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La parità di genere nelle istituzioni pubbliche: il faticoso cammino della rappresentanza femminile in Italia fra Legislatore e Corte Costituzionale CAPITOLO I

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CAPITOLO I

La parità di genere nelle istituzioni pubbliche: il

faticoso cammino della rappresentanza femminile

in Italia fra Legislatore e Corte Costituzionale

Sommario - 1. Dal divieto di discriminazione all’azione positiva: l’uguaglianza sostanziale presupposto di una democrazia paritaria - 2. Da donne elettrici a donne elette: l’ ingresso nell’ordinamento italiano delle “quote rose” tra paritaria -3. La “costituzionalizzazione” delle pari opportunità: la riforma tra tante perplessità e dubbi - 4. La censura della Corte costituzionale e il dogma dell’eguaglianza formale nel difficile cammino della democrazia dell’art. 51 tra luci ed ombre – 5. La Corte Costituzionale dice “sì”: il mutato orientamento giurisprudenziale che fa riprendere quota alle “quote” – 6. Considerazioni riepilogative

1. Dal divieto di discriminazione all’azione positiva: l’uguaglianza sostanziale presupposto di una democrazia paritaria

Dovendo identificare le coordinate dalle quali partire per trattare la questione della parità di genere nei luoghi della politica e nelle istituzioni un’analisi giuridiche non può non partire dal quadro costituzionale ed in particolar modo dal principio di uguaglianza enunciato dell’art. 3 Cost.

Il comma primo della disposizione costituzionale sancisce il principio di uguaglianza formale1 e pertanto il divieto di discriminazioni tra

1

Per un approfondimento sul tema del principio di uguaglianza si veda CARETTI P., I diritti fondamentali, terza edizione, Giappichelli, 2011, cap. 6.

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2

uomo e donna che si traduce nel divieto, in primis rivolto al legislatore, di adottare trattamenti irragionevolmente differenziati tra i cittadini.

Si vieta espressamente che possano essere ammesse discriminazioni a causa di uno dei motivi elencati dalla stessa disposizione costituzionale: trattasi del “nucleo forte del principio di uguaglianza”2 nel quale è ricompresa l’eguaglianza tra i sessi3, principio che si snoda poi in una serie di specificazioni del dettato costituzionale come nell’art. 51 Cost. sulla parità di accesso alle cariche elettive pubbliche, norma centrale per l’analisi che si sta affrontando. “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Il secondo comma dell’art. 3 Cost., appena citato, sancisce il principio di uguaglianza sostanziale: la nostra Costituzione, infatti, non si arresta all’eguaglianza formale; non basta dire che tutti sono uguali davanti alla legge e che non possono essere realizzate discriminazioni tra uomini e donne; la nostra carta costituzionale va oltre assegnando allo Stato il compito di creare azioni positive4 per rimuovere quelle

2 CARETTI P. op. cit. supra, nota n. 1, pag. 195 .

3

Nel testo si intende “sesso” come non solo quello biologico ma anche quello acquisito in base alla distinzione dovuta agli sviluppi della giurisprudenza costituzionale che in relazione ai transessuali ha parlato di discriminazione in base al genere distinguendolo, pertanto, dal sesso inteso in senso biologico ; laddove si tratta di donne è quindi più opportuno parlare di genere.

4 La definizione di azioni positive – la cui origine risale alla lotta contro il razzismo

negli Stati Uniti (cd. affirmative actions) – può essere ricavata dalla storica sentenza n. 109 del 1993. Il giudice delle leggi individua nelle azioni positive “il più potente strumento a disposizione del legislatore, che tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate e, nel caso di specie, a

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barriere di ordine naturale, sociale ed economico che non consentirebbero a ciascuno di realizzare pienamente la propria personalità.

Già alla fine degli anni 60’ la Corte Costituzionale afferma il principio secondo cui l’eguaglianza deve essere intesa come “trattamento eguale di condizioni eguali e trattamento diseguale di condizioni diseguali”5. Questo passaggio concettuale è fondamentale poiché consente di affermare che le differenze di fatto o le posizioni storicamente di svantaggio possono essere rimosse anche con trattamenti di favore che altrimenti sarebbero discriminatori.

La Corte Costituzionale ha svolto una funzione essenziale di adeguamento dell’ordinamento legislativo al principio costituzionale di eguaglianza fra i sessi6, in molti casi anticipando l’intervento del legislatore. Di fondamentale interesse, in questa sede, sono soprattutto le pronunce costituzionali in materia di accesso delle donne ai pubblici uffici e alle cariche elettive, nonché in materia di azioni positive.

Quanto all’accesso ai pubblici uffici, va ricordata la sentenza n.33/1960, con cui fu dichiarata l’incostituzionalità di una lontana norma del 1919 in materia di capacità giuridica della donna nella

superare il rischio che diversità di carattere naturale o biologico si trasformino arbitrariamente in discriminazioni di destino sociale”. Dunque, una deroga al principio di uguaglianza formale, dato che particolari vantaggi vengono attribuiti a determinati soggetti appartenenti a categorie svantaggiate. Cfr. CAIELLI M., Le

azioni positive in materia elettorale: un revirement della Corte costituzionale?, in

Giur.it, 2004, p. 236.

5 Corte Costituzionale, sentenza del 1957, n. 3. 6

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4

parte in cui escludeva quest’ultima da tutti gli uffici pubblici che comportassero l’esercizio di diritti e potestà politiche7.

Dopo questa decisione, negli anni immediatamente successivi, il legislatore8 ha ammesso le donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Come si è evince, la Corte costituzionale ha preceduto e sollecitato (non solo in questo caso) il legislatore all’adeguamento della legislazione ai principi costituzionali in materia di eguaglianza di genere. In particolare va detto, però, che le leggi ordinarie dello Stato hanno recepito con grave ritardo, rispetto all’entrata in vigore della Carta costituzionale, i contenuti sostanziali del principio di uguaglianza e di pari godimento fra uomini e donne dei diritti civili, sociali e, soprattutto, di quelli politici.

L’approdo finale di questo percorso è rappresentato, quindi, dalle azioni positive che non hanno più la struttura del mero divieto ma dell’agire positivo volto alla correzione di disparità sostanziali. Insomma “l’evoluzione da una democrazia promessa e programmatica a una democrazia compiuta e paritaria non può, infatti, non passare (anche) dal riconoscimento dell’uguaglianza sostanziale del diritto di elettorato passivo fra uomini e donne.”9

Analizzato il principio dell’uguaglianza sostanziale quale fondamento di una democrazia paritaria si rende necessario fare un’ulteriore osservazione che non desta poche perplessità: il fondamento ultimo delle azioni positive, nel particolare caso della materia elettorale, è

7 L. 17 Luglio 1919, n.1176 art. 7.

8 A riguardo si veda la l. 9 febbraio 1963 n.6. 9

FALCONE A, Partecipazione politica e riequilibrio di genere nelle assemblee elettive e negli organi di governo: legislazione e giurisprudenza costituzionale nell’ordinamento italiano, in Aic rivista, 2016, n. 1, pag. 2.

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infatti dubbio in quanto, se è vero che il Costituente, dopo aver posto l’eguaglianza formale come regola e l’eguaglianza sostanziale come eccezione in materia di elettorato attivo (art.48 Cost.) e elettorato passivo (art.51 Cost. antecedente alla riforma) ripropone il dogma della formalità dell’eguaglianza ponendo al legislatore e quindi all’agire positivo un ostacolo di carattere testuale non di poco conto. Difatti, entrambe le disposizioni costituzionali fanno mero riferimento all’uguaglianza uomo-donna senza spingersi oltre.10

La questione e le perplessità appena descritte non hanno un carattere di secondo piano in quanto, solo attraverso queste premesse, si riesce a capire perché il cammino di “positivizzazione” delle pari opportunità all’accesso alle cariche elettive pubbliche ha avuto una storia complessa e travagliata tanto che anche il Giudice delle leggi ha faticato a superare gli ostacoli di cui prima; infine solo in questa ottica si spiega perché si renderà necessaria in questo cammino anche una riforma della stessa Costituzione.

2. Da donne elettrici a donne elette: l’ingresso nell’ordinamento italiano delle “quote rose” tra tante perplessità e dubbi

L’esclusione delle donne dal diritto di voto per lunghissimo tempo ci fa comprende come il problema dell’accesso delle donne alla c.d. “cittadinanza politica” ha origini remote e da sempre è stata destinato

10 Cfr. AINIS M. , Azioni positive e principio d’eguaglianza, cit., pp. 597 ss.; nonché La riforma dell’art. 51 e i suoi riflessi nell’ordinamento, in BIN R. , BRUNELLI G. ,

PUGIOTTO A. e VERONESI P. (a cura di), BIN R., La parità dei sessi nella

rappresentanza politica, Giappichelli, 2002, pp. 25 ss.; D’AIOLA A. Argomenti per uno Statuto costituzionale delle azioni positive, in CALIFANO L. (a cura di), Donne, politica e processi decisionali, Giappichelli, 2004, pp. 33-34.

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ad un cammino lungo e tortuoso e, sicuramente, non ancora completo.

La cosa che sorprende (o forse no) nell’elaborare questa analisi è che nelle Costituzioni e nelle leggi elettorali europee ottocentesche, non c’era mai l’esclusione esplicita delle donne né dall’elettorato attivo né da quello passivo; del resto se si legge lo stesso art.2411 dello Statuto Albertino e ed il testo unico elettorale dell’epoca12 si evince come la questione giuridica se la donna abbia in Italia diritto al voto “è stata risoluta negativamente (…) non secondo quello che la legge dice, ma secondo quello che alla legge si è voluto far dire, secondo la prassi inventata dal tempo e affermata come consuetudine nel diritto pubblico”.13

Brevemente vale anche la pena ricordare come nella celebre petizione Mozzoni14 si rimarcava, con estrema lucidità, il timore diffuso all’epoca non solo di avere delle donne elettrici ma di dover poi, come naturale conseguenza, riconoscere loro anche l’eleggibilità alle cariche elettive pubbliche.

11

Statuto Albertino, art. 24. “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado,

sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi.”

12

R.D. 28 Marzo 1895 n.83.

13 Sul tema dell’esclusione delle donne dalla cittadinanza politica nell’Italia Albertina

si approfondisca su BRUNELLI G., Donne e politica. Quote rosa? Perché le donne in

politica sono ancora così poche, 2006, cap. 2.

14 La Petizione, scritta da Anna Maria Mozzoni nel 1876 e pubblicata in La donna,

Venezia, 30 marzo 1877, si legge anche in MOZZONI A.M., La liberazione della

donna, a cura di PIERONI BORTOLOTTI F. , Mazzotta, 1975, pp. 128-129, ed è stata di

recente riprodotta sia in Donne alle urne. La conquista del voto. Documenti

1864-1946, a cura di D’AMELIA M. , Biblink editori, 2006, pp. 19-20, sia in Italia 1946: le donne al voto, dossier, a cura di FAGUZZA M. e CASSAMAGNAGHI S.

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Il diritto elettorale, senza dubbi, si scompone in due profili, entrambi necessari: il diritto di concorrere con il proprio voto alla scelta del rappresentante ed il diritto di essere scelto come rappresentante. Partendo da queste, brevi ma necessarie, considerazioni preliminari si deve ora fare uno balzo temporale in avanti e precisamente ai primi anni novanta, quando il nostro legislatore affronta (per la prima volta in maniera incisiva) il problema della sottorappresentanza femminile nelle assemblee elettive pubbliche introducendo nelle leggi elettorali norme che stimolassero e garantissero una maggiore presenza delle donne. Insomma, risale ad una ventina di anni fa la prima legislazione “di favore” in tale ambito e l’ingresso nel nostro ordinamento della tanto discusse “quote rosa”.

Per la verità, l’istituto nasce in tutt’altro contesto ossia negli Stati Uniti degli anni ’60, sotto le amministrazioni democratiche, quando vengono introdotte nel mondo del lavoro misure consistenti nell’assegnazione di quote di posti o di punteggi aggiuntivi, volte a creare trattamenti privilegiati a favore delle categorie tradizionalmente emarginate (i neri, i disabili) e perciò classificate dalla dottrina come “azioni positive”, in quanto attributive a determinati gruppi di vantaggi speciali15.

Le “quote rosa” o meglio definite come “quote elettorali” di genere hanno avuto in Italia una storia piuttosto travagliata, che non può ancora considerarsi conclusa.

15

In Italia non a caso la l. 10 aprile 1991 n. 125 si intitola “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro” e la l. 25 febbraio 1992 n. 215 “Azioni positive per l’imprenditoria femminile”; entrambe sono confluite nel d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità fra uomo e donna).

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8

Come premessa si chiarisca ma, verrà analizzato nel dettaglio in seguito quando si parlerà dei modelli comparati di riferimento in materia di pari opportunità nei sistemi elettorali, che il termite “quota” è alquanto inesatto perché, nei fatti, ci si riferisce a molteplici misure assai diverse tra di loro ma che si propongono tutte di incrementare l’ingresso delle donne negli organi elettivi.

In sintesi, le quote elettorali rappresentano quello che, in gergo, si definisce “fast track” (percorso veloce) come scelta di alcune politiche delle pari opportunità16.

Le misure positive, che nel 1993 hanno aperto l’annoso dibattito in tema di rappresentanza di genere, sono state la legge n. 81 riguardante l’elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia e dei consigli comunali e provinciali17, e la legge n. 277 sull’elezione della Camera dei deputati18.

In particolare, la prima norma citata stabiliva che per l’elezione del consiglio comunale nei comuni con popolazione, rispettivamente, fino

16

BRUNELLI G., Donne e politica. Quote rosa? Perché le donne in politica sono

ancora così poche, 2006 , cit., 48. A tal proposito occorre brevemente precisare che,

prima dell’approccio di “fast track” vi erano state prevalentemente esperienze di “slow track” (modello scandinavo) che richiedevano un arco temporale molto più ampio per arrivare alla rappresentanza politica sostanzialmente paritaria dei due sessi; entrano, infatti, in crisi nel XXI sec.

17

L. 25 marzo 1993, n. 81 ; in questa sede va citata anche la l. 23 Febbraio 1995, n.43 (l. Tatarella) in quanto stabiliva per i Consigli delle Regioni a Statuto ordinario che “In ogni lista regionale e provinciale nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati”.

18 L. 4 Agosto 1993, n.277 o meglio conosciuta come “mattarellum” grazie ad una

sintesi del politologo Giovanni Santori che si ispirò al nome del suo relatore, l'ex parlamentare ed ex ministro Sergio Mattarella. Frutto del referendum del 18 aprile di quell’anno che aveva spinto per il passaggio dal vecchio proporzionale puro ad un sistema, appunto, maggioritario che consentisse maggiore governabilità prevede un sistema perlopiù maggioritario con recupero proporzionale per il 25% dei seggi.

