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IPOTESI PROGETTUALE DI UN ISTITUTO A CUSTODIA ATTENUATA PER IL RECUPERO INTEGRALE DELL’ISOLA DI POVEGLIA A VENEZIA

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IPOTESI PROGETTUALE DI UN ISTITUTO A CUSTODIA ATTENUATA

PER IL RECUPERO INTEGRALE DELL’ISOLA DI POVEGLIA A VENEZIA

(2)

LAUREANDA: Enrica Pirronello RELATORI: Arch. Luisa Santini Arch. Paolo Riani Arch. Luigi Vessella

UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di ingegneria dell’energia, dei sistemi, del territorio e delle costruzioni (DESTEC)

Corso di laurea magistrale in Ingegneria Edile-Architettura

(3)

ABSTRACT

La seguente tesi di laurea riguarda la progettazione di un istituto carcerario definito “a custodia attenuata” che prende a modello gli istituti di detenzione nord-europei al fine di uniformarsi alle direttive comunitarie. La scelta è ricaduta su una struttura di questo tipo in seguito ad uno studio condotto sul sistema carcera-rio italiano ed europeo, sono stati analizzati i luoghi della detenzione dalle loro origini ai giorni nostri, le tipologie carcerarie, l’iter legislativo a partire dal primo regolamento del 1931 fino alle ultime riforme, la situazione carceraria attuale con l’analisi dei dati forniti dal Ministero di Giustizia, le forme alternative alla reclusione, la situazione detentiva per le donne/madri e le colonie penali.

Si è scelto di collocare il progetto sull’isola di Poveglia, la più grande isola rimasta abbandonata della lagu-na veneta, in essa si trovano edifici storici di rilievo per i quali il piano regolatore prevede la ristrutturazione. Agli edifici storici, che sono stati riqualificati, sono stati aggiunti dei fabbricati che ospitano tutte le funzioni necessarie al carcere, collocati lungo un asse di riferimento ideale che collega l’isola con Venezia, e distribu-iti rispettando delle fasce funzionali che garantiscono l’accesso all’isola anche da parte di turisti e cittadini che possono usufruire di spazi riservati ad attività culturali e di svago. La proposta di aprire la struttura al pubblico rispetta la volontà dei cittadini veneti fortemente interessati alle sorti dell’isola come denota l’associazione appositamente creata nel 2009 “Poveglia per tutti”, e fornisce per i detenuti un’occasione di integrazione sociale che ne favorisce il ritorno in società.

Il progetto si presenta quindi come un piccolo nucleo urbano, fornito di tutti i servizi necessari a utenti ester-ni e detenuti, i quali vengono scelti in funzione di determinate caratteristiche personali e comportamentali. Sono presenti spazi riservati al lavoro, spazi per le attività trattamentali previste dal regolamento, spazi per lo sport al chiuso e all’aperto, viene conservata la funzione agricola tradizionale di una parte dell’isola in cui vengono impiegati i detenuti, e gli spazi residenziali organizzati sotto forma di unità abitative singole conte-nenti da 4 a 8 detenuti per un totale di 100 ospiti. Gli obiettivi che hanno direzionato il progetto sono stati la “domesticità” e la varietà architettonica, per limitare l’effetto alienante tipico delle carceri, la creazione di spazi di aggregazione sociale, la creazione di un legame con il paesaggio circostante e l’integrazione delle nuove strutture con gli edifici storici esistenti, l’isola ha dunque preso l’aspetto di un piccolo borgo, facilmen-te adattabile ad altre eventuali funzioni si decidesse in futuro di collocare sull’isola.

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INDICE

CAP. 1 ARCHITETTURA E CARCERI

11

1.1 STORIA DEL LUOGHI DI DETENZIONE

11

Epoca greca e romana 11

Prigioni medievali 13 Epoca rinascimentale 15 Il Settecento e l’Ottocento 20 Il Novecento 27

1.2 TIPOLOGIE CARCERARIE

30

Edificio a corte 30 Disposizione radiale 32

Disposizione a palo telegrafico 33

DIfferenziazione dei corpi edilizi 35

Disposizione compatta 36

CAP. 2 LA REALTA’ DEL CARCERE

39

2.1 ITER LEGISLATIVO

39

Prima del regolamento del 1931 39

Regolamento del 1931 40

La legge del 1975 42

Legge Gozzini del 1986 43

Legge Simeoni-Saraceni 44

D.P.R. n. 230/2000 44

Legge Finocchiaro 46

Legge n. 199 del 2010 47

(6)

Legge n. 9 del 17 febbraio 2012 49

Decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 49

2.2 LA RIFORMA CARCERARIA DEL 2015, DISEGNO LEGGE N. 2798

50

Tavolo 1 spazio della pena: architettura e carcere 52

Tavolo 2 vita detentiva: responsabilizzazione del detenuto 54

Tavolo 3 donne e carcere 55

I diritti dell’infanzia 56

Art 146 e 147 del codice penale 56

La carta dei figli dei genitori detenuti 56

2.3 COMITATO EUROPEO PER LA PREVENZIONE DELLA TORTURA E DELLE PENE O

TRATTAMENTI INUMANI E DEGRADANTI (CPT)

58

Sovraffollamento 59

2.4 SITUAZIONE ATTUALE CARCERI

61

Sovraffollamento delle carceri 61

Proposte risolutive 64

Suicidi in ambito penitenziario 67

2.5 DATI STATISTICI

69

2.6 IL DIRITTO AL LAVORO

75

CAP. 3 ISTITUTI A CUSTODIA ATTENUATA

81

3.1 IL DIRITTO ALLA RIEDUCAZIONE

81

Risarcimento educativo 81

(7)

3.2 LE COLONIE PENALI

87

L’origine delle colonie penali 87

Condizioni di vita e lavoro 89

Colonie penali in Toscana 91

Normative sulle colonie penali 92

Isola della Gorgona 96

3.3 ISTITUTI A CUSTODIA ATTENUATA

98

ICATT (Istituti a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti) 98

ICATT Mario Gozzini di Firenze 102

ICAM (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) 103

3.4 CARCERI IN PROJECT FINANCING

106

Figure coinvolte 107

Esempio di Bolzano 109

Esempio di Brescia 112

CAP. 4 LA DONNA E IL CARCERE

115

4.1 STORIA DELLA DETENZIONE FEMMINILE

115

I primi istituti di detenzione 115

Il modello di detenzione familiare 118

Le recenti normative 120

4.2 CARATTERISTICHE DELLA DETENZIONE FEMMINILE

126

La realtà femminile nelle carceri 126

Le immigrate e le nomadi 129

Dati sulla detenzione femminile 133

(8)

4.4 IL MINORE IN CARCERE

135

CAP. 5 INDAGINE STORICA

139

Il toponimo “Poveglia” 139

Prime testimonianze sull’isola e primo abbandono 139

Raggiungimento della massima fioritura 140

Secondo abbandono dell’isola 142

La trasformazione in lazzaretto 146

Da sanatorio geriatrico ad isola abbandonata 152

CAP. 6 INDAGINE URBANISTICA

153

6.1 PIANO TERRITORIALE DI COORDINAMENTO PROVINCIALE

153

Rete natura 2000 (art.22) 153

centri storici di notevole importanza (art. 42) 154

Vincolo monumentale (art. 43) 155

6.2 PAT - PIANO ASSETTO TERRITORIALE

156

Tav. 1 Carta dei vincoli e della pianificazione territoriale 156

Tav. 2 Carta delle invarianti 158

Tav. 3 Carta delle fragilità 159

Tav. 4A Carta delle trasformabilità 159

Tav. 4B Carta delle trasformabilità: valori e tutele 161

Tav. 4C Ambiti territoriali omogenei 162

6.3 PIANO REGOLATORE GENERALE

164

(9)

CAP. 7 UN ISTITUTO A CUSTODIA ATTENUATA A POVEGLIA

175

7.1 PREMESSE ALLA PROGETTAZIONE

175

Localizzazione Poveglia 175

Stato di fatto 178

7.2 I DATI UTILI AL PROGETTO

183

Gli istituti detentivi in Veneto 183

Individuazione del bacino d’utenza 187

Analisi territoriale 188

Analisi SWOT 191

I modelli di riferimento 194

7.3 IL PROGETTO

203

Criteri progettuali 203

Divisione in fasce funzionali 205

Organizzazione della giornata-tipo 207

Zonizzazione 208 Percorsi 220 Gerarchie spaziali 222

BIBLIOGRAFIA 232

Libri 232

Tesi 233

Documenti web

234

Sitografia principale

236

Normative di riferimento

237

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(11)

CAP. 1 ARCHITETTURA E CARCERI

1.1 STORIA DEL LUOGHI DI DETENZIONE

Epoca greca e romana

Fino a questo momento storico non si concepiva alcuna misura riabilitativa e preventiva, i de-linquenti venivano considerati degli scarti e venivano allontanati dalla società nel minor tempo possibile e con il minor costo. Il carcere era solo un mezzo per tenere l’incolpato in custodia al fine di evitare che si sottraesse alla giustizia. Veniva quindi adibito a carcere un qualunque luogo chiuso dal quale fosse difficile fuggire.

