelle aeree (meno chirurgiche) per cercare di colpire solo i veri insorgenti e ridurre al minimo le possibilità di uccidere incolpevoli: gli atti di guerriglia erano infatti volutamente sanguinosi e spettacolari per causare una decisa

60 I democratici ottennero 233 voti contro 202 dei repubblicani alla Camera dei Rappresentanti e 51

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reazione con gli effetti collaterali che ne sarebbero derivati. Una diversa dislocazione sul territorio avrebbe invece portato i soldati nel cuore delle città, ben riconoscibili ed a contatto diretto con la popolazione. Negli anni precedenti infatti gli americani aveva usato una tattica sul territorio disastrosa: erano spesso rinchiusi in grossi compound al di fuori delle città, uscivano per le operazioni e rientravano qualche ora dopo. Così facendo le truppe non riuscivano né a controllare il territorio, né tantomeno a creare quell’empatia con la gente del posto fondamentale per la ricostruzione del paese.

A ciò andava aggiunta, ovviamente, anche una parte militare: ad inizio 2007 l’invio di 30.000 unità era cosa fatta ed il generale poteva iniziare la nuova strategia. Inoltre, l’intelligence ed i mezzi a disposizione per addestrare le forze di polizia locali venivano aumentati.

Un esempio che faceva ben sperare Petraeus era ciò che era avvenuto a Tal Afar nel 2005. Il colonnello McMaster, che si occupava di assicurare stabilità a questa città (che era diventata un avamposto per attacchi terroristi a Mosul), aveva imposto una serie di novità ai suoi soldati: questi dovevano infatti studiare i fondamenti di arabo e saggi sulla storia dell’Iraq per poter interloquire e capire più facilmente i bisogni della popolazione locale. McMaster aveva deciso di temporeggiare di fronte agli attacchi dei rivoltosi, addestrando le forze di polizia irachene e cercando di isolare la guerriglia qaedista. Mettendo in atto una lenta penetrazione, bonificò con calma ogni quartiere, ordinando di usare la forza solo quando strettamente necessario, con la sicurezza di colpire le milizie di al-Qaida. In pochi mesi riuscì a liberare la città dai fondamentalisti, istituendo numerosi avamposti che riuscirono a tenere la situazione sotto controllo in tutta la città61.

Il cambio di strategia statunitense (che avrebbe dato i suoi frutti) non fu l’unica cosa a mutare nello scenario iracheno: a partire da fine 2006 aveva infatti preso piede il cosiddetto “risveglio”, una rivolta della parte sana dei sunniti nei confronti dei fondamentalisti di al-Qaida, che stavano prendendo sempre più potere all’interno dello stato. L’episodio di rottura tra i sunniti avvenne in due fasi.

La prima nel settembre 2006, quando decine di leader tribali di al-Anbar, in polemica con i fondamentalisti per la virulenza dei loro attacchi e per la politica dei matrimoni forzati, decisero di costituire una forza di opposizione. Poi, nel novembre, al-Qaida

61 G.Packer, The Lesson of Tal Afar. Is it too late for the Administration to correct its course in Iraq?,

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