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e oltre i 15.000 abitanti, nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in misura superiore ai tre quarti (nel primo caso) e ai due terzi.

Il “mattarellum” disponeva, invece, che le liste presentate per le elezioni della Camera dei deputati ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale fossero formate da candidati e candidate in ordine alterno. A tal proposito, si può notare, come tali previsioni fossero state inserite proprio nella parte proporzionale del sistema a conferma che, per la loro struttura, i sistemi maggioritari difficilmente si prestano a questo tipo di previsioni; non a caso i sistemi proporzionali sono stati da sempre considerati “women - friendly”19. Le norme prese in esame hanno rappresentato un passaggio fondamentale nel cammino della rappresentanza di genere e nonostante fossero state formulate in maniera neutrale riguardando uomini e donne; nella situazione concreta servivano “alle donne per rompere il monopolio maschile del potere politico”20.

Non si può negare come la discussione, apertasi più arditamente in questo periodo storico, non riguarda solo la rappresentanza femminile ma, si estende ad una questione molto più ampia e,

19

Quest'ultima precisazione è ben presente nella giurisprudenza costituzionale: già nella sentenza del 1995, n. 422 si esprimeva una valutazione positiva di misure "liberamente adottate dai partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle

elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature" (n. 7 cons. dir.). Nella decisione del

2003, tuttavia, la Corte costituzionale, constatato che i partiti non hanno mostrato alcuna propensione a dotarsi in questa materia di regole di autodisciplina, stabilisce che la finalità promozionale imposta dalla Costituzione può essere perseguita "come

effetto di un vincolo di legge" (n. 4 cons. dir.). Per un approfondimento sul tema si

veda BRUNELLI G, “Pari opportunità elettorali e ruolo delle regioni”, par. 3, in http://www.forumcostituzionale.it (ultima visita: 20 Giugno 2016).

20

CARLASSARRE L., “Il diritto alle pari opportunità a 60 anni dall’entrata in vigore

della Carta Costituzionale”, cit. pag. 8, in http://www.csm.it (ultima visita 20 Giugno 2016).

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certamente, non leggera: si pone, infatti, un problema di democrazia che mal si concilia con l’assenza di rappresentanti della maggioranza del “popolo sovrano” dalle sedi decisionali.

Nonostante le due disposizioni (la legge n.81 e n. 277 del 1993) possono sembrare simili nella loro formulazione se, l’analisi diventa più pregnante, si legge immediatamente una diversità di portata. La prima infatti, quella riferita alle elezioni comunali, imponeva una presenza massima nelle liste per ciascuno dei due sessi e, come pare ovvio, non poteva in alcun modo tradursi in una garanzia di elezione in quanto la designazione degli eletti restava comunque affidata alle preferenze liberamente espresse dagli elettori.

La disposizione contenuta nella legge n.277 imponeva una presenza paritaria e alternata dei sessi nelle liste e, dal momento che i candidati risultavano eletti secondo l’ordine progressivo di presentazione (si trattava difatti di liste bloccate), tale previsione normativa aveva sicuramente un impatto maggiore sulla composizione dell’Assemblea.

Sulla base di questo tipo di analisi la dottrina costituzionalistica inizia sin da subito a sollevare dubbi e perplessità su questa tipologia di intervento legislativo che sembrerebbe mal conciliarsi, secondo gli studiosi di diritto costituzionale, con il principio di uguaglianza garantito nella massima fonte di diritto ma non solo, sembrerebbe anche mettere in profonda crisi il concetto moderno di rappresentanza politica. A tali preoccupazioni si rivelò sensibile la Corte costituzionale, che eliminò queste previsioni normative attraverso la tanto discussa sentenza n.422/1995.21

21

Per una completa analisi sul punto si rimanda a BRUNELLI G., “Donne e politica.

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3. La censura della Corte costituzionale e il dogma dell’eguaglianza formale nel difficile cammino della democrazia paritaria

La legge sull’elezione diretta del sindaco, di cui si è ampiamente parlato in precedenza stabiliva che, per la composizione delle liste elettorali per le elezioni comunali con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, si doveva adottare la regola secondo la quale “nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi può essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi22”.

Negli anni immediatamente successivi alla sua entrata in vigore tale disposizione fu al centro di un’annosa questione giurisprudenziale che giunge persino alla Corte Costituzionale e segnò un pesante dietrofront sul tema delle quote rosa che è importante analizzare in questa sede.

Il Consiglio di Stato, in sede di appello avverso la sentenza del TAR Molise avanti alla quale un elettore aveva impugnato le operazioni per l’elezione del sindaco e del consiglio del proprio comune in quanto tra i trentasei candidati al consiglio comunale complessivamente presentatisi nelle tre liste in competizione, risultava essere presente una sola donna, in evidente violazione della (prima richiamata) legge n. 81 del 1993, sollevò questione di legittimità in relazione a tale disposizione legislativa in riferimento ai seguenti parametri costituzionali: art. 3, comma 1, (uguaglianza formale); art. 51, comma 1, (diritto di elettorato passivo) e art. 49 (principio di libertà politica).

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In particolare la Corte costituzionale accolse l’impostazione del giudice costituzionale, condividendo l’assunto in base al quale nella materia elettorale avrebbe spazio solamente il principio di eguaglianza formale: secondo il giudice delle leggi, qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti al “sesso” dei rappresentanti è in contrasto con tale principio e, dunque, incostituzionale, anche se viene formulata in modo neutro, come nel caso della disposizione impugnata, che non fa un esplicito riferimento ad uno solo dei sessi, ma utilizza la generica espressione “nessuno dei due sessi”.

La Corte esclude che nella materia disciplinata dall’art. 51 cost. lo Stato sia legittimato ad adottare provvedimenti di natura “sostanziale”, in pratica nel campo dei diritti politici si dovrebbe garantire unicamente l’eguaglianza “in astratto”. La Consulta precisò che l’appartenenza di genere non può mai essere assunta a requisito di eleggibilità e, ancora prima, di candidabilità infatti “la possibilità di essere presentato candidato (…) non è che la condizione pregiudiziale e necessaria per poter essere eletto”23 e dunque sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza la “norma che impone nella presentazione delle candidature alle cariche pubbliche elettive qualsiasi forma di quote in ragione del sesso dei candidati24”.

La disposizione impugnata, secondo quanto dichiarato dalla giudice, sarebbe stata proposta e votata “con la dichiarata finalità di assicurare alle donne una riserva di posti nelle liste dei candidati, al

23 Corte Costituzionale, sentenza del 1995, n. 422 (n. 4 cons. dir) . 24

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fine di favorire le condizioni per un riequilibrio della rappresentanza dei sessi nelle assemblee comunali25”.

Pareva verificarsi una discriminazione, questa volta al contrario ossia rivolta al sesso maschile, pertanto la norma violerebbe gli artt. 3 e 51 Cost., la disparità non viene rimossa e si attua una tutela preferenziale in base al sesso. Infine, fu confermata l’illegittimità costituzionale sollevata dal giudice amministrativo anche in relazione all’art. 49 Cost. secondo cui i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Si sarebbe realizzata un’inammissibile compressione della libertà dei partiti politici di formare le liste elettorali, selezionando le persone da proporre agli elettori.

Uno degli aspetti più peculiari di tale pronuncia, al di là delle critiche e delle perplessità che le verranno rivolte nel merito, è stato l’utilizzo, ritenuto assai ardito, dell’istituto dell’“illegittimità costituzionale consequenziale”26, attraverso cui la Corte dichiara illegittime disposizioni normative che, pur non essendo state impugnate direttamente, presentano con esse uno stretto collegamento di contenuto spazzando via dall’ordinamento, quindi, tutte le norme miranti, con diversa tecnica, a riequilibrare la presenza di uomini e donne nelle Assemblee elettive27.

25

Sent. cit. supra, nota n.22, n. 5 cons. dir.

26

L’istituto della dichiarazione di illegittimità consequenziale trova applicazione all’interno del principio, sancito dalla L. 11 marzo 1953, n. 87,art. 27, c. 1 di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, il quale vieta alla Corte di ampliare o modificare in via autonoma l’oggetto del proprio giudizio.

27

La Corte costituzionale con sentenza del 1995, n. 422 dichiara, ai sensi dell'art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni: art. 7, primo comma, ultimo periodo, della legge 25 marzo 1993, n. 81; art. 2 della

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L’utilizzo abnorme dell’istituto dell’illegittimità consequenziale si spiega soltanto con la fortissima volontà politica da parte del Giudice costituzionale di eliminare dall’ordinamento tutte le previsioni miranti a favorire la presenza femminile nelle assemblee eletti vive, volontà che conduce la corte a forzare oltre misura le regole del proprio processo.28

In primis, dal punto di vista storico, si può immediatamente osservare come l’interpretazione data all’art. 51 Cost. risente , senza dubbi, di una valutazione mancata già agli stessi Costituenti che non si sono posti il problema di una eventuale disparità nella presenza fra uomini e donne negli uffici pubblici, nelle cariche elettive né tanto meno in materia elettorale in quanto le donne non avevano avuto occasione di ingresso, avendo votato per la prima volta nel 1946.

Nonostante questo, la stessa formulazione della disposizione costituzionale laddove fa riferimento a “i cittadini dell’uno e dell’altro sesso” avrebbe potuto essere da sostegno ad un’interpretazione più aperta da quella, invece, prospettata dalla Corte che, come si è visto,

legge 15 ottobre 1993, n. 415 (Modifiche ed integrazioni alla legge 25 marzo 1993, n. 81); art. 4, secondo comma, n. 2, ultimo periodo, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, come modificato dall'art. 1, della legge 4 agosto 1993, n. 277, (Testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati); art. 1, sesto comma, della legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario); artt. 41, terzo comma, 42, terzo comma, e 43, quarto comma, ultimo periodo, e quinto comma, ultimo periodo (corrispondenti alle rispettive norme degli artt. 18, 19 e 20 della legge regionale Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994, n. 3) del decreto del Presidente della Giunta regionale del Trentino-Alto Adige 13 gennaio 1995, n. 1/L (Testo unico delle leggi regionali sulla composizione ed elezione degli organi delle amministrazioni comunali);art. 6, primo comma, ultimo periodo, della legge regionale Friuli-Venezia Giulia 9 marzo 1995, n. 14 (Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nonché modificazioni alla legge regionale 12 settembre 1991, n. 49); art. 32, terzo e quarto comma, della legge regionale Valle d'Aosta 9 febbraio 1995, n. 4 (Elezione diretta del sindaco, del vice sindaco e del consiglio comunale).

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Sul punto si veda D’AMICO M., Il difficile cammino della democrazia paritaria, 2011.

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ha completamente ribaltato la scelta di principio fatta dal legislatore con effetti disastrosi sulla presenza femminile nella politica italiana negli anni successivi. Come si preannunciava, ampie critiche sono state rivolte in relazione al preteso automatismo fra “candidatura” ed “eleggibilità” assunto in sentenza29.

In sostanza, si ritiene che la Corte non abbia tenuto conto che l’obbligo di inserire donne nelle liste elettorali non garantisce in realtà nessun risultato ma esclusivamente una condizione pregiudiziale per far beneficiare in concreto alle donne di quel diritto all’elettorato passivo. Tale critica diventa più pregnante se si considera che oggetto dell’impugnazione innanzi ai giudici costituzionali era una disposizione contenuta nella legge n. 81 del 1993; sarebbe stato, invece, sicuramente più difficile muovere questa critica se la Corte fosse stata chiamata a giudicare direttamente la legge n. 277 del 1993 sull’elezione della Camera dei deputati in quanto la misura contenuta poteva incidere molto di più sul dato elettivo dal momento che i candidati risultavano eletti secondo l’ordine progressivo di presentazione. Inoltre, altra questione molto dibattuta in dottrina è stata l’equiparazione fra “quote neutre” e “azioni positive” realizzata nella sentenza, in quanto si ritiene che la Corte abbia ritenuto inammissibile proprio il nucleo essenziale di qualsiasi azione positiva, che, in quanto incidente sul contenuto sostanziale del diritto, deve essere necessariamente discriminatoria, quanto meno sul piano formale30.

29 Sul punto cfr., ex multis: DE SIERVO U., La mano pesante della Corte sulle “quote” nelle liste elettorali, in Giur. cost., 5/1995, 3270, D’AMICO M. e CONCARO A, Donne e istituzioni politiche. Analisi critica e materiali di approfondimento, 2006, 34. 30

Per una critica sulle azioni positive in materia diritti politici si veda, CINANNI G.,

Leggi elettorali e azioni positive, cit., p. 3285. A giudizio dell’A., “proprio in quanto

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Le uniche azioni positive che la Corte ammette in tal senso riguardano i partiti politici che possono adottare al proprio interno, negli statuti o nei regolamenti aventi ad oggetto la presentazione delle candidature: “È opportuno, infine, osservare che misure siffatte, costituzionalmente illegittime in quanto imposte per legge, possono invece essere valutate positivamente ove liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni, anche con apposite previsioni dei rispettivi statuti o regolamenti concernenti la presentazione delle candidature. A risultati validi si può quindi pervenire con un'intensa azione di crescita culturale che porti partiti e forze politiche a riconoscere la necessità improcrastinabile di perseguire l'effettiva presenza paritaria delle donne nella vita pubblica, e nelle cariche rappresentative in particolare. Determinante in tal senso può risultare il diretto impegno dell'elettorato femminile ed i suoi conseguenti comportamenti”31.

A tal proposito la Corte richiama anche una risoluzione del Parlamento europeo nella quale si invitavano proprio i partiti politici a stabilire quote di riserva per le candidature femminili32.

Per completezza d’indagine va, infine, detto che la pronuncia della Corte costituzionale italiana aveva un importante precedente in ambito europeo, in particolar modo in Francia33 dove per superare comportano necessariamente una rottura del principio d’eguaglianza formale e per questo possono generare nuovi squilibri nella convivenza sociale”. Si rinvia anche a NESPOR S., Politiche delle quote: i pro e i contro, in BECCALLI B. (a cura di).; SANTAMBROGIO M., Azioni positive e uguaglianza, p. 665 ss.

31

Corte Costituzionale, sentenza del 1995, n. 422, cit. n.7 cons. dir. 32

Ris. Parl. UEn. 169 del 1988

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Il Conseil Constitutionnel nel 1982 aveva ritenuto contraria alla Costituzione una previsione normativa secondo la quale, per le elezioni municipali nelle città con più di 3.5000 abitanti, le liste non avrebbero potuto contenere più del 75% di persone

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tale visione si percorse poi la strada della riforma della Costituzione divenendo, come si vedrà, modello di riferimento per il legislatore italiano.

La decisione della Corte non ha tuttavia spento il dibattito relativo al problema della sottorappresentanza femminile nelle istituzioni, ma, al contrario, lo ha ravvivato, creando negli anni successivi un clima politico favorevole ad intraprendere la strada verso il superamento del blocco imposto dal giudice costituzionale: continua, così, il difficile cammino della democrazia paritaria.

4. La “costituzionalizzazione” delle pari opportunità: la riforma dell’art. 51 tra luci ed ombre

Nel faticoso e travagliato cammino della rappresentanza di genere in Italia una tappa fondamentale è, senza dubbio, da individuarsi nella riforma dell’art.51 della Costituzione.

Partendo dal modello francese si pensò anche nel nostro ordinamento di superare gli ostacoli e le censure giurisprudenziali con l’unica via che apparve possibile: riformare, sul tema, la Costituzione; in linea con questo la riforma del titolo V rappresentò un ottimo alibi per riporre l’attenzione sul tema della rappresentanza di genere e con la legge Costituzionale n. 1 del 2003 fu modificato l’art. 51 del dettato costituzionale: per superare la rigida posizione della Corte costituzionale espressa nella sentenza del 1995, il legislatore

dello stesso sesso. Anche per il giudice costituzionale francese una misura di questo tipo doveva ritenersi in contrasto con la nozione di eguaglianza in senso formale (art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino) e con il principio generale del diritto elettorale secondo cui le condizioni di eleggibilità sono tassativamente indicate dalla Costituzione, ed il legislatore non può operare distinzioni tra i candidati in base al sesso ( art. 3 della Costituzione del 1958).

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costituzionale ha introdotto una norma che in materia elettorale possa superare il dogma dell’eguaglianza formale.

Alla disposizione che garantisce astrattamente che “che tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, interpretata dal giudice come riguardante la sola eguaglianza formale, viene aggiunta una disposizione abbastanza generica, che consente però misure di natura sostanziale anche nella materia elettorale: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” .

La finalità, dichiarata dal legislatore costituzionale, è proprio quella di superare il giudicato costituzionale, consentendo di “mettere un cappello alle quote”34. Insomma, avviene quel processo che spesso viene ricordato come “costituzionalizzazione delle pari opportunità”35 e questo passaggio sarà fondamentale per l’adozione di specifiche norme e strumenti con funzione antidiscriminatoria, orientati a favorire la partecipazione paritaria di donne e uomini alla vita politica e istituzionale.

La novella costituzionale, che porta a compimento un percorso politico e legislativo avviatosi nella XIII legislatura36, consente di completare con l’aggiunta del livello statale, quanto già previsto per l’ordinamento delle Regioni ordinarie e a statuto speciale.

34

Sul punto si veda D’AMICO M. e CONCARO A, Donne e istituzioni politiche.

Analisi critica e materiali di approfondimento, 2006, pag. 42. 35

Cfr. FALCONE A, “Partecipazione politica e riequilibrio di genere nelle assemblee elettive e negli organi di governo: legislazione e giurisprudenza costituzionale nell’ordinamento italiano, in Aic rivista, 2016, par. 3.

36

Il testo della modifica riprende sostanzialmente il contenuto di analoga proposta di legge costituzionale approvata sul finire della XIII legislatura alla Camera in prima lettura con amplissimo consenso. La Commissione Affari costituzionali del Senato cui è stato assegnato il testo (S. 4974) non ha iniziato l’esame in sede referente per il sopraggiunto scioglimento delle Camere.

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Giova ricordare, infatti, che la l. Cost. 2/200137 relativa all’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano, ha introdotto disposizioni finalizzate alla promozione della parità di accesso alle consultazioni elettorali con l’espressa finalità di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi; inoltre, l’articolo 117, 7° comma38, della Costituzione stabilisce che le leggi regionali debbano rimuovere ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovere la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. Sembra, tuttavia, opportuno porre in evidenza che il testo di modifica approvato concerne il solo principio della parità di accesso e non anche quello della rappresentanza nelle cariche elettive: in altri termini, esso tende a realizzare un’uguaglianza delle opportunità, e non anche una predeterminazione del risultato di riequilibrio della rappresentanza, la qual cosa potrebbe avere un effetto distorsivo sulla concezione neutra e unitaria, cioè non divisa per generi, della rappresentanza politica tipica dei moderni ordinamenti liberal-democratici.

L'approvazione della modifica all'art. 51 della Costituzione, condivisa da una maggioranza trasversale di forze politiche, costituisce una svolta che potrà favorire una maggiore presenza femminile nella vita politica e sociale del paese.

E' questa una modifica-integrazione della Costituzione, predisposta al fine di dare copertura costituzionale a tutti quei provvedimenti legislativi ed amministrativi, con i quali si volessero garantire forme di

37

L. Cost. del 31 gennaio 2001, n. 2.

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paritaria partecipazione tra donne e uomini, in particolare alla designazione di cariche elettive39.

In tal modo, le future norme non sarebbero assimilabili alle "azioni positive" (cioè norme dirette a favorire le donne attribuendo ad esse vantaggi speciali e diversi), ma piuttosto sarebbero norme con funzione antidiscriminatoria, miranti cioè a regolare in modo eguale la posizione di donne e uomini.

Tale riforma, però, non è stata esente da dubbi e critiche da parte della dottrina, infatti, mentre ad alcuni autori la revisione dell’art. 51 Cost., è apparsa non soltanto utile, ma addirittura necessaria al fine di introdurre strumenti che garantissero una maggiore rappresentanza femminile; secondo altri, invece, la forma non solo era inutile, ma avrebbe potuto rivelarsi addirittura dannosa.

Uno dei punti critici messi in luce dai commentatori riguarda la formula linguistica utilizzata dal legislatore costituzionale, che appare molto generica: secondo parte della dottrina con una disposizione di questo genere si rischierebbe di non raggiungere l’obiettivo di una legislazione elettorale che garantisca la presenza femminile, in quanto il legislatore non sarebbe affatto obbligato ad introdurre quote o specifiche misure che impongano la presenza femminile almeno nelle liste. Ad oggi, si può dire che questa preoccupazione, valutata all’epoca come eccessiva, non era poi del tutto infondata: in un primo momento le critiche sono state messe da parte ed è stato sottolineato

39

“Abbiamo creato, con un voto unanime, un ombrello costituzionale alle azioni positive. Le azioni positive non sono solo le quote. Anche la politica degli asili nido, gli interventi di conciliazione famiglia e lavoro, le misure per l’ampliamento della base occupazionale femminile, rendere più flessibile il mercato del lavoro, sono per me azioni positive che hanno conseguenze sulla partecipazione delle donne alla vita pubblica.”, dichiarazione del Ministro per le Pari Opportunità, Stefania Prestigiacomo al Salone internazionale delle Elette e delle Pari Opportunità, Lingotto di Torino (marzo 2004).

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l’effetto positivo della riforma anche perché proprio nel 200440 si introduceva una norma che, in tema di elezioni europee, imponeva nelle liste la presenza di ambo i sessi nella proporzione di almeno due terzi e un terzo ma, aspetto ancora più importante era la previsione di sanzioni economiche per i partiti europei inadempienti e meccanismi economici premiali in relazione al numero delle donne elette.

Man mano questo ottimismo si è del tutto spento, rivelandosi la fragilità del contenuto del nuovo art. 51 Cost., del resto l’obbligo per il legislatore di adottare una determinata misura si potrebbe sostenere solo se fosse chiaramente espresso nella Costituzione.

Un altro aspetto importante del significato della riforma, messo in luce dalla dottrina, attiene al rapporto fra la modifica dell’art. 51 Cost. e la sentenza costituzionale n. 422 del 1995. Seguendo il modello francese, anche in Italia tale riforma è stata voluta per legittimare le quote ma, rispetto all’esperienza francese, nel nostro paese l’idea che si debba o si possa ricorrere normalmente alla revisione della Costituzione tutte le volte in cui si voglia superare una decisione della Corte costituzionale è apparsa, per taluni, come un’arma a doppio taglio: per dare “il diritto all’ultima parola”41 al legislatore si indebolisce il valore della nostra Costituzione.

Questo ragionamento si rafforza se si pensa che la Corte stessa supererà il proprio precedente senza bisogno di ricorrere, quanto meno nella sua argomentazione principale, al mutato quadro costituzionale di riferimento che verrà utilizzato soltanto come argomentazione di sostegno.

40 Ci riferiamo alla l. del 8 aprile 2004, n. 90, art. 3 . 41

Sul tema si veda D’AMICO M. e CONCARO A, Donne e istituzioni politiche. Analisi

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Oltre al dibattito dottrinale è importante, in tale sede, richiamare anche un’ordinanza del 200542 in quanto costituisce una prima, anche se succinta, interpretazione del novellato art. 51 della Costituzione; la Corte con l’ordinanza che si richiama, boccia in modo chiaro e netto l’imposizione del Consiglio di Stato per il quale l’intervento costituzionale del 2003 rimarrebbe lettera morta dinanzi alle argomentazioni della sentenza n. 422 del 199543.

Questa decisione, dunque, consente di ritenere, sin da subito, tramontata la possibilità di un’interpretazione restrittiva dell’art. 51 Cost., da questo momento si apre una nuova fase per la rappresentanza paritaria che incontrerà un suo punto di svolta in una sentenza costituzionale del 2003 decisamente “overruling”44.

42C. Cost. ord. del 2005, n. 39 emessa in seguito alla questione di costituzionalità

sollevata dal Consiglio di Stato, nel corso di un giudizio promosso per l’annullamento di un concorso pubblico, nel quale il ricorrente contestava la propria esclusione, avvenuta, a suo, dire, in applicazione di una norma che impone la presenza di donne per almeno un terzo nelle commissioni di concorso (d. lgs del 3 febbraio 1993, n. 29, art. 61). Per la lettura dell’intera ordinanza si rimanda a https://www.giurcost.org .

43

Si veda supra, nota n. 40.

44 Nei sistemi di Common Law per “overrulig” si intende l’abrogazione del

precedente, posta in essere da una corte giudiziaria superiore rispetto a quella che ha pronunciato la decisione, oppure dalla medesima corte relativamente ad una sua precedente sentenza.

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5. La Corte Costituzionale dice “sì”: il mutato orientamento giurisprudenziale che fa riprendere quota alle “quote”

Mentre il Governo, da un lato, promuove la revisione dell’art. 51 Cost., dall’altro, paradossalmente, impugna la legge elettorale per il Consiglio regionale della Valle d’Aosta nella parte in cui prevede che le liste presentate, qualora in esse non siano presenti candidati di entrambi i sessi, vengano dichiarate non valide dall’ufficio elettorale regionale45 perché considerata misura “di favore”, in contrasto con i principi rigorosi della sentenza costituzionale n. 422 del 1995.

Il Governo sostiene davanti alla Corte che la materia elettorale non debba contenere misure che riguardino il sesso dei rappresentanti in quanto contrarie al principio di eguaglianza formale, che rappresenterebbe la sola faccia dell’eguaglianza ammissibile in materia elettorale.

La risposta, questa volta della Corte Costituzionale è stata alquanto sorprendente: tanto che parte della dottrina in riferimento alla sentenza n. 49 del 2003, qui in esame, ha parlato di un vero e proprio “revirement giurisprudenziale”.

45 Nello specifico il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 51, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, e (occorrendo, ove la norma non sia ritenuta di carattere meramente propositivo e non cogente) dell’art. 2, comma 2 (rectius: art. 2, comma 1, nella parte in cui introduce l’art. 3-bis, comma 2, nella legge regionale 12 gennaio 1993, n. 3), della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aosta, adottata ai sensi dell’art. 15, secondo comma, dello statuto speciale, pubblicata nel Bollettino Ufficiale 2 agosto 2002, recante "Modificazioni alla legge regionale 12 gennaio 1993 n. 3 (Norme per l'elezione del Consiglio regionale della Valle d'Aosta), già modificata dalle leggi regionali 11 marzo 1993, n. 13 e 1° settembre 1997, n. 31, e alla legge regionale 19 agosto 1998, n. 47 (Salvaguardia delle caratteristiche e tradizioni linguistiche e culturali delle popolazioni walser della valle del Lys)".

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Vale la pena ricordare in questa seda, oltre al novellato art. 51, di cui si è detto ampiamente, che il legislatore costituzionale, attraverso due leggi costituzionali, introdusse anche altre notevoli modifiche al testo costituzionale con il preciso scopo di superare il precedente giurisprudenziale e infatti la legge cost. n. 3 del 2001 modificò l’ art. 117 Cost. che nel suo novellato comma 746 sancì che “le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso fra uomini e donne alle cariche elettive” e la legge Cost. n. 1 del 2002 con la quale si sancì che, per le Regioni a Statuto speciale, “al fine di conseguire l’equilibro della rappresentanza dei sessi”, la legge regionale “promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”.

Alla luce di quanto detto sarebbe stato sufficiente, per la Corte, fare riferimento nella sua decisione solo al tali modifiche e superare il bagaglio argomentativo prodotto nella sent. n. 422, ma, la Consulta non sembra essersi limitata a tale ottica interpretativa. Infatti, pur richiamando il nuovo quadro costituzionale, il giudice delle leggi ha posto in essere una vera e propria decisione “overruling” ed, affrontando il cuore del problema, ribalta il ragionamento della sentenza del 1995.

Secondo la Corte la disposizione impugnata, introducendo un riferimento “neutro” (ambo i sessi) ed incidendo solamente sulla

46

Vedi ROMBOLI R., Le modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione.

Premessa, in Foro italiano, 2001, V, pp. 190–192; DEFENNU A., Art. 117, 7° co., in

AA.VV. (a cura di BIFULCO R., CELOTTI A., OLIVETTI M.), Commentario alla Costituzione, 2006, pp. 2301 e ss.; CARTABIA M., Il principio della parità tra uomini e

donne nell’art. 117, 7° comma, in AA.VV. (a cura di GROPPI T. e OLIVETTI M.), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, 2003, pp. 129–

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formazione delle liste ossia solo sull’accesso alla competizione elettorale, non violerebbe gli artt. 3 e 51 della Costituzione.

La disposizione in esame non creerebbe nessun vincolo tra l’elettore e l’eletto ma esclusivamente le condizioni per favorire l’uguaglianza dei “punti di partenza”, una parità di chances nella competizione elettorale, senza offrire alcuna garanzia di elezione; testualmente vengono ritenute legittime norme in cui “il vincolo resta limitato al momento della formazione delle liste, e non incide in alcun modo sui diritti dei cittadini, sulla libertà di voto degli elettori e sulla parità di ciance delle liste e dei candidati e delle candidate nelle competizioni elettorali, né sul carattere unitario della rappresentanza elettiva”.47 Il vero e proprio ribaltamento del precedente sta, però, nell’aver risolto lo stretto connubio tra “candidabilità” ed “eleggibilità”: “le disposizioni contestate non pongono l’appartenenza ad uno o all’altro sesso come requisito ulteriore di eleggibilità [… e …] l’obbligo imposto dalla legge, e la conseguente sanzione di invalidità, concernono solo le liste e i soggetti che le presentano”48.

Con questa sentenza sembra configurarsi un processo di “decostituzionalizzazione” della Carta fondamentale; e questo attraverso una “desacralizzazione”49 della stessa, causata da riforme prodotte anche se non strettamente necessarie. Dunque, come ha

47

Corte Costituzionale, sentenza del 2003, n. 49 ( n. 5 cons. dir).

48 Sent. Cit. supra, nota n.46, cit. n. 3.1 cons. dir. 49

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argomentato autorevole dottrina50, sembrerebbe che sia opportuno rivolgersi alla Costituzione per soli fini di “manutenzione”.

Diverse criticità furono sollevate in dottrina anche in merito al fatto che le quote di riserva nelle liste avessero violato il “diritto di aspiranti candidati ad essere inclusi in lista”51 ma, la Consulta parla di tale diritto come di un diritto “ipotetico”, poiché, visto che la formazione delle liste è di esclusivo appannaggio dei presentatori, non si è di fronte ad alcun metodo “concorsuale in relazione al quale un soggetto non incluso nelle liste possa vantare una posizione giuridica di priorità ingiustamente sacrificata a favore di un altro soggetto in essa incluso”52.

Questa sentenza modifica, dunque, profondamente la giurisprudenza sul tema della legittimità di norma che abbiano la finalità di riequilibrare la rappresentanza politica dal punti di vista del genere e chiarisce, a conclusione, che le nuove disposizioni costituzionali costituiscono un obbligo imposto dalla Carta costituzionale alle Regioni (sia ordinarie che speciali) di porre in essere azioni promozionali che interessino la legislazione elettorale, affinché sia assicurata la parità di accesso alle consultazioni.

Inizia così il lento avvio della riforma regionale in materia di pari opportunità, un’occasione (ancora non del tutto) sfruttata dalle regioni.

50 Cfr., PIZZORUSSO A., La Costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare, 1995, p. 161.

51 Cfr., LUCIANI M., La questione del sesso del voto. L’elettorato passivo e la quota riservata alle donne, in Italia oggi del 18 settembre 1995, p. 11.

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27 6. Considerazioni riepilogative

Nel corso del presente capitolo si è affrontata la tematica della rappresentanza politica “di genere” da un punto di vista teorico generale procedendo con un’esposizione ragionata della giurisprudenza costituzionale sul tema, che ha tanto influenzato tutta la materia: a partire dalla bocciatura delle “quote rosa” con la sent. n. 422 del 1995, modificata però dalla successiva sent. n. 49 del 2003 che traccia le linee della legittimità di futuri provvedimenti; sino alla riforma dell’art. 51 Cost., avvenuta con l. cost. n. 1 del 2003. che ha costituito un nodo cruciale negli interventi in materia di pari opportunità che sono state, così, “costituzionalizzate”.

La Corte costituzionale ha svolto una funzione essenziale di adeguamento dell’ordinamento legislativo al principio dell’eguaglianza di genere in molti casi anticipando l’intervento del legislatore che diventa protagonista della materia quando le azioni positive non hanno più la struttura del mero divieto ma dell’agire positivo volto alla correzione di disparità sostanziali.

Si è giunti a comprendere come il tema della rappresenta di genere è fortemente legato al passaggio, avvenuto faticosamente in giurisprudenza, da un principio di uguaglianza formale che, come si è visto, sembrava essere l’unico concepibile in materia elettorale quasi a costituirne un dogma, ad un principio di uguaglianza sostanziale che è divenuto, invece, sempre più baluardo di una democrazia paritaria tanto programmata e sperata e, forse, non ancora completata. Dall’analisi realizzata si evince come il cammino verso una parità di opportunità tra i sessi in campo politico ed elettorale sia stata resa difficile sin dagli esordi in quanto basti pensare che le donne divennero elettrici in tempi eccessivamente maturi (1946) subendo,

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per lungo tempo, una chiusura alla loro cittadinanza politica non tanto da parte della legge ma in base a quanto la consuetudine consolidatasi alla legge ha voluto far dire.

Non vi sono stati grandi ostacoli giuridici a limitare l’accesso delle donne ai luoghi della rappresentanza politica ma piuttosto limiti di carattere sociale e culturale derivanti anche, sicuramente, dai tempo e dalle modalità della politica. La stessa Corte Costituzionale, nella famosa e più volte citata sentenza n. 422 del 1995 aveva espresso una valutazione positiva delle eventuali misure liberamente adottate dai partiti politici, dalle associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni ma, il tempo e la storia ci mostrano come, questi ultimi non hanno avuto grande propensione a dotarsi in questa materia di regole di autodisciplina.

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CAPITOLO II

LA PROMOZIONE DELLE PARI OPPORTUNITA’ NEGLI

STATUTI E NELLE LEGGI ELETTORALI DELLE REGIONI

Sommario. -1. Le modifiche costituzionali che affidano alle Regioni un ruolo importante in tema di pari opportunità -2. Statuti regionali e tutela del principio delle pari opportunità -2.1. (segue) Analisi “sistematica”: dove gli statuti parlano di pari opportunità? -2.2. (segue) Contenuti statutari a confronto -3. Le pari opportunità nelle leggi elettorali regionali -3.1. (segue) Cenni sulla normativa vigente presso le diverse Regioni -4. La regione Campania promuove “la preferenza di genere” - 4.1. (segue) La “doppia preferenza di genere” e l’avvallo della Corte Costituzionale -4.2. (segue) Una soluzione alla questione della rappresentanza di genere ritagliata sul voto preferenziale: la doppia preferenza di genere - 4.3. (segue) La formulazione delle disposizioni sulla promozione della parità tra i sessi: considerazioni critiche -5. Rappresentanza di genere nelle Regioni e negli enti locali: interventi normativi -5.1.( segue) La normativa “paritaria” degli enti locali: l’annullamento delle giunte “monogenere” riconosce la diretta applicabilità all’art. 51 Cost. -6. Brevi riflessioni: tra quote rosa e preferenza di genere, quali sono i risultati? -7. Considerazioni riepilogative

1. Le modifiche costituzionali che affidano alle Regioni un ruolo importante in tema di pari opportunità

Il ruolo delle regioni, ordinarie e speciali, nella garanzia delle pari opportunità elettorali tra uomini e donne emerge con chiarezza da quello che è stato definito lo "statuto delle pari opportunità" nella

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rappresentanza politica53 costituito dal nuovo testo dell'art. 51 Cost.,54 dall'art. 117, comma 7, Cost., secondo cui "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive"; e, infine, dalla legge cost. n. 2 del 2001, in base alla quale le leggi elettorali delle regioni speciali, al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi, promuovono "condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali".

Anche se la terminologia utilizzata nella normativa appena citata appare difforme55 e lascia pensare a previsioni differenti tra di loro, è necessario operare un’interpretazione sistematica per comprendere l’uniforme portata delle disposizioni; basti pensare che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 49/2003, ha precisato che le norme contenute nella legge cost. n. 2 del 2001, cui si aggiunge “l'analoga, anche se non identica previsione” dell'art. 117, comma 7 Cost., pongono "esplicitamente l'obiettivo del riequilibrio e stabiliscono come doverosa l'azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni, riferendoli esplicitamente alla legislazione elettorale" 56.

53

Cfr. MONTALTI M., La rappresentanza dei sessi in politica diviene "rappresentanza

protetta: tra riforme e interpretazione costituzionale, in Le Regioni, 2003, pag. 500. 54

Revisionato con l. cost. del 30 maggio 2003, n. 1.

55 Nello specifico il nuovo art. 117, 7° c, parla di “parità di accesso” alle cariche

elettive, la l. cost. del 2001, n.2 si limita a richiedere alle leggi regionali di promuovere le “condizioni” di parità”; ma, allo stesso tempo, orienta questi interventi normativi all’obiettivo di un “equilibrio della rappresentanza dei sessi”. Inoltre, l’art. 51 cost., come modificato nel 2003, impegna la Repubblica a promuovere con “appositi provvedimenti” le pari opportunità anche in campo elettorale.

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Corte Costituzionale, sentenza del 2003, n. 49 , (n. 4 cons. dir., corsivo non testuale).

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Sulle Regioni, dunque, incombe l'obbligo costituzionale di favorire l'accesso delle donne alle cariche elettive ma, proprio su questo punto nasce un altro importante dibattito che vale la pena ricordare in questa sede. La dottrina, in seguito alla riforma costituzionale, si è immediatamente chiesta se le novelle disposizioni consentissero o imponessero alle regioni di adottare misure antidiscriminatorie, insomma ci si è chiesti se il legislatore costituzionale ha previsto o meno l’obbligo alle pari opportunità.

Sul punto è importante chiarirsi, anche in questo caso, guardando alla sentenza Costituzionale n. 49 del 2003con la quale i giudici hanno affermato chiaramente che le regioni “stabiliscono come doverosa l’azione promozionale per la parità di accesso alle consultazioni”57. Una volta chiarito il dubbio iniziale, però, ne resta aperto sempre un altro in quanto si tratta di stabilire fino a che punto sia coercibile questo dovere e, in particolare se, in caso di omissione da parte del legislatore regionale, la Corte potrebbe spingersi sino a dichiarare l’incostituzionalità della legge nella parte in cui non prevede misure finalizzare al riequilibrio della presenza femminile.

Bisogna anche considerare, tuttavia, che la modifica dell’art. 117 rientra nella più ampia revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione ed in particolare nell’intervento volto a ridefinire il riparto di competenze tra Stato e Regioni. Del resto tale riforma costituì, all’epoca, il giusto pretesto per affrontare il problema della rappresentanza (o per meglio dire sotto rappresentanza) femminile nelle Assemblee elettive.

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Per rendere più completa l’analisi su “l’ombrello costituzionale”58 alle quote rosa va ricordato che ai sensi dell’art. 123 Cost.59, le regioni possono oggi fissare, nei propri statuti, la scelta della forma di governo e dei principi fondamentali di organizzazione e funzionamento e, pertanto, si deduce anche norme di principio in tema di pari opportunità uomo-donna e norma finalizzate all’istituzione di organismi di parità: gli statuti regionali, quindi, diventano il “luogo” ideale delle pari opportunità.

Infine, l’art. 122 Cost., come riformato nel 199960, nella sua nuova formulazione affida alla legge regionale la determinazione del sistema di elezione, nonché i casi di eleggibilità e incompatibilità del Presidente, dei componenti della giunta e dei consiglieri regionali, specificando che ciò deve avvenire “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge dalla Repubblica”; si tratta , quindi, di competenza concorrente tra Stato e Regioni.61

Proprio per fugare ogni altra interpretazione il Parlamento è intervenuto con la legge n. 165 del 2004 a dare attuazione alla norma costituzionale stabilendo i principi fondamentali ai quali deve attenersi la Regione nel disciplinare la materia e riserva allo Stato la definizione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità di componenti

58 Il termine “ombrello costituzionale”, esaustivo per l’analisi affrontata, viene

testualmente utilizzato da BRUNELLI. G., un “ombrello” costituzionale per le azioni

positive elettorali, in Quaderni Costituzionali, 2002, fascicolo n. 3. 59 Come modificato dalla l. cost. del 1999, n. 1.

60 Ibidem. 61

Per un approfondimento sul tema si veda D’AMICO M., il difficile cammino della

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di organi costituzionali e di appartenenti ad amministrazioni ed enti pubblici statali.62

In ragione di quanto detto ne consegue che il legislatore statale fissa le regole di fondo in modo da garantire un minimo di omogeneità tra le scelte effettuate dalle regioni a cui è, quindi, rimessa la scelta in ordine alle misure di attuazione. Si vedrà, in seguito, come tali soluzioni saranno molteplici spaziando da misure molto incisive (quali, ad esempio, la predisposizione di vincoli per la composizione delle liste elettorali) a misure più blande (che prevedono, invece, solo sanzioni economiche per i partiti che candidano poche donne).

Da questa considerazione viene alla luce un ulteriore problema (vero o falso che sia) cioè quello della omogeneità delle soluzioni normative da adottare a livello regionale.

Ebbene, se si ammette che il legislatore regionale può attuare misure diverse, ci si interroga se ciò determini una lesione del principio di eguaglianza all'interno dello stesso gruppo sociale svantaggiato, i cui componenti finirebbero per ricevere un diverso trattamento, privo di giustificazione razionale, nelle diverse parti del territorio nazionale. Brevemente si evidenzia che la questione traeva origine dalla sentenza n. 109 del 1993, la prima della Corte costituzionale in materia di azioni positive: con tale pronuncia si affermava che

62

In particolare, l’art. 4, lett. c) bis novellato ne modula la portata in relazione ai diversi sistemi elettorali previsti a livello regionale, stabilendo che: 1) qualora la legge elettorale preveda l’espressione di preferenze, in ciascuna lista i candidati siano presenti in modo tale che quelli dello stesso sesso non eccedano il 60 per cento del totale e sia consentita l’espressione di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso, pena l’annullamento delle preferenze successive alla prima; 2) qualora siano previste liste senza espressione di preferenze, la legge elettorale disponga l’alternanza tra candidati di sesso diverso, in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale; 3) qualora siano previsti collegi uninominali, la legge elettorale disponga l’equilibrio tra candidature presentate col medesimo simbolo in modo tale che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale”.

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discipline giuridiche differenziate possono essere adottate a favore di categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al principio di eguaglianza formale di cui al primo comma dell'art. 3 Cost.: esse, peraltro, "esigono che la loro attuazione non possa subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche e politiche del Paese. Infatti, se ne fosse messa in pericolo l'applicazione uniforme sul territorio nazionale”63 .

Insomma, emerge il rischio che le azioni positive invece di risolvere le disparità di trattamento vadano ad aggravarle; si deduce dalle considerazioni fatte dalla Consulta la necessità di una sostanziale omogeneità delle misure di riequilibrio della rappresentanza nei diversi livelli dell'ordinamento64 ma, allo stesso tempo, si può osservare che è la Costituzione stessa a consentire interventi di tipo differenziato, con disposizioni specificamente rivolte ai legislatori regionali e, inoltre, la Corte Costituzionale esclude, nel caso esaminato con la sentenza n. 49 del 2003, che ci si trovi di fronte a vere e proprie azioni positive, intese come trattamenti derogatori e privilegiati a favore di uno specifico gruppo sociale, parlando, invece, di norme antidiscriminatorie caratterizzate dalla formulazione neutrale.

Sembra, quindi, difficile estendere all'ipotesi considerata la giurisprudenza costituzionale in tema di omogeneità territoriale delle

63 Corte Costituzionale, sentenza del 1993, n. 109 , n. 2.2 cons. dir.

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