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Prevenzione della crisi d’impresa e procedure di allerta - Judicium

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Academic year: 2022

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ALESSANDRO PELLEGATTA

Prevenzione della crisi d’impresa e procedure di allerta

Sommario: 1 – Premessa; 2 – I lavori della Commissione Trevisanato e l’esempio della legislazione francese; 3 - Conclusioni

1 – Premessa

Uno dei maggiori gap che continuano a condizionare negativamente la normativa italiana sulla composizione della crisi d’impresa, nonostante le plurime riforme legislative, è sicuramente dato dal ritardo con cui avviene la segnalazione dello stato di crisi medesima. Le indicazioni della c.d.

“Commissione Trevisanato” sull’introduzione di meccanismi di allerta, come noto, continuano a non essere recepite dal nostro ordinamento.

Quello della riforma della legge fallimentare italiana, nonostante i plurimi interventi legislativi, è ancora un vero e proprio cantiere aperto. Si procede per approssimazioni successive, e siamo ben lungi da un consolidamento normativo. Le ultime novità del decreto-legge n.69 del 21 giugno 2013, che all’art.82 si è limitato a riformare l’istituto del concordato “prenotativo” o “in bianco” (dopo nove mesi di abusi e deviazioni) non entusiasmano i più: non si è persa comunque la speranza che altri temi rilevanti, e per ora “accantonati”, siano prima o poi affrontati e possibilmente risolti con la legge di conversione al citato decreto-legge. Quello che, comunque, emerge con evidenza, a qualche anno ormai di distanza dall’introduzione delle procedure di composizione della crisi d’impresa alternative alle procedure concorsuali o liquidatorie classiche, è comunque un quadro assai sconfortante. I risultati sono stati molto deludenti; dovevano emergere i concordati in continuità e, viceversa, sono dilagati quelli liquidatori e quelli “prenotativi”, con sacrifici esorbitanti

“scaricati” bellamente sulle spalle dei creditori (banche e fornitori). Qui sta forse la “magagna”

peggiore. Il nostro sistema è troppo (e pericolosamente) sbilanciato solo sul debitore, e vede attualmente il creditore (finanziario e non) subire. In assenza di capitali di rischio, andrebbero invece tutelati anche i creditori, cioè coloro che pur non essendo gli azionisti dell’impresa ne permettono i funzionamento e la crescita; purtroppo, ancora oggi gli imprenditori che hanno perduto e non ripristinano le necessarie condizioni patrimoniali continuano a “proporre” soluzioni capestro ai creditori, senza che questi ultimi possano fare alcunché, oltre ad accettare “saldi e stralci”

devastanti o, in pejus, respingere proposte concordatarie o gli accordi e portando al fallimento l’impresa. Tutte queste storture, inefficienze ed abusi stanno inoltre alterando seriamente il principio della concorrenza, in quanto, oltre a scaricare i costi della crisi sui terzi, creano effetti discorsivi nell’ambito della competizione economica. Anche la legge n.134/2012, pur essendosi ispirata a principi condivisibili, alla fine ha “copiato” sola una parte del Chapter 11; oltre all’automatic stay, al dual track e al cram down occorreva pensare anche all’introduzione del modello dell’involuntary petition, attraverso il quale i creditori possano chiedere anche in Italia quello che viene normalmente chiesto nell’ambito dei diritto statunitense alla Bankruptcy Court,

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vale a dire l’avvio, nei confronti del proprio debitore, di una procedura concorsuale di Chapter 11 – Reorganization o di Chapter 7 – Liquidation (1).

Se vogliamo parlare di prevenzione allora è inevitabile pensare anche (e soprattutto) alle procedure di allerta, al bene primario dell’impresa che deve essere preservato indipendentemente dalla figura dell’imprenditore. Non si può solo aspettare che si muova l’imprenditore, ma occorre intervenire quando l’impresa ancora esiste, e non quando è già completamente decotta. Solo intervenendo per tempo davanti a chiare, obiettive situazioni di crisi si può preservare i valori, attuali e prospettici, dell’impresa stessa, permettendo se del caso i necessari turnaround industriali e finanziari, e con essi una più efficiente allocazione dei capitali. Anche qui sicuramente non aiuta la mancanza di definizione della “crisi d’impresa”, a differenza di altri ordinamenti (ad esempio quello francese) dove è presente la nozione di “difficoltà prevedibile” (2) . Oggi purtroppo le PMI italiane, malate di malattie ormai endemiche e afflitte da nanismo e miopia gestionale, non hanno più una loro mobilità, non investono; e spesso le PMI italiane in crisi continuano ad essere gestite dagli stessi imprenditori che le hanno portate alla crisi stessa. Il soggetto economico di riferimento dell’impresa non può essere solo l’imprenditore, ma dovrebbe essere dato dall’insieme dei soggetti/operatori che convergono sull’impresa stessa, specie in un contesto – come quello italiano – dove il capitale di rischio è molto più basso della media dei paesi europei e dove la leva del credito è elevata. Le procedure di allerta hanno peraltro il pregio di vedere l’intervento di un terzo, onde impedire che le decisioni strategiche sulla sopravvivenza aziendale e sulle azioni di rilancio rimangano appannaggio dell’imprenditore. Soggetti di tutela devono essere anche necessariamente i creditori; l’aver differito, ad esempio, il pagamento dei crediti scaduti per i creditori non aderenti agli accordi ex art.182-bis l.fall. a 120 giorni dall’omologa ha contribuito ad espandere a macchia d’olio la crisi ad imprese (fornitrici), che devono anch’esse lottare contro la sfavorevole congiuntura e hanno migliaia e migliaia di posti di lavoro da tutelare.