Il primo esempio in epoca greca sono le “latomie”. Erano delle cave di pietra o di marmo che una volta abbandonate venivano usate come luogo di detenzione. Le più famose sono le “latomie dei Cappuccini”, costruite a Siracusa quando era una colonia greca di Corinto, nel quartiere di Akra-dina, primo quartiere costruito al di fuori delle fortificazioni d’Ortigia. Poiché erano fredde d’in-verno e torride d’estate, essere imprigionati nelle latomie equivaleva ad una condanna a morte, i prigionieri venivano lasciati morire di fame e di stenti, senza alcuna possibilità di fuga. Quindi la sanzione per eccellenza non era quella detentiva ma quella corporale e la pena di morte.

Solo con il diritto romano il carcere inizia ad essere considerato come una grave afflizione da riservarsi ai peggiori criminali perché iniziassero a soffrire prima ancora della materiale esecuzio-ne della condanna capitale. Un esempio di epoca romana è il carcere Mamertino o Tulliano che costituisce un’unica eccezione di architettura penitenziaria progettata dai Romani. Infatti prima della metà del 1600, con la costruzione, per volere di Papa Innocenzo X e su progetto di Antonio del Grande, delle Carceri Nuove di Roma, non si sentiva la necessità di pensare ad un luogo fisi-co-spaziale che accogliesse i detenuti.

Il carcere Mamertino, costruito nel V secolo a ridosso della Via Sacra nel Foro, divenne carcere simbolo per illustri prigionieri (re dei Galli Vercingetorige, Pietro apostolo, congiurati di Catilina). Oggi, dalla sezione della Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami del XVI secolo, costruita sopra l’originaria struttura penitenziaria, si vedono stratificati gli spazi in cui venivano abbandonati i detenuti fino alla morte o in attesa di giudizio. Secondo alcune fonti il carcere era stato ottenuto

(12)

dal riadattamento di cave di tufo ai piedi del Campidoglio, ed era costituito da due livelli, uno in-feriore detto tullianum ed uno superiore, il carcer. Su questi strati venne costruita la cappella del Santissimo Crocifisso intorno all’VIII secolo con la cristianizzazione del sito.

Un accenno alle carceri Mamertine si può trovare nel V libro del De architectura di Vitruvio, risa-lente al I secolo a.C.:

“Il carcere (sappiamo da Tito Livio) venne eretto da Anco Marzo nel bel mezzo della città, imminente an-ch’esso al Foro; il quale per un sotterraneo aggiuntovi da Servio Tullio, si disse dappoi Tullianum. Quanto al carcere, dice Aulo Gellio, che a tre usi venn’esso destinato: primo ad infliger pena puramente correzionale per colpe non gravi, secondo, acciocchè si rispettassero e temessero i Magistrati onde non ne avesse a

Carcere mamertino

(13)

seguire o il disprezzo inverso per i medesimi o l’avvilimento della loro dignità, terzo per infliger esemplari punizioni, affinchè spaventati i malvagi dall’aspetto della pena, si trattenesser dalle colpe”. (Dell’architet-tura di Marco Vitruvio Pollione libri dieci, pubblicati da Carlo Amati).

In epoca post-classica (305-565 d.C), abbandonata la concezione della pena come vendetta pri-vata, la detenzione comincia ad essere regolamentata. In particolare Costantino e poi Giusti-niano furono i primi promotori di una disciplina del carcere. Costantino aveva emanato infatti un’ordinanza nel 320 d.C. che favorisse un trattamento più umano nei confronti dei detenuti e prevedeva:

• separazione dei detenuti per sesso; • alleggerimento delle catene;

• possibilità di stare all’aria aperta durante la giornata in appositi spazi.

Prigioni medievali

Nel corso del Medioevo si trattava principalmente di carcerazioni preventive col fine di assicurare

“che certi individui inaffidabili fossero presenti al processo o all’emissione del verdetto” o carcerazioni per debiti. Infatti la giustizia ruotava attorno al concetto di “vendetta personale” e il carcere come istituzione veniva ignorato.

Due esempi di prigione medievale sono “la torre di Londra” e la “Bastiglia”.

La prima, costruita a partire dal 1087 e utilizzata a partire dal 1100, era la prigione reale più im-portante del paese riservata a detenuti di alto rango. La seconda, costruita nel 1370 per proteg-gere la fortezza reale, era di forma rettangolare circondata da fossati e torri e conteneva segrete sotterranee e diversi piani di celle. Da questi esempi si legge il sistema con cui venivano scelti i luoghi di detenzione in epoca medievale, cioè non venivano progettate apposite fabbriche, ma si riutilizzavano spazi di castelli e palazzi di difficile accesso.

Nell’alto Medioevo (dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente, avvenuta nel 476, all’anno 1000 circa) l’istituto della detenzione, in casi rari e sporadici, assume carattere di sanzione. Ogni Magi-strato doveva essere fornito di un luogo dove rinchiudere per due o tre anni i ladri non recidivi, dopo che avessero pagato la composizione al derubato. Ovvero si ammise che il carcere poteva talvolta sostituire sanzioni pecuniarie insoddisfatte o pene infamanti.

(14)

inizialmente le pene pecuniarie sono sostituite, per motivi economici e sociali, da un’ampia gam-ma di pene corporali. Flagellazioni, mutilazioni e pena di morte sembrano inevitabili strumenti per ridurre le masse. Questo è un periodo di frattura di classe tra ricchi e poveri, di sovraffol-lamento degli spazi, di concorrenza tra lavoratori a bassi salari. È il periodo dei mendicanti e delle rivolte. All’aumento della popolazione corrisponde un aumento della ferocia. La funzione del carcere rimane in questa fase la stessa, non vi sono stati importanti esempi di architettura carceraria, le prigioni erano ricavate nei sotterranei o nelle torri dei castelli, in quanto luoghi si-curi e inaccessibili dall’esterno. Tuttavia nel momento in cui lo Stato comincia ad identificarsi con la Chiesa Cattolica evolve il concetto di detenzione che viene interpretato come occasione per riflettere sulle colpe commesse. La reclusione carceraria si pensava potesse favorire il pentimento

Piombi di Venezia

(15)

dell’individuo attraverso un processo di ammissione delle colpe commesse. Questo concetto si rafforza ulteriormente con la nascita dell’Inquisizione nel XII secolo, momento in cui accanto alla pena di morte e alla tortura, viene concepita l’idea di carcerazione con il duplice scopo di deter-rente e contemporaneamente aspirare al pentimento del carcerato (L. Vessella, L’architettura del

carcere a custodia attenuata, pag. 20).

Cosi, tra il XII e il XV secolo, sebbene lo spazio adibito a prigioni fosse ancora uno spazio nascosto chiamato “segreta”, scelto generalmente per la sua inaccessibilità, come ad esempio degli spazi ricavati tra le mura difensive di castelli o fabbriche militari o spazi sotterranei sottostanti palazzi signorili, si comincia a percepire il concetto di cella, come spazio primario in cui svolgere la de-tenzione. Questo spazio è certamente ispirato alle celle dei monaci che sfruttavano la solitudine e la privazione come strumento di remissione dei propri peccati. Lo stesso si pensa debba fare il detenuto, in maniera forzata, per raggiungere il pentimento.

Un esempio sono “i piombi”, ricavati nel sottotetto di palazzo Ducale a Venezia. Qui i prigionieri (generalmente prigionieri politici o in attesa di giudizio) conducevano una prigionia accettabile, potevano passeggiare durante la giornata attraverso i corridoi di collegamento delle celle, pote-vano tenere con se mobili o suppellettili personali, ricevepote-vano cure mediche e pulizie periodiche. Questo dimostra come parallelamente allo sviluppo dell’idea cristiana di pentimento del prigio-niero si associasse quella di trattamento umano.

Altro esempio è il castello visconteo di Monza, in cui Galeazzo aveva fatto costruire un’enorme torre detta “i forni”, alta 42 metri, in cui venivano calati i prigionieri attraverso dei buchi diretta-mente nelle celle.

