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FEUDALE NEL PRIMO SECOLO DELL’ETÀ MODERNA

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In memoria di Cesare Mozzarelli.

Cesare Mozzarelli conosceva bene i luoghi oggetto del pre- sente lavoro. Per due estati consecutive, alla fine degli anni Novanta, gli avevo ceduto la mia casa di Castel- buono, nell’entroterra di Cefalù, da dove egli era solito muoversi per visitare le località vicine. Il castello da cui il paese prende il nome lo aveva particolarmente interessato e più volte mi aveva sollecitato a occuparmi della corte del potente feudatario che vi abitava: tema, quello delle corti, come è noto a lui assai caro. La dispersione all’inizio del Novecento dell’archivio dei marchesi Ventimiglia non lo consente, ma la documentazione superstite offre tuttavia sufficiente materiale per trattare altri aspetti cui l’amico Cesare non sarebbe rimasto certamente indifferente.

1. L’opposizione autonomistica

Per tutto il Trecento e buona parte del Quattrocento, se si eccettuano alcuni momenti di grave difficoltà, i Ventimiglia, conti e – dal 1438 – marchesi di Geraci, furono la più potente e prestigiosa famiglia feudale siciliana. Negli ultimi decenni del Quattrocento, dopo la morte nel 1473 di Giovanni I Venti- miglia – cui Alfonso il Magnanimo, come riconoscimento dei notevoli servizi prestatigli, aveva conferito il titolo di marchese,1 che ne faceva il capo del braccio feudale al parlamento siciliano e al quale i Ventimiglia rimasero sempre affezionati, preferendolo anche a quello di principe ottenuto nel 1595 – era cominciata per la famiglia una lunga decadenza, non priva di qualche fase drammatica culminata addirittura con la perdita temporanea del mar-

Ricerca svolta nell’ambito di un progetto finanziato dal MIUR, bando 2004 (ex 40%).

Sigle utilizzate: Asp = Archivio di Stato di Palermo; Bcp = Biblioteca Comunale di Palermo; Moncada = Archivio privato Mon- cada; Pag = Prefettura Archivio generale; Ti = Sezione di Termini Imerese; Trp = Tribunale del Real Patrimonio; uid = utriusque iuris doctor.

1 A dimostrazione dell’altissima considera- zione in cui Giovanni I era ancora tenuto da vecchio, il viceré, nel convocare il parlamento del 1464, ne sollecitava la partecipazione con un invito personale, oltre alla convocazione

ufficiale rivolta a tutti feudatari che ne ave- vano diritto: «Et pirchi ni pari decenti cosa, ultra la generali requisitioni [= convocazione]

fatta a tutti quilli è solitu et consuetu, chia- mari a tali parlamentu vui comu persona singulari in lo Regno et solito prestari grandi et alti servitij a li Re qui pro tempore regna- runt, essiri singularmenti requestu et non passari per la generalitati di li altri» (cit. in G.

E. Di Blasi, Storia cronologica de’ viceré, luo- gotenenti e presidenti del regno di Sicilia, a cura di I. Peri, Palermo, Edizioni della Regione siciliana, 1974, I, p. 232n).

ALCHIMIE FINANZIARIE DI UNA GRANDE FAMIGLIA

FEUDALE NEL PRIMO SECOLO DELL’ETÀ MODERNA

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chesato. Proprio in coincidenza con la scomparsa di Giovanni I Ventimiglia, cui successe il primogenito Antonio, saliva sul trono di Sicilia Ferdinando d’Aragona (marzo 1474), il futuro Ferdinando il Cattolico, che era stato co- reggente del padre ed era ben deciso a ridimensionare lo strapotere che alcune famiglie nobiliari (Ventimiglia, Santapau) avevano acquisito grazie anche alle numerose concessioni dei suoi predecessori. Lo strumento di cui egli si sarebbe servito per realizzare il suo progetto sarebbe stato l’esercizio politico della giustizia. Quando perciò Pietro De Benedictis, figlio del maestro secreto del Regno di Sicilia Cristoforo De Benedictis, uccise in duello Alfonso Ventimiglia – figlio di Ferdinando, secondogenito di Giovanni I – la corte mostrò scarso interesse per la punizione dell’assassino e ordinò a Carlo, fra- tello dell’ucciso, di astenersi da qualsiasi atto di vendetta contro il maestro secreto.

Invitato a versare una cauzione, Carlo si rifiutò e continuò a chiedere giu- stizia al sovrano, che finalmente decise di far porre sotto processo Pietro De Benedictis. Prima ancora però che il processo si concludesse, Carlo ed Enrico Ventimiglia (quest’ultimo figlio del marchese Antonio), a capo di una banda di ben 23 elementi, non essendo riusciti a rintracciare Pietro, in un vicolo di Palermo assalirono e uccisero Cristoforo De Benedictis e un nipotino («par- vulum nepotem»). Il processo che ne seguì costituì per re Ferdinando l’occa- sione per colpire anche altri personaggi della grande feudalità (Raimondo Santapau, barone di Licodia, e Ambrogio Moncada, barone di Ferla) e del seguito dei Ventimiglia, come i servitori del marchese Paolo di Tarsia e Luca d’Almerich. Nell’ottobre 1475, la durissima sentenza: Carlo ed Enrico erano condannati a morte. E poiché essi erano intanto riusciti a fuggire all’estero, la Magna Regia Curia li metteva al bando e ordinava il sequestro dei loro beni.

Da allora il marchese di Geraci riesumò la linea autonomistica che tradi- zionalmente aveva caratterizzato l’azione politica della sua famiglia e, in occa- sione del parlamento siciliano del 1478, convocato per approvare i finanzia- menti necessari alla riparazione delle fortificazioni dell’isola minacciata dai turchi, si schierò decisamente all’opposizione. La proposta del viceré di un’im- posta del 10 per cento su tutte le rendite trovò infatti non solo la ferma oppo- sizione delle città demaniali con a capo Messina, ma anche quella di un gruppo di feudatari, tra cui proprio Antonio Ventimiglia, l’«illustri, savio, pru- denti et fidili marchisi di la triumphanti casa Vintimiglia», il quale non esitò a protestare vivacemente contro l’imposizione del nuovo dazio con una lettera (aperta, oggi diremmo), che fu ripresa nella protesta a stampa dei messinesi e ampiamente diffusa.2L’imposta era considerata ingiusta e deleteria per l’eco- nomia siciliana, che pagava già costi non indifferenti per le pesanti contribu- zioni degli anni precedenti. Una sua richiesta al nuovo viceré Gaspare de Spes, conte di Sclafani, di sospendere almeno temporaneamente la riscos-

2Cfr. La protesta dei messinesi al viceré Gio- vanni Cardona conte di Prades nel Parla- mento di Catania del 27 settembre 1478 tran-

slatata per Iohan Falcone, in L. Sciascia (a cura di), Delle cose di Sicilia. Testi inediti o rari, Palermo, Sellerio, 1980, I, pp. 395-408.

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sione dell’imposta fu respinta, così come erano respinte le richieste per il rientro in patria di Carlo ed Enrico, ancora in esilio. E tuttavia, poiché le sue virtù militari eguagliavano quelle del padre Giovanni e numerose erano le vit- torie da lui riportate sul mare, di fronte alla minaccia di invasione da parte di Maometto II, nel 1480 il viceré lo nominava Capitano Generale delle armi del Regno, con l’obbligo per gli altri capitani, baroni, ufficiali regi e università di sottostare ai suoi ordini.

La morte improvvisa del marchese Antonio a fine 1480 portò al perdono di Enrico, per consentire al figlio di succedergli nel marchesato. Ma il prezzo fu elevatissimo: il pagamento entro due mesi di una somma di 3.600 lire bar- cellonesi, che significava il dissanguamento finanziario dei Ventimiglia per ridurne il peso sulla scena politica siciliana, a vantaggio di altre famiglie – come i Luna, conti di Caltabellotta, i Moncada, conti di Adernò e di Caltanis- setta, i Branciforte, baroni di Mazzarino, nonché di esponenti di rilievo del patriziato urbano come gli stessi De Benedictis, i Bologna, i Leofante, gli Alliata, gli Aiutamicristo, ecc. – più disponibili nei confronti della linea poli- tica di accentramento che il sovrano intendeva portare avanti.

In assenza di un testamento del defunto Antonio, si mise inoltre in discussione il rinnovo della concessione del «mero e misto imperio», ossia del- l’esercizio della giurisdizione civile e criminale, a favore di Enrico, cui infine (1482) un Sacro Regio Consiglio addomesticato lo negò quasi all’unanimità, con la scusa che essa violava i capitoli del regno. Era un colpo durissimo per il nuovo marchese, il cui potere all’interno del marchesato e nello stesso mondo feudale veniva fortemente ridimensionato. Contemporaneamente, le terre del marchesato erano invase da algoziri regi con l’incarico di riscuotere imposte arretrate e istruire alcuni processi. Gli episodi di resistenza da parte delle popolazioni furono numerosi. In un’occasione si procedette addirittura all’arresto di facoltosi che si rifiutavano di anticipare le somme e non si esclu- deva neppure l’arresto degli ufficiali del marchesato nel caso rifiutassero di collaborare o facessero resistenza. A Castelbuono, dal 1454 capitale dello stato feudale, altri commissari si susseguivano dal 1479 nel vano tentativo di riscuotere dal marchese un credito (69 onze e 28 tarì) vantato da Giovanni de Tocco, che aveva ottenuto una sentenza favorevole dalla Magna Regia Curia.

