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I principi della prova civile nella consulenza tecnica d'ufficio

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Academic year: 2021

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I N D I C E

PREMESSA p. 4

CAPITOLO I

IL RUOLO DELLA CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO

NEL SISTEMA ISTRUTTORIO DEL PROCESSO CIVILE: CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO E PRINCIPIO DISPOSITIVO

I.1. Inquadramento generale dell’istituto p. 9

I.2. Il sistema istruttorio del processo civile come sistema

“dispositivo attenuato” p. 25

I.3. Alla ricerca di un punto di equilibrio

fra iniziative di parte e poteri officiosi p. 27 I.4. L’iniziativa probatoria officiosa come eccezione soltanto apparente p. 31 I.5. La consulenza tecnica d’ufficio come banco di prova

della tenuta dell’equilibrio del sistema p. 34

CAPITOLO II

Segue: Consulenza tecnica d'ufficio, onere di allegazione ed onere della prova

II. 1. Introduzione p. 39

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II. 3. Fatti principali e fatti secondari p. 45

II. 4. Allegazione dei fatti e consulenza tecnica d'ufficio p. 48 II. 5. Consulenza tecnica d'ufficio ed onere della prova p. 49

CAPITOLO III

CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO E PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO

III. 1. Introduzione p. 52 III. 2. Il principio del contraddittorio nell’istruttoria civile p. 53 III. 3. L’attuazione del principio del contraddittorio

nella fase di ammissione della consulenza… p. 54

III. 4. … In quella di espletamento… p. 69

III. 5. … E nell’esercizio della facoltà di critica ex post p. 97

III. 6. Le modifiche introdotte dalla legge 69/2009 e i loro effetti sull’attuazione del principio del contraddittorio nella consulenza tecnica d’ufficio.

III. 6.1. Le ragioni di una comparazione fra vecchia e nuova

disciplina p. 106 III. 6. 2. La formulazione anticipata dei quesiti p. 107 III. 6. 3. L’anticipazione del dibattito sulle conclusioni del

consulente p. 115 III. 6. 4. Bilancio complessivo delle novità legislative p. 120

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CONCLUSIONI p. 122 BIBLIOGRAFIA p. 126

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PREMESSA

Le dinamiche attraverso le quali si esplica il principio del contraddittorio nell’ambito delle prove del processo civile si atteggiano diversamente a seconda della natura del mezzo di prova di volta in volta considerato.

Da questo punto di vista, non vi è dubbio che la consulenza tecnica d’ufficio rappresenti un campo di indagine peculiare, proprio per le sue caratteristiche specifiche. Siamo, infatti, in una traiettoria – se non divergente – quantomeno differenziata rispetto a quella dei mezzi di prova che più fisiologicamente si connettono all’idea del processo civile come processo ad impulso di parte.

Per quelle prove disponibili esclusivamente dalle parti, il terreno di indagine è concentrato sulla corretta attuazione della dialettica fra le iniziative di una parte e quelle dell’altra, in diretta dipendenza delle regole in materia di onere della prova da un lato e delle regole processuali in ordine alle rispettiva posizione di attore e convenuto dall’altro. Quando invece si deve affrontare un mezzo di prova tipicamente officioso come la consulenza tecnica, si tratta in qualche modo di estendere l’analisi alla posizione del giudice, che si inserisce in questa dialettica con una sua autonomia.

Ed è evidente che il fatto che l’iniziativa istruttoria sia in questo caso riservata al giudice, anziché semplificare i problemi, in qualche modo li intensifica, perché – proprio per la natura del processo civile come

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processo “di parti” – pone il problema di armonizzare questo intervento con i principi fondanti del processo, al fine di evitare che esso si traduca in una soluzione eversiva rispetto all’impianto fisiologico dello stesso.

In altre parole, se di fronte ai mezzi di prova a impulso di parte si tratta soltanto di vigilare sulla corretta dinamica dell’attuazione delle reciproche iniziative, attraverso una verifica della loro conformità alle fattispecie tipiche del codice di procedura civile, del rispetto dei presupposti formali e sostanziali di ammissibilità, della compatibilità con le scansioni temporali e con le decadenze di legge, quando nella vicenda istruttoria interviene attivamente il giudice – per sua natura terzo e super partes – si pone il problema di evitare che l’iniziativa finisca per alterare gli equilibri di un processo nel quale i poteri istruttori officiosi sono contenuti in un ambito magari meno marginale di quanto potrebbe sembrare a prima vista, ma comunque integrativo e secondario.