Epoca rinascimentale

Alla fine del Medioevo, parallelamente al passaggio dal castello alla città e alla separazione fra Stato e Chiesa, il carcere comincia a diventare una struttura autonoma. Infatti lo spazio urbano si modifica, diventa un’aggregazione di fabbriche che consentono lo svolgimento di ogni attività umana, nasce quindi l’esigenza di uno spazio autonomo anche per la detenzione, appositamente pensato e non più ricavato all’interno di costruzioni esistenti e riadattate. Inoltre alcuni reati cominciano ad assumere importanza proprio in questo periodo, quali ad esempio i reati contro la proprietà e lo stato, i delitti politici e le contestazioni del potere civile o religioso, ciò compor-tando l’aumento del numero dei prigionieri.

(16)

innanzitutto il carcere tra gli edifici di maggiore necessità all’interno di un nucleo cittadino e in secondo luogo affermò l’importanza della salubrità e della qualità degli ambienti destinati a questa funzione, riconoscendo il loro scopo di custodia e non di supplizio del detenuto. Queste idee che possono ritenersi un’anticipazione delle idee illuministe portarono alla realizzazione di alcuni modelli carcerari. Distinguiamo un esempio europeo, la Rasp Hause, e uno italiano più tardo, le famose Carceri Nuove di via Giulia a Roma.

La Rasp Hause, attraverso l’introduzione del processo lavorativo all’interno dell’istituto, costitui-sce un non indifferente contributo al raggiungimento del concetto di carcere moderno. Fu inau-gurata ad Amsterdam nel 1595 e rappresenta quindi il primo modello di carcere moderno in Euro-pa princiEuro-palmente per quanto riguarda la localizzazione degli ambienti interni e la grande varietà di attività consentite ai detenuti. Una serie di celle sono disposte attorno a degli spazi comuni in cui i detenuti possono svolgere attività all’aria aperta, inoltre sono obbligati a dedicarsi a lavori di falegnameria all’interno delle celle in gruppi di lavoro (letteralmente il nome Rasp Hause significa

Rasp Hause, Amsterdam http://www.wikiwand.com

(17)

“casa della sega” dalla lavorazione del legno che veniva imposta ai detenuti). Questo schema ha costituito un modello sia architettonico che organizzativo per la realizzazione di edifici peniten-ziari in Europa, principalmente nei paesi scandinavi (L. Vessella, pag.21). Ha anche influenzato il lavoro di John Howard, uno dei principali riformatori del sistema penitenziario.

Il secondo esempio, le Carceri Nuove, fatte erigere da Papa Innocenzo X Panfili a Roma a metà del 1600, segnano la nascita del concetto moderno di carcere in Italia. È merito dei pontefici aver fornito la città di Roma per la prima volta nel 1655 di una struttura di detenzione funzionale e appositamente progettata. Fu merito di un altro papa, Clemente XI, la realizzazione della pri-ma struttura di detenzione per minori, la Casa Correzionale di San Michele. Nelle Carceri Nuove venne adottato un sistema di trattamento dei detenuti basato su lavoro e propaganda religiosa, finalizzati alla rieducazione del prigioniero, questo forniva un ulteriore aspetto di modernità alla struttura. Lo stesso Howard, un secolo più tardi, iniziato un viaggio alla scoperta delle carceri, sensibile verso le tremende condizioni dei prigionieri, riconobbe nelle Carceri Nuove di Roma le migliori d’Europa. Ne ammirò la struttura e la trascrisse nei suoi trattati.

L’idea di papa Innocenzo era inizialmente quella di migliorare le strutture carcerarie già esistenti, ma resosi presto conto dell’impossibilità di questo progetto, decise di “costruire ex novo un vasto edificio carcerario più mite e più sicuro”, attraverso il quale ottenere il trasversale obiettivo di riunificazione delle carceri romane e dei relativi tribunali.

Il progettista di queste carceri fu Virgilio Spada, sebbene viene più frequentemente ritrovato il nome di Antonio il Grande, che in realtà fu l’esecutore e sovrintendente. La forma delle carceri può essere assimilata a quella di una piramide tronca: la facciata di dimensioni 40 m in larghezza e 75 m in lunghezza è caratterizzata dalla presenza di un’unica porta a modo di fortezza, secondo quanto previsto dai canoni carcerari. L’edificio si sviluppa su quattro piani attorno a due cortili con al centro due fontane “intorno alle quali passano meno triste la giornata i carcerati del pas-seggio”, a pianterreno trovano posto gli uffici direzionali, le camere d’esame per ambo i sessi, le stanze dei custodi, la cucina, la dispensa e un dispaccio. Internamente si trovano due “larghe”, le “segrete” per i delinquenti peggiori. Al centro del carcere si trovano invece la sede del Capo-Cu-stode, del mastro di casa, l’infermeria divisa in due reparti per evitare che i criminali comuni ve-nissero in contatto con i criminali peggiori, la sala della “visita graziosa” e la cappella principale con il cappellano. Questa collocazione centrale aveva il preciso scopo di collocare idealmente e fisicamente le persone maggiormente responsabili, al centro della struttura. Ogni piano era poi organizzato in funzione dell’età, del sesso, dei reati e della pericolosità dei soggetti.

Le carceri potevano ospitare 600 detenuti fra uomini e donne, insomma su una popolazione di 120.000 abitanti circa, riuscivano a ospitare la totalità di detenuti romani sotto un’unica

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direzio-ne, quindi più facilmente controllabile. Questo comportò una consistente riduzione di specula-zioni e abusi.

Si può concludere dicendo che il progetto di Innocenzo fu perfettamente riuscito e portò un no-tevole slancio verso una concezione più umana dello spazio carcerario, infatti le Carceri Nuove primeggiavano per salubrità ed efficienza. Tuttavia non era ancora concepito un trattamento lavorativo per i prigionieri, che infatti passavano le giornate nell’ozio e nell’attesa di qualche visita dei parenti o del difensore o del cappellano per alleviare le loro pene.

Ma questi esempi possono ancora considerarsi delle eccezioni rispettivamente in ambito euro-peo e italiano, all’interno del circuito tradizionale di organizzazione e progettazione delle carceri. Infatti il cambiamento sociale a cui si assiste nel XVI secolo porta alla formazione delle “case di correzione” per intervento della chiesa cattolica, aventi la funzione di filtrare la società rinchiu-dendo vagabondi, emarginati e poveri. La carcerazione era quindi usata come mezzo per riporta-re l’ordine sociale e le carceri mantenevano una funziona contenitiva. I prigionieri “venivano

co-stretti ad accettare l’ordine e la disciplina, si cercò di trasformarli in docili strumenti dello sfruttamento”

(Focault). A mano a mano che si progrediva nell’esperienza delle case di correzione si cominciò a sostituire la concezione medievale della miseria con quella borghese e laica del lavoro, inteso come imperativo etico, e la religione rappresentò l’asse portante del trattamento presso di esse. Così all’interno di queste strutture veniva scelta l’attività lavorativa come principale sistema cor-rezionale e contributiva alla società, sebbene l’igiene era ancora pressoché inesistente e la possi-bilità di uscire assolutamente nulla.

Con il peggioramento delle condizioni degli internati e delle pratiche punitive ormai diffusamen-te ridiffusamen-tenudiffusamen-te assolutamendiffusamen-te inefficaci dal punto di vista correzionale, la Chiesa cattolica decise di operare una grande riforma. Questa trovò applicazione attraverso la costruzione di una serie di istituti di pena basati su due principi base:

• l’assetto architettonico di accoglienza, l’isolamento cellulare; • il trattamento riservato ai detenuti, l’educazione religiosa.

Tra questi istituti ricordiamo la casa correzionale di S. Michele, costruita fra il 1701 e il 1704 all’interno dell’Ospizio apostolico per poveri e invalidi sulla riva destra del Tevere. Venne costruita per volere di Clemente XI su progetto di Carlo Fontana, allora architetto della Curia pontificia. L’organizzazione interna all’istituto prevedeva la segregazione notturna dei detenuti in 60 celle individuali e il lavoro comune durante il giorno, rispettando un rigoroso silenzio. Lo spazio

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archi-tettonico era razionalmente organizzato in due blocchi di celle, ognuno di tre piani, ai lati di una grande sala rettangolare voltata a botte, che durante il giorno fungeva da laboratorio di filatura e in occasione della messa si trasformava in cappella.