Questi era discendente di Raimondetta, figlia del marchese Giovanni I, la quale aveva sposato il despota di Arta, Giovanni de Tocco, trasferitosi in Sicilia dopo avere perduto i suoi domini rumeni per l’avanzata dei turchi.

Per ordine del viceré de Spes, giungevano a Castelbuono ufficiali regi con l’incarico di liberare il vescovo di Cefalù – che Enrico, sicuramente non uno stinco di santo, teneva prigioniero – e condurlo a Palermo perché fosse ascol- tato. Il vescovo (Giovanni Gatto?) intendeva recarsi dal viceré «per comuni- carni alcuni cosi ... concernenti lo servitio di la Sacra Regia Maiestati», ma il marchese, temendo che lo accusasse, lo tratteneva a Castelbuono contro la sua volontà. Era riuscito più volte anche a fuggire, ma era stato sempre ripreso e riportato indietro. Finalmente aveva trovato l’occasione per raggiun- gere Cefalù, dove però, mentre tentava di imbarcarsi per Palermo con l’aiuto dei nipoti Paolo e Minico Imburlo, fu raggiunto e bloccato dal noto Paolo di

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Tarsia e da altri dipendenti del marchese, tra cui Bartolo Gatto e tale Luisi.

Seguì un vivace scambio di minacce: a Bartolo che faceva notare come il mar- chese non era un signore i cui disegni potessero impunemente intralciarsi, Paolo Imburlo rispose che egli non aveva «altro Signuri excepto la Maestati di lo Signuri Re».

Et cussì item lu dittu misser Barthulu li respusi: «Non ti curari gagloffu ribaldo, eu ti hajo a fari bastoniari et taglari lo nasu». Et ancora lo ditto misser Paulo [di Tarsia]

majurdomo dissi: «tu Paolo Inburlo hay fatto tutti quisti cosi di fari fugiri lo ditto epi- scopo di Castello Bono, eu ti farrò dari chentu bastunati». Et cussì lu dittu Luisi contra lo ditto Paulo Inburlo misi mano per la spata dicendoli li volia cavari li ficati di lo corpo.3

Il vescovo ne approfittò per fuggire e ritentare più tardi l’imbarco per Palermo con l’aiuto del capitano di Cefalù. Ma ancora una volta glielo impedì l’intervento di Paolo di Tarsia, che ricordò al proprietario dell’imbarcazione come lui non potesse allontanarsi dal porto senza il permesso del marchese di Geraci, che essendo l’Ammiraglio del Regno era anche «comandanti a li patruni, perchi lu Signuri Miraglo è Signuri di li mari». Sopraggiungeva intanto il marchese a cavallo, che fece aprire la porta della città («la quali ut moris est sta chiusa») e riportò il vescovo a Castelbuono, da dove lo liberarono gli algoziri inviati dal viceré. Ai seguaci del marchese, un ordine viceregio ingiungeva di presentarsi entro sei giorni dinanzi alla Magna Regia Curia per essere giudicati.

L’arrivo a Castelbuono di un nuovo commissario (il notaio Matteo de Puglisio) provocò nel marzo 1484 una sorta di tumulto: la folla, capeggiata da tale mastro Nicolò, custureri (sarto), lo inseguì con minacce e insulti, costrin- gendolo ad allontanarsi: «cum injurij, resistencij et palori disonesti vi cacharu, non havendu consideracione alcuna [che] vui erivu commissariu et officiali di la Regia Maestati».4 Non è noto il castigo inflitto a Nicolò, cui il viceré de Spes ingiunse di presentarsi immediatamente dinanzi alla Magna Regia Curia per essere processato. Enrico fu costretto a scendere a patti con i de Tocco (i fratelli Giovanni e Leonardo) e nel giugno successivo soggiogò loro una rendita di 100 onze l’anno per i 10.000 fiorini (2000 onze) che i Ventimi- glia dovevano ancora a saldo della dote di Raimondetta. Poco tempo dopo Gio- vanni de Tocco finiva assassinato a Castelbuono da Muccio Albamonte, fra- tello del barone di Motta d’Affermo, famiglia molto legata ai Ventimiglia.5 Muccio si sottrasse ai rigori della giustizia rifugiandosi a Lipari, grazie anche alla compiacenza dei due presidenti del Regno, il barone di Licodia Raimondo Santapau e il barone di Asaro Giovanni Valguarnera, alleati dei Ventimiglia e sostituti del viceré de Spes, richiamato temporaneamente a corte.

3Asp, Protonotaro del Regno, reg. 106, cc.

64v-65r.

4Ivi, reg. 107, c. 178r.

5Guglielmo Albamonte, figlio del barone di

Motta Giovanni Albamonte, sarà nel 1503 uno dei tredici italiani della nota disfida di Barletta contro i francesi.

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Sotto accusa finiva anche Enrico Ventimiglia e – con il ritorno in Sicilia del de Spes a metà 1485 – anche i due ex presidenti del Regno, rei tra l’altro di connivenza con il marchese di Geraci. Era ormai la resa dei conti definitiva con il ‘partito’ dei Ventimiglia, voluta da re Ferdinando e progettata probabil- mente a corte durante la permanenza del de Spes. L’accusa più pesante contro Enrico non riguardava tanto il sequestro del vescovo di Cefalù, o l’in- tervento armato in una città demaniale quale era Cefalù, né la possibile par- tecipazione all’omicidio del Tocco, bensì un episodio di alcuni anni prima ormai dimenticato: il duello con il nipote Pietro Cardona avvenuto, con largo seguito di armati dall’una e dall’altra parte, nei pressi delle Petralie il 14 giugno 1481 e conclusosi senza conseguenze,6che ora gli era duramente con- testato come delitto di lesa maestà, in ossequio a una prammatica del 1474 resa esecutiva in Sicilia appena da qualche mese, nel marzo 1485. Nei con- fronti del Ventimiglia c’erano in verità anche altre accuse, tra cui quella di for- nire asilo e assistenza nel marchesato a banditi e fuorgiudicati, con l’appoggio del barone di Motta e del barone di San Fratello. Ma già quella di lesa maestà era sufficiente perché contro di lui e contro Cardona si procedesse preventi- vamente, anche senza processo, al sequestro dei beni e alla cattura. De Spes non perse tempo e inviò immediatamente delle truppe nella contea di Colle- sano, confiscando il patrimonio di Pietro Cardona, che chiese perdono al sovrano e si consegnò alla giustizia. A conclusione del processo, la confisca fu confermata, con l’aggiunta della privazione del titolo di conte e la deportazione

6All’origine del duello sembra ci fosse una restituzione di dote (il castello di Roccella), ma non è chiaro chi ne fosse titolare. La sto- riografia siciliana considera Pietro Cardona cognato di Enrico Ventimiglia, che ne avrebbe sposato una sorella e doveva resti- tuire la dote. Si tratterebbe – secondo F. San Martino De Spucches (La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia, Palermo, 1940, IX, p. 270) e M. Pluchinotta (Genealogie della nobiltà di Sicilia, ms. della Bcp ai segni 2 Qq E 167, vol. II, c. 859) – di Eleonora Cardona, figlia di Artale e di Maria Ventimiglia. In realtà, Pietro era nipote di Enrico, perché figlio della sorella Maria Ventimiglia, che nel 1456 aveva sposato Artale Cardona (con- tratto matrimoniale in notaio Giacomo de Comite, 22 giugno 1456) con una dote di 10.000 fiorini (2000 onze), che ancora nel 1483 doveva essere pagata quasi per intero e che quasi certamente è all’origine del duello (cfr. Asp, Archivio privato Notarbartolo di Sciara, Cedola del tribunale della Regia Gran Corte a favore di Pietro Cardona, 23dicembre 1482, vol. 10, cc. 57 sgg; Lettere osservato- riali di sentenza a favore di Pietro Cardona contro Enrico Ventimiglia per il pagamento della dote di Maria Ventimiglia Cardona, 3

dicembre 1483, cc. 63r sgg). Inoltre, non risulta che Enrico Ventimiglia avesse mai sposato una Eleonora Cardona Ventimiglia.

Pluchinotta gli attribuisce un primo matri- monio con Eufemia Montiliana (i Montiliana erano una famiglia di Sciacca), dalla quale avrebbe avuto due figli (Francesco, morto in tenera età, e Girolama, moglie di Andrea Perollo, barone della Salina), ma l’unico suo matrimonio documentato è quello con Eleo- nora de Luna e Cardona, figlia del defunto Antonio de Luna e di Beatrice Cardona, con una dote di 1500 onze, per il cui reperimento il fratello Carlo de Luna, conte di Caltabel- lotta, nel 1470 dovette tra l’altro imporre ai suoi vassalli più ricchi una colletta di 1.000 fiorini (200 onze) a titolo di sovvenzione,

«taxando ad omni uno nemine exempto secundu la sua facultati» (Asp, Protonotaro del Regno, vol. 68, cc. 257-258, lett. 14 luglio 1470: debbo l’indicazione archivistica alla cortesia di Antonino Marrone, che ringrazio).

È mia convinzione che si sia fatta confusione con il secondo cognome (Cardona) di Eleo- nora de Luna, figlia di Beatrice Cardona, sorella del nonno omonimo di Pietro Car- dona. Resta comunque non chiarita l’esatta causa del duello.