Ecco perché la tematica del rispetto del contraddittorio acquista qui un particolare interesse. Se fosse possibile introdurre nel processo elementi di prova non solo su impulso del solo giudice ma anche sottratti a una corretta dinamica di contraddittorio fra le parti, il processo civile ne risulterebbe vistosamente snaturato: i risultati che si otterrebbero potrebbero anche essere sostanzialmente corretti, ma certamente si allontanerebbero molto dallo schema di un processo che pone le parti (e non il giudice o l’accertamento della verità) al centro del palcoscenico.

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D’altronde, che si tratti di un aspetto delicato del tema istruttorio lo si coglie anche dall’attenzione ad esso riservata dal legislatore, che con la riforma introdotta dalla L. 69/2009 ha proprio voluto ritoccare l’istituto della consulenza tecnica d’ufficio in modo da armonizzarlo ancor meglio con il tessuto delle regole destinate agli altri mezzi di prova.

Naturalmente, come spesso accade quando ci troviamo di fronte a problematiche giuridiche di questo tipo, sarebbe illusorio pensare di individuare una soluzione semplice e sintetica idonea a risolvere tutti i problemi: non esiste una ricetta che ci consenta di stabilire automaticamente il confine fra attività compatibili e incompatibili con una corretta attuazione del principio del contraddittorio.

In realtà, nel momento stesso in cui la legge prevede e disciplina un mezzo di prova di questo tipo – e con esso una potente iniziativa officiosa del giudice – si riconosce che in qualche misura la visione del processo come puro processo di parti deve essere superata e armonizzata a dovere con questo istituto.

Ecco allora che, come di consueto, occorre ragionare - più che in termini di radicale conflitto - in termini di bilanciamento fra diritti, al fine di individuare i criteri più corretti per preservarli entrambi contenendone la reciproca espansione e compressione in limiti “ragionevoli” (nell’accezione tecnica ricavabile dall’insegnamento della Consulta in ordine all’interpretazione dell’art. 3 Cost.). Solo per questa via è possibile

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salvaguardare i principi generali e speciali del sistema, garantendone la tenuta complessiva.

Proprio per questa ragione, prima di approdare a una soluzione convincente della questione con riferimento allo specifico tema della consulenza tecnica d’ufficio, è indispensabile delineare il principio del contraddittorio sul terreno generale dei mezzi di prova, per coglierne le caratteristiche salienti che poi dovranno essere soggette a (calibrata) rivisitazione una volta scesi sul terreno del mezzo di prova officioso.

Nel primo capitolo ci soffermeremo dunque sulle linee portanti del sistema istruttorio in generale, per comprendere il ruolo (in certa misura “dirompente”, come si è anticipato) che la consulenza tecnica d’ufficio assume all’interno dello stesso.

Nel secondo capitolo cercheremo di chiarire la natura del terreno operativo sul quale la consulenza tecnica d’ufficio si inserisce, soffermandoci sulla nozione di fatto oggetto di prova e illustrando – sia pure in modo necessariamente sommario – le conseguenti regole probatorie e di giudizio poste dal sistema: questa indagine preliminare sulle modalità di attuazione del contraddittorio è indispensabile per comprendere le ragioni e i limiti dell’ammissibilità del peculiare mezzo di prova posto ad oggetto del nostro lavoro.

Nel terzo capitolo procederemo all’esame specifico della consulenza tecnica d’ufficio, per verificare se e in che misura quei punti

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fermi acquisiti nei capitoli precedenti possano essere utilizzati per condizionare l’ammissibilità e il modus operandi del mezzo di prova officioso, per poi analizzare le novità introdotte dalla L. 69/2009 di cui si è già detto, per sottolineare che il legislatore ha inteso procedere alla riforma proprio per ottenere una migliore attuazione del principio del contraddittorio e per verificare se tale obiettivo sia stato effettivamente raggiunto in modo soddisfacente.

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CAPITOLO I

IL RUOLO DELLA CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO NEL SISTEMA ISTRUTTORIO DEL PROCESSO CIVILE: CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO E PRINCIPIO DISPOSITIVO

Sommario: 1. Inquadramento generale dell’istituto. - 2. Il sistema istruttorio del processo civile come sistema “dispositivo attenuato” – 3. Alla ricerca di un punto di equilibrio fra iniziative di parte e poteri officiosi – 4. L’iniziativa probatoria officiosa come eccezione soltanