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Capitolo 1 INTRODUZIONE

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Capitolo 1

INTRODUZIONE

1.1 COSA SONO I BIOMATERIALI

Da sempre l’uomo ha cercato di impiegare svariati materiali, dai crini di cavallo ai fili d’oro, per riparare i danni subiti dal corpo. L’uso dei moderni biomateriali inizia, però, negli anni ’40, per necessità belliche, e riceve una notevole spinta in avanti negli anni ’50 con l’inizio dell’era aerospaziale; da allora il crescente interesse in questo campo ha portato a compiere notevoli progressi (Cauwels J.M., 1986).

La “Consensus Developments Conference on Clinical

Application of Biomaterials”, tenutasi nel 1982, ha definito

“biomateriale”:

“ogni sostanza (diversa da un farmaco) o combinazione di sostanze, di origine naturale o sintetica, che può essere impiegata per un periodo di tempo variabile, da sola o come parte di un sistema che tratta, aumenta o sostituisce un qualunque tessuto, organo o funzione del corpo”.

La ricerca sui materiali impiantabili ha sempre avuto un grande nemico con cui confrontarsi ossia l’organismo che con i suoi

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meccanismi di difesa è in grado di distruggere i materiali o di isolarli, circoscrivendoli con una reazione fibrotica.

Una classe di biomateriali fra i più utilizzati recentemente nel settore medicale, che in molti casi ha dimostrato di poter ridurre la reazione di rigetto dell’organismo, è quella dei polimeri. Ciò è dovuto sia alla facilità di lavorazione del materiale polimerico ed al suo basso costo, che alla necessità sempre più diffusa di utilizzare materiali monouso. Considerazioni diverse possono essere applicate ai biomateriali da impianto. La necessità di sostituire parzialmente o totalmente parti del corpo non più funzionanti porta all’impiego sempre più massiccio di protesi sostitutive. Si va dalle protesi dentarie a quelle ortopediche per la sostituzione di anca, ginocchio e spalla ed a quelle del settore cardio-vascolare come protesi vascolari, valvole cardiache e stents intravascolari. Nonostante i recenti progressi dell’ingegneria tissutale, l’uso di dispositivi non ingegnerizzati sarà ancora necessario per diversi anni.

Questa classe di biomateriali è costituita da composti la cui struttura base è un monomero che si ripete a formare lunghe catene.

I polimeri si possono dividere in due categorie: le plastiche e gli elastomeri. Le plastiche, come il poliestere e il politetrafluoroetilene (PTFE), sono materiali sintetici, con caratteristiche di rigidità, che vengono utilizzati in molti settori, compreso quello biomedico per la produzione di lenti a contatto, cementi ossei e protesi vascolari.

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Gli elastomeri invece, distinti in poliuretani e siliconi, hanno come principale caratteristica l’elasticità e vengono utilizzati in campo medico per la produzione di protesi mammarie, cateteri, palloni da angioplastica e sistemi di rilascio di farmaci.

1.1.1 I Poliuretani

La storia dei poliuretani inizia nel 1937 quando Otto Bayer sintetizza il primo poliuretano, ma è nel 1961 che un poliuretano viene utilizzato per la prima volta come biomateriale, cioè come componente di un dispositivo biomedico (Mirkovitch V. et al. 1961).

Questo utilizzo ha dato però deludenti risultati ed è stato abbandonato perché si innescavano, dopo l’impianto dei poliuretani, fenomeni di biodegradazione e riassorbimento a livello della superficie del materiale a contatto con i tessuti, con conseguente perdita delle caratteristiche originarie di forma e resistenza (Eberarth A. et al. 1999).

Negli ultimi anni, grazie ai progressi compiuti in campo chimico, sono stati realizzati nuovi poliuretani con migliori proprietà elastomeriche e che hanno dimostrato una più alta resistenza meccanica e all’abrasione, minor attrito, buona compatibilità tissutale e facilità nell’essere processati (per estrusione, spray, immersione, etc.); il problema della

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superato introducendo un appropriato rapporto di concentrazione tra i segmenti hard rispetto a quelli soft nella catena polimerica. Recenti osservazioni sperimentali hanno dimostrato che polimeri con una minore concentrazione di segmenti hard hanno un numero maggiore di gruppi carbossilici esposti sulla superficie, per cui risultano essere maggiormente esposti a fenomeni degradativi (Santerre J.P. et al. 1997); per questo, poliuretani con alta concentrazione di segmenti hard vengono utilizzati con successo nella realizzazione di ventricoli per cuori artificiali, valvole cardiache biomorfe, protesi mammarie, cateteri e palloni da angioplastica.

In particolare, i poliuretani vengono utilizzati per la fabbricazione di dispositivi che devono entrare in contatto con il sangue, e in questo ambito si sono sviluppati poliuretani in grado di rilasciare farmaci, come l’eparina o l’aspirina, che ne migliorano l’emocompatibilità.

L’utilizzo di questi nuovi elastomeri per la fabbricazione di condotti vascolari ha permesso la realizzazione di protesi in grado di attivare moderatamente i processi coagulativi e che raggiungono proprietà di resistenza ed elasticità simili a quelle dei vasi naturali (Miyamoto K. et al. 1999, Eberhart A. et al. 1999, Doi K. et al. 1996, Okoshi T. et al. 1995); inoltre, i poliuretani utilizzati per la realizzazione di protesi vascolari possono fornire un substrato potenziale per la crescita di cellule endoteliali, in modo da ottenere un condotto vascolare in grado di simulare le funzioni biologiche

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dell’endotelio in vivo (Baumgartner J.N. et al 1998; Doi K. Et al. 1997; Liu S.Q. et al. 1992).

I miglioramenti apportati con queste modifiche sono comunque ancora lontani dal risolvere il problema in maniera definitiva. Rimane pertanto aperto il problema della realizzazione di protesi vascolari di piccolo diametro, che, dopo aver superato le varie fasi della sperimentazione, troverebbero un ampio impiego clinico nel settore delle malattie cardiovascolari (Van Oeveren W.

et al. 1995).

1.1.2 I Siliconi

I siliconi hanno dimostrato nel corso degli anni eccellenti caratteristiche di emocompatibilità legate alla bassa attivazione delle piastrine e dei fattori della coagulazione ed inoltre un’ottima biostabilità a lungo termine in diverse applicazioni biomediche quali cateteri permanenti, protesi mammarie e rivestimento di

pace-maker (Yeager A. et al. 1988).

Gli elastomeri siliconici sono materiali termoplastici che possono essere processati con varie tecniche di lavorazione ed, inoltre, permettono diverse possibilità di legame con altre molecole.

Un elastomero siliconico sempre più utilizzato per la realizzazione di dispositivi biomedici che vengono messi a contatto con il sangue è il polidimetilsilossano (PDMS); questo ha dimostrato ottime proprietà di biocompatibilità ed emocompatibilità

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ed è impiegato nei tubi per la circolazione extracorporea e per la ricopertura dei palloni da angioplastica (Park J.K. et al. 1999; Tang L. et al. 1999; Lim. et al. 1994).

1.2 LE PROTESI VASCOLARI SINTETICHE

La realizzazione di condotti vascolari sintetici incontra come problemi principali quello della trombogenicità e della compliance, cioè la capacità di approssimare le caratteristiche visco-elastiche del vaso naturale.

Le prime protesi vascolari sintetiche erano costituite di materiali metallici, come l’alluminio, l’oro, l’argento e il Vitallium® (lega Co-Cr) e si sono rivelate funzionali solo a breve termine, poichè andavano incontro ad un occlusione trombotica precoce.

Una svolta si ha negli anni ’50 quando il Vinyon-N viene utilizzato per la fabbricazione di una protesi porosa che fu impiantata in un aorta di cane (Voorhees A.B. et al. 1952).

Successivamente sono stati utilizzati una grande varietà di materiali come il Nylon®, Teflon®, Orlon®, Dacron®, polietileni e poliuretani. Il Nylon® è stato abbandonato perché andava incontro a rapida degenerazione in vivo e, tra i rimanenti materiali, il Dacron® si è dimostrato il sostituto vascolare migliore, pur avendo caratteristiche di scarsa elasticità rispetto al vaso naturale.

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A metà degli anni ’70 è stato introdotto un nuovo materiale, il politetrafluoroetilene espanso (ePTFE) che, insieme al Dacron®, è

a tutt’oggi largamente utilizzato per la produzione di condotti vascolari di diametro interno superiore a 6 mm (Nojiri C. et al. 1994). Dopo l’impianto, le superfici interne di questi condotti si rivestono di uno strato di materiale fibroso che li rende biocompatibili ma ne diminuisce il diametro interno, quindi solo le protesi con diametro elevato hanno successo e sono impiantabili a livello periferico ed addominale.