E’ proprio all’interno dell’impresa che soprattutto occorrerebbe guardare per stimolare iniziative di allerta e di prevenzione, ma se lo facciamo guardando alla situazione attuale allora il quadro che si presenta è davvero sconsolante. Su tale punto, duole rimarcare il ruolo spesso passivo (o addirittura totalmente inerte) dei sindaci, che non dovrebbero limitarsi al mero controllo contabile, ma che dovrebbero invece vigilare anche sul contenuto della gestione, considerate anche le disposizioni del codice civile che regolano ormai da anni i loro diritti/poteri (cfr. artt.2403-2409 c.c.). Il superamento della prospettiva classica di inquadramento dell’attività sindacale come controllo ex post su atti ed eventi già compiutamente svolti dovrebbe in concreto portare a privilegiare la prospettiva della vigilanza sull’attività nel suo complessivo svolgersi, vicina al controllo just in time di matrice aziendalistica, e aprire nuovi scenari nella ricostruzione della funzione e della correlata responsabilità del collegio sindacale. Parlando poi di società quotate, il quadro normativo, pur mostrando oggi (dopo un percorso tormentato) un chiaro intendimento del legislatore nell’attribuire ai collegi sindacale delle S.p.A. quotate un ruolo centrale nel governo dei flussi informativi societari, dovrebbe poggiare su adeguate sanzioni, onde veder valorizzata la doverosità dei comportamenti reattivi richiesti ai sindaci stessi. Qui il discorso si fa davvero spinoso, e coinvolge la governance societaria e la stessa funzione degli enti di controllo e regolatori.

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I “segnali di allarme” spesso non vengono percepiti dai sindaci, e se anche percepiti, i sindaci stessi generalmente non si attivano comunque in modo efficace (o si attivano molto tardivamente). Anche i revisori possono e debbono rilevare nella loro attività elementi di criticità emergenti da conti annuali e consolidati, e possono altresì richiedere documenti e notizie agli amministratori utili all’attività di revisione; ma pur spingendosi anche verso un’attestazione no clean non possono ancora orientare l’azienda verso l’utilizzo degli strumenti di risanamento, e anche quando rilevano elementi critici che si possono riverberare negativamente sulla continuità aziendale devono sempre sottoporre il tema all’organo di gestione e informare il collegio sindacale.

In Italia i citati soggetti preposti al controllo non possono allo stato ancora esercitare alcuna iniziativa diretta volta a sollecitare l’imprenditore e i soci ad adottare un idoneo strumento di risanamento, né possono rivolgersi direttamente a un giudice perché convochi l’imprenditore. Va da ultimo rilevato che oggi le nuove norme dell’art.182-sexies l.fall. dovrebbero incentivare il ricorso all’accordo di ristrutturazione e al concordato preventivo proprio in quanto consentono, in via eccezionale, la non applicazione delle norme civilistiche sulla riduzione o la perdita del capitale sociale delle società in crisi, tutte le volte che è venuto meno il capitale di rischio, rimanendo esclusi i piani attestati. Nella prassi operativa, tuttavia, spesso avviene un vero e proprio ribaltamento, posto che l’approvazione dei conti annuali viene “strategicamente” rinviata (anche per molti mesi) dall’imprenditore che punta alla conversione in strumenti finanziari partecipativi del credito bancario, e che vuole mantenere sempre l’utilizzo del piano attestato ex art.67 l.fall.. Ormai la materia della crisi d’impresa è diventata un crocevia di furberie, deviazioni ed abusi, e anche gli istituti giuridici che nascono sotto i migliori auspici (quali, ad esempio, il c.d. concordato

“prenotativo”) finiscono presto col degenerare.

In questi anni si è parlato spesso, spessissimo, di composizione della crisi d’impresa, e ci si è arrovellati in infinite e bizantine discussioni su cosa fare e non fare, sui modelli da adottare, sulle migliori strategie, su quale strumento utilizzare e su quali cautele adottare, e sulle ottimizzazioni fiscali. Co, trascorrere degli anni il percorso si fa tuttavia sempre più ricco di ostacoli, e le cose si complicano anziché semplificarsi; i tempi si dilatano anziché ridursi. E anche le spese per le attività di advisoring lievitano enormemente, a scapito delle già precarie situazioni aziendali ed erodendo quegli stessi flussi di cassa che dovrebbero essere destinati ai creditori, e spesso senza che ci sia un effettivo miglioramento dell’efficacia delle azioni di risanamento. Forse è tornato il momento di fare un passo indietro, e di ripensare a un nuovo “modello” per la prevenzione e cura della crisi d’impresa. Un modello più efficace, meno costoso, alternativo, che individui “a monte” le situazioni di difficoltà e che, attraverso la creazione di apposite banche dati, sia in grado di dare una rappresentazione obiettiva e di agevole conoscibilità per la fede pubblica. Forse è arrivato il momento d’incentivare l’emersione della crisi prima che la stessa assuma connotati così gravi da mettere a rischio la continuità aziendale, di ri-parlare di prevenzione e di meccanismi di allerta 2 – I lavori della “Commissione Trevisanato” e l’esempio della legislazione francese

Come noto, nel novembre 2001 era stata insediata, presso il Ministero di Giustizia, la

"Commissione per l' elaborazione di principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge

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delega al Governo, relativo all' emanazione della nuova legge fallimentare ed alla revisione delle norme concernenti gli istituti connessi" (in breve "Commissione Trevisanato"), composta da accademici, magistrati e professionisti, tra i quali un rappresentante dell' ABI, della Banca d' Italia e

della Confindustria, e presieduta dall' avv. Trevisanato.

Durante il dibattito, la presenza di contrasti sorti all' interno della Commissione ha condotto il suo Presidente a costituire un gruppo ristretto di commissari, con il compito di redigere la bozza di legge delega che sarebbe poi stata votata in seduta plenaria e avrebbe portato al ddl n. 1243, il cui esame è rimasto sostanzialmente bloccato durante il periodo dei lavori della Commissione Trevisanato ed è ripreso subito dopo la consegna dei testi di legge delega prodotti dalla Commissione medesima.

Tuttavia, il documento prodotto non soddisfò tutti i commissari; in particolare, i rappresentanti dell' ABI e della Banca d' Italia hanno proceduto a promuovere la sottoscrizione di un "testo alternativo"

di legge delega, nel quale hanno trovato recepimento le istanze del settore bancario in materia fallimentare . Il Presidente della Commissione stabilì di consegnarlo al Ministro della giustizia, insieme al c.d. "testo di maggioranza", il quale, nonostante la denominazione assunta non poteva essere considerato espressione della volontà della Commissione. I lavori della Commissione Trevisanato si sono ufficialmente chiusi nel febbraio 2004, ma non hanno avuto alcun esito parlamentare.

Ora, a distanza di quasi dieci anni, tornare ai lavori della Commissione Trevisanato, e cioè agli

“antecedenti” alla riforma della nostra legge fallimentare, potrebbe apparire a prima vista come un lavoro inutile o anacronistico, da parrucconi del diritto. In realtà, spesso tornare sui propri passi permette invece di progredire. In questa sorta di progressus ad originem questo scritto, senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività, si prefigge l’obiettivo di affrontare, con spirito il più possibile costruttivo e propositivo, uno degli argomenti più importanti trattati (con scarso successo) dalla citata Commissione, e che più passa il tempo e più appare di fondamentale importanza; gli strumenti di allerta e di prevenzione della crisi d’impresa e il ruolo degli organi di controllo all’interno delle imprese. In questi dieci anni molto è stato fatto ma molto resta ancora da fare. Lo stesso Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti si è occupato nel 2005 di elaborare un documento su tali temi (3), e il 27 giugno 2013 si è tenuto a Milano un evento importante, sempre patrocinato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti, e avente per oggetto l’efficacia della legislazione sulla crisi d’impresa e le procedure di allerta (4). Da più parti pertanto si sta riflettendo sulla necessità di ripensare ad un nuovo modello di prevenzione della crisi, ancorato sull’analisi di dati quantitativi ed obiettivi, e che impedisca inter alia una delle più pericolose insidie per le imprese, vale a dire la patologia che spesso lega il finanziamento del capitale circolante al credito bancario, specie in periodi di credit crunch. Non solo. Il nuovo modello dovrebbe poter attivare tutte le azioni “istituzionali” atte a <<…svolgere un’opera di persuasione sull’imprenditore per indurlo ad operare per il superamento della crisi >> (5). Ci spingeremo anche oltre confine, valutando la legislazione francese. Dall’esame comparato (fatto ovviamente in modo sintetico) troveremo nuovi e interessanti spunti di riflessione.

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Come riportato nel citato documento del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, la Commissione Trevisanato, nel prendere in esame gli strumenti di prevenzione e di allerta, aveva a suo tempo contemplato l’ipotesi di introdurre:

a) l’obbligo dell’organo di controllo e del revisore di riferire all’autorità giudiziaria i “fatti indicatori” della crisi, in caso di mancata adozione da parte dell’imprenditore di iniziative volte al loro superamento. Su tale punto il “testo di minoranza” si discostava dal testo licenziato dalla maggioranza nel senso di escludere che all’autorità giudiziaria dovessero essere segnalate situazioni di semplice crisi, e limitava l’obbligo di segnalazione ai soli fatti rilevatori dell’insolvenza, rafforzando al contempo i rimedi interni all’impresa (comunicazione tempestiva all’organo amministrativo di ogni circostanza idonea a pregiudicare la continuità dell’impresa, invito ad adottare idonee iniziative per il superamento della crisi, convocazione dell’assemblea per le opportune deliberazioni).

b) il potere conferito al giudice di convocare l’imprenditore per verificare le circostanze riferite dalle pubbliche amministrazioni e/o dagli organi di controllo interno e di sollecitarlo all’adozione di iniziative di risanamento. Nessuna previsione a tal riguardo era contenuta nel testo di minoranza.

c) il favorire la costituzione di istituzioni pubbliche e private con compiti di analisi delle situazioni di crisi delle imprese e di supporto alla loro soluzione. Il testo di minoranza prevedeva l’ estensione della funzione di queste istituzioni anche a compiti di assistenza, consulenza e promozione di soluzioni concordate nelle situazioni di crisi, che erano ritenute particolarmente utili per le piccole imprese.

Questo tentativo di prevedere adeguati meccanismi di prevenzione e anticipazione della crisi s’ispirava chiaramente al modello francese, di cui parleremo in seguito, mentre per favorire la composizione della crisi d’impresa secondo procedure stragiudiziali alternative alle procedure concorsuali classiche la Commissione Trevisanato si è chiaramente ispirata al modello statunitense.

Sempre nell’ambito delle riflessioni sull’istituzione di validi strumenti di prevenzione ed allerta la citata Commissione aveva pensato anche alla necessità di costituire apposite banche dati presso le Camere di Commercio che raccogliessero tutte le informazioni disponibili in ordine al mancato pagamento di somme spettanti agli Organi pubblici e che, in quanto tali, rappresentano indubbiamente un evento obiettivo di difficoltà da cui può agevolmente desumersi la presenza di uno stato di crisi aziendale. Tale fatto generò una vera e propria sollevazione, posto che ai più il fatto stesso apparve come un’invasione dell’autonomia dell’imprenditore. Allora la citata Commissione pensò di operare in altro modo, cercando di imporre precisi obblighi d’intervento dei sindaci, una volta esauritisi i colloqui interni con i soci e gli amministratori, contemplando la necessità che i sindaci stessi avviassero un esposto al Presidente del Tribunale (così come avviene tuttora in Francia nelle procédures d’alerte), che avrebbe a sua volta convocato l’imprenditore inerte per gli approfondimenti del caso. Anche su tale punto i più obiettarono che la corporate governance disponeva già di adeguati meccanismi interni di gestione e avrebbe trovato sempre un sistema di auto-regolazione; pertanto, interferenze di tipo giurisdizionale non erano ben accette…

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Fu proprio davanti a queste evenienze che si registrò una vera e propria empasse, che portò all’abbandono del progetto d’istituire una normativa sulla prevenzione e l’allerta. La cosa più paradossale era in realtà un’altra, e cioè che quello che veniva considerato “lesivo” sia dell’autonomia privata sia dei meccanismi posti a presidio della corporate governance costituiva da anni la regola per l’ordinamento francese

Su questo punto, prendo lo spunto sottolineando quanto l’Avv. Matteo Rossi ha riferito personalmente nel corso del workshop sulla crisi d’impresa tenutosi a Milano il 23 aprile 2013 (cfr.

nota 4), per segnalare che:

- Italia e Francia hanno culture giuridiche figlie di un unico genitore: il Diritto Romano come ispiratore del Codice di Napoleone, del Code Civil e del nostro Codice Civile;

- questo resta presente negli istituti di base nei due sistemi ma il contesto normativo francese ha sicuramente attinto a una forte componente cartesiana dalla tradizione culturale d'oltralpe. Regole e procedure francesi sono pregne di una spiccata connotazione pratica che si è sempre evoluta rapidamente per adattarsi alle esigenze di contesto;

- il Code de Commerce francese (che risale addirittura al 1563, e cioè ai tempi di Carlo IX) è l'esempio di un corpo normativo in continua evoluzione che cerca di rispondere alle necessità effettive, ascoltando gli imprenditori e restituendo strumenti semplici e di immediata applicabilità;

- nei Tribunaux de Commerce, sono esposte comunicazioni che incoraggiano gli imprenditori a rivolgersi ai Giudici e agli Ausiliari (es: Entrepreneurs, ne vous imaginez pas seuls..nous avons des solutions... attentifs à vos côtés);

- in Francia le misure di prevenzione (tra cui le procedure di allerta) hanno sempre una funzione primaria nella protezione dell'impresa in difficoltà, mentre le procedure concorsuali - pur ben regolamentate - hanno funzioni sempre residuali, e questo per il semplice motivo che l’incremento della prevenzione aiuta e risolve una importante porzione delle situazioni di crisi, evitando l'accentuarsi delle patologie ed il ricorso alle procedure concorsuali;

- altra importante differenza sta nel fatto che le misure di prevenzione in Francia scattano anche indipendentemente dalla volontà dell'imprenditore che, a volte, tende a non percepire la gravità della situazione. Sindaci, rappresentanti dei lavoratori, revisori contabili e spesso lo stesso Presidente del Tribunal de Commence possono prendere, come vedremo in seguito, l'iniziativa e promuovere la misura ritenuta più adatta.

Anche nell’ambito delle relazioni col sistema bancario, la Francia gode di ulteriori norme estremamente efficaci e sconosciute al nostro ordinamento. La legge francese rimette infatti all'attenzione del mediatore della Banca di Francia situazioni di potenziale conflitto (e ben sappiamo, soprattutto in Italia, come intorno all’utilizzo o alla sospensione/revoca delle linee di finanziamento del capitale circolate si annidino insidiose patologie che possono esacerbare la crisi d’impresa, e che portano ad infinite discussioni nell’ambito del ceto bancario, non scevre anch’esse da episodi di opportunismo e scorrettezza), che convoca le Banche presso la Prefettura competente

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e coordina una analisi della situazione, suggerendo correttivi, incoraggiando un maggior approfondimento delle informazioni ed aiutando l'imprenditore a presentare nella forma più corretta, ogni dato utile ad una più attenta a costruttiva valutazione del rischio. Il tutto nella prospettiva della moral suasion e senza invasioni di campo.

L’esperienza francese porta quindi a testimoniare che gli istrumenti di prevenzione e di allerta risultano estremamente efficaci e creano una reale cultura della prevenzione, molto ben accetta dalle imprese stesse che sanno di poter contare su aiuti reali da parte delle istituzioni, in tempi brevi, a bassi costi e in totale riservatezza. E ciò rafforza nei più la consapevolezza che il ritardo nella necessaria adozione dei dispositivi di prevenzione può portare l’impresa nell’area delle procedure concorsuali, con maggiori rischi e che a volte sono senza ritorno.

Tornando alla procédure d’alerte francese, essa si esplica concretamente come segue:

-le procédures d’alerte su iniziativa dei soci (artt. L. 221-8, L. 225-232, L. 223-36 Code de Commerce ; art. 1855 Code Civil) - I soci hanno la possibilità di chiedere agli amministratori informazioni sulla gestione della società in particolar modo sui fatti che possono compromettere la continuità dell’esercizio dell’impresa, con obbligo di risposta in tempi brevi. Questo criterio di attenzione costante alla situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa, richiama alla mente quello della procédure d’alerte su iniziativa del revisore dei conti, laddove questi ravvisi elementi di allarme nell'ambito dello svolgimento dei suoi compiti;

-le procédures d’alerte su iniziativa del revisore dei conti (art. L. 234-1 Code de Commerce)- Per le società dotate di un revisore dei conti, questo è giuridicamente tenuto a informare gli amministratori qualora ravvisi circostanze tali da mettere in pericolo la continuità dell’esercizio dell'attività;

-le procédures d’alerte su iniziativa dei delegati del personale (art. L. 234-1 Code de Commerce)- Nello stesso modo, i rappresentanti del personale - che partecipano sia al CdA che all'Assemblea - hanno un diritto d’allerta introdotto sin dal 1984 che li autorizza a chiedere approfondimenti in merito alla situazione economica della società.

-le procédures d’alerte su iniziativa diretta del Presidente del Tribunale di Commercio (art. L.

611-2 Code de Commerce)- Il Presidente del Tribunale di Commercio ha un potere sovrano che gli permette di convocare, per un colloquio, gli amministratori di una società che mostri segni di difficoltà tali da compromettere la continuità dell’esercizio aziendale o che non abbia ottemperato all’obbligo di depositare il bilancio, così per qualsiasi altro motivo di preoccupazione, anche assunto per via di sommarie informazioni.

3 – Conclusioni

Dopo oltre dieci anni in Italia è ancora in corso lo stesso scontro ideologico che ha diviso i componenti della Commissione Trevisanato, tra i fautori della necessità d’introdurre adeguati

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meccanismi di allerta e chi rifiuta tenacemente qualsiasi forma di controllo o di semplice moral suasion giudiziale. Mentre vanno ripensate le linee-guida di tutta la riforma fallimentare, e mentre il sistema rimane pericolosamente sbilanciato sulla figura dell’impresa debitrice e dell’imprenditore, l’operatività quotidiana di chi è chiamato a gestire la crisi d’impresa appare segnata da inefficienze, distorsioni ed abusi. Il concordato “prenotativo” è stato utilizzato massimamente dai debitori con l’acqua alla gola, irresistibilmente attratti dalle tutele dell’automatic stay, ma molto spesso non ha portato nemmeno alla presentazione di una vera e propria manovra di risanamento. La natura sostanzialmente liquidatoria della stragrande maggioranza dei concordati comporta gravi sacrifici delle ragioni dei creditori, con percentuali di soddisfacimento dei chirografari spesso risibili: anche in tal caso è sempre l’imprenditore, che spesso ha già perduto tutto il suo capitale di rischio, a decidere sulla pelle degli altri, senza che il creditore possa utilizzare meccanismi simili a quello dell’involuntary petition presente nell’ordinamento statunitense. Spesso dietro questi concordati liquidatori ci sono anni di negligenze, di cattiva gestione, di occultamenti di situazioni critiche, di ritardi nell’intervento degli organi di controllo, di carenze manageriali. Né si può pensare che la gestione dei meccanismi di allerta possa essere rimessa ai privati, in quanto costoro potrebbero cercarne di trovarne vantaggio a scapito di altri creditori. L’abuso dell’utilizzo dell’informazione privilegiata o riservata è un male tipicamente italiano. Proprio per queste ragioni elementari, le procedure di allerta, così come avviene in Francia da decenni, devono godere della più assoluta confidenzialità e riservatezza, in quanto fughe di notizie potrebbero compromettere l’impresa in difficoltà.

In realtà il tema dell’introduzione dei meccanismi di allerta è molto più importante di quello che si potrebbe pensare a prima vista, in quanto richiede non solo una profonda rivisitazione dei ruoli degli organi di controllo (sindaci e revisori) e dell’autorità giurisdizionale, ma implica la creazione di sistemi obiettivi di rilevazione e di banche dati che impatterebbero sulle attuali policy della gestione imprenditoriale (purtroppo legate a doppio filo alla proprietà, e qualche volta riunite nella stessa persona fisica ) e che, se introdotti, porterebbero a limitare fortemente le attuali tendenze sistemiche all’elusione e all’evasione fiscale. Dietro le crisi d’impresa ci sono infatti quasi sempre enormi buchi verso l’Erario e gli enti previdenziali: evidentemente non si vuole probabilmente ancora gestire strutturalmente questo grande scandalo nazionale, salvo poi non riuscire mai a trovare le necessarie coperture della finanza pubblica e a costatare che dietro le crisi d’impresa si annidano perdite erariali e previdenziali miliardarie, e che finiscono con lo scaricarsi su tutta la collettività. Altro tema altrettanto scottante è rappresentato dal fatto che una presenza “proattiva” (e verrebbe da dire anche “pedagogica”) dell’autorità giudiziaria nella procedura d’allerta sottrarrebbe inevitabilmente spazio ai consulenti, i quali (a ben vedere) non hanno alcun interesse a vedere limitato il proprio ambito d’intervento (e le proprie laute parcelle). Anche su questo punto, non volendo ovviamente criminalizzare né l’operatività di costoro né quella degli esperti asseveratori (con una presenza proattiva dell’autorità giudiziaria sia nella fase di allerta sia in quella di valutazione dei piani concordatari, anche nella fase “prenotativa”, ci sarebbe da chiedersi a questo punto quale sarebbe il ruolo di tali esperti…), va comunque detto che molto spesso le operazioni di risanamento (sempre molto complesse e costose), nonostante la presenza di autorevolissimi studi di consulenza talvolta appaiono inconsistenti, irrealistiche e, in quanto tali, spesso finiscono nel nulla.

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Ma il vero punto centrale, al di là di tutte queste considerazioni, è capire se la creazione di procedure di allerta con il necessario coinvolgimento dei giudici dei Tribunali fallimentari italiani e dei commissari giudiziari potrebbe essere effettivamente realizzato in questo momento nel nostro paese senza una profonda riforma della nostra giustizia, posto che i Tribunali italiani versano effettivamente in condizioni non ottimali. Al di là dei temi degli organici e degli annosi (e spinosi) problemi della giustizia italiana, non va dimenticato che mentre i giudici dei Tribunali di Commercio in Francia, unitamente agli amministratori e ai mandatari giudiziari, sono degli specialisti ed operano in un contesto normativo molto più semplice e fluente, in Italia le norme della legge fallimentare soffrono di ipertrofia, di contraddizioni e di mancanze di coordinamento di ogni tipo, creando veri e propri percorsi ad ostacoli,illogicità, problemi interpretativi e applicativi che certo non favoriscono l’attività giudiziaria, che in alcuni Tribunali italiani sta esplodendo per numerosità di pratiche (mentre in altri langue…); i busillis giuridici sono probabilmente tanti e tali da risultare totalmente assorbenti, tralasciando inevitabilmente una più attenta verifica dei contenuti, dei numeri e della sostanza delle manovre concordatarie.

Ancora una volta il nostro paese è chiamato a innovare e a cambiare, e ancora una volta i dibattiti ideologici e le lobbies si scatenano in contrasti verbali e verbosi. Non si tratta di imitare gli ordinamenti altrui, si tratta di comprendere elementari ragioni di buon senso. Se continuerà questo stillicidio le imprese arriveranno sempre più decotte a pensare all’utilizzo di uno strumento di risanamento, e anche avendo il migliore dei mondi possibili dal punto di vista giuridico probabilmente non ci saranno più spazi patrimoniali, economici e finanziari per risanarle. Il bene impresa non può più rimanere in balia delle decisioni dell’imprenditore e del debitore; con ciò non si vuole né espropriare le azioni manageriali né attuare un dirigismo giudiziale in campo economico. Si tratta solo, e molto più semplicemente, di prevedere ragionevoli meccanismi di prevenzione, con una funzione pedagogico - consulenziale, che contemplino l’accensione di focus e con essi l’attivazione di un sistema di protezione attorno all’impresa che ha delle difficoltà ancora gestibili. Va anche detto che questi meccanismi, anche se utili e necessari, non basteranno comunque da soli a risolvere tutti i problemi; anche la miglior best practise senza un’effettiva politica di rilancio economico e industriale non potrà risolvere tutti i problemi, ma potrà comunque contribuire a migliorare il contesto.

L’augurio comune è che nei tempi di conversione del decreto-legge n.69/2013 si abbia la volontà politica, la lucidità e il coraggio di cambiare passo, e di stroncare gli abusi e le negligenze colpevoli che ormai stanno dilagando in ogni fase della crisi d’impresa. Le novità introdotte dal citato decreto-legge, anche se probabilmente hanno bisogno di ulteriori correttivi , vanno sicuramente nella giusta direzione di arrestare i crescenti e multiformi abusi della procedura di concordato

“prenotativo”. I temi, che sono stati affrontati ed esaminati da tempo e che non sono stati nemmeno sfiorati dal decreto-legge, sono tuttavia ancora molti e tutti molto rilevanti. Occorrerebbe, tanto per esemplificare; (i) introdurre un maggior bilanciamento tra le ragioni del debitore e quelle dei creditori, pensando anche e soprattutto ai meccanismi dell’involuntary petition dell’ordinamento statunitense, onde permettere – come ha correttamente rilevato Mariacarla Giorgetti – di estendere

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anche ai terzi creditori la legittimazione ad avvalersi dello strumento concordatario; (ii) ripristinare l’obbligo del ripagamento integrale per i creditori privilegiati e introdurre una soglia minima anche per i chirografari; (iii) ripristinare modalità di voto e quorum più seri per la formazione della maggioranza concordataria; (iv) introdurre un maggior rigore nella fase di valutazione delle manovre concordatarie per stroncare gli abusi, e far sì che i Tribunali fallimentari, anche con l’ausilio dei commissari giudiziari e ausiliari con competenze contabili, siano posti nelle condizioni operative di porre un freno alle deviazioni e agli opportunismi, specie in presenza di concordati

“prenotativi; in tale ambito sarebbe anche opportuno eliminare il dual track sull’art.182-bis l.fall.

che oltre a rappresentare una facoltà ultronea potrebbe anche essere utilizzato elusivamente per impedire l’attività di controllo del commissario giudiziario sui contenuti della manovra concordataria in fieri (v) rivedere l’art.169-bis l.fall. e, soprattutto, disporne la sua non applicabilità ai concordati “prenotativi”; (vi) introdurre la definizione di “gruppo d’impresa” e stimolare il legislatore comunitario nella revisione del regolamento UE 1346/2000, che ormai mostra il segno dei tempi e va implementato con riferimento alle nuove procedure di composizione della crisi d’impresa che, come in Italia, sono state introdotte negli altri paesi membri; (vii) e infine, ovviamente, last but non least, prevedere anche nuove misure di allerta e prevenzione per anticipare l’emersione della crisi, che contemplino massima riservatezza (6).

In buona sostanza, le nuove linee di riforma della legislazione italiana sulla crisi d’impresa dovrebbero essere ispirate ad un unico obiettivo: quello di favorire tutti i tentativi, sani, concreti, rapidi e realistici, di salvataggio delle imprese, colpendo (con adeguate sanzioni) gli abusi, i tentativi irrealistici, e tutto ciò che può essere ricondotto nell’alveo della mala gestio. Il tutto dovrebbe essere accompagnato da uno sforzo collettivo nell’utilizzo dei comportamenti di best practise e da meccanismi premianti per l’imprenditore che si comporta correttamente. Anche il Fisco è chiamato a fare la sua parte, e su tale punto è sicuramente da rivedere l’art.182-ter l.fall., che in questo momento è rimasto quasi inattuato; va eliminato il divieto di transabilità dell’IVA (che ancora oggi costituisce il maggiore incumbent sia per la transazione fiscale sia, indirettamente, per la risoluzione delle crisi d’impresa ad essa collegate) e va creato un sistema di protezione istituzionale intorno all’impresa in crisi, congelando le pretese erariali e previdenziali; il che, non vuol dire “condonare”, bensì modulare un approccio alla recuperabilità dei crediti erariali e previdenziali maggiormente coerente e fattibile, con un auspicabile congelamento degli interessi e con modalità di rateizzazioni che tengano conto dell’effettiva capacità di cash flow dell’impresa in crisi. Il ruolo del Tribunale fallimentare, unitamente a quello dei commissari e degli ausiliari del giudice, non dovrebbe essere poi limitato solo all’approvazione e all’omologa delle manovre concordatarie, ma dovrebbe estendersi alla vigilanza sulla corretta applicazione delle disposizioni ivi contenute.

Tante sono le cose da migliorare o migliorabili. E, come ha scritto il Dott. Filippo Lamanna, forse

<<…non è il caso di farsi (troppe) illusioni >> (7). La questione delle procedure d’allerta non è un semplice tecnicismo giuridico, e sarà una delle principali questioni strategiche e istituzionali che ci permetteranno di comprendere se il nostro paese è davvero in grado di riformarsi, e soprattutto di

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ritrovare quella visione, istituzionale e strategica, di cui abbiamo tutti un gran bisogno, dopo anni di tribalismo, di feroci lotte ideologiche e di miopia politico-istituzionale.

Note

(1) Si veda Mariacarla Giorgetti, “Critica alla legge fallimentare riformata: la legittimazione dei terzi a proporre una domanda di concordato preventivo quale ipotesi di soluzione alterativa”, Il Fallimentarista, 18 gennaio 2012, pag.6;

(2) Si allude alla procedura di conciliation (art. L.611-4 e seguenti del Code de Commerce);

(3) Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti- Ufficio Studi, “Crisi d’impresa: strumenti per l’individuazione di una procedura d’allerta”, Gennaio 2005. Nel documento (pag. 5) si riferisce che <<…il punto di partenza del lavoro è quello di determinare un sistema in grado di far capire se un’impresa sia in crisi attraverso una lettura dei dati di natura quantitativa e qualitativa. Tale modello ha l’ambizione di individuare sia l’effettivo stato di solvibilità e solidità d’azienda in cui, nonostante i dati di bilancio, l’impresa può trovarsi, sia il pericolo che l’azienda medesima possa imbattersi nel futuro in situazioni di difficoltà… >>;

(4) Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano, SAF – Scuola di Alta Formazione Luigi Martino, “L’efficacia della legislazione sulla crisi d’impresa; le prospettive della “procédure d’alerte”, Milano 27 giugno 2013. Per parte mia, prima di tale evento (e cioè in data 23 aprile 2103) mi sono fatto promotore di un workshop patrocinato da Centrobanca (Gruppo UBI Banca) sulla crisi d’impresa, durante il quale è stato acceso un focus sulle crisi on cross border, e che ha visto l’intervento dell’Avv. Matteo Rossi, esperto di legislazione francese, che ha illustrato le misure di prevenzione e di allerta vigenti in Francia;

(5) Commissione Trevisanato, Relazione generale, pag.11;

(6) Si veda Filippo Lamanna, “Il decreto del “fare” e le nuove misure di controllo contro l’abuso del preconcordato”, Il Fallimentarista, 21 giugno 2013;

(7) Ibidem, pag.13

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