“L’edificio viene concepito come una perfetta macchina di redenzione, dove la disciplina si forma attraverso la regolarità delle azioni quotidiane e dei gesti ripetuti” (R.Dubbini). Si possono leggere delle simboliche contrapposizioni tra luoghi della fede e del castigo: il buio delle celle contro lo spazio luminoso e ampio della sala centrale, e l’altare, posto ad un estremità della sala comune, contrapposto al luogo della flagellazione all’altra estremità, dove i ribelli venivano puniti.

L’edificio era organizzato secondo la logica dello sguardo: gli sguardi dei detenuti erano obbliga-toriamente direzionati verso punti fissi: il lavoro, l’altare o il luogo di flagellazione; al contrario gli sguardi dei sorveglianti potevano liberamente spaziare esercitando un controllo visivo diretto su tutto ciò che avveniva all’interno.

Questa logica costituisce un’innovazione sostanziale nell’organizzazione carceraria, innovazione finalizzata al maggior controllo dei detenuti con il superamento di quegli spazi irregolari e non trasparenti allo sguardo che fino ad allora avevano caratterizzato le prigioni. Un grande contribu-to a riguardo fu fornicontribu-to da Jeremy Bentham con la progettazione del Panopticon nel 1791.

Casa correzionale san Michele

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La casa correzionale di San Michele servì da contenitore per tutti i giovani malfattori della città, non più quindi divisi in varie strutture. Era infatti proprio la categoria dei giovani quella di mag-gior interesse sociale, in quanto si riteneva che il loro andamento morale potesse ancora essere direzionato verso la correzione e inoltre perché rappresentavano una forza consistente nella pro-duzione. Questo portò quindi alla progettazione di istituti correzionali specializzati sull’esempio di quello di San Michele.

Tra questi ricordiamo l’istituto per giovani di Firenze, progettato da Filippo Franci, che aveva lo scopo di accogliere giovani orfani e/o abbandonati e giovani facoltosi mandati dalle famiglie per una istruzione ottimale. Era quindi una struttura mista avente carattere assistenziale piuttosto che repressivo, contente una scuola professionale, un collegio e naturalmente una prigione. Un altro esempio è la casa correzionale di Milano, che imita il modello architettonico romano interpretandolo in maniera innovativa.

Questi istituti di Roma e Milano affermano una concezione punitiva mercantilistica, derivata dall’idea di inserire il carcere direttamente nel sistema economico. Il fiorire di questo sistema di prigione produttiva procurò a lungo andare delle proteste da parte dei liberi produttori concor-renti e dei disoccupati che si ritrovavano in condizioni peggiori di quelle dei criminali. Nell’800 si ridurranno all’interno delle carceri le possibilità di lavoro e quelle rimanenti avranno fini pura-mente disciplinari e non più produttivi.

Con la realizzazione di questi primi edifici carcerari, si segna anche il distacco definitivo dell’ar-chitettura penitenziaria da quella giudiziaria. Considerando che per una lunga fase storica le due funzioni si erano trovate a convivere nel medesimo “contenitore”, per la semplice ragione che alla funzione del giudicare era implicitamente e naturalmente connessa quella del detenere il giudi-cabile, mentre il concetto di detenzione come pena è di più moderna acquisizione.

Il Settecento e l’Ottocento

La prima metà del Settecento è caratterizzata da una profonda regressione in ambito carcerario. L’evoluzione sociale portata dall’industrializzazione ha determinato un sovraffollamento delle cit-tà, una crescente manodopera a bassissimo costo e il dilagare della criminalità contro la quale si riafferma la necessità di duro trattamento punitivo. Questo comporta un non indifferente declino dal punto di vista organizzativo ed ideologico. I detenuti diventando di nessun interesse in quan-to le istituzioni carcerarie non hanno più la funzione di fornire manodopera che è abbondante rimangono quindi soggetti alla segregazione e all’abbandono, detenzione inutile e afflittiva.

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Nella seconda metà del Settecento invece l’inadeguatezza delle poche prigioni esistenti e la vio-lenza bestiale delle pene corporali generano ovunque contestazioni e proteste accese, che però contribuiscono a stimolare una profonda riflessione sul sistema di applicazione della pena. Si distinguono diverse personalità italiane e straniere che contribuiscono all’evoluzione penale in atto. Tra queste ricordiamo Cesare Beccaria in Italia e il filantropo John Howard in Inghilterra. Cesare Beccaria partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l’ordine, definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione di questo contratto. La società nel suo complesso doveva pertanto godere di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delit-to commesso (principio del proporzionalismo della pena). Inoltre affermava il principio contrat-tualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro, da cui il rifiuto per la pena di morte e per i trattamenti di tortura.

Casa di Forza di Gand

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John Howard, in seguito ad una esperienza carceraria da lui stesso vissuta in Francia, ha sviluppa-to un particolare interesse per le condizioni dei prigionieri. Cominciò quindi a visitare centinaia di prigioni in Inghilterra, Galles e Scozia e pubblicò una prima edizione nel 1777, “Lo Stato delle

Carceri”, in cui raccolse le descrizioni delle condizioni delle prigioni di cui era stato testimone e sviluppò delle ipotesi migliorative. Le sue raccomandazioni riguardavano questioni come la posi-zione del carcere, gli arredi, la fornitura di un adeguato approvvigionamento di acqua e la dieta del prigioniero al fine di promuovere l’igiene e la salute fisica. Anche raccomandazioni riguar-danti la qualità del personale della prigione, le regole relative al mantenimento degli standard di salute e di ordine e di un sistema indipendente di ispezione. Tutto il resto della sua vita fu un continuo viaggiare in diversi paesi dell’Europa per visitare più carceri possibili.

Queste ideologie si riflettono presto in ambito architettonico e si traducono in una serie di linee guida alla progettazione delle prigioni. Si prediligono in questo periodo la simmetria e gli impian-ti centrali, si impian-tiene conto contemporaneamente della teoria dello sguardo e della forza della luce

Hotel Dieu, Antoine Petit.

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come elemento rigeneratore (L. Vessella, pag 26). Lo spazio centrale delle prigioni viene liberato dalle celle e usato come spazio libero di lavoro in comune, mentre le celle vengono distribuite sul perimetro. Questo porta ad uno sforzo progettuale concentrato sulla morfologia del perimetro del fabbricato, con l’intento di trovare la forma che meglio si può adattare all’organizzazione car-ceraria e nel contempo rappresenti simbolicamente un complesso punitivo.

Un modello esemplare, che segue il flusso di trattamento punitivo e lavorativo imposto, è il carce-re voluto da Maria Tecarce-resa d’Austria a Gand nel 1772, detto “Casa della Forza”. Progettato dall’archi-tetto Montfeson, conteneva gli elementi principali tipici delle carceri settecentesche. L’edifico era costituito da due ottagoni concentrici collegati da bracci radiali che ospitavano due file di celle collegate tramite lunghi corridoi contrapposti ed illuminati da aperture affacciate sui cortili. Al centro trovavano collocazione i servizi e gli edifici amministrativi mentre nel perimetro i labora-tori. Si pensa che questo impianto si sia ispirato all’ospedale Hotel-Dieu dell’architetto Antoine Petit che rimase completamente distrutto in un incendio nel 1772 e venne ricostruito con un’altra forma. Questa conformazione radiale era particolarmente efficace nella divisione dei detenuti in categorie e consentiva uno stretto controllo della sicurezza.

A cavallo fra il XVIII e XIX secolo si assiste quindi ad un clamoroso cambiamento che conduce alla diminuzione della quantità e dell’intensità delle sanzioni criminali. Si sviluppa anche un nuovo interesse volto alla conoscenza della persona detenuta, alla comprensione delle sue matrici de-linquenziali e alla possibilità di intervento per correggerla da cui una razionalizzazione dell’archi-tettura penitenziaria.

In questo ambito si sviluppa il modello del Panopticon o “Inspection Hause”, carcere ideale pro-gettato nel 1791 dal filosofo Jeremy Bentham. Questi, con lo scopo di ridurre al minimo il numero dei sorveglianti, riesce a pensare ad una struttura che garantisce, con la presenza di un unico sorvegliante centrale, l’osservazione contemporanea di tutti i detenuti, senza che essi siano con-sapevoli di essere osservati e quindi soggetti ad uno stress psicologico continuo. In questo modo Bentham ottiene la totale sottomissione dei detenuti, garantendo l’ordine. La struttura, esterna-mente costituita da un cilindro, è internaesterna-mente composta da una torre centrale nel mezzo della quale è prevista la postazione di un osservatore, mentre attorno ad essa sono disposte le celle dei prigionieri, che presentano due aperture, una rivolta all’esterno che serve per prendere luce e per illuminare le silhouettes dei prigionieri, l’altra rivolta all’interno per garantire alla guardia la visibilità. Le celle, separate da spessi muri, consentivano l’assegnazione ad ogni detenuto di un’attività lavorativa. I modelli a cui Bentham si è ispirato sono:

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• la fabbrica del fratello Samuel Bentham in Russia, in cui gli operai venivano controllati in ma-niera continua da un punto visuale strategico;

• il Ranelagh, una casa di divertimenti costruita in Inghilterra nel 1742, costituita da una serie di palchi su più livelli affacciati su una grande sala utilizzata per le feste e illuminata da una lanterna a vetri;

• la rotonda panoramica di Robert Barker da cui riprende il concetto di panorama. In essa una serie di spettatori disposti su una piattaforma in posizione centrale potevano osservare delle immagini disposte circolarmente sulle pareti;

• il concetto della gabbia, come metafora di un potere che prevale sull’inferiorità del recluso. Numerosi sono i collegamenti simbolici relativi a questo modello:

Panopticon, Jeremy Bentham.

Jeremy Bentham, The Works of Jeremy Bentham, vol. 4 (Panopticon, Constitution, Colonies, Codification) (1843)

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• il teatro, in quanto accogliendo dei cittadini all’interno della struttura si sarebbe dato vita ad una sorta di “teatro morale le cui rappresentazioni avrebbero impresso il terrore del crimine”;

• Dio, infatti la guardia all’interno dell’osservatorio rappresenta un dio onnipresente e infallibile; • il cerchio, che con la perfetta equidistanza di tutti i punti dal centro rappresenta un microcosmo

governato da una legge divina.

L’eccessiva rigidità di questo sistema e il controllo psicologico costituiscono il principale motivo di critica nei confronti di questo modello penitenziario. Nonostante ciò fu applicato in alcune occasioni, tra queste ricordiamo due casi internazionali, il penitenziario di Stateville nell’Illinois del 1970 e la prigione Presidio Modelo a Cuba, e due casi Italiani, cioè il carcere di San Vittore di Milano il cui progettista, ingegner Francesco Lucca, conferma di essersi ispirato ad esso, e il car-cere borbonico dell’isola di Santo Stefano, ormai in stato di abbandono.

La pena e l’istituzione carceraria cominciarono ad assumere in maniera crescente funzioni sim-boliche ed ideologiche: il fine ultimo del carcere era quello di spaventare le masse, rispondendo al principio della less eligibility, legge inglese del 1834 che prevedeva all’interno degli istituti di detenzione il mantenimento di condizioni di vivibilità inferiori a quelle riscontrabili nella peggio-re situazione esterna al carcepeggio-re stesso. Il Panopticon è l’esempio maggiormente calzante a riprova del cambiamento nelle intenzioni del sistema penitenziario che passa da strumento di educazio-ne a strumento di obbligazioeducazio-ne e controllo.

La struttura cellulare già sperimentata in Italia con l’istituto di San Michele a Roma viene importa-ta in America e dà viimporta-ta a due tipologie differenti: il sistema “filadelfiano” e quello “auburniano”. In generale il sistema trattamentale usato in America era basato sul lavoro dei detenuti e sulla pre-ghiera per redimere l’anima del condannato. Mentre il sistema auburniano era basato sul lavoro diurno all’interno di spazi comuni con obbligo di silenzio e sull’isolamento notturno. Il sistema fi-ladefiano prevedeva l’isolamento sia diurno che notturno, il lavoro veniva quindi svolto all’interno delle celle che erano di dimensioni maggiori di quelle solite. Entrambi i sistemi condividevano la solitudine, il silenzio assoluto e le pene corporali ma nel sistema auburniano i momenti di comu-nione erano unicamente finalizzati al lavoro e all’istruzione che in maniera individuale sarebbe stata impossibile. Questo modello carcerario ebbe effetti devastanti sulla psiche dei detenuti: alti tassi di depressioni, suicidi, allucinazioni, danni celebrali e fisici. I difensori del modello sostenne-ro che gli aspetti negativi potevano essere superati grazie ad alcuni interventi mirati: le deficien-ze fisiche causate dal poco spazio, vennero risolte permettendo ai detenuti di svolgere esercizi

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all’aria aperta per una o massimo due volte a settimana, mentre i problemi psichiatrici, derivanti dall’isolamento e dal silenzio, potevano essere risolti, attraverso colloqui di mezz’ora al giorno che ogni detenuto avrebbe potuto sostenere con medici, maestri, custodi.

Il sistema filadelfiano venne per la prima volta applicato al penitenziario di Walnut street in Penn-sylvania nel 1776, per volere del governatore quacchero William Penn. L’edificio è costituito da più bracci rettangolari che si diramano attorno ad uno spazio centrale circolare, le celle sono tutte singole e dotate di un cancello che collega ad uno stretto passeggio circondato da alte mura. Un altro esempio è l’Estern Penitentiary sempre in Pennsylvania. Fu progettato dall’architetto John Haviland ed anch’esso è costituito da una rotonda centrale da cui si diramano dei bracci contenenti due file di celle singole collegate tramite lunghi corridoi ed affacciate sull’esterno dei cortili. Da questo impianto si sviluppa lo schema stellare o radiale poi utilizzato su larga scala, di cui un importante esempio europeo è il penitenziario di Pentonville a Londra.

Il sistema auburniano prevedeva delle celle di dimensioni molto più piccole del precedente, prive di luce ed aria se non in maniera indiretta, giustificato dal fatto che durante la giornata i

prigio-Penitenziario di Walnut street, Pennsylvania.

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nieri erano sempre fuori dalla cella. La gestione era prettamente militare dando così ai detenuti una ferrea omogeneità di comportamento, di estetica e di materiali: “nella cella, una branda, un secchio, pochi utensili di latta uguali per tutti sono i soli oggetti forniti dall’amministrazione; i prigionieri devono poi indossare un’uniforme e i cappelli devono essere rasati”. La più valida applicazione di questo modello è il carcere di Sing Sing a 30 Km da New York costruito nel 1828. È costituito da un blocco rettangolare di 6 piani con due file di celle di ridottissime dimensioni (2,1mx1mx2m) disposte di spalle con un corridoio in comune. Gli aspetti negativi del modello auburniano risiedono nella difficoltà di sorvegliare i detenuti durante il lavoro comune e la quasi totale impossibilità di far mantenere il silenzio, quindi non trovò una grande applicazione. Anche in Italia il dibattito sulle riforme delle carceri fu accompagnato da una discreta ma non incisiva riflessione sui due sistemi applicati negli Stati Uniti. Nell’Italia postunitaria il principale problema del sistema carcerario era la diffusa immoralità e corruzione. Questo condusse alcune personalità a compiere un’analisi dello stato di fatto, parteciparono quindi Petitti, che promulgò il modello filadelfiano per le brevi detenzioni e quello auburniano per quelle di lunga durata, e Carlo Cattaneo sostenitore dell’isolamento e del silenzio assoluto, collocandosi in una posizione intermedia tra l’ideologia cattolica della preghiera e del silenzio e quella laica-protestante del la-voro e quindi dell’utilità della pena. In Italia queste posizioni evolvettero in modelli definiti “misti”. La necessità poi di riordinare l’intera normativa sul diritto penitenziario portò alla classificazione di quattro diverse tipologie carcerarie e all’emanazione delle rispettive regolamentazioni:

• carceri giudiziarie, destinate ai prigionieri in custodia o in transito, a prigionieri inabili al lavo-ro per motivi di salute e a prigionieri con una pena da scontare inferiore ai sei mesi;

• case di pena, comprendevano le case di forza in cui detenuti sia uomini che donne erano co-stretti ai lavori forzati;

• case di relegazione, destinate ai condannati per i crimini contro la sicurezza interna o esterna dello Stato;

• case di custodia, destinate ai giovani.

Il Novecento

A differenza dei periodi precedenti, in questo momento non si riscontra più un diretto legame tra il modello architettonico di punizione e lo stile di vita carcerario (L. Vessella, pag. 37), si spazia invece in ambito di modellazione architettonica ricercando come unici obiettivi l’aumento della sicurezza e l’umanizzazione dello spazio della pena.

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Le prime sperimentazioni in America portano alla realizzazione di alcune tipologie penitenziarie che influenzeranno i modelli italiani. Tra quelle più importanti ricordiamo: lo schema aperto, lo schema a grattacielo e lo schema della massima sicurezza:

• lo schema aperto è costituito da una serie di edifici che si affacciano separati su uno spazio centrale vuoto solitamente contenente un giardino. Ogni singolo edificio deve quindi con-tenere tutti gli ambienti necessari per un certo gruppo di detenuti e l’aspetto architettonico della struttura garantisce un minore impatto sul prigioniero grazie alla somiglianza ad un complesso residenziale. I primi esempi di questo modello furono edifici di minima sicurezza, poi venne anche usato per edifici di massima sicurezza attraverso la reintroduzione di un alto muro di cinta con rete elettrificata. Un esempio è il District of Columbia Reformatory aperto nel 1916 per ospitare criminali di colore, ritenuti la causa della maggior parte dei crimini dello Stato. Essi venivano sottoposti a trattamenti finalizzati al reinserimento nella società e abitua-ti al rispetto della legge, potevano essere impiegaabitua-ti in cucina o abituaabitua-ti a molabitua-ti lavori manuali, ritenuti i più adatti in previsione di un impiego futuro nella società;

• lo schema a grattacielo garantiva un elevato livello di sicurezza grazie all’altezza a cui si tro-vavano le celle, consentiva la divisione in categorie omogenee, l’occupazione di poco spazio e ben si adattava a città come New York, in cui era frequente la costruzione di grattacieli. L’ar-chitetto americano Hasting H. Hart fu il primo a presentare un progetto di carcere su questo modello. Era un carcere di minima sicurezza, principalmente finalizzato a ricevere tutti coloro che erano in attesa di giudizio, i quali a dire del progettista meritavano una condizione di vita favorevole in quanto fino a prova contraria erano da considerarsi innocenti. Ai piani bassi si trovava il tribunale mentre sugli altri dieci piani erano distribuite le celle. Erano compresi un piccolo ospedale, laboratori, uffici e sul tetto erano previsti degli spazi per le attività ricreati-ve e l’esercizio. Un esempio effettivamente realizzato è il Metropolitan Correctional Center di New York, anch’esso contiene i detenuti in attesa di giudizio o comunque che devono sconta-re pene molto bsconta-revi;

• lo schema per la massima sicurezza, dopo una varietà di sperimentazioni, si riduce alla proget-tazione del “Super Maximum Security Institution”. Esso era diviso su tre livelli, quindi tre ordini di celle collocate nella parte centrale della struttura. Le celle si aprivano internamente verso una intercapedine contenente gli impianti e verso l’esterno su ballatoi a loro volta affacciati su uno spazio centrale illuminato. Di fronte alle celle erano previste delle postazioni di

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osserva-zione che consentivano alle guardie di tenere sotto controllo i prigionieri in maniera diretta e senza alcun pericolo. Un esempio è il Thomson Correctional Center in Illinois, costituito da 15 edifici contenenti dai 50 ai 200 detenuti. La vita all’interno della struttura è particolarmente sterile; una mensa, una biblioteca e qualche aula sono gli unici spazi che i detenuti possono condividere e non è previsto nessuno svago e nessuno spazio aperto. La sorveglianza è mol-to stretta e avviene attraverso mol-torri di guardia e postazioni nei cortili e nei corridoi. Un altro esempio è l’ Administrative Maximum Facility in Colorado che contiene circa 410 detenuti sot-toposti a regime di massima sicurezza e si sviluppa principalmente fuori terra, ma un corridoio sotterraneo collega la zona delle cella con l’ingresso. I detenuti trascorrono 23 ore al giorno chiusi nelle celle in isolamento e vengono scortati ciascuno da almeno 3 agenti durante le 5 ore settimanali previste all’aria aperta. Ogni cella è isolata ai suoni, contiene un letto, una scrivania ed un bagno con acqua controllata da un timer, una radio e raramente una televi-sione in cui è possibile guardare solo programmi religiosi, una piccola finestra direzionata in maniera da osservare unicamente il cielo o il tetto degli altri edifici.

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1.2 TIPOLOGIE CARCERARIE

Secondo quanto riportato da L. Scarcella e D. Croce in “Gli spazi della pena nei modelli architettonici

del carcere in Italia”, il patrimonio immobiliare carcerario italiano è costituito da oltre 200 com-plessi demaniali costruiti in epoche diverse e spesso per diverse destinazioni, quindi presentanti caratteristiche morfologiche molto differenti fra loro. Gli edifici di detenzione sono quindi stati costruiti mutualmente alle condizioni storiche, politiche e sociali che richiedevano interventi vari finalizzati alla sistemazione delle emergenze carcerarie. Questo ha portato nel tempo al ria-dattamento di strutture esistenti, alla costruzione di fabbriche nuove e successive espansioni e modifiche delle stesse. Ciò giustifica l’eterogeneità dei tipi edilizi che tuttavia sono suddivisibili in 6 gruppi tipologici principali:

• edificio a corte; • disposizione radiale;

• disposizione a palo telegrafico; • corpi edilizi differenziati; • disposizione compatta.

Edificio a corte

Appartengono a questa categoria tutti quegli edifici non appositamente costruiti con la funzione detentiva, ma riadattati da precedenti destinazioni, principalmente ex conventi, palazzi signorili, castelli variamente modificati nel corso dei secoli. Come riportato da L. Vessella in “L’architettura

del carcere a custodia attenuata” invece in America questo schema venne riutilizzato in maniera sperimentale per la progettazione di edifici carcerari. In essi il principale vantaggio consisteva

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nell’eliminazione del muro di cinta che poteva essere sostituito dal perimetro stesso del fabbrica-to contenente celle e spazi di servizio. Il cortile centrale costituiva il cuore all’aperfabbrica-to dello spazio detentivo e consentiva ai detenuti lo svolgimento di attività in maniera sicura. Nel momento in cui, al fine di aumentare il numero di detenuti, questo schema è stato ampliato, è diventato di difficile controllo e di scarsa funzionalità. L’elevato numero di detenuti, che nel Michigan State Prison raggiungevano il numero di 5000, obbligava alla costruzione di edifici sempre più grandi e costringeva i detenuti a percorrere lunghezze eccessive per spostarsi all’interno del carcere stesso. Questo motivo principale ha portato al fallimento di questo schema in America, sebbene in Italia le dimensioni più contenute hanno consentito una sua maggiore applicazione. In Italia infatti questi complessi contengono dai 30 ai 100 carcerati e comprendono celle su più piani che si affacciano sul cortile centrale collegate da un corridoio che garantisce una circolazione anula-re e ambienti comuni collocati in diverse posizioni rispetto alle celle.

Questo schema presenta il principale vantaggio di garantire un controllo diretto sui detenuti che svolgono le attività comuni all’interno del cortile centrale, inoltre la compattezza del complesso fornisce una visione piuttosto familiare e confortevole al detenuto. Tuttavia è di difficile amplia-mento e non consente l’accesso ad un numero elevato di detenuti.

Appartengono a questa categoria circa 55 complessi degli oltre 200 esistenti in Italia, quindi cir-ca il 25% del patrimonio cir-carcerario in uso (L. Scir-carcella e D. Croce).

Un esempio che rappresenta questa tipologia è la casa circondariale di Lucca ubicata in una struttura antichissima risalente probabilmente all’anno ‘700 e situata all’interno delle mura di cinta della città, in pieno centro storico. Nel 1520 l’edificio ha certamente ospitato un convento di monache di clausura dell’ordine domenicano, Monache degli Angeli, ma in epoca napoleoni-ca, nel 1806, il Principe Felice I decretò che il convento diventasse un penitenziario. L’edificio è a pianta quadrata strutturato intorno ad un chiostro centrale, quadrato anch’esso, sul quale si aprono gli ingressi alle sezioni detentive, ad alcuni uffici e al padiglione dove si svolgono le atti-vità trattamentali. All’interno del chiostro c’è un giardino con piante di cui alcune secolari, che costituiscono l’unico spazio verde dell’Istituto.

Questo è un esempio di istituto conventuale adattato a carcere. In effetti gli istituti conventuali sono quelli di più facile adattamento, vista la struttura delle camere e degli spazi comuni molto similari a quelle di una struttura detentiva.

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Disposizione radiale

La categoria comprende gli edifici ad uso detentivo d’epoca pre e post-unitaria, fino al 1890. La disposizione degli edifici presenta una serie di padiglioni a più piani che partono da uno spazio centrale destinato alla distribuzione. Si può considerare come un’anticipazione della distribuzio-ne a palo telegrafico. Il successo di questo schema è determinato dalla facilità di controllo da un unico punto di vista, la rotonda centrale, che consente una riduzione del numero di guardie, può quindi considerarsi una rielaborazione del concetto sviluppato con il progetto del Panopticon di Jeremy Bentham. Inoltre può ospitare un numero adeguato di detenuti, dai 200 ai 500, ed è caratterizzato dalla possibilità di dividere le varie funzioni in spazi separati. Le celle ad esempio sono disposte nei bracci radiali su più livelli, talvolta alternate o affiancate a spazi comuni. È an-che possibile la separazione dei detenuti in gruppi o categorie in base a caratteristian-che comuni. Lo svantaggio di questo schema è invece principalmente la difficile gestione dello spazio triango-lare di risulta tra i bracci, che sebbene utilizzato come “passeggio”, non possiede alcuna qualità spaziale e non costituisce uno spazio confortevole per la detenzione. Inoltre questa disposizione non garantisce a tutte le celle lo stesso contributo di luce a causa dei diversi orientamenti dei bracci. Anche questo modello incontra delle difficoltà legate alle necessità di espansione.

Tali complessi costituiscono il 10% del patrimonio italiano, pari al numero di circa 22 (L. Scarcella e D. Croce).

La struttura può essere costituita da una singola unità o complessi a unità radiale multipla. Per quanto riguarda i complessi ad unità radiale semplice i maggiori esempi sono San Vittore a Milano progettato nel 1872 dagli ingegneri Lucca e Cantalupi, la casa circondariale di Alessandria proget-tata dall’architetto parigino Henri Labrouste nel 1840 e i complessi di Perugia, Sassari e Genova progettati dall’ingegnere Polani tra il 1859 e il 1863. Per quanto riguarda invece i complessi a

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uni-tà radiale multipla i principali esempi sono il carcere Regina Coeli costruito tra il 1880 e il 1882 con l’impiego dei detenuti come manodopera, le Nuove Carceri di Torino progettate dall’ingegner Polani nel 1859 e l’Ucciardone di Palermo dell’architetto Giuliano De Fazio poi riformato dall’ar-chitetto palermitano Emmanuele Palazzotto.

Disposizione a palo telegrafico

Il modello prende il nome dalla particolare disposizione degli edifici disposti parallelamente fra loro e collegati da un percorso centrale. Questa tipologia si è sviluppata fra il 1889 e il 1948, ori-ginariamente applicata solo fuori dai centri abitati è stata inserita in seguito nel tessuto urbano. Nel 1890, dopo l’importante riforma del 1889, sono state stabilite le dimensioni minime dal Con-siglio Superiore di Sanità, per le celle di 2,1x4x3,3 m, mentre per i “cubicoli” di 1,4x2,4x3,3 m. Solo dopo la riforma del 1932 a seguito di vivaci campagne di protesta vennero stabilite le dimensioni minime anche dei “camerotti” che consentivano la convivenza da tre a sette detenuti in uno spa-zio di 25 mq. Con la riforma del 1932 che non prevedeva uno specifico programma di finanzia-mento per l’edilizia penitenziaria, assistiamo ad un declino dei modelli architettonici, quindi alla realizzazione di modelli che non presentano più l’imponenza ed il decoro dei precedenti.

Il tipo di edilizia realizzato in questo periodo “risulta impoverito da una tecnologia modesta nella quale all’aumento del costo globale degli edifici per l’aumento del costo della manodopera (non venendo più impiegata la manodopera detenuta, che non costava quasi nulla) corrispondeva un peggioramento della qualità dei materiali impiegati e una riduzione degli standard” (Lenci 1988). Il modello a palo telegrafico si ispira ad una prigione francese, la Fresnes Prison, costruita fra il 1895 e il 1898 dall’architetto Henri Poussin. Lo scopo dell’architetto francese era quello di ri-solvere i problemi legati all’illuminazione e all’areazione non uniformi del modello radiale. Con

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questo schema egli riesce ad assicurare la stessa fornitura di luce e aria, inoltre come per il mo-dello radiale è facile il controllo della sicurezza attraverso una postazione collocata nel corridoio centrale in corrispondenza di due bracci ed è possibile la separazione dei detenuti in gruppi e categorie completamente isolate fra loro. Per questi motivi il modello trovò ampia diffusione in Italia ed anche all’estero, principalmente in America.

La distribuzione interna comprende una serie di varianti, la più diffusa soluzione è quella che pre-vede la disposizione di servizi e amministrazione a piano terra e le celle ai piani superiori. Gene-ralmente esse si affacciano con una finestra sui cortili e con una grata sui ballatoi che collegano le varie stanze. Non sono previsti spazi comuni a livello delle celle, in quanto il loro utilizzo era previsto solo durante le ore notturne.

In Italia questo modello ebbe larga diffusione ma presto emersero una serie di problemi principal-mente legati al fatto che le attività lavorative per i detenuti erano praticaprincipal-mente inesistenti quindi questi erano costretti a rimanere all’interno delle celle di dimensioni assolutamente esigue per passarvi tutta la giornata, causando effetti psicologici molto dannosi. Quindi il modello venne abbandonato sebbene comportasse il consistente vantaggio di ospitare un numero consistente di detenuti e consentisse l’ampliamento attraverso l’aggiunta di bracci radiali ai già esistenti al-lungando così il corridoio.

Esempio di questo modello è la casa circondariale di Caltanissetta risalente al 1908 e contenente 287 detenuti.

I complessi che seguono questo schema in Italia sono circa 29 e costituiscono il 13% del patrimo-nio edilizio (L. Scarcella e D. Croce).

Il modello a palo telegrafico viene poi riproposto alla fine degli anni ‘70 con alcune differenze migliorative, quali l’ampliamento degli spazi, l’allungamento dei corridoi e la disposizione di am-bienti finalizzati allo svolgimento di attività ricreative e riabilitative. Questi miglioramenti erano determinati dalla necessità di aumentarne il livello qualitativo e affrontare l’aumento vertiginoso di detenuti. I maggiori vantaggi apportati dal modello erano l’aumento dello spazio minimo previ-sto per ogni detenuto che raggiunge il valore maggiore rispetto alle altre tipologie di conseguen-za comporta un consistente aumento dell’estensione planimetrica del modello.

Il motivo che giustifica l’abbandono di questo modello è legato ai cambiamenti che si verificaro-no in quel determinato periodo storico. Infatti le nuove verificaro-normative in ambito penitenziario aveva-no introdotto una serie di alternative alla detenzione tradizionale, tra cui il sistema di sicurezza attenuata basata sulla responsabilizzazione dei detenuti. Questo modello, nato proprio in quegli anni, era conformato all’attuazione di queste misure alternative. Tuttavia i fatti storici portarono

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invece ad un inasprimento della sicurezza e fu necessario riadattare il modello causando una consistente spesa pubblica. Ciò causò la fine del suo utilizzo.

Appartengono a questa categoria appena una decina di complessi italiani.

Un valido esempio che rientra in questa categoria è il carcere di Milano Bollate, che con il suo completamento nel 2000 si conforma perfettamente come una struttura a custodia attenuata in cui 1200 detenuti vivono in una struttura aperta in cui le celle rimangono aperte tutto il giorno consentendo ai detenuti la libera circolazione all’interno della struttura e vengono chiuse solo la notte.

DIfferenziazione dei corpi edilizi

Questa tipologia deriva dalla precedente attraverso una maggiore differenziazione e articolazio-ne dei corpi edilizi. Tale struttura consente una maggiore libertà morfologica finalizzata al miglio-ramento del rapporto con il contesto e una maggiore attenzione alla vivibilità interna. Il modello non presenta infatti uno schema ricorrente, può invece assumere le forme più diverse. Un grande vantaggio consiste nella possibilità di differenziare nettamente gli ambienti relativamente alla loro funzionalità interna e consentire quindi una rapida distinzione e riconoscibilità degli spazi. Si garantisce inoltre che ogni ambiente sia conformato ad accogliere la funzione prevista.

Questo modello sviluppatosi in Italia tra gli anni ‘50 e ‘70 anticipa una parte dei contenuti della riforma penitenziaria del 1975. Comprende circa 65 complessi realizzati con le leggi di finan-ziamento dal 1949 al 1977 e costituisce quindi il 29,68% del patrimonio in uso (L. Scarcella e D. Croce). Infatti consente di orientare gli edifici in maniera tale da garantire un corretto apporto di

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luce e aria ad ogni ambiente, consente la creazione di spazi all’aperto di forme e caratteristiche diverse che possono accogliere funzioni prima impossibili, come gli incontri con i bambini o pa-renti in generale, mense, teatri e laboratori, e la variazione dei corpi di fabbrica rappresenta una similitudine con lo spazio cittadino che quindi si ricrea all’interno delle mura di cinta fornendo al detenuto un aspetto familiare e gradevole.

Gli unici aspetti negativi legati alla morfologia del modello sono la necessità di disporre di uno spazio consistente necessario ad accogliere tutti i fabbricati previsti, tra tutte le tipologie questa è infatti quella che richiede la maggiore estensione planimetrica. Si presentano poi difficoltà legate alla gestione di un numero consistente di detenuti, che data la varietà architettonica ven-gono più facilmente controllati attraverso sistemi di sorveglianza digitale.

Si assiste in questo ambito alla sperimentazione da parte di numerosi architetti principalmente all’interno della Scuola Romana. Il primo impulso viene fornito da Mario Ridolfi con la zione nel 1953 dei carceri di Nuoro e Cosenza. Segue l’esperienza di Sergio Lenci con la progetta-zione della nuova casa circondariale di Rebibbia a Roma che tuttora rappresenta un punto di rife-rimento per l’edilizia penitenziaria a livello internazionale. Lo stesso Lenci progetta anche i nuovi istituti di Spoleto (1975), Rimini (1972), Livorno (1976) e Benevento (1976). È anche interessante il contributo di Pasquale Carbonara con la progettazione del carcere di Foggia e Trani. Quindi que-sta appare come una feconda que-stagione di ricerca verso la vivibilità dello spazio di detenzione, che culmina con la progettazione del carcere di Solliciano a Firenze da parte degli architetti Gilberto Campani, Carlo Inghirani e Andrea Mariotti. La totale perdita di interesse verso questo modello sarà causata negli anni ottanta dalla necessità di aumentare le misure di sicurezza a causa del clima di instabilità determinato dall’emergenza terrorismo.

Disposizione compatta

Questi edifici sono stati fabbricati con i finanziamenti previsti dalla legge finanziaria del 1981 n. 119 e comprendono circa il 12,78% del patrimonio in uso, quindi circa 28 istituti (L. Scarcella e D. Croce).

Lo schema torna ad addensarsi in un unico volume molto alto, fino a cinque piani, contenente tutte le attività detentive. Necessita quindi di cavedi per garantire l’illuminazione e l’areazione diretta agli ambienti interni. Generalmente ai piani inferiori si trovano gli uffici del personale e le sale dei colloqui, mentre ai piani superiori si trovano le celle disposte lungo il perimetro collegate tramite corridoi e centralmente i servizi per i detenuti. Si configura in questo modo il tipo defini-to “a corpo quintuplo” che si caratterizza per i cinque diversi setdefini-tori che compongono in pianta

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i vari piani intervallati da “piani filtro” che contengono, separati da quelli riservati al personale, i percorsi dei detenuti per raggiungere i vari settori destinati alla detenzione.

Questo modello nasce con lo scopo di aumentare il grado di sicurezza garantito dalla compat-tezza del fabbricato. I primi esempi erano infatti edifici di massima sicurezza nati appunto negli anni di piombo per contrastare la situazione instabile determinata da terrorismo e criminalità organizzata.

Il modello non introduce alcun vantaggio, infatti la necessità di aumentare la sicurezza comporta invece la riduzione della qualità dello spazio. L’eccessiva compattezza, la poca libertà di movi-mento e il continuo controllo comportano un senso di depressione nella popolazione detenuta causando nel tempo numerose rivolte e ribellioni. Inoltre gli spazi per qualsivoglia attività collet-tiva sono ridotti al minimo e indistinti. Anche la struttura contribuisce all’aspetto freddo e triste che caratterizza questi luoghi infatti si usano grandi pannelli prefabbricati in cemento armato che rendono le strutture rigide, pesanti e di difficile adattamento. Il senso di abbandono, indotto dagli interni anonimi e dagli ampi spazi esterni vuoti tra il complesso e il muro di cinta, rievoca l’i-solamento e la desolazione propri delle periferie urbane. In più questi istituti sono tutti collocati nelle periferie lontano dai centri abitati per questioni di sicurezza.

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CAP. 2 LA REALTA’ DEL CARCERE

2.1 ITER LEGISLATIVO

Prima del regolamento del 1931

Nel 1861 con Regio Decreto n. 255 fu istituita una “Direzione generale delle carceri” dipendente dal Ministero dell’interno, in sostituzione “dell’Ispettorato delle carceri” creato nel 1849 dal Re-gno Sardo.

Nel 1889 venne approvato il codice Zanardelli che prevedeva l’abolizione della pena di morte sostituita dall’ergastolo e venne emanata una prima legge sull’edilizia penitenziaria e una pre-visione degli stanziamenti per farvi fronte. La legge prevedeva lo stanziamento iniziale da parte dello Stato di 15 milioni, programmando un periodo di 12 anni per il compimento della riforma completa. A causa della riduzione dei fondi e poi della sospensione il progetto non arrivò mai a termine. Sia il codice che la legge costituirono il presupposto per l’emanazione del “Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori giudiziari” avvenuta con regio decreto 1° febbraio 1891 n. 260, ma il grave stato di decadenza in cui si trovavano gli edifici carcerari e la continua mancanza di fondi costituirono un ostacolo all’effettiva applicazione del Regolamento. Nel periodo “giolittiano” (caratterizzato da governi con indirizzi politici liberali), il regolamen-to del 1891 subì alcune importanti modifiche tendenti a mitigare le condizioni disumane dei detenuti. Venne soppresso l’uso della catena al piede per i condannati ai lavori forzati nel 1902 con l’articolo unico del regio decreto n. 337 del 2 agosto e furono introdotte modifiche al rigido sistema delle sanzioni disciplinari, eliminando le disumane punizioni della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura con Regio Decreto 14 novembre 1903, n. 484. Questo provvedimento era determinato più dalla riconosciuta inutilità di questi mezzi che dalla volontà di umanizzare gli istituti carcerari. La legge 26 giugno 1904, n. 285 riguardava invece l’impiego dei condannati in lavori di bonifica di terreni incolti o malarici.

Nel periodo che intercorre tra le prime riforme giolittiane e la conclusione della guerra mondia-le mondia-le disposizioni mondia-legislative e la prassi relative alla gestione delmondia-le istituzioni penitenziarie non subirono sensibili mutamenti. Con monotonia si susseguirono modeste innovazioni legislative,

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progetti di riforma non andati a compimento, scandali e proteste per le deprecabili condizioni degli stabilimenti di pena, inutili interrogazioni parlamentari e impacciate risposte governative. Nel 1922 il concetto che i detenuti dovevano essere oggetto di cura più che di repressione e di rieducazione più che di punizione trovò applicazione in una serie di circolari che determinaro-no un marginale miglioramento nelle condizioni dei prigionieri. Le principali tematiche eradeterminaro-no: i colloqui, il lavoro in carcere e la corrispondenza. Con Regio Decreto 31 dicembre 1922 n. 1718 la “Direzione generale delle carceri e riformatori” venne trasferita dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia, unitamente a tutti i servizi di sua competenza. Con successivo regio decreto 28 giugno 1923 n. 1890 vennero emanate le norme di esecuzione, in base alle quali le competenze in materia penitenziaria, prima attribuite al ministro dell’interno, al prefetto e al viceprefetto, fu-rono rispettivamente assegnate al ministro della giustizia, al procuratore generale presso la Corte d’appello e al procuratore del re. Con l’avvento del fascismo tutti i tentativi di riforma subirono un arresto totale e vennero solo nominate delle commissioni di lavoro che portarono avanti delle operazioni con esasperata lentezza.

Nel 1928 la “Direzione generale delle carceri e dei riformatori” assunse la nuova denominazione di “Direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena”.

Nel 1930 venne approvato il nuovo codice penale: “Codice Rocco”.

Regolamento del 1931

Nel 1931 venne approvato il nuovo codice di procedura penale e il “Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena”. Quest’ultimo era una fedele traduzione dell’ideologia fascista nel set-tore penitenziario e rimase in vigore fino al 1975. Non venne emanato un nuovo regolamento ma venne in pratica mantenuto quello del 1891. Rimasero in vigore le tre leggi fondamentali della vita carceraria (lavoro, istruzione civile e pratiche religiose), divenute adesso tassative, quindi applicate anche con la violenza. In sostanza lo scopo era l’applicazione delle regole in maniera coatta, con qualsiasi mezzo. Il Regolamento carcerario del 1931 inoltre suddivideva le carceri in tre gruppi:

• carceri di custodia preventiva, riservate a coloro che dovevano essere giudicati, o in deroga anche condannati con una pena non superiore ai due anni;

• carceri per l’esecuzione di pena ordinaria; • carceri per l’esecuzione di pena speciale.

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