Attualmente le protesi di diametro superiore a 10 mm sono nella quasi totalità in Dacron® tessuto con velluto all’interno e/o all’esterno, mentre le protesi di diametro inferiore a 10 mm sono realizzate nel 75% dei casi in ePTFE non tessuto (Goretex®), nel 25% in Dacron®.

Le protesi con diametro inferiore a 6 mm, sia in Dacron® che in ePTFE, sono quelle che presentano i maggiori problemi (Bos G. W. et al. 1998; Ariyoshi H. et al. 1997). Una causa di insuccesso dei condotti di piccolo diametro sono le formazioni trombotiche che si possono generare all’interfaccia tra il sangue e la superficie interna delle protesi. Il contatto tra il sangue e il biomateriale attiva il fattore XII della via coagulativa intrinseca; inoltre, le proteine plasmatiche adsorbite sulla superficie interna del condotto, tendono a denaturarsi a causa dell’interazione con il materiale o con residui del solvente usato per processarlo, attivando, a loro volta la via coagulativa intrinseca (Okoshi T. et al. 1991).

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L’altra causa di insuccesso delle protesi vascolari di piccolo diametro è l’iperplasia intimale, cioè la proliferazione e migrazione di cellule muscolari lisce dalla media all’intima vasale in corrispondenza delle anastomosi dell’impianto con conseguente sintesi di proteine della matrice extracellulare (Greenwald S.E. et

al. 1993; Poole Warren L.A. et al. 1996; Tiwari A. et al. 2002).

Anche se sono state avanzate numerose ipotesi sui meccanismi fisiopatologici responsabili dell’iperplasia intimale, le sue effettive cause non sono ancora del tutto note; sicuramente rivestono un ruolo importante le condizioni di moto disturbato del sangue in prossimità della parete, la diversità nelle proprietà meccaniche ed elastiche delle protesi artificiali rispetto al vaso nativo ed i danni locali alla parete vascolare in corrispondenza della sutura.

La crescente domanda di condotti vascolari artificiali con proprietà visco-elastiche tali da limitare l’iperplasia intimale ha indirizzato la ricerca verso due classi di biomateriali dotati di proprietà elastomeriche, i poliuretani e i siliconi.

Queste due classi di biomateriali hanno come principale caratteristica l’elasticità, cioè sono materiali che possono essere deformati ripetutamente e ritornare alla forma originale e per questo motivo sono definiti elastomeri.

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1.3 LE VALVOLE CARDIACHE

Le disfunzioni delle valvole cardiache, come la stenosi e l’insufficienza, sono diffuse in tutto il mondo: per più di quaranta anni la sostituzione con protesi meccaniche o biologiche di valvole naturali danneggiate ha migliorato la qualità e la durata della vita di milioni di pazienti.

Le valvole meccaniche hanno un’elevata durata e non necessitano di re-intervento in quanto non sono soggette a fallimenti strutturali ma, provocando complicazioni trombo-emboliche, obbligano i pazienti a terapie anticoagulanti a vita. Le protesi valvolari biologiche, realizzate con pericardio porcino, bovino od equino modellato e suturato su strutture di supporto (stent), riproducono le caratteristiche funzionali e biomeccaniche delle native, inducono minori complicazioni trombo-emboliche, ma necessitano in molti casi di essere sostituite 10-15 anni dopo l’impianto a causa dell’insorgenza di problemi di calcificazione e danneggiamento, indotti dai trattamenti di decellularizzazione subiti per ridurre i problemi legati alla risposta immunologica.

L’impiego di xenograft (valvole integre prelevate da animale) e di homograft (valvole integre prelevate da cadavere) è ad oggi limitato da problemi di rigetto e di scarsa disponibilità (Bernacca G.M. et al. 1995).

Dal 1960 si studiano nuovi biomateriali per realizzare valvole cardiache sintetiche in grado di ridurre al minimo le

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conseguenze e i difetti delle protesi cardiache attualmente in uso. Particolare attenzione è stata rivolta ai polimeri grazie alle loro proprietà intrinseche ed alla loro lavorabilità. Le valvole polimeriche rappresenterebbero il compromesso tanto desiderato tra le protesi meccaniche e quelle biologiche in quanto dovrebbero risultare estremamente flessibili, meccanicamente resistenti, con una funzionalità simile a quella delle native, con una bassa trombogenicità e la propensione a non calcificare.

Attualmente in commercio non sono disponibili valvole sintetiche a causa dei problemi legati alla calcificazione del materiale ed a fallimenti strutturali. I materiali fino a qui utilizzati da vari gruppi di lavoro per la realizzazione di prototipi di valvole bicuspidi e tricuspidi, sono costituiti da polimeri quali politetrafluoretilene, poliuretani e siliconi, scelti in quanto biocompatili, emocompatibili ed in grado di conferire buona flessibilità e resistenza meccanica al dispositivo; i tests in vivo hanno però evidenziato la loro propensione alla calcificazione e dimostrato la loro inadeguatezza a sostenere le continue sollecitazioni dei lembi (Bernacca G.M. et al. 1997).

Da questi studi è emersa la necessità di sviluppare nuove leghe polimeriche in grado di resistere alla calcificazione e mantenere buone permances a lungo termine garantendo in seguito all’impianto lo sviluppo di un processo infiammatorio circoscritto e limitato nel tempo (Bernacca G.M. et al. 2001).

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1.4 STENTS INTRAVASCOLARI

Una delle patologie di tipo arteriosclerotico che colpisce un sempre più vasto numero di persone nel mondo è la stenosi delle arterie (aorta e coronarie principalmente): da circa 25 anni la cardiologia interventistica ne ha cercato una risoluzione da un punto di vista clinico mediante l’utilizzo di cateteri muniti di palloncino che, attraverso una serie di cicli di compressione e decompressione, permettono di effettuare un rimodellamento del lume vascolare senza ricorrere a un intervento chirurgico. Con la diffusione dell’angioplastica coronarica si è presentato anche il suo limite più rilevante: il fenomeno della restenosi, ossia il presentarsi di un nuovo restringimento. Per ovviare a questo problema sono stati ideati gli stents, maglie tubulari metalliche che forniscono un supporto meccanico all’arteria.

Gli stents sono fatti di quei materiali metallici che hanno dimostrato di possedere un'adeguata forza radiale e di essere al tempo stesso biocompatibili. Esistono numerose tipologie di stents, alcuni in grado di espandersi in modo autonomo, altri che rendono necessario il ricorso al palloncino. In entrambi i casi la tecnologia per l'impianto di uno stent è quella basata sull'utilizzo di cateteri.

Il problema maggiore legato all’impianto di tali dispositivi è la restenosi intrastent dovuta principalmente a un processo di iperplasia intimale ma aggravata da fenomeni infiammatori locali indotti dal metallo. Il più grande svantaggio degli stent metallici è

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infatti la loro potenziale trombogenicità e per questo motivo molti

stents sono stati disegnati a forma di rete o di bobina per

minimizzare la superficie di contatto del metallo.

Fino ad oggi l’unico sistema di comprovata efficacia che serve per il trattamento ma non per la prevenzione della restenosi

intrastent è basato su dispositivi che emettono radiazioni ionizzanti

all’interno del vaso per bloccare la proliferazione cellulare. Si tratta però di sistemi complessi, costosi e non privi di complicanze.

Da tempo l’unica strada perseguibile è risultata quella di una famiglia di stents antirestenosi, i drug eluting stent (stents a rilascio controllato di farmaci), i tentativi fatti e quelli ancora in fase di studio sono numerosi, come lo sono i farmaci a disposizione e le tecniche per depositarli sullo stent. La strada più interessante per la realizzazione del rivestimento è quella basata sull'utilizzo di materiali polimerici e proprio per questo motivo la maggior parte degli stents a rilascio di farmaco sono basati sull'utilizzo di una matrice polimerica. I materiali più comunemente utilizzati sono: silicone, esteri della cellulosa, poliuretani, PVA, PMMA, PLLA, copolimeri del glicolpolietilenico. A questi materiali spetta il compito di controllare il rilascio di farmaco, evitando soprattutto che venga perso durante il trasporto all'interno dell'aorta, prima dell'impianto nella sede coronarica oggetto della lesione. Inoltre l’introduzione di polimeri non deve variare le proprietà meccaniche dello stent, infatti la matrice polimerica non deve accrescere lo

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spessore dello stent e soprattutto non deve subire danni durante l’impianto e l’apertura dello stent.

1.5 RISPOSTA IMMUNE ALL’IMPIANTO DI UN DEVICE SINTETICO

L’impianto di materiali biomedici innesca una risposta infiammatoria che è il risultato della presenza del biomateriale e del trauma chirurgico a livello tissutale.

Il materiale riconosciuto come corpo estraneo scatena una prima infiammazione locale non specifica, seguita da una reazione infiammatoria sistemica che è caratterizzata da cambiamenti stressogeni nel sistema neuroendocrino e nel sistema immune (Figura 1) (Khansari D.N. et al. 1990. Kushner I. et al. 1982).