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nell’isola di Malta: pene poco dopo commutate nel pagamento di una forte somma, che determinerà la rovina della famiglia Cardona. Analoga condanna subiva Enrico (1485), che era intanto riuscito a fuggire a Napoli presso il re Ferrante d’Aragona, suo zio materno (la regina Isabella era infatti sorella di Margherita Chiaromonte, madre di Enrico), e successivamente a Ferrara presso il duca Ercole d’Este, marito della cugina Eleonora d’Aragona (figlia di Ferrante). I Ventimiglia perdevano definitivamente anche la prestigiosa carica di Ammiraglio del Regno, concessa in premio al de Spes. Il marchesato pas- sava sotto la giurisdizione del demanio regio, mentre le truppe viceregie occu- pavano Castelbuono e Geraci, dove ponevano a sacco le dimore dell’ex feuda- tario, distruggevano gli archivi (nell’occasione andò disperso il documento di concessione del titolo di marchese a Giovanni I), asportavano sculture, pit- ture, oreficeria e persino due famosi arieti di bronzo che erano collocati sulla tomba di Giovanni I.

A Ferrara, Enrico fu raggiunto dalla moglie Eleonora de Luna e dai figli, ai quali era stata accordata dal sovrano una rendita annuale di 150 onze sugli introiti del marchesato, passato sotto l’amministrazione della Regia Curia.

Nonostante l’intervento del duca Ercole, Ferdinando il Cattolico non volle mai concedere il perdono a Enrico, giustificandosi con motivi di coscienza che gli impedivano di farlo di fronte ai suoi gravi delitti. Solo dopo la sua morte in esilio, il sovrano acconsentì a ricevere in Castiglia Eleonora e i figlioletti Filippo e Simone, che inginocchiati ai suoi piedi ne implorarono il perdono.

Nel 1490, in considerazione dei notevoli servizi prestati alla Corona da Gio- vanni I, i Ventimiglia ottenevano così con Filippo – sotto la tutela dello zio paterno conte di Adernò Giovan Tommaso Moncada – la restituzione del mar- chesato (che per ragioni burocratiche non avvenne prima del 1494), ma agli abitanti di Geraci (o almeno agli esponenti al potere nel periodo dell’ammini- strazione regia) non sarebbe dispiaciuta la permanenza sotto il demanio, che avrebbe lasciato loro la gestione delle risorse locali. Intanto, i Ventimiglia si obbligavano a pagare una pesantissima composizione di 15.000 fiorini (3000 onze),7che Ferdinando utilizzò per la conquista del regno di Granada, ma pro- vocò il dissesto finanziario della famiglia siciliana, costretta da allora ad alie- nare in continuazione parti consistenti del suo patrimonio feudale, sia pure con patto di riscatto. Per coprire le spese del viaggio a corte, Eleonora era stata costretta a vendere lo ius luendi (diritto di riscatto) sulla baronia di Pet- tineo agli Anzalone di Messina,8che nel 1506 acquistavano anche la baronia

7 Asp, Archivio privato Notarbartolo di Sciara, Privilegio concesso a Filippo Ventimi- glia per la restituzione del marchesato di Geraci confiscato al padre Enrico, 11 ottobre 1490, esecutoriato il 18 luglio 1491, vol. 10, cc. 91 sgg.

8Ivi, Atto di vendita 21 settembre 1491, vol.

10, cc. 99 sgg. Una clausola consentiva a Eleonora o ai suoi eredi di potere controriscat- tare lo ius luendi appena venduto. Le 400 onze

pagate da Giovanni Anzalone intanto servi- vano a pagare per onze 100 una parte dei 15.000 fiorini della composizione e per onze 300 dei debiti, tra cui onze 42.15 per le spese di viaggio del ritorno dalla Spagna di Eleonora e del seguito e onze 40 per i vestiti di Filippo, di Simone e della sorellina (C. Trasselli, Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V. L’esperienza siciliana. 1475-1525, Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 1982, pp. 373-374n).

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di Castelluzzo (odierna Castel di Lucio),9mentre la baronia di Pollina era ven- duta nel 1492 a Giovanni Cangelosi, da cui Filippo la riscattò per rivenderla a Francesco Balsamo, e nel 1491 la castellania del castello di San Giorgio a Tusa era lasciata in pegno a Leonardo Maccagnone, che aveva anticipato a Eleonora 58 onze. E intanto nel marchesato ritornavano i commissari per costringere il marchese a pagare i suoi creditori, tra cui la Regia Corte per alcune rate di donativi. Il declino dei Ventimiglia sembrava ormai inarresta- bile!

Alla morte prematura di Filippo (1497), il marchesato passò al fratello Simone, che aveva difficoltà a reperire le 40 onze necessarie a pagare il diritto di successione. Con lui comunque i Ventimiglia riuscirono, se non a ripren- dere l’antico ruolo, a segnare una presenza assai più incisiva nella politica siciliana e a consolidare il marchesato, grazie al recupero delle baronie alie- nate e all’acquisto del mero e misto imperio sull’intero marchesato (1522), con un indebitamento però i cui costi furono duramente pagati dalle generazioni successive. La svolta si ebbe con il matrimonio more graecorum (cioè con separazione dei beni tra i coniugi) tra il diciassettenne Simone e la ventu- nenne Isabella Moncada, figlia del cugino Guglielmo, conte di Adernò e di Cal- tanissetta nonché Maestro Giustiziere del Regno, la cui cospicua dote di 20.000 fiorini (4000 onze) consentì ai Ventimiglia di liberarsi di antichi debiti verso lo stesso Guglielmo, che gravavano pesantemente sui loro stati feudali, e di avviare il recupero del patrimonio alienato. I matrimoni tra consanguinei erano frequentissimi nell’ambito della feudalità siciliana, ma nella famiglia Ventimiglia erano quasi una regola. Isabella – puella virgo, per il notaio Simone Cavallaro di Castiglione che redasse i capitoli matrimoniali, e quindi non vedova di Filippo, come spesso si è scritto – era nipote ex filio di una sorella di Enrico, Raimondetta, che aveva sposato Giovan Tommaso Moncada e doveva ancora riscuotere dai Ventimiglia una parte della sua dote per circa 7.000-8.000 fiorini. Grazie al matrimonio contratto nel luglio 1502 tra Simone e Isabella, il debito veniva annullato, o meglio andava a costituire una parte della dote di Isabella, e Simone acquisiva la disponibilità di altri 12.000- 13.000 fiorini in rendite sulla contea di Caltanissetta, più tardi impiegate nel riscatto della baronia di Pollina dai Balsamo.10

Un bel colpo fu senz’altro nel 1508 l’acquisizione in enfiteusi dal vescovo di Patti – «non senza grave scandalo, né minore interesse dei beni della chiesa»11 – dei feudi Petraro, Sant’Elia e Marcatogliastro (Marcato dell’Oglia-

9La baronia di Castel di Lucio, che faceva parte del marchesato di Geraci, era stata ceduta per 10.000 fiorini da Enrico a Gio- vanni Guglielmo Ventimiglia, barone di Ciminna, a saldo di un debito. Nel 1506, Antonio, figlio di Giovanni Guglielmo, la rivendette al dottor Scipione Anzalone, figlio del barone di Pettineo.

10Copia del transunto dei capitoli matrimo-

niali del 20 luglio 1502 tra Simone e Isabella, agli atti del notaio palermitano Francesco Merzano [?], 29 ottobre 1565, in Asp, Mon- cada, vol. 1415, cc. 21r-27v. Simone costituì alla moglie un dotario di 5.000 fiorini in caso di vedovanza, al quale non si farà più riferi- mento dopo la sua morte nel 1544.

11N. Giardina, Patti e la cronaca del suo ve- scovato, Siena, 1888, p. 120.

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stro), in territorio di Castelbuono, per un canone annuo di 30 onze, che la forte inflazione dei decenni successivi si incaricherà di svalutare considerevol- mente. Attorno al 1550 il vescovo tenterà di recuperare i beni alienati, ma dovrà accontentarsi del raddoppio del canone enfiteutico (onze 60).12All’inizio del Cinquecento, l’aumento dei prezzi che i posteri chiameranno «rivoluzione dei prezzi» era già in atto e finiva col rendere sempre più conveniente il riscatto delle baronie cedute nel Quattrocento con patto di ricompra: si riac- quistavano al vecchio prezzo e spesso si rimettevano in vendita a prezzi mag- giorati, lucrando la differenza. È quello che i Ventimiglia fecero per la baronia di Pollina, riacquistata da potere dei Cangelosi e rivenduta a Balsamo, dai quali sarà in seguito ricomprata. Pettineo fu riscattata nel 1525 per 18.000 fiorini (onze 3300) presi a prestito dal banchiere palermitano Antonio Xirotta e coperti da una soggiogazione (mutuo) di 252 onze l’anno sui redditi della stessa baronia, donata due anni dopo (1527) al figlio primogenito Giovanni (futuro marchese di Geraci) in occasione delle sue nozze. Altre soggiogazioni per 747 onze l’anno si costituirono tra il 1529 e il 1537; e altre ancora tra il 1541 e il 1546 per 790 onze l’anno, che impegnavano buona parte delle ren- dite fornite dal marchesato.

Il capitale serviva a Simone per qualche altro acquisto ma anche per pagare le onerosissime doti delle sue tre figlie. L’acquisto nel 1522 del mero e misto imperio, con patto di ricompra a favore della Regia Corte, costava altre 2000 onze, probabilmente anch’esse coperte con delle soggiogazioni; e una somma forse addirittura più elevata dovette costare nel 1526, dopo un prece- dente tentativo fallito, il riscatto della baronia di Castelluzzo, grazie a soggio- gazioni per almeno 140 onze l’anno, «solvenda anno quolibet diversis personis et hominibus qui redimerunt dictam terram», che ancora gravavano sulla baronia quando, alla morte di Simone nel 1544, essa passò al figlio sacerdote Cesare, unitamente ai feudi Tiri e Veschera presso Sperlinga. Per l’acquisto con patto di ricompra dei due feudi da Guglielmo Ventimiglia, nel 1534 Simone si indebitò pesantemente. Assieme a quelli di Cicera e Intronata, essi erano nella mani dell’uid Antonio Bologna, che li aveva acquistati dallo stesso Guglielmo con patto di ricompra per onze 2250. A distanza di alcuni anni, l’inflazione aveva reso conveniente il loro riscatto, ma Guglielmo non dispo- neva della somma da versare al Bologna. In verità, neppure Simone, il quale però godeva di maggiore credito presso i banchieri palermitani, uno dei quali, il maiorchino Perotto Torongi, gliela anticipò. Saldato Bologna, Guglielmo trattenne Cicera e Intronata e per la stessa somma cedette con patto di ricompra gli altri due feudi a Simone. Nel 1535, mentre Simone era presidente

12Ivi, p. 126. Nel 1542, il feudo di Sant’Elia concesso in enfiteusi rendeva al vescovato onze 25 l’anno (Asp, Conservatoria di Regi- stro, Regie visite, anno 1542, vol. 1305, c.

37), mentre nel 1573 il marchese di Geraci gli pagava annualmente canoni enfiteutici

per 60 onze (Tabella I), somma che nel 1604- 07 è attribuita all’enfiteusi dei feudi San- t’Elia, San Pietro (Petraro), Montagna del Murazzo e Marcato dell’Ogliastro (Asp, Con- servatoria di Registro, Regie visite, anno 1604-07, vol. 1330).

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del Regno, giungeva dalla corte l’ordine di vendere beni demaniali (terre, castelli, feudi, secrezie, dazi e altri diritti regi) per reperire i fondi necessari alle spese per fronteggiare le incursioni del pirata Barbarossa, e il marchese non si lasciò sfuggire l’occasione per acquistare, per la somma di onze 866.20 anticipate dal banchiere Xirrotta, i diritti di estrazione, sino ad allora perce- piti dall’erario regio, su tutte le esportazioni di grano, orzo, legumi, vettova- glie, formaggio, dal caricatore di Tusa, che faceva parte del marchesato.13

Il recupero di un ruolo politico di primo piano era stato lento. Il marchese di Geraci continuava a rimanere fuori del blocco di potere fedele alla Corona spagnola, che appoggiava l’azione dei viceré. Anzi, assieme al conte di Colle- sano, al marchese di Licodia e ad altri baroni, non lesinava promesse «á los pueblos de ponerlos en libertad y quitarles la Inquisición y gabellas y dona- tivos y nuevos impuestos, querría quedar vencedor desta empresa», come sosteneva nel 1516 il viceré Ugo Moncada, dopo che una rivolta lo aveva costretto ad abbandonare Palermo. Simone probabilmente non dimenticava di dovere a un incredibile provvedimento di Ferdinando il mancato riscatto a suo favore, nel 1513, della baronia di Castelluzzo dagli Anzalone, fedeli alla Corona e difesi dal noto giurista Blasco Lanza. Nominato giudice della Gran Corte, Blasco infatti non lasciò, come avrebbe dovuto, la difesa degli Anza- lone, ma ottenne – per intervento diretto del sovrano – una apposita deroga che gli consentì di essere parte e giudice nello stesso processo. Non è senza significato che la deroga riguardasse il solo caso in cui erano interessati come parte i Ventimiglia:

que si assì es deyes licencia y facultad – scriveva Ferdinando al viceré – al dicho Blasco Lanza segun que Nos en tal caso por la presente se la damos, para que no obstante que sea juez de la Gran Corte pueda advocar, disputar, allegar y confejar en la dicha causa.14

Da qualche anno si era inoltre conclusa, con una sentenza sfavorevole della Regia Gran Corte, la lunga vertenza per la successione alla contea di Caltabellotta, inizialmente assegnata alla madre Eleonora (1497)15e alla fine invece al cugino Giovan Vincenzo de Luna (1510), che era anche suo cognato per avere sposato Diana Moncada, sorella della moglie Isabella.

È indubbio che il gruppo che faceva capo al Ventimiglia fosse (o si sen- tisse) discriminato e talora anche vessato e perseguitato. Alla morte di Ferdi-

13Copia del contratto di compravendita, 22 maggio 1535, Asp, Moncada, vol. 1415, cc.

29r-55v.

14 Documento dell’Archivio della Corona d’Aragona, Barcellona, Cancillarìa de Fer- nando II, Diversorum Sigilli Segreti, 3584, f.

6r, cit. in S. Giurato, La Sicilia di Ferdi- nando il Cattolico. Tradizioni politiche e con- flitto tra Quattrocento e Cinquecento (1468-

1523), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 269n.

15Vedova di Enrico Ventimiglia, Eleonora de Luna e Cardona aveva sposato Antonio Alliata e avviato, come erede del fratello Carlo de Luna e Cardona, una lite, inizial- mente a lei favorevole, contro il nipote Giovan Vincenzo de Luna per la successione alla contea di Caltabellotta.

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nando il Cattolico nel 1516, esso perciò appoggiò decisamente la tesi del vec- chio conte di Collesano Pietro Cardona, secondo il quale il viceré Moncada dovesse ritenersi decaduto. Ne seguì una rivolta, che costrinse Moncada a rifugiarsi a Messina, mentre il parlamento eleggeva presidenti del Regno i due marchesi di Geraci e di Licodia (Matteo Santapau), ossia i due titoli più ele- vati ma anche gli esponenti di famiglie che più di altre avevano subito i rigori di Ferdinando (il padre di Matteo, Ugo, accusato di essere il mandante di un omicidio, era stato giustiziato qualche anno prima per ordine del viceré Mon- cada, che si era rifiutato di accettare le richieste di composizione). Un Venti- miglia ritornava così nuovamente ai vertici del potere, ma Carlo (il futuro Carlo V) non gradì e invitò i due marchesi a recarsi a Napoli presso il viceré Ramón de Cardona, che li trattenne per qualche tempo in larvato esilio per consentire a Giovanni de Luna, conte di Caltabellotta, di insediarsi al loro posto come presidente del Regno.

2. Al servizio della Corona

Il nuovo viceré Ettore Pignatelli, duca di Monteleone (1517-1534), riuscì a riportare la calma nell’isola, grazie però all’aiuto determinante del baro- naggio, che alla fine risultava «il reale vincitore del lungo conflitto».16In con- traccambio, il viceré fu infatti costretto ad abbandonare la politica di ridimen- sionamento nei suoi confronti voluta da re Ferdinando e a rivalutarlo appieno come strumento di potere, ma soprattutto ad adottare verso di esso una poli- tica assai più morbida e permissiva che in passato. Si voleva così da un lato ricompensare coloro che erano rimasti fedeli alle istituzioni, dall’altro recupe- rare alla monarchia spagnola, con una politica di conciliazione avallata sicu- ramente dall’alto, quei baroni che talora avevano fatto la fronda, come il Ven- timiglia. Per la Baviera Albanese,

la cessione a tali esponenti [cioè ai baroni] di piccole porzioni di potere, non rile- vanti sul piano politico ma importanti sotto il profilo del prestigio personale e dal punto di vista materiale, cessione operata, non certo per sola “falta d’animo” ma in virtù di un preciso disegno politico che si potrebbe definire corruttore, dal Monteleone, fece sì che quelli che erano stati poli opposti e lontani divenissero punti tendenzialmente conver- genti verso una alleanza che poteva apparire strana ma che sostanzialmente invece era logica ed inevitabile; un nuovo equilibrio, in cui ciascuna delle parti avrebbe potuto tro- vare vantaggi ben individuabili, andava così formandosi.17

16 G. Giarrizzo, La Sicilia dal viceregno al regno, in Storia della Sicilia, Napoli, 1979, VI, p. 13.

17 A. Baviera Albanese, Problemi della giu-

stizia in Sicilia nelle lettere di un uomo di toga del cinquecento, in Studi dedicati a Carmelo Trasselli, a cura di G. Motta, Soveria Man- nelli (Cz), Rubbettino, 1983, p. 118.

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Non potendo sconfiggere il blocco di potere nobiliare, la Spagna di Carlo V – attraverso la politica ‘corruttrice’ del Monteleone – cercava così di impedire che il baronaggio elaborasse propri disegni politici in funzione antispagnola.

Simone Ventimiglia – che ancora negli anni Venti sembra parteggiasse per la Francia di Francesco I – veniva così interamente recuperato e nei decenni suc- cessivi collaborerà pienamente alla realizzazione della politica di Carlo V, assu- mendo in due altre occasioni la carica di presidente del Regno: 1535 – quando accolse in Sicilia l’imperatore di ritorno dalla vittoriosa impresa di Tunisi, andandogli incontro nel bosco di Partinico – e 1541. E, in punto di morte, nel 1544, ricorderà nel testamento la sua fedeltà verso la Corona e ordinerà al suo successore Giovanni II «ut semper sit fidelis et habeat servire fidelitate dicte Cesaree Maiestati» e i suoi successori. Gli stessi matrimoni dei figli riflettono la nuova collocazione politica sovranazionale di Simone: non avvengono più infatti all’interno di una cerchia limitata di amici, e spesso nell’ambito della stessa famiglia, ma coinvolgono anche famiglie non siciliane molto vicine al potere: Giovanni II nel 1527 sposò la spagnola Elisabetta (Isabella, nei docu- menti spagnoli) Moncada e La Grua, figlia del conte di Aitona, maestro giusti- ziere in Sicilia dal 1529 e più tardi anche viceré;18Diana il conte di Aiello (Cala- bria) Antonio Siscar; Emilia nel 1542 il duca di Monteleone Ettore II Pignatelli, nipote ex filio dell’omonimo viceré;19 Margherita nel 1547 Carlo d’Aragona, allora marchese di Avola e futuro presidente del Regno di Sicilia e governatore del ducato di Milano, sicuramente l’uomo politico più prestigioso del Cinque- cento siciliano, non a torto appellato «magnus siculus».20

Alla morte di Simone nel 1544, ex pestifera febre nel castello di Aiello, mentre era in visita alla figlia Diana, la dote di Emilia non risultava intera- mente versata (il saldo delle doti avveniva spesso dopo anni, se non addirit- tura dopo decenni) ed era garantita dal feudo di Recattivo, che egli lasciava in eredità al figlio sacerdote Cesare, assieme alla baronia di Castelluzzo (sulla quale gravavano rendite per onze 140 l’anno a favore di coloro che ne avevano

18Il contratto matrimoniale fu stipulato pres- so il notaio Giovan Paolo de Monte, 27 aprile 1527. Elisabetta Moncada era figlia unica di Giovannella La Grua, a sua volta figlia del barone di Carini Giovan Vincenzo La Grua e di Elisabetta Bracco, figlia quest’ultima del cavaliere palermitano Giorgio Bracco, i cui beni finiranno ai Ventimiglia: il territorio di Macellaro, una grande casa a Palermo nel piano del Cancelliere e un loco chiamato Viscomia (Discomia, nei documenti medievali) in contrada Sabucia, nella piana di Palermo, con case, terre, vigne, uliveti, acque.

19Il contratto matrimoniale fu stipulato pres- so il notaio Giovanni de Marchisio, 17 no- vembre 1542. A saldo della dote, Emilia avrebbe avuto assegnato Motta di Filocastro in Calabria per un valore di 10.000 ducati.

Onze 700 furono reperite attraverso la sog- giogazione di una rendita di onze 47.25 l’anno a favore di Girolamo e Raynerio Bella- cera gravante sugli introiti del marchesato.

20 Il Pluchinotta attribuisce a Simone I un’altra figlia (Eleonora), ma non fa men- zione di Diana ed Emilia, ricordate invece dal marchese nel suo testamento. Di Eleonora non trovo altra traccia, a parte, nel testa- mento di Simone I, la concessione a favore dei nipoti Francesco e Guglielmo Santaco- lomba di un vitalizio di onze 10 ciascuno sul feudo di Vicaretto (nel marchesato di Geraci).

I fratelli Santacolomba sarebbero figli di Eleonora, che in prime nozze aveva sposato Giovanni Caro, barone di Montechiaro e di Lampedusa, e in seconde nozze Antonio San- tacolomba, barone di Isnello.

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consentito il riscatto, approntando il capitale necessario), ai feudi Tiro e Veschera presso Sperlinga e a due mulini, con la condizione che, in caso di morte senza eredi legittimi, il tutto passasse al primogenito Giovanni o al suo erede nel marchesato. Il matrimonio tra Margherita e Carlo non era ancora avvenuto, ma i capitoli matrimoniali erano stati già firmati; e Simone, nel suo testamento del 13 agosto 1544 presso un notaio di Aiello, lo ricordava, riba- dendo l’entità della dote, fissata in 25.000 scudi, ossia 50.000 fiorini (10.000 onze), da pagare a cura del figlio ed erede universale Giovanni. Si trattava di una somma equivalente a due volte e mezzo quella portata da Isabella Mon- cada a Simone nel 1502, ma l’incremento può considerarsi in linea con il con- temporaneo aumento dei prezzi. Il matrimonio tra Margherita e Carlo d’Ara- gona avverrà alcuni anni dopo, nel 1547, a Castelbuono, nel cui castello con- tinuavano a vivere Isabella e i figli Margherita e sacerdote Cesare, mentre nel monastero benedettino di Santa Venera erano educate le due nipotine Isabella ed Emilia Siscar, figlie di Diana. La residenza nel castello da parte di Isabella è testimoniata dallo stesso Simone, che morendo le lasciava l’usufrutto del feudo Sant’Elia e «omnia mobilia existentia intra la saletta e intra la cammara dove dorme dicta Illustrissima Signora, etiam dentro la retrocamera et intra la camera rotunda dove facia servire detto Signor testatore etiam dentro la cappella di Sant’Anna et intra la camera di lo Capitulo et intra la retrocamera et abaxio intra le intrasole et in le stantie in le quali habitano le donne, ... li tazi d’argento in le quali solia vivere [= bere] esso Signore testatore», una vigna (nominata La Rina) e dei canoni in natura nel territorio delle Petralie, il gregge di capre, e soprattutto il diritto di potere continuare a «stare et habitare in castro dicte terre Castriboni, unde ad presens habitat». A Castelbuono, ordi- nava che il suo cadavere fosse trasportato da Aiello, per essere sepolto nella cappella della chiesa di San Francesco, «in la quale cappella facciano sepolcro di marmora, conveniente all’essere e persona di dicto Illustrissimo Signore testatore, sopra lo quale sepolcro dicto Illustrissimo Signore debia imponere la statua, seu ritratto di detto Signor testatore, una con lo stendardo, et armi soi convenevoli».21

A metà del Cinquecento, i Ventimiglia, quando non erano impegnati altrove al servizio della Corona, vivevano quindi a Castelbuono, capitale del marchesato. Il primo a trasferirsi a Palermo fu Giovanni II, nell’hospicium domorum magnum in su la piazza del monasterio del Cancelliero che la moglie Elisabetta possedeva per averlo ereditato dal bisnonno cavalier Giorgio Bracco, dove nel 1527, presente il viceré Monteleone, si erano festeggiate le loro nozze, ricordate dai cronisti per il crollo del pavimento che causò la morte

21Copia del testamento del marchese Simone Ventimiglia (Aiello, 13 agosto 1544), Asp, Moncada, vol. 1415, cc. 102r-109v. Diversa- mente da quanto ritenuto da A. Mogavero Fina (Nel travaglio dei secoli. Castelbuono, Castelbuono, Tip. Le Madonie, 1950, p. 69),

il marchese Simone I non fu quindi sepolto nella chiesa di Santa Maria del Soccorso, fuori le mura, dove i Ventimiglia avevano la tomba di famiglia. E lo stesso avverrà per la moglie Isabella.

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di duecento invitati. E dove quasi certamente nacquero i figli Carlo (1539) e Giovanna Ippolita (1542), battezzati nella vicina chiesa di Sant’Antonio. Il bre- vissimo tempo trascorso tra il battesimo di Giovanna Ippolita (12 settembre) e il testamento di Elisabetta (19 settembre), redatto da un notaio palermitano, fa pensare che il decesso di Elisabetta (anteriormente al 19 ottobre, data d’apertura del testamento) sia conseguenza del parto. La non ancora mar- chesa di Geraci nominava eredi universali i figli Simone, Giovanni e Carlo, ma al futuro marchese Simone II lasciava anche la casa di Palermo con i suoi arredi, al secondogenito Giovanni il territorio di Macellaro (bene allodiale), al terzogenito Carlo (futuro barone di Regiovanni e poi conte di Naso) una ren- dita annua di 100 onze, alla figlia Anna i ventimila fiorini che le spettavano ancora in dote alla morte del padre Giovanni Moncada, al marito Giovanni II una rendita annua di 200 onze.22

La scomparsa della ancor giovane moglie dovette sconvolgere Giovanni Ventimiglia, che da allora – dopo essere stato stratigoto di Messina nel 1533- 34 e nel 1540-41 – non ricoprì più alcuna carica pubblica e si diede ai viaggi, talora in compagnia del grande matematico messinese Francesco Maurolico, del quale era diventato allievo e protettore. Fu in Terrasanta per un pellegri- naggio e soggiornò a Venezia, mentre intanto consolidava il rapporto con il Maurolico che condusse con sé a Castelbuono e a Palermo. La successione nel marchesato, alla morte di Simone nel 1544, dovette perciò sembrargli un peso insostenibile del quale scaricarsi appena possibile. E così, dopo il matri- monio a fine 1547 della sorella Margherita, il 16 marzo 1548 sistemò la que- stione della restituzione della dote alla madre Isabella, assegnandole una ren- dita di onze 252 l’anno (al 6 per cento) pagabile al 15 agosto di ogni anno sugli introiti presenti e futuri del marchesato,23e subito dopo, avendo ormai il figlio Simone II raggiunto la maggiore età, gli fece donazione del marchesato di Geraci, per dedicarsi interamente alla vita sacerdotale e allo studio in compa- gnia del Maurolico, che ormai da qualche anno era stabilmente al suo seguito tra Castelbuono, Pollina e Palermo. Si riservò una rendita annuale di 400 onze e l’uso del castello di Pollina, per consentire al Maurolico di potere con- tinuare le sue osservazioni astronomiche.24Morì per annegamento nel guado

22 Apertura del testamento di donna Elisa- betta (Isabella) Ventimiglia, olim moglie di don Giovanni Ventimiglia, figlio primogenito del marchese Simone Ventimiglia, in Notaio Giovanni Giorgio De Panicolis, 11 ottobre 1542, Asp, I stanza, vol. 3059, cc. 135v sgg.

Il territorio di Macellaro — dove più tardi i Gesuiti di Palermo impianteranno una flori- dissima azienda agraria con un grande caseggiato, primo nucleo del comune di Camporeale — apparteneva nel Quattrocento ai Calvellis, da cui passò, parte in vendita parte per matrimonio, ai Bracco, Salvatore prima e il figlio Giorgio successivamente.

23 Copia dell’atto di soggiogazione redatto a Castelbuono dal notaio Pietro Ricca di Palermo in data 16 marzo 1547 (s. c. 1548), Asp, Moncada, vol. 1415, cc. 113r-122r.

24 L’atto di donazione in pari data è stato redatto dallo stesso notaio Ricca, venuto appositamente a Castelbuono da Palermo.

Data l’importanza dell’atto non si ritenne evi- dentemente di affidarne la redazione al notaio palermitano Nicolò Matteo De Castro, che da alcuni anni i Ventimiglia avevano fatto trasferire a Castelbuono per rogare anche i loro atti e che talvolta utilizzavano come erario del marchesato.

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di un torrente nei pressi di Taormina, in seguito a una caduta da cavallo, mentre nell’ottobre 1553 si accingeva a raggiungere a Messina il figlio Simone II, che dal 1551 vi ricopriva l’incarico di stratigoto. L’inventario post mortem redatto a Castelbuono nel gennaio successivo contiene anche biancheria e utensili provenienti da Pollina, dove la presenza dell’ex marchese di Geraci nei suoi ultimi anni di vita sembra più assidua che a Castelbuono, probabilmente accompagnato da Maurolico (che a fine 1550 Simone II aveva investito della titolarità dell’abbazia benedettina di Santa Maria del Parto), entrambi impe- gnati a portare a termine i grandi lavori sulle tavole astronomiche.25 Nel castello di Castelbuono, Giovanni aveva a disposizione una saletta, dove erano conservati tre scrigni e quattro casse contenenti biancheria, e una dispensa con sette botti di vino e una di aceto, attrezzi, un po’ di legumi e di sugna, masserizie in disuso. A Pollina invece con la biancheria troviamo letti e materassi, parecchi libri, tra cui un messale, due compassi, l’occorrente per la messa – tra cui «una casubula di tila bianca ... dui tovagli d’altare ... un ferro che vota lo libro quando si dici la missa» –, utensili da cucina e attrezzi vari, armi da fuoco, una scrivania, due tovaglie e dieci tovaglioli, una bilancia e un orologio. Insomma, quanto era necessario alla vita quotidiana di un sacerdote e di un uomo di scienza del tempo.26

Nello stesso 1553 moriva anche la vecchia Isabella Moncada, moglie di Simone I, che, con un suo testamento redatto a Pollina dal notaio di fami- glia Nicolò Matteo De Castro nel 1549, lasciava erede universale il figlio Giovanni (ormai defunto), mentre il capitale della sua dote era lasciato in parti eguali ai due figli Giovanni e sacerdote Cesare (5.125 scudi l’uno), il quale però avrebbe goduto soltanto dell’usufrutto: alla sua morte la somma sarebbe passata a Giovanni o ai suoi eredi. A sua volta, dalla quota di Gio- vanni dovevano essere detratti 2.000 scudi a favore della nipote Anna (figlia dello stesso Giovanni), che ritroveremo più tardi badessa del mona- stero di Santa Venera, dove già probabilmente si trovava come novizia con le cuginette Isabella ed Emilia Siscar. Tra i legati di Isabella Moncada (pochissimi, in verità), uno di cento onze a favore proprio del monastero di Santa Venera.27

25Sui rapporti tra Giovanni Ventimiglia e il Maurolico, cfr. l’accurato studio di R.

Moscheo, Mecenatismo e scienza nella Sicilia del ‘500. I Ventimiglia di Geraci ed il matema- tico Francesco Maurolico, Messina, Società messinese di Storia patria, 1990.

26Cfr. Copia dell’inventario post mortem del 12 gennaio 1553 (s. c. 1554) a cura del notaio Nicolò Matteo De Castro, trascritto dal conservatore notaio Pietro Paolo Abruzzo, 16 novembre 1581, Asp, Moncada, vol. 1415, cc. 129r-133r.

27Copia del testamento di Isabella Moncada in data 11 settembre 1549, Ivi, cc. 125r- 126v. Sul luogo dove voleva essere seppellita, Isabella era ancora più esplicita del marito:

«cadaver eius sepelliri iubiit in cappella Sancti Antonini de Padua, in conventu Sancti Francisci Castelli boni, in loco desi- gnato». Nel luogo già scelto all’interno della cappella (cappellone) di Sant’Antonio di Padova, già allora costruito, quindi e non nella chiesa fuori le mura di Santa Maria del Soccorso.

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3. Alla corte di Carlo V. La battaglia di San Quintino

Il decesso quasi contemporaneo di Giovanni II e della madre Isabella ren- deva indispensabile la presenza di Simone II nel marchesato, per la sistema- zione di alcune pendenze lasciate dai due defunti. A Messina – dopo che Isa- bella De Vega, figlia del viceré, aveva scelto come marito Pietro de Luna – nel 1552 egli aveva contratto le nozze con la dodicenne Maria Antonia Ventimi- glia, figlia di Guglielmo barone di Ciminna e di Sperlinga. I Ventimiglia ritor- navano ai matrimoni in famiglia! Gli sposi si trasferirono perciò a Castelbuono (dell’abitazione palermitana non si fa più alcuna menzione), dove continua- vano a vivere lo zio Cesare e il fratello Carlo e dove la loro presenza tra il 1554 e il 1555 è ampiamente documentata. E con loro si trasferiva nella piccola capitale del marchesato anche la suocera Brigida Alliata, impegnata nel 1555 nell’acquisto di numerose piccole partite di seta grezza attraverso un suo fidu- ciario, il magnifico Giovanni Calogero Vinciguerra, da tempo al servizio dei Ventimiglia.

Già nel giugno 1552, don Cesare aveva donato a Simone la baronia di Castelluzzo, riservandosi il diritto di percepirne il reddito vita natural durante, valutato forfettariamente in 380 onze l’anno. Con la morte della madre, il sacerdote entrava in possesso di metà della dote, che – come sap- piamo – nel 1548 era stata trasformata in una rendita di onze 252 l’anno sul marchesato di Geraci. Se lo zio avesse preteso il capitale, Simone avrebbe avuto grosse difficoltà a corrisponderglielo, e perciò nel marzo 1554 i due si accordarono per mantenere in vita la soggiogazione, che comportava il paga- mento entro agosto di ogni anno di una rendita di onze 126 a favore di don Cesare, il quale nominò immediatamente un suo procuratore con l’incarico di riscuoterla direttamente dai gabelloti della secrezia di Geraci.28A un analogo accordo il marchese giunse anche con la badessa del monastero di Santa Venera per il legato di 100 onze disposto dalla defunta Isabella: la stipula di una soggiogazione per una rendita annua di 10 onze a favore del monastero, che da allora cominciò a gravare sugli introiti delle gabelle «di lo trappito del oglio» e del vino di Castelbuono.29Simone però aveva bisogno di denaro con- tante, dovendo per ordine viceregio presentarsi a Randazzo con armi e cavalli per prestare il servizio militare cui come feudatario era tenuto. Ricorse così alle cugine Isabella ed Emilia Siscar, educande nel monastero di Santa Venera (più tardi suore nello stesso monastero con il nome di Antonia e Lucrezia), che lo stesso giorno gli approntarono 700 scudi (onze 256.20, a tarì 11 per scudo), ottenendone una rendita di onze 25.20 l’anno, gravante anch’essa sugli introiti delle due gabelle dell’olio e del vino di Castelbuono.30Altre cento onze

28 Asp, Ti, Notaio Pietro Paolo Abruzzo, 3 aprile 1554.

29 Copia dell’atto 13 luglio 1554, notaio Nicolò Matteo De Castro, Asp, Moncada, vol.

1415, cc. 143r-144r.

30 Copia dell’atto 13 luglio 1554, notaio Nicolò Matteo De Castro, Ivi, cc. 145r-149v.

Le due gabelle del trappeto dell’olio e del vino fornivano al marchese un introito lordo di onze 135 l’anno, somma per la quale la loro

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gliele anticipò alcuni mesi dopo (aprile 1555) il magnifico Pietro Bonfiglio (genero del notaio De Castro), che si sarebbe rivalso «super introitibus et pro- ventibus di li spreti peni [= multe] incursis et incurrendis», a cominciare dal successivo primo settembre sino al soddisfacimento dell’intera somma.31 E 100 onze gliele fornì contemporaneamente Andrea Lupo, che nell’occasione diventava titolare di una rendita di 10 onze l’anno con ipoteca sul feudo di Vicaretto.32

Approfittando della permanenza a Castelbuono, Simone, nella qualità anche di curatore del patrimonio del fratello Carlo, volle risolvere il conten- zioso con l’arciprete don Bartolo Di Prima, il quale con la qualifica di procu- ratore generale si era occupato negli anni precedenti della gestione degli affari del suo defunto genitore Giovanni II, e in particolare della riscossione di somme di denaro e frumento dai suoi debitori. I due fratelli pretendevano

riscossione era stata appaltata per sette anni alla vedova Angela Gambaro – proprietaria di una taverna e impegnata anche nel com- mercio all’ingrosso di formaggio e talvolta anche di olio – in società con il magnifico Giulio Sparcio di Urbino, un personaggio legato ai Ventimiglia, dei quali talvolta era anche procuratore e spesso teste negli atti che li riguardavano. Sparcio subgabellava la sua metà all’onorabile Vincenzo Mazzola per gli stessi sette anni, a partire dal 1° set- tembre 1555, per un canone annuo di 78 onze, 27 tarì e 17 grani, con un lucro quindi di onze 11.12.17, che il Mazzola si impe- gnava a corrispondergli personalmente ogni anno, dopo avere pagato al marchese la somma di onze 67.15, corrispondente alla metà del canone. Mazzola inoltre gli antici- pava 40 onze, da scontare sui canoni degli anni successivi, e si impegnava a non ven- dere gli oli provenienti dai trappeti senza il consenso dello Sparcio e soprattutto senza prima aver corrisposto il canone al marchese (Asp, Ti, Notaio Pietro Paolo Abruzzo, 18 feb- braio 1554 (s.c. 1555). Ritengo che la gabella dell’olio fosse la gabella dei nozzoli, cioè un monopolio feudale per il quale gli abitanti del marchesato non solo erano costretti a maci- nare le olive esclusivamente nei trappeti del marchese, ma anche a lasciargli nella sansa gran parte dell’olio che contenevano, perché

«le ulive già macerate e messe sotto il torchio non dovevano ricevere che tre soli colpi di pressione per cacciare parte dell’olio, e quindi tutto il rimanente del prodotto che contenevano doveva restare a suo vantaggio»

(M. Ciminna, Ragioni per il Comune Castel- buono contro il Marchese di Geraci e Sorelle, Palermo, 1846, p. 12, n. 1). Non mancavano

però delle deroghe, soprattutto a favore dei possessori di grandi uliveti distanti dai centri abitati: così nel 1598 il chirurgo Raffaele Fer- raro, originario di San Mauro ma da decenni abitante a Castelbuono, in ricompensa dei numerosi servizi da lui per molti anni pre- stati alla famiglia del feudatario e delle medi- cine fornitele ottenne licenza dal marchese,

«ad quem licentia et gratia ipsa pertinet et spectat», per l’impianto di un trappeto nel suo uliveto di Cerzito, nel territorio di Pol- lina, per la molitura non solo delle sue olive ma anche di quelle degli uliveti vicini, sog- gette al pagamento a favore del Ferraro o dei suoi eredi di tarì uno per ogni macina di olive molite (kg. 110 circa), come era solito nel marchesato. Il marchese si riservava la sansa (nozzolo) prodotta, cioè gli scarti della lavorazione, che sarebbero stati sottoposti a nuova macinazione a spese del Ferraro, come era consuetudine («ut moris est»). Il legname necessario per l’impianto dell’opi- ficio e per il suo funzionamento negli anni successivi era fornito gratuitamente dai boschi del marchesato: consuetudine questa ancora in vigore a metà del Novecento, quando ormai da oltre un secolo il possesso del bosco era stato assegnato al comune.

Sulla concessione al Ferraro, cfr. notaio Filippo Guarneri, 17 maggio 1598, Asp, Ti, busta 2238, cc. 157v-159v.

31Notaio Pietro Paolo Abruzzo, 2 aprile 1555, Ivi. L’atto risulta cassato l’11 ottobre 1561, data in cui evidentemente Bonfiglio (o meglio i suoi eredi) rientrò in possesso dell’intera somma.

32Atto 2 aprile 1555, notaio Nicolò Matteo De Castro, transunto in notaio Filippo Guarneri, 25 novembre 1603, Ivi, busta 2240.

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«compota et raciocinia, introitus et exitus ipsorum negociorum», che ancora a un anno dalla morte di Giovanni II l’arciprete non aveva reso. Per evitare grosse spese giudiziarie, si accordarono affidando la risoluzione della vertenza a don Pietro D’Agostino, don Giacomo Abbate, don Pietro Saladino e l’uid Giovan Guglielmo de Boniscontro, i quali si impegnarono a risolvere il caso

«secundum deum et iusticiam» entro sei mesi, senza possibilità di appello per nessuna delle parti, «sub pena» di 100 onze, da assegnare per metà «parti ser- vanti», per metà «venerabili hospitali» di Castelbuono.33

Non conosciamo l’esito della vertenza, che è presumibile si fosse risolta in modo soddisfacente per le due parti, se, a distanza di una quindicina di giorni, esse si incontrarono nuovamente e il marchese di Geraci concesse in gabella a don Bartolo Di Prima un suo giardino (viridarium) «ut vulgo dicitur lo jardino suprano», per cinque anni continui e completi dal 1° settembre 1555, ossia con quasi un anno di anticipo. Il canone annuo sarebbe stato pari a quello corrisposto da Domenico Cusimano, al quale il giardino era stato in precedenza concesso in gabella. L’arciprete si impegnava a versare il dovuto a don Simone in denaro contante, nei tempi e nei modi come era obbligato Domenico, «cum omnibus illis reciprocis obligationibus, pactis, clausolis, cauthelis pro ut in contractu dicti de Cusimano contentis». Tra i patti anche la possibilità che il marchese «farrà portari chantimi di cheusi», con l’obbligo per don Bartolo di curarne durante i cinque anni dell’affitto la coltivazione secondo le regole. In caso contrario, don Simone si sarebbe rivolto ad altri col- tivatori «ad omnia damna interesse et expensas ipsius Bartoli».34

33 Notaio Pietro Paolo Abruzzo, 1 dicembre 1554, Ivi. Giovan Guglielmo de Boniscontro si era laureato a Ferrara nel 1545 e probabil- mente nel 1554 era già giudice della Gran Corte Corte criminale. «Advocato de li carce- rati poveri et requisiti del S. Officio» nel 1558, nel 1567 era detenuto nelle carceri dell’Inquisizione con l’accusa di luterane- simo. Riconciliato, fu condannato a indos- sare per dieci anni il sambenito, un abito a forma di scapolare, segno di penitenza.

Garufi ritiene, forse non a torto, che fosse lui l’autore dei versi satirici contro gli inquisitori e il clero attribuiti invece dagli eruditi a Mariano Bonincontro, suo fratello (C. A.

Garufi, Fatti e personaggi dell’Inquisizione in Sicilia, Palermo, Sellerio, 1974, pp. 116-117).

34Asp, Ti, Notaio Pietro Paolo Abruzzo, 17 dicembre 1554. Sembra si trattasse del giar- dino soprano del Belvedere, limitrofo alla villa omonima e al giardino del convento di San Francesco, anche questo otto mesi dopo (agosto 1555) parzialmente (la parte «ut dicitur di li aranchi et celsi» nella contrada Terravecchia) concesso in gabella dai frati all’arciprete Di Prima. L’accenno alla pianta-

gione di gelsi dimostra come attorno a metà Cinquecento la gelsicoltura a Castelbuono fosse in forte espansione. La produzione non doveva essere trascurabile, se i giurati (am- ministratori comunali) erano obbligati a imporre annualmente la meta (prezzo) alla seta grezza prodotta, per consentire la defini- zione dei rapporti tra produttori e mercanti, i quali già nel corso dell’annata agraria ave- vano anticipato ai primi somme di denaro.

L’arciprete Di Prima era originario di Geraci, ma ormai da parecchi anni si era trasferito a Castelbuono, dove in passato aveva svolto anche le funzioni di pubblico notaio e di giu- dice ordinario e ora non disdegnava di assu- mere incarichi per il recupero di crediti, pro- cure ad lites e la gestione in gabella di interi feudi che subconcedeva a terraggio ai conta- dini. Disponeva di un patrimonio cospicuo, tra cui parecchie case in prossimità dell’ab- beveratoio di San Francesco («ut dicitur a la biviratura»), dove cominciava la nuova strada (attuale via Cavour?). La parte retrostante (attuali via Mangano e via Mulino) era colti- vata a gelseto («viridarium arborum celsorum cum omnibus et singulis aliis suis arboribus

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Il marchese Simone aveva in corso altre liti. A parte quella con il suo vas- sallo castelbuonese Antonino Giaconia, il quale aveva già designato due pro- curatori per assisterlo presso la Magna Regia Curia contro di lui,35lo angu- stiava non poco la causa intentatagli da Pietro de Luna, che sostenuto dal suocero, il viceré De Vega, contestava duramente la successione di Maria Ven- timiglia alle baronie di Ciminna e di Sperlinga, spingendo sempre più Simone a unirsi a quella parte della nobiltà siciliana che, irritata per l’alterigia e l’asprezza del viceré, chiedeva insistentemente al principe Filippo il suo allon- tanamento dalla Sicilia, sino a inviargli una delegazione a Londra, dove egli soggiornava, fresco sposo della regina d’Inghilterra. I rapporti con il de Luna peggiorarono ulteriormente quando, nel maggio 1554, Carlo V concesse al conte di Caltabellotta il titolo di duca di Bivona, titolo di rango superiore a quello di marchese che ne faceva il primo titolo del Regno di Sicilia a danno proprio dei Ventimiglia, i quali lo avevano goduto, per dirla col Villabianca,

«sin dalla prima origine del baronaggio siciliano, poiché essendo il titolo di conte di Geraci il più antico di tutti senza alcuna contraddizione, ed avendo ottenuto poi il primo titolo di marchese, li scorgiamo sempre alla testa del braccio militare nel Parlamento del Regno».36Un primato che adesso era for- temente messo in discussione, provocando l’opposizione del marchese, la cui famiglia solo nell’ottobre 1563 otterrà che la precedenza fosse tenuta ad anni alterni dalle due famiglie. Ma già in aprile Ambrogio Santapau aveva ottenuto il titolo di principe, il primo concesso in Sicilia, che da allora farà del principe di Butera il primo titolo del Regno sino all’abolizione della feudalità nel 1812.

Soltanto nel 1595 i Ventimiglia, con la concessione a Giovanni III del titolo di principe di Castelbuono, riusciranno a riconquistare il quinto posto.

Maria Ventimiglia otteneva nel 1553 l’investitura delle due baronie di Ciminna e di Sperlinga e nel gennaio 1555 faceva valere nei confronti dello zio Cesare Ventimiglia il diritto di riscatto sui due feudi Tiri e Veschera, che

domesticis et silvestribus»), che confinava con i giardini (viridaria) di Guglielmo Mazzola e di mastro Antonino D’Anna, e con la vigna di mastro Giovanni Raimondo. A lui apparte- neva anche il gelseto nella contrada “ut vulgo dicitur lo mondizzaro di calia”, alla periferia di Castelbuono («secus ipsam terram Castri boni», a valle dell’ultima parte della attuale via Conceria), confinante con le stalle di Gia- como Conoscenti e dei figli ed eredi di Angelo De Vi..., e con la casa di Giovanni Bonafede.

La loro rendita dopo il 1557 fu utilizzata per un legato di maritaggio o monacato di due giovanette, istituito dall’arciprete e affidato alle cure dei cappellani della chiesa «sub vocabulo confraternitatis Sante Marie de Misericordia» (chiesa del Monte, allora retta da don Nicolò Bonomo), della chiesa «sub vocabulo confraternitatis sancti Antonii

abatis» (don Luigi De Blasio) e della chiesa

«sub vocabulo confraternitatis sancti Seba- stiani» (don Francesco Bandò). L’assegna- zione doveva avvenire ogni due anni: inizial- mente l’8 dicembre, «in la festa di la concep- tioni di la intemerata Vergini Maria», e suc- cessivamente il 17 gennaio, per la festa di Sant’Antonio abate, e il 20 gennaio, per la festa di Sebastiano, e così continuando (Ivi, 3 aprile 1557). Quasi certamente era figlio naturale dell’arciprete il suo erede Giovan Luca Di Prima, presente come teste a Pollina nel 1549 alla stesura del testamento della marchesa Isabella e più volte chiamato a tenere l’incarico di giurato.

35Ivi, 7 agosto 1554.

36 F. Emmanuele, marchese di Villabianca, Sicilia nobile, parte 2, lib. 3, tomo 2, p. 281.

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appartenevano alla baronia di Sperlinga e che Simone I aveva acquistato nel 1534. È questa una operazione apparentemente inspiegabile. Il riscatto pro- vocava infatti un ulteriore indebitamento, perché i marchesi di Geraci non disponevano del capitale di onze 2250 versato a don Cesare attraverso il banco del lucchese Martino Cenami e dovettero ricorrere a don Aloisio Bologna, barone di Montefranco, che mutuò loro la somma in cambio di una rendita annuale di 226 onze, che forse il canone d’affitto dei due feudi non riusciva neppure a coprire.37 Eppure alcuni mesi prima i fratelli Simone e Carlo avevano venduto con patto di riscatto a Girolamo Vulterrano il territorio di Macellaro (che avevano ereditato in seguito alla morte nel 1551 del fratello Giovanni) per onze 3000, con un sovrapprezzo di altre onze 1500 per la rinuncia all’esercizio del diritto di riscatto per il decennio successivo (atto in notaio Pietro Ricca, 25 agosto 1554). E nel gennaio 1555 Simone vendeva, sempre con patto di riscatto, a don Aloisio quattro feudi in territorio di San Mauro (Mallia, Colombo, Gallina e Sademi), per onze 1640.27.10, allo scopo di pagare alcuni creditori soggiogatari; e altri cinque (Bonanotte, Cirrito, Ciambra, Palminteri e Cirritello) per una somma di onze 1660 gliene cederà, sempre con patto di riscatto, tra il 1556 e il 1559. Le due operazioni (vendita di Macellaro e dei feudi di San Mauro, da una parte, e riscatto dei feudi di Sperlinga, per di più con denaro preso a prestito, dall’altra) appaiono in con- traddizione. È perciò mia convinzione che esse mirassero essenzialmente a reperire denaro contante per Simone, con l’accondiscendenza di don Cesare, cui stava molto a cuore il prestigio della famiglia. Liberando i due feudi di Tiri e Veschera a favore del nipote, don Cesare gli consentiva di stipulare la sog- giogazione (mutuo) con Bologna e di incassare (Simone, non don Cesare) il capitale di 2250 onze, necessario al marchese per recarsi nelle Fiandre, alla corte di Carlo V, dove riteneva di potere meglio difendere i suoi interessi. E infatti don Cesare, con atto in notaio Nicolò Matteo De Castro dell’1 febbraio 1555 restituì la somma a Simone, ottenendone una rendita di onze 202.15 l’anno (anche se l’atto notarile riporta onze 185).

Prima di lasciare Castelbuono per la corte, Simone volle occuparsi della realizzazione di un progetto al quale da tempo lavorava: la fondazione di una nuova abbazia nella chiesa suburbana di Santa Maria del Soccorso, nella con- trada Fribaulo al di là del torrente, cara ai Ventimiglia perché conservava le spoglie di parecchi antenati. Il priore Egidio Seidita dell’Ordine minore di San Francesco diede il suo consenso e anche i confrati, riuniti in assemblea, accettarono la proposta del marchese, nella consapevolezza che la fondazione dell’abbazia avrebbe accresciuto il prestigio della loro chiesa, a patto però che

37Asp, Archivio privato Moncada, vol. 1415, cc. 135r-137v. Mi pare difficile che i due feudi riscattati potessero fornire annual- mente una rendita tale da soddisfare il canone da pagare al Bologna, se l’intera baronia di Sperlinga (con i feudi Intronata,

Monachello, San Silvestro, Gurgaczi, Mandri, Tiri, Chaccimo, Veschera e Santa Venera) nei sei anni dal 1556-57 al 1561-62 concessa in gabella ai fratelli Nicolò e Paolo Ferreri, mer- canti di Savona, forniva annualmente una rendita di onze 760.

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l’eventuale mancata concessione del titolo di abbazia non dovesse comportare alcuna limitazione dei privilegi di cui già la chiesa godeva: «si dictus illustris dominus non habuerit nec obtinuerit titulum ipsius abbatie non intelligatur per presentem actum preiudicium aliquod ipsis rectoribus yconomis et pro- curatoribus ac confratibus ipsius ecclesie et confraternitatis et quod omnia privilegia in favorem ipsius ecclesie stent et stare debeant in eorum robbore et firmitate».38Il titolo di abbazia non fu però concesso.

Il viaggio di Simone II nelle Fiandre si rendeva necessario per seguire da vicino le controversie con il de Luna, ma il lungo soggiorno a corte ebbe dei costi finanziari rilevanti, che provocarono l’alienazione di grosse fette del patrimonio feudale e coinvolsero anche la popolazione del marchesato. L’Uni- versità di Castelbuono, ad esempio, con atto 26 settembre 1557 in notaio Nicolò Matteo De Castro non più reperibile, si privò per dieci anni a suo favore della rendita delle terre comuni di Bosco, Bergi o Comuni, Milocca, Flassani o Carizi, Cassanisa, per consentirgli di ottenere un mutuo dal mercante Paolo Ferreri di Savona. I rapporti tra i Ventimiglia e i fratelli Nicolò e Paolo Ferreri duravano da qualche anno, almeno dal luglio 1556, quando, in assenza di Simone, il suo procuratore generale Carlo Ventimiglia, barone di Gratteri, concesse loro in affitto l’intera baronia di Sperlinga per sei annate agrarie dal primo settembre successivo e per un canone complessivo di 4560 onze (760 onze l’anno), pagabili in rate annuali, parte contanti e parte direttamente ai creditori del marchese per le rendite che gravavano sulla baronia. Le continue richieste di denaro da parte di Simone II convinsero il suo nuovo procuratore, don Federico Ventimiglia barone di Regiovanni, e la moglie marchesa Maria a chiedere un prestito di ben 6000 onze al barone di Montefranco Aloisio Bologna – tesoriere del Regno nel 1552-53 e maestro portulano, nonché figlio del potentissimo Francesco Bologna – da scontare ratealmente sul canone di affitto di onze 3381 l’anno del marchesato di Geraci (compresi i cinque feudi dell’Università di Castelbuono, ma con esclusione di Tusa) e della baronia di Ciminna, a lui arrendati per sei anni dal settembre 1557.

Simone II poté così essere presente come testimone, nel gennaio 1556, alla rinuncia al trono da parte di Carlo V e partecipare, nell’agosto 1557, come generale di cavalleria alla vittoriosa battaglia di San Quintino contro i fran- cesi, combattendo valorosamente. A fine marzo 1558, egli era ancora certa- mente a Bruxelles, da dove provvedeva a definire il rapporto con il fratello Carlo, al quale assegnava per l’eredità della madre Elisabetta Moncada una

38Asp, Ti, Notaio Pietro Paolo Abruzzo, 2 feb- braio 1554 (s.c. 1555). Risultarono presenti Domenico Capuano, uno dei procuratori della chiesa, e i confrati uid don Bernardino Bartolucci alias de Peroxino, «artium et medicinae doctor» don Natalizio Conoscenti, sacerdote Antonino Battaglia, mastro Antonio de Birlingone, Antonino Di Garbo, Giovanni Pizino, Antonino de Mayo, Filippo

Di Garbo, mastro Francesco Battaglia, Gio- vanni La Ficarra, il nobile Michele Castiglio, Manfredo de Leta, Francesco Occorso, Domenico Battaglia, Giovanni Di Garbo, Antonio Bandò, Bartolo Castiglio, Filippo Cusenza, Domenico La Bisignana, notaio Pietro Paolo Abruzzo, Giovanni Mazzola, Epi- fanio Cusimano, Filippo Cusenza, Pietro Di Lorenzo e Angelo Bonomo.

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