Figura 1: Rappresentazione schematica della risposta infiammatoria innescata dall’impianto di un biomateriale (Thomsen P. et al. 2001).

Fase acuta infiammazione reclutamento in sede di impianto dei PMNs Biomateriale adsorbimento proteico Fusione in F BGCs IL-1 IL-6 TNF-α IL-10 VLA-5 Mac-I LFA-I differenziamento monociti e PMNs dal midolllo osseo

Specie reattive dell’ossigeno (ROIs) adesione e attivazione piastrinica

formazioni trombotiche

Biomateriale

C3a IgGFibronectina Albumina

Albumina

Fg vWFvWF C5a

Fase cronica infiammazione presenza in sede di impianto di

monociti e di linfociti IL-4 IL-13 TCC PMNs Lyn FBGC TF

Fallimento dell’impianto

Fallimento dell’impianto

?

?

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Il processo infiammatorio comporta diversi tipi di risposta come quella vascolare, quella neurologica, quella umorale e quella cellulare che risultano essenziali sia se indotte da trauma meccanico, da infezione microbica e da antigeni di varia natura (proteine, carboidrati, materiali sintetici) sia se indotte invece da energia elettrica, chimica o radiologica.

La risposta infiammatoria si realizza attraverso una complessa sequenza di eventi, che coinvolgono proteine ematiche, cellule dell’ospite e la superficie del biomateriale, terminanti con la restaurazione dell’omeostasi attraverso meccanismi locali e sistemici ed è caratterizzata da due stadi principali: lo stadio acuto e lo stadio cronico. La risposta infiammatoria di fase acuta (acute phase response, APR) è un meccanismo dell’immunità innata che rappresenta la risposta immediata ad una lesione in grado di determinare la distruzione del materiale impiantato. Si parla di risposta infiammatoria di fase cronica (chronic phase response, CPR) per indicare la risposta successiva alla lesione che spesso si sovrappone all’APR. L’APR è caratterizzata da un rapido cambiamento nei livelli di proteine plasmatiche conosciute come proteine di fase acuta (acute phase proteins, APPs). Le APPs rappresentano un gruppo estremamente eterogeneo di proteine coinvolte in varie funzioni biologiche; in particolare, queste hanno un’azione modulatoria della risposta immune, della coagulazione, della fibrinolisi, dell’attivazione della cascata del complemento, dei

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processi chemiotattici e di opsonizzazione e della proteolisi (Koj A. 1985). Durante l’APR si assiste ad un aumento nella produzione delle APPs cosiddette “positive” capaci di amplificare l’infiammazione (siero amiloide-A (SAA), proteina C, fibrinogeno, antitripsina α-1, proteine del complemento come il fattore B e C3, aptoglobine) e contemporaneamente ad una diminuzione delle APPs cosiddette “negative” come l’albumina, la transferrina e la transtiretina (Rihova B. 1996).

Un altro aspetto importante della risposta infiammatoria è rappresentato da una modificazione funzionale delle principali popolazioni leucocitarie del sangue periferico. Tra le cellule effettrici dell’immunità innata, i monociti, i linfociti e i neutrofili rappresentano la prima linea di difesa verso stimoli nocivi e vanno incontro ad importanti variazioni fenotipiche (come l’espressione di antigeni di superficie) e funzionali (come l’acquisizione della capacità fagocitica, produzione intracellulare di citochine ed enzimi e la chemiotassi).

Uno stimolo infiammatorio innesca il processo di adesione dei leucociti alle pareti dei vasi sanguigni seguito dalla migrazione nei tessuti. Le interazioni altamente specifiche che consentono l’adesione si realizzano grazie a tre principali famiglie di recettori: le selettine, le integrine e membri della superfamiglia delle immunoglobuline (Jones D.A. et al. 1996).

L’APR si contraddistingue per la presenza di neutrofili in sede di impianto la cui azione principale risulta quella di fagocitare

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microrganismi e il materiale estraneo. La CPR è caratterizzata dalla presenza di linfociti, cellule plasmatiche e monociti, che si differenziano in macrofagi e possono fondersi in foreign body giant

cells (FBGCs).

Entrambi gli stadi risultano intensificati dal rilascio di fattori chemiotattici e mediatori localmente prodotti in elevate quantità. I principali mediatori dell’APR includono l’interleuchina 1 (IL-1), l’interleuchina-6 (IL-6), e il tumor necrosis factor-α (TNF-α) che vengono rilasciati principalmente da monociti/macrofagi attivati ma anche da fibroblasti e cellule endoteliali, mentre i mediatori della CPR oltre agli stessi dell’APR includono citochine di origine linfocitica come IL-4 e IL-13 (Baumann H. et al. 1990. Andus T. et al. 1987).

L’impianto può rappresentare uno stimolo persistente all’infiammazione che si esplica attraverso fattori meccanici (inclusa l’abrasione tissutale) o chimicamente, attraverso il rilascio di prodotti di degradazione o di lisciviazione.

Nel caso in cui lo stimolo all’infiammazione sia particolarmente resistente si manifesta un tipo particolare di infiammazione cronica detta granulomatosa associata allo sviluppo di una forma specializzata di tessuto infiammatorio denominato granuloma. La formazione del granuloma è legata principalmente ad un accumulo di macrofagi, che si fondono in cellule giganti multinucleate, ma anche di altri tipi cellulari coinvolti nella reazione infiammatoria quali linfociti T e plasmacellule.

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Per questo, il risultato finale del processo infiammatorio innescato dall’impianto di un materiale sintetico non tossico e inerte può essere l’incapsulazione fibrotica, che rappresenta un particolare tipo di granuloma detto granuloma da corpo estraneo (Anderson J.M. et al. 1984. Miller K.M. et al. 1988).

1.6 ADSORBIMENTO PROTEICO SULLA SUPERFICIE DEI BIOMATERIALI

1.6.1 Modulazione dell’attività leucocitaria

In seguito al contatto del sangue con una superficie artificiale il sistema emostatico può rispondere in diversi modi a seconda della natura e della durata dello stimolo. Dalla letteratura è

noto che il primo evento scatenato dal contatto del sangue con una superficie artificiale è un rapido fenomeno di adsorbimento proteico che sarà un prerequisito per la successiva adesione e attivazione dei leucociti e per i processi infiammatori da essi mediati.

La composizione dello strato proteico è influenzata dalla natura del biomateriale e dal tempo di esposizione. E’ stata dimostrata la presenza dell’adsorbimento di diverse proteine; alcune sono implicate in fenomeni di adesione cellulare quali fibrinogeno, fibronectina, trombospondina, fattore di von Willebrand, vitronectina, collagene, laminina, albumina e γ-globulina, altre sono le proteine del complemento e fattori della coagulazione come il

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fattore XI, il fattore XII, chininogeni ad alto peso molecolare e precallicreina.

L’adsorbimento proteico è stato dimostrato essere funzione della chimica di superficie dei biomateriali, ed in particolare lo strato di proteine adsorbite, il tipo, la quantità e lo stato conformazionale delle proteine stesse a loro volta influenza il comportamento macrofagico in termini di adesione, attivazione e fusione in FBGCs e quindi, in ultima analisi, l’entità e la durata del processo infiammatorio. E’ noto che alcune proteine plasmatiche come il fibrinogeno, la fibronectina e l’immunoglobulina G (IgG) hanno la capacità di promuovere in vitro e in vivo adesione e rilascio citochinico monocitario mentre l’albumina e altre proteine tendono a rendere inerti le superfici su cui sono adsorbite (Collier T.O. et

al. 2001).

Recentemente è stato dimostrato che l’adsorbimento di fibrinogeno causa un aumento nella produzione monocitaria delle citochine pro-infiammatorie IL-1α e IL-1β e anti-pro-infiammatorie come IL-10 oltre a modulare l’espressione dell’antigene CD14 e l’apoptosi/necrosi (Gretzer C. et al. 2000). Inoltre, anche la fibronectina ha dimostrato poter indurre un significativo aumento nella produzione di IL-1 in cellule macrofagiche (Schmidt D.R. et al. 2006); è stato osservato che un ruolo critico del legame tra i recettori integrinici e le proteine plasmatiche si esplica attraverso un aumentato livello di fosforilazione tirosinica di una proteina di 76kDa (pp76), che risulta associato ad un aumento nell’espressione dell’mRNA

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codificante per IL-1 (Lin T.H. et al. 1994). Questa interazione proteina-recettore è in grado di determinare l’attivazione del fattore di trascrizione nucleare kappa B (nuclear factor-kappa B, NK-κB) e la fosforilazione tirosinica della tirosin chinasi Syk, eventi molecolari che potrebbero avere un ruolo cruciale nella cascata di traduzione del segnale che determina la trascrizione del gene di IL-1 (Lin T.H. et al. 1995).

L’effetto dell’adsorbimento proteico sulla formazione delle FBGCs resta da definire; è stato osservato che le FBGCs tendono a formarsi più facilmente su superfici sintetiche ruvide e idrofobiche e più difficilmente nel caso di superfici anioniche (Behling C.A. et al. 1986).

Inizialmente, non sembrava esservi correlazione tra la formazione delle FBGCs e la presenza di determinate proteine (come ad esempio albumina, C3b, fibronectina, IgG, trombospondina, vitronectina e vWF), tuttavia uno studio più recente supporta l’esistenza di un ruolo nella formazione delle FBGCs da parte delle proteine adsorbite in termini di produzione sia citochinica che di espressione dei recettori di membrana integrinici β1 e β2 che si sono

rivelate implicate nelle interazioni cellula-cellula che favoriscono la fusione (McNally A.K. et al. 2002).

Le interazioni specifiche tra le proprietà chimico-fisiche dei materiali e il comportamento macrofagico restano ancora da chiarire e solo attraverso una maggiore conoscenza dei meccanismi alla base

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di tale fenomeno si potrà ottenere un miglioramento dei biomateriali utilizzati per la costruzione di devices biomedici.

Un importante studio in questo ambito è stato condotto modificando chimicamente una superficie base di polietilene tereftalato (PET) per indagarne gli effetti in vitro su monociti umani: tali modificazioni sono state realizzate mediante fotopolimerizzazione che ha consentito di ottenere superfici idrofobiche, idrofiliche, anioniche e cationiche che hanno dimostrato una produzione citochinica selettiva da parte di monociti/macrofagi (Brodbeck W.J.

et al. 2002). E’ stato dimostrato che l’espressione della citochina

anti-infiammatoria IL-10 risulta significativamente aumentata nelle cellule aderenti alle superfici idrofobiche e anioniche mentre l’espressione di IL-8, citochina ad azione notoriamente pro-infiammatoria, risulta significativamente diminuita: inoltre, le superfici idrofobiche e anioniche hanno indotto un aumento nella percentuale di cellule apoptotiche e una diminuzione nella percentuale di adesione e di fusione in FBGCs, e per tale ragione risultano avere notevole capacità anti-infiammatoria che potrebbe consentire un aumento nella biostabilità e biocompatibiltà dei

devices sintetici.

1.6.2 Ruolo delle proteine del complemento

E’ noto che il contatto del sangue con i biomateriali determina l’attivazione della cascata del complemento che ha un

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ruolo fondamentale nel processo di adesione iniziale dei monociti/macrofagi: è stato osservato che inizialmente l’attivazione si realizza preferibilmente tramite la via alternativa che può essere poi seguita da quella classica.

La via alternativa è innescata dall’interazione tra la proteina C3 e la superficie del materiale a formare una forma tronca di C3 adsorbita, denominata C3b. L’idrolisi del Fattore B da parte del Fattore D genera il frammento Bb che con un sito attivo proteolitico si lega a C3b a formare le C3 e C5 convertasi, che danno luogo a due prodotti, il C3a e il C5a. Le convertasi hanno emivita breve e il frammento Bb viene probabilmente rilasciato dalla superficie. L’idrolisi di C5 determina, inoltre, il rilascio di C5b che porta alla formazione del complesso terminale del complemento (terminal

complement complex, TCC) C5b-9, associato alla membrana, e la

fase fluida di questo, il SC5b-9. Il C5b-9 è generalmente convertito alla fase fluida reagendo con una proteina S (come ad esempio la vitronectina) generando un complesso inattivo solubile denominato SC5b-9.

In relazione alla natura della superficie del materiale la proteina C3b, in alternativa, può andare incontro a un processo di inattivazione catalizzato dal Fattore I in presenza del Fattore H che porta alla formazione di iC3b inibendo la conversione di C5 che terminerebbe nell’attivazione del complemento.

La via classica del complemento è iniziata dall’attivazione del complesso C1 che comporta l’assemblaggio delle convertasi

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classiche e la produzione di C3a, C5a e del TCC (Gemmell C.H. 1997) (figura 2).

Figura 2: Rappresentazione schematica dei processi coinvolti nell’attivazione del sistema del complemento indotta dall’impianto di un biomateriale.

Recentemente è stato indagato l’effetto in vitro dello shear

stress sull’attività del complemento comparando i risultati ottenuti

in condizioni statiche e dinamiche (Kao W.J. 2000); è stato messo in evidenza che lo shear stress inizialmente incrementa l’attivazione del complemento generata dal contatto sangue-biomateriali, in seguito, al contrario, ne induce una down-regulation anche se complessivamente non influenza la produzione del TCC.

I prodotti di attivazione del complemento modulano diverse funzioni macrofagiche e processi infiammatori: le proteine C3b o iC3b adsorbite sulla superficie del materiale risultano ligandi per i macrofagi attraverso i recettori di membrana CD35 o CD11/CD18 e CD11c/CD18 rispettivamente. I fattori solubili come C5a, d’altra parte, sono in grado di stimolare la chemiotassi leucocitaria,

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l’adesione e la secrezione di specie reattive dell’ossigeno e di citochine durante la risposta infiammatoria (Kao W.J. 1999).

1.7 MONOCITI/MACROFAGI E FBGCs

1.7.1 Fisiologia

I monociti insieme ai neutrofili sono cellule fagocitiche presenti nel sangue periferico che, in risposta a stimoli chemiotattici, vengono richiamate nel sito di infiammazione dove sono capaci di fagocitare e distruggere enzimaticamente i microrganismi infettanti (Aderen A. et al., 1999).

I monociti circolanti sono meno rappresentati dei neutrofili, detti anche leucociti polimorfonucleati (PMN); infatti, il loro numero è normalmente compreso tra 500 e 1000 elementi/μl di sangue. Come i polimorfonucleati, anche i monociti circolanti hanno la capacità di fagocitare microrganismi e di migrare all’interno dei tessuti; d’altra parte, mentre i primi sopravvivono solamente per poche ore all’interno del tessuto infiammato, i monociti migrati si differenziano ulteriormente in cellule specializzate chiamate macrofagi.

Monociti circolanti e macrofagi tissutali rappresentano due stadi cellulari del medesimo sistema funzionale, quello dei fagociti mononucleati.

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I macrofagi tissutali possono assumere differente morfologia; infatti, mentre alcuni sviluppano un abbondante citoplasma e vengono detti cellule epitelioidi per la loro somiglianza con le cellule dell’epitelio cutaneo, altri si fondono tra loro a formare cellule giganti multinucleate.

Cellule macrofagiche sono presenti in pressoché tutti gli organi, dove vengono identificate con nomi differenti in base alla specifica localizzazione. Ad esempio, nel sistema nervoso centrale sono chiamate cellule microgliali, nei sinusoidi epatici sono dette cellule di Kupffer, nell’albero respiratorio vengono descritti come macrofagi alveolari, mentre osteoclasti sono detti i macrofagi presenti nell’osso.

Infine, i fagociti monucleati possono differenziarsi in un ulteriore tipo di cellula accessoria, identificato come cellula dendritica, importante per il riconoscimento antigenico e per l’inizio della risposta immune adattativa antigene-specifica (Abbas A.K. et al. 2000).

Il processo di fusione dei macrofagi determina la formazione delle cosiddette cellule giganti multinucleate (multinuclear giant

cells, MNGCs) distinte in due classi morfologiche differenti quali

cellule giganti di Langhans o FBGCs.

Le cellule giganti di Langhans sono state descritte per la prima volta da Langhans nel 1868 e sono state ritrovate associate a patologie granulomatose infettive come la tubercolosi e la schistosomiasis. Queste sono caratterizzate da un numero

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relativamente piccolo di nuclei, generalmente meno di 20, relegati alla periferia della cellula. Al contrario, le FBGCs, scoperte più recentemente intorno agli anni ΄50, possiedono un numero molto più grande di nuclei e comunque più di 20 disposti irregolarmente nel citoplasma della cellula. Queste risultano associate alla formazione di granulomi dovuti alla presenza di un corpo estraneo come un materiale sintetico; in particolare, il materiale viene circondato o incapsulato entro un sottile strato di macrofagi e FBGCs. Il granuloma da corpo estraneo più comune è il granuloma da sutura nel quale i macrofagi e le FBGCs sono presenti a livello della superficie della sutura e questo strato di cellule risulta incapsulato nel tessuto fibroconnettivo, a formare la capsula fibrotica (Anderson J.M. 2000).

Le differenze fisiologiche tra macrofagi e FBGCs restano da definire; tuttavia, è stato dimostrato che le FBGCs possiedono una ridotta attività fagocitica e una capacità secretoria, in particolare di IL-1, simile a quella macrofagica (Thomsen P. et al. 2001).

1.7.2 Ruolo dei monociti nella risposta immune all’impianto di un device sintetico

I macrofagi rivestono un ruolo cruciale nella risposta dell’ospite all’impianto di devices sintetici sia nel normale processo di guarigione tissutale che nel meccanismo patologico che provoca il fallimento dell’impianto in virtù della loro versatilità funzionale e

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strutturale e delle interazioni che stabiliscono con la superficie dei materiali.

I monociti, che originano da precursori staminali presenti nel midollo osseo, sono richiamati in sede di impianto dove si differenziano in macrofagi ed è stato osservato che possono persistervi per mesi o anni (Thomsen P. 2001).

L’invasione di monociti insieme a quella dei neutrofili è controllata e diretta da diversi fattori chemotattici o chemochinici, rilasciati durante la risposta infiammatoria, che includono proteine del complemento, linfochine, fibronectina, frammenti batterici, fattori piastrinici e leucotrieni. Tutti questi fattori sono in grado di influenzare l’intensità del processo infiammatorio, come ad esempio i mediatori derivanti dai linfociti, il monocyte chemotactic factor (MCF) e il macrophage migration inhibition factor (MIF) o altri mediatori come il macrophage activating factor (MAF).

Il processo di infiltrazione macrofagica comporta adesione, attivazione e secrezione a livello della sede di impianto.

1.7.2.1 Adesione monocitaria

I macrofagi riconoscono proteine adsorbite sulla superficie del materiale che, attraverso diverse famiglie ligando-recettore, garantiscono il processo di adesione al biomateriale. Un esempio di tale processo è rappresentato dal legame tra recettori integrinici presenti sulla membrana del macrofago e un’ampia varietà di

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proteine ematiche e della matrice extracellulare (come fibronectina o vitronectina), che possono essere adsorbite sulla superficie del materiale (Labat-Robert J. et al. 1990). Inoltre, recettori macrofagici del complemento possono complessarsi con proteine del complemento o immunoglobuline (IgG e IgM) adsorbite sulla superficie, come parte del processo di opsonizzazione (Ward P.A. 1997).

L’adesione cellulare, mediata dal legame ligando-recettore, può essere modulata dalla presenza di citochine attive e di fattori di crescita; ad esempio, l’interleuchina-1β (IL-1β), il

granulocyte/macrophage colony stimulating factor (GMCSF), e il

tumor necrosis factor-α (TNF-α) si sono dimostrati in grado di regolare il legame tra i recettori integrinici macrofagici e proteine della matrice extracellulare (Ziats N.P. et al. 1987).

L’adesione macrofagica alla superficie del materiale determina un riarrangiamento dei microfilamenti citoscheletrici che a loro volta possono causare una ridistribuzione dei recettori di superficie funzionalmente associati al citoscheletro. In particolare, si parla di strutture adesive dette podosomi localizzate a livello della superficie ventrale del macrofago e caratterizzate da un accumulo di F-actina, vinculina e proteine citoplasmatiche (come ad esempio le proteasi). Il podosoma, creando un compartimento chiuso tra i macrofagi aderenti e il materiale in cui sono concentrati enzimi proteolitici e prodotti di degradazione, può rappresentare una

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polarizzazione funzionale del macrofago e suggerirne un’ attività fagocitica frustrata (Dadsetan M. et al. 2004).

1.7.2.2 Attivazione e fusione in FBGCs

I macrofagi aderenti vanno incontro ad un processo di attivazione e fusione a formare multinucleated foreign body giant cells (FBGCs), processo esclusivo del fenotipo macrofagico (Kao W.J. 1999).

Studi in vitro e in vivo hanno ampiamente dimostrato la presenza delle cellule giganti nel tessuto circondante l’impianto (Zhao Q.H.

et al. 1992) ma i meccanismi molecolari alla base del processo

differenziativo macrofagico a formare FBGCs rimangono da chiarire.

Le alterazioni morfologiche alla base della formazione delle FBGCs risultano associate alla riorganizzazione citoscheletrica tipica del podosoma che porterebbero all’acquisizione di specializzazioni funzionali importanti per il processo di fusione (Anderson J.M. et

al. 1999).

Il ruolo preciso delle FBGCs nell’interazione materiale-tessuto non è ancora ben definito; è probabile che queste siano responsabili di fenomeni di rottura da stress e di danno ossidativo concentrando fagociti e proprietà degradative, fattori che possono condurre al fallimento dell’impianto. I macrofagi partecipano a questi eventi liberando in seguito ad attivazione numerose citochine pro-infiammatorie (IL-1α, Il-1β, IL-6, IL-8, TNF-α) e richiamando,

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tramite chemiotassi, altri monociti-macrofagi e leucociti o tipi cellulari come i fibroblasti e le cellule muscolari. Naturalmente monociti-macrofagi insieme alle cellule T e B liberano anche molecole anti-infiammatorie come IL-10 che inibisce la sintesi delle IL-1β, IL-8, TNF-α limitando la durata e l’estensione della risposta infiammatoria. L’attivazione dei macrofagi non si esplica solamente in un’aumentata attività fagocitica ma anche in un’attività secretoria con rilascio di un ampio numero di sostanze come lipidi bioattivi, ormoni steroidei, specie reattive dell’ossigeno e fattori di coagulazione, con un’influenza notevole sulla risposta infiammatoria mediante induzione di apoptosi/necrosi o marcata proliferazione cellulare.

Nell’ambito dello studio sull’attivazione macrofagica, diversi lavori hanno suggerito che questo processo dal punto di vista molecolare potrebbe essere spiegato da una cascata di trasduzione del segnale, innescata da molecole segnale extra-cellulari quali interferon-γ e lipopolisaccaride batterico di E. Coli (LPS), che attraverso fosforilazione proteica e/o flusso di calcio intracellulare incrementa la sintesi della chinasi C, proteina che potrebbe avere una funzione regolatoria nel macrofago. Resta ancora da stabilire se questi meccanismi molecolari siano alla base dell’attivazione macrofagica in risposta all’impianto di un biomateriale o subentrino altri fattori, per questa ragione le scienze della proteomica e della genomica applicate allo studio dei biomateriali potranno fornire importanti risposte nel futuro.

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In passato, alcuni autori hanno dimostrato la produzione preferenziale di uno specifico fattore di crescita in risposta all’impianto di un particolare materiale; ad esempio, in vitro, Dacron e polietilene hanno indotto su monociti umani una maggiore sintesi e secrezione di IL-1 rispetto al polistirene o all’ePTFE, usati come controlli (Ziats N.P. et al. 1987).

Più recentemente è stato dimostrato sia in vitro che in vivo che titanio e titanio rivestito di rame in funzione delle differenze topografiche e chimiche possiedono una diversa capacità pro-infiammatoria; in particolare, è stato osservato che il rivestimento di rame ha indotto una risposta infiammatoria di entità e persistenza maggiore in termini di infiltrazione/accumulo di cellule infiammatorie in sede di impianto, soprattutto PMNs, e di produzione citochinica di IL-6, IL-1α e TNF-α (Suska F. et al. 2004). In effetti, secondo la teoria più accreditata, il processo di attivazione e secrezione macrofagica risulta influenzato dalle proprietà del materiale impiantato; in particolare la chimica di superficie influenzando lo strato di proteine adsorbite determinerebbe i tipi e i livelli di fattori rilasciati non solo dai macrofagi ma anche dagli altri tipi cellulari che si trovano nel micro-ambiente dell’impianto.

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1.7.2.3 Formazione della capsula fibrotica e ruolo dei macrofagi

Diverse condizioni sia fisiologiche che patologiche comportano la produzione, degradazione e rimodellamento della matrice extracellulare.

Questa svolge numerose funzioni fornendo siti di adesione e segnali per il differenziamento e l’attivazione cellulare. In seguito all’impianto di un biomateriale la matrice extracellulare si organizza insieme alle cellule del tessuto connettivo (principalmente fibroblasti) a formare una capsula fibrotica che circonda l’impianto. Questo fenomeno determinando la creazione di una barriera tra il materiale riconosciuto come estraneo e il corpo influisce sulla funzionalità dell’impianto provocandone il fallimento a seconda della sua entità. In effetti, complicanze hanno luogo quando, ad esempio, la capsula sia troppo spessa e impermeabile e quindi il tessuto comprometta la funzionalità meccanica dell’impianto o, nel caso di dispositivi per il rilascio controllato di farmaci, impedisca il rilascio del principio attivo. Questa situazione diviene intollerabile quando è in corso un’infezione: batteri ed altri microrganismi trovano un ambiente ideale dentro la capsula fibrotica e vi permangono perfettamente al sicuro da eventuali antibiotici che non sono in grado di penetrare la capsula stessa o la superano ma in concentrazioni clinicamente inefficaci. In queste circostanze, gli impianti devono essere rimossi

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a prescindere dal grado di mantenimento della loro funzionalità. Nel caso di impianti sottocutanei, l’isolamento del dispositivo ad opera della capsula fibrotica in prossimità della pelle può dar luogo ad una vera estrusione: l’impianto viene letteralmente espulso fuori dal corpo. Altrimenti, se l’impianto è biodegradabile, la capsula collassa su se stessa man mano che il dispositivo viene riassorbito. La superficie del biomateriale con lo strato di proteine adsorbite e la matrice extracellulare costituisce il micro-ambiente dei macrofagi che essendo presenti sia a livello della superficie che del tessuto circondante l’impianto hanno un ruolo di fondamentale importanza nel processo di formazione della capsula fibrotica ma che resta ancora da definire (Thomsen P. et al. 2001). Tuttavia, è noto che l’attivazione dei macrofagi determina il rilascio di almeno sei fattori di crescita IL-1, TNF-α, IL-6, fibroblast growth factor (FGF), platelet-derived growth factor (PDGF) e transforming

growth factor β (TGF-β) che hanno molteplici effetti tra cui la

modulazione della proliferazione dei fibroblasti e la produzione della matrice del tessuto connettivo (Kovacs EJ. et al. 1991. Rubin E. et al. 1994).

Inoltre è stata dimostrata l’influenza dei biomateriali sull’espressione macrofagica di una famiglia di endoproteinasi, le metallo proteinasi (matrix metalloproteinases, MMPs), che hanno la capacità di degradare un’ampia varietà di proteine extracellulari, tra cui quelle del tessuto connettivo (Ishiguro N. et al. 1996. Chou L.

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In conclusione, la formazione della capsula fibrotica e/o la sua degradazione è determinata da un bilanciamento tra la produzione di fattori di crescita da una parte e la produzione di fattori proteolitici dall’altra (Ziats N.P. et al. 1987).

1.8 LE CITOCHINE

Le citochine sono proteine solubili, prodotte dalle cellule dell’immunità innata e adattativa in risposta all’aggressione da parte di microrganismi o antigeni estranei all’ospite.

Esse intervengono oltre che nella fase attivatoria, stimolando la crescita, la maturazione e la differenziazione delle componenti cellulari, anche nelle fasi effettrici della risposta immune innata e acquisita regolando l’infiammazione, la produzione anticorpale e l’eliminazione dell’antigene.

Le citochine svolgono un’azione pleiotropica; questo termine si riferisce alla capacità di una singola citochina di agire su differenti tipi cellulari e produrre effetti biologici multipli. Un altro aspetto che caratterizza la funzionalità del sistema citochinico è la sua ridondanza, vale a dire la proprietà di differenti citochine di determinare lo stesso effetto funzionale.

La maggior parte delle citochine svolge la propria azione localmente, nel punto di produzione. L’effetto biologico può riguardare la stessa cellula produttrice (effetto autocrino), oppure cellule vicine (effetto paracrino).

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Quando prodotte in grande quantità, in seguito ad un’intensa attivazione immunologica, le citochine possono passare nella circolazione sistemica ed agire a distanza dal sito di produzione (effetto endocrino).

I macrofagi, attivati dal riconoscimento di un agente infettante, costituiscono la principale fonte di citochine dell’immunità innata. Infatti, prodotti batterici (LPS) e virali (RNA a doppia elica) stimolano fortemente, con un meccanismo recettore-mediato, la produzione di citochine da parte dei fagociti mononucleati (Abbas A.K. 2000) .

1.8.1 Fattore di necrosi tumorale

E’ il principale mediatore della risposta dell’ospite ad agenti infettivi batterici gram negativi ed è responsabile di gran parte delle complicazioni sistemiche che fanno seguito a gravi infezioni.

Questa citochina è il prodotto di un singolo gene localizzato nell’uomo sul cromosoma 6, all’interno del locus MHC. Essa svolge la sua azione legandosi a due distinti recettori con differente peso molecolare, rispettivamente di 55kD (recettore tipo I, TNF-RI) e 75 kD (recettore tipo II, TNF-RII), presenti sulla membrana della maggior parte dei tipi cellulari.

L’interazione del TNF con i propri recettori sulla cellula target può avere come effetto finale l’attivazione di fattori nucleari di

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trascrizione, in particolare NF-kB e AP-1, oppure l’induzione di un processo apoptotico mediato dall’attivazione delle caspasi.

Il meccanismo molecolare che determina il diverso tipo di risposta cellulare al TNF non è stato ancora completamente chiarito; esso sembra comunque dipendere dalla trasmissione di specifici segnali intracellulari di differenti proteine adattatrici (adapter proteins) legate alla porzione citoplasmatica del recettore.

Quando prodotto in piccole quantità (concentrazione plasmatica <10- 9M), il TNF esercita un’azione locale pro-infiammatoria, con attivazione leucocitaria ed endoteliale. In particolare, le cellule endoteliali vengono stimolate ad aumentare (up-regolazione) l’espressione di molecole di adesione (E-selectina e P-selectina) che costituiscono i ligandi per le integrine leucocitarie.

Le cellule endoteliali e i fagociti mononucleati sono stimolati a produrre anche chemochine, favorendo in tal modo la chemiotassi dei leucociti ed il loro reclutamento nel sito di infiammazione.

L’azione locale sui fagociti mononucleati si esercita anche attraverso l’induzione della produzione di IL-1, i cui effetti biologici, simili a quelli del TNF, amplificano con effetto a cascata l’azione di quest’ultima citochina (Dinarello C.A. et al. 1986). Le azioni del TNF sui leucociti e sull’endotelio sono essenziali per lo sviluppo di un’efficace risposta infiammatoria localizzata. Infatti, come dimostrato in animali da esperimento privati del gene per il TNF (topi knockout), oppure trattati con anticorpi neutralizzanti anti-TNF, un’inadeguata disponibilità di questa

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citochina rende impossibile una delimitazione del processo infettivo.

D’altra parte, in corso di gravi infezioni, la produzione di TNF aumenta significativamente (fino a raggiungere concentrazioni plasmatiche >10- 7M) con la comparsa di manifestazioni sistemiche quali febbre, produzione di proteine epatiche di fase acuta, coagulazione intravascolare, ipoglicemia, disfunzione della contrattilità miocardica, ipotensione e shock (Feldman A.M. et al. 2000).

Queste complicazioni si ritrovano associate in quella che viene definita sindrome da shock settico (o shock endotossico), osservata in corso di gravi sepsi da germi gram-negativi e dovuta alla produzione massiva, indotta da LPS, di TNF e altre citochine (quali IL-12, IL-1 e IFN-γ). In tal caso la misurazione dei livelli plasmatici di TNF può essere utile per il monitoraggio della malattia.

1.8.2 Interleuchina-1

L’IL-1, come il TNF, esercita la sua azione nella regolazione della risposta immune innata e nell’infiammazione.

La sorgente principale di IL-1 è rappresentata dai fagociti mononucleati attivati da prodotti batterici come l’LPS, e da altre citochine di derivazione monocito/macrofagica quali il TNF.

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A differenza del TNF, prodotto unicamente dai fagociti mononucleati, l’IL-1 è prodotta anche da altri tipi cellulari quali neutrofili, cellule epiteliali (cheratinociti) e cellule endoteliali.

Esistono due forme principali di IL-1 denominate IL-1α e IL-1β, prodotte da due geni diversi, ma con attività biologiche e legami recettoriali identici.

Entrambe le citochine, sintetizzate come precursori polipeptidi di 33kD (con omologia strutturale tra le due forme minore del 30%), sono secrete dalle cellule come proteine mature di 17kD.

L’IL-1β esercita la sua funzione biologica soltanto nella forma a più basso peso molecolare, mentre l’IL-1α è attiva in entrambe le forme.

L’azione di clivaggio proteolitico sulla forma originaria di IL-1β, al fine di produrre la forma biologicamente attiva della citochina, avviene ad opera di una proteasi cisteinica, appartenente alla famiglia delle caspasi, chiamata enzima di conversione dell’IL-1β (ICE, IL-dell’IL-1β converting enzyme). La maggior parte di IL-1 presente in circolo è rappresentata da IL-1β.

Sono stati caratterizzati due differenti recettori di membrana per l’IL-1, entrambi appartenenti alla superfamiglia delle immunoglobuline. Il recettore di tipo I, espresso su quasi tutti i tipi cellulari, è quello che media gran parte degli effetti biologici della citochina. Il recettore di tipo II, presente costitutivamente sui B-linfociti e inducibile su altri tipi cellulari, non è coinvolto nella

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trasmissione dei segnali intracellulari dell’IL-1, ma semplicemente inibisce in maniera competitiva il legame dell’IL-1 al recettore di tipo I.

La porzione intracitoplasmatica del recettore per l’IL-1 mostra omologie con quella dei Toll like receptor, presenti sulla superficie delle cellule fagocitiche e coinvolti nella risposta immune verso le infezioni batteriche. Come nel caso del TNF, anche il legame dell’IL-1 al recettore di tipo I, porta all’attivazione dei fattori nucleari di trascrizione NF-kB e AP-1.

Gli effetti biologici dell’IL-1 sono simili a quelli del TNF e anch’essi dipendono dalla quantità di citochina prodotta. Infatti, a basse concentrazioni, l’effetto principale dell’IL-1 è quello di agire sulle cellule endoteliali e favorirne l’espressione di molecole superficiali coinvolte nell’adesione leucocitaria e nel processo coagulativo. Quando secreta in quantità elevate, l’IL-1 entra in circolo con effetti sistemici simili a quelli causati dal TNF.

L’IL-1 è l’unica citochina verso la quale siano stati identificati degli inibitori naturali. Il più noto di questi è l’antagonista recettoriale dell’IL-1 (IL-1ra, IL-1 receptor antagonist), il quale viene secreto dai fagociti mononucleati e si lega al recettore dell’IL-1 comportandosi come inibitore competitivo della citochina (Abbas A.K. 2000).

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1.8.3 Interleuchina 6

Viene sintetizzata dai fagociti mononucleati, dalle cellule endoteliali, dai fibroblasti e da altri tipi cellulari in seguito a stimolazione citochinica, soprattutto da parte dell’IL-1 e del TNF.

La forma funzionalmente attiva dell’IL-6 è rappresentata da una proteina di 26kD. Questa si lega ad una struttura recettoriale complessa costituita da una proteina di legame di 60kD e da una sub-unità di 130 kD (gp130) deputata alla transduzione intracellulare del segnale.

L’effetto dell’IL-6 sul sistema dell’immunità innata è quello di stimolare la sintesi di proteine di fase acuta da parte del fegato e così contribuire agli effetti sistemici della risposta di fase acuta.

L’IL-6 costituisce anche un fattore di crescita per i B-linfociti in uno stadio avanzato della loro sequenza maturativa, favorendone la differenziazione in cellule producenti anticorpi.

1.8.4 Interleuchina 10

L’interleuchina 10 (IL-10) è una citochina di 18kD, prodotta principalmente da macrofagi attivati, da alcuni linfociti e anche da cellule non linfoidi (ad esempio cheratinociti).

A differenza delle citochine finora descritte, caratterizzate da un’azione stimolante la risposta immune di tipo innato, l’IL-10 esercita un effetto inibitorio sull’attivazione monocito/macrofagica.

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In particolare, essa inibisce la produzione di IL-12 e TNF, come pure l’espressione di molecole costimolatorie e di MHC-II sulla superficie di questo tipo cellulare. Pertanto, poichè l’IL-12 è essenziale per la secrezione di IFN-γ, l’effetto inibitorio dell’IL-10 si estende anche sulle risposte immuni cellulo-mediate dirette verso microrganismi intracellulari germi (Trinchieri G. 1997).

Un esempio della funzione omeostatica di controllo sul sistema immune esercitata dall’IL-10 è fornita da topi knockout per il gene della citochina; questi animali, infatti, sviluppano un’intensa malattia intestinale infiammatoria come risultato di un’incontrollata attivazione macrofagica (Fowler S. et al. 1999).

1.8.5 Risposta citochinica all’impianto di un device sintetico

La risposta infiammatoria scatenata dall’impianto di un

device sintetico trova nel rilascio citochinico da parte della

popolazione leucocitaria una delle sue più importanti componenti; una delle maggiori fonti di citochine all’interfaccia impianto/tessuto è rappresentata dalla popolazione aderente monocitaria/macrofagica capace di un’intensa attività secretoria nei primi stadi del processo infiammatorio (solitamente nelle prime due settimane successive all’impianto) che influenza il reclutamento e lo stato di attivazione di altri leucociti (i neutrofili e i linfociti). I linfociti, in particolare, interagendo con i macrofagi aderenti

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contribuiscono ad amplificare o circoscrivere il processo infiammatorio mediante rilascio citochinico.

Secondo la classificazione moderna le citochine vengono distinte in due sottogruppi, Th1 e Th2 promuovendo rispettivamente

una risposta cellulare e umorale. Le citochine Th1 includono IL-1β,

TNF-α e IL-8 mentre le Th2 includono IL-6, IL-10 e il recettore

antagonista di IL-1 (interleukin-1 receptor antagonist, IL-1RA): in relazione alla biocompatibiltà dei biomateriali invece la loro descrizione si basa sul ruolo che rivestono nell’influenzare l’esito dell’impianto, mostrando proprietà pro- o anti-infiammatorie. In particolare, IL-1β, TNF-α, IL-6 e IL-8 sono considerate citochine con azione pro-infiammatoria, che si esplica tramite l’attivazione cellulare e la chemiotassi, mentre si parla di citochine con azione anti-infiammatoria nel caso di IL-1RA, IL-4, IL-10 e IL-13.

Secondo alcuni autori tuttavia il ruolo di IL-1β e IL-10 si presterebbe a delle importanti considerazioni; infatti IL-1β se da una parte si dimostra una citochina pro-infiammatoria essendo in grado di attivare cellule infiammatorie come i linfociti e i monociti dall’altra avrebbe un’azione risolutiva per il buon esito dell’impianto attivando i fibroblasti e quindi la formazione della capsula fibrotica mentre IL-10 ha rivelato un’attività inibitoria che si esplica sia nei confronti delle principali cellule infiammatorie che nei confronti dei fibroblasti (Brodbeck W.G. et al. 2002. Miller K.M. et al. 1988).

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Tra le citochine di origine macrofagica, IL-1 grazie alla sua doppia azione è considerata uno tra i più importanti marker di infiammazione con un ruolo essenziale nel determinare la biocompatibilità dei devices biomedici.

In particolare, questa regolando la crescita e la proliferazione della popolazione fibroblastica sarebbe in grado di modulare la durata e l’entità della risposta fibrotica all’impianto; in effetti, IL-1 se da una parte induce la sintesi di collagene stimolando l’attività dei fibroblasti dall’altra ne riduce il rilascio stimolando la produzione di collagenasi.

Infine, oltre ad attivare la sintesi di fattori della coagulazione, di inibitori del plasminogeno, di prostaglandine e di fattori trombo-attivanti, in virtù degli effetti esplicati sulle cellule endoteliali, come l’induzione di un’aumentata capacità adesiva leucocitaria, assume un ruolo significativo nei processi pato-biologici associati ai problemi di riendotelizzazione di protesi vascolari umane (Miller K.M. et al. 1988). La mancanza di un rivestimento endoteliale, soprattutto nelle protesi di piccolo calibro, contribuisce all’insorgenza di fenomeni trombotici e di iperplasia fibrotica neointimale che possono sfociare nell’occlusione e in ultimo nel fallimento dell’impianto.

Il TNF-α è un mediatore multipotente del sistema immunitario prodotto dai leucociti in risposta a vari stimoli tra cui anche l’interazione con le proteine della cascata del complemento: uno dei suoi effetti più importanti insieme ad un aumento nel

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rilascio di IL-1 è quello di promuovere nei neutrofili la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROIs) che possono danneggiare il materiale.

In ultimo, il TNF-α essendo un potente agente pro-apoptotico nei confronti della popolazione cellulare aderente assume un ruolo che risulta controverso.

IL-6 è un’altra citochina con azione pro-infiammatoria e può essere regolata sia positivamente che negativamente da un’ampia serie di stimoli, tra cui l’esposizione a materiali polimerici; in vitro e in vivo è stata dimostrata in risposta ad una stimolazione cronica da parte dell’impianto una sovra-espressione di IL-6 che potrebbe essere responsabile del meccanismo patogenico alla base di malattie autoimmuni, virali e anche di eventuali formazioni tumorali (Rihova B. 1996).

Tra la citochine anti-infiammatorie, IL-4 e IL-13, secrete principalmente dai linfociti T helper 2 (Th2), mostrano un coinvolgimento cruciale nella risposta infiammatoria all’impianto di

devices biomedici; infatti, la loro azione, pur essendo indipendente,

determina la fusione dei macrofagi presenti sulla superficie del materiale a formare le FBGCs. Il meccanismo molecolare alla base della formazione delle FBGCs potrebbe includere un aumentato livello di espressione) del recettore macrofagico per il mannosio (mannose receptor, MR), indotta sia da IL-4 che da IL-13.

Infine, IL-4 esplica un’azione inibitoria sull’espressione di citochine pro-infiammatorie come IL-1, TNF-α e IL-8 e, in sinergia

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con determinate classi di steroidi, sull’attività infiammatoria macrofagica in generale (Dadsetan M. et al. 2004. Anderson J.M. et

al. 1999).

1.9 RUOLO DEI NEUTROFILI E LINFOCITI NELLA RISPOSTA IMMUNE ALL’IMPIANTO DI UN DEVICE SINTETICO

I neutrofili rappresentano la prima linea di difesa che interviene in risposta a numerosi tipi di infezioni batteriche o all’impianto di biomateriali.

Il processo di attivazione innescato dalla presenza di materiali sintetici comporta un’alterata espressione di recettori di membrana, quali ad esempio la L-selectina e la molecola integrinica Mac-1, che determina un’aumentata tendenza all’adesione cellulare sulla superficie dei materiali stessi e la secrezione di un’ampia varietà di fattori con attività pro-infiammatoria come enzimi lisosomiali, citochine, mediatori lipidici e specie reattive dell’ossigeno (ROIs) (Doherty N.S. et al. 1994. Casimir C.M. et al. 1994). In particolare, la formazione dei ROIs e la liberazione di enzimi con attività idrolitica in seguito ad un processo di degranulazione innescato da una fagocitosi ‘frustrata’ risultano i principali fattori associati ad una alterata funzionalità meccanica e strutturale dei materiali impiantati che può contribuire al fallimento dell’impianto. In effetti, l’intensità del burst respiratorio in risposta ai biomateriali può essere considerato come un indicatore di biocompatibilità

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poiché influenza la stabilità del dispositivo impiantato (Falck P. 1994).

Nell’ambito dello studio sul meccanismo di attivazione neutrofila è stato scoperto che esiste una distinzione importante tra cellule aderenti e non aderenti: il numero ed il grado di attivazione delle prime risulta strettamente dipendente dalla chimica del materiale al contrario per le cellule non aderenti l’unico parametro da tenere in considerazione sembra essere la presenza del materiale. Inoltre, è stato dimostrato che mentre il processo di adesione è mediato dall’attivazione della cascata del complemento in virtù dell’ interazione tra recettori di membrana e le proteine C3b, iC3b e C3d adsorbite sulla superficie del biomateriale, quello di attivazione non ne risulta influenzato (Gorbet M.B. et al. 1998).

I linfociti insieme ai monociti/macrofagi sono largamente presenti in sede di impianto durante la fase cronica della risposta infiammatoria dove aderiscono alla superficie dei materiali ma il loro ruolo in relazione ai biomateriali resta da definire; tuttavia, la secrezione di linfochine si è dimostrata influenzare l’attività monocitaria/macrofagica in termini di adesione e fusione in FBGCs e sono state inoltre ampiamente documentate interazioni giustacrine e paracrine tra linfociti e monociti/macrofagi aderenti in virtù dell’interazione tra recettori linfocitici e antigeni di superficie macrofagici legati al MHC.

Gli effetti della chimica di superficie sull’attività linfocitica o sulle interazioni dirette cellula-cellula e indirette basate sulla

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liberazione di fattori solubili rimangono oggetto di studi basati sull’utilizzo in vitro di sistemi di co-coltura di linfociti e monociti umani. Recentemente è stato dimostrato che la presenza di monociti aumenta l’attività dei linfociti prossimali e viceversa la presenza dei linfociti aumenta l’adesione, l’attivazione e la fusione dei monociti, in questa regolazione reciproca è stato attribuito un ruolo primario al rilascio citochinico sia monocitario che si esplica tramite 2 e 6 con effetti mitogeni che linfochinico tramite IL-4 e IL-13. mentre l’instauraursi di segnali di natura paracrina tra i due tipi cellulari si è dimostrato non necessario (Brodbeck W.J. et

al. 2005). E’ noto che le proprietà fisico-chimiche dei materiali

influenzano in modo significativo l’adesione e l’attivazione monocitaria che a loro volta si sono dimostrate capaci di influenzare l’attività linfocitica a lungo termine (MacEwan M.R. et

al. 2005).

1.10 LE PIASTRINE 1.10.1 Fisiologia

Le piastrine, o trombociti, sono elementi cellulari ematici di forma tondeggiante o discoidale, quando si trovano in uno stato di non-attivazione, con diametro compreso tra 1 e 3.5μm, e con un volume medio di 6-7μm3. Esse non sono cellule vere e proprie, ma frammenti citoplasmatici dei megacariociti (precursori di grosse

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dimensioni presenti nel midollo osseo), durante un processo di maturazione che prende il nome di piastrinopoiesi.

Il numero totale di piastrine circolanti, compreso normalmente tra 250000 e 500000 elementi/μl di sangue, è il risultato del rapporto tra le piastrine prodotte a livello midollare e le piastrine distrutte in periferia.

Le piastrine, anche se prive di nucleo, contengono tuttavia tutti i componenti biochimici delle altre serie cellulari, eccetto il DNA ed altre componenti strutturali nucleari. Una volta liberate in circolo, hanno una vita media normale di 8-10 giorni; la loro eliminazione (piastrinocateresi) avviene ad opera del sistema reticolo-endoteliale, soprattutto splenico, ma anche epatico.

Sono morfologicamente costituite da una parte centrale di aspetto granulare, detta granulomero, e da una parte periferica meno densa che circonda la precedente, detta ialomero.

La principale funzione delle piastrine è quella di mantenere l’integrità della parete vasale. A tal fine, esse sono capaci di attivarsi a seguito di modificazioni del flusso ematico (shear

stress), o della matrice sub-endoteliale dei vasi, e aderire alla

parete vasale, aggregarsi tra loro (aggregazione omotipica) e rilasciare all’esterno il contenuto dei granuli citoplasmatici.

I composti biochimici (tra cui ADP, serotonina e adrenalina) liberati durante la reazione di rilascio amplificano il processo di aggregazione piastrinica e portano alla formazione del trombo piastrinico emostatico (platelet plug).

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Le piastrine attivate aumentano (up-regulation) anche l’espressione di una proteina di membrana (P-selectina, CD62P) la quale, interagendo con il proprio ligando (PSGL-1, CD162), presente sulla superficie di neutrofili e monociti, favorisce il formarsi di aggregati eterotipici tra piastrine e globuli bianchi. La formazione di questi coniugati ha come effetto di incrementare la reazione cellulare infiammatoria ed il danno tissutale locale, in quanto l’interazione tra piastrine e fagociti aumenta su questi ultimi l’espressione del complesso integrinico CD18/CD11b e, come conseguenza, ne favorisce l’adesione all’endotelio infiammato e la migrazione all’interno dei tessuti.

Inoltre, l’interazione tra piastrine attivate e monociti, favorendo la produzione di fattore tissutale (TF) da parte di questi ultimi, contribuisce in maniera significativa all’attivazione del processo coagulativo.

L’interazione eterotipica tra piastrine e altri tipi cellulari può svolgere un ruolo anche nelle fasi iniziali della risposta immune; infatti, è stato recentemente osservato che l’espressione del CD40-ligando sulla superficie di piastrine attivate può servire come precoce segnale co-stimolatorio per la risposta di cellule dendritiche ad antigeni tissutali.

Queste evidenze inducono a ritenere che la formazione di aggregati leuco-piastrinici possa avere un significato fisiopatologico e prognostico nell’evoluzione di alcune condizioni cliniche caratterizzate da un’intensa reazione infiammatoria

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tissutale (ad esempio, al momento della riperfusione miocardica dopo circolazione extracorporea).

1.10.2 Ruolo delle piastrine nella reazione trombotica indotta dai biomateriali

La biocompatibilità di devices polimerici sintetici che devono essere posti a contatto con il sangue è condizionata soprattutto dalla reazione trombotica indotta dai biomateriali. Sebbene ancora nessun materiale si sia rivelato perfettamente biocompatibile, molti devices utilizzati nel settore cardio-vascolare comportano oggi bassi o comunque accettabili rischi di complicazioni, tra queste quelle trombotiche e tromboemboliche prevenute con una necessaria terapia anticoagulante rimangono di serio interesse. Tuttavia, per esempio nell’ambito delle protesi vascolari sintetiche, non è stato ancora sviluppato un materiale che possa permettere il successo dell’impianto di protesi di piccolo diametro a dispetto di qualunque terapia successiva.

La trombogenicità associata ai dispositivi cardiovascolari artificiali include una sequenza di eventi tra cui l’esposizione della superficie trombogenica al sangue circolante e la successiva adesione, aggregazione e attivazione piastrinica, oltre all’attivazione del sistema della coagulazione che ha come tappa finale la produzione di trombina con conseguente formazione di

Figura

Figura 1: Rappresentazione schematica della risposta infiammatoria innescata  dall’impianto di un biomateriale (Thomsen P
Figura 2: Rappresentazione schematica dei processi coinvolti nell’attivazione  del sistema del complemento indotta dall’impianto di un biomateriale
Figura 3: Rappresentazione schematica dei possibili meccanismi alla base del  processo apoptotico indotto dall’impianto di un biomateriale (Shive et al.,  2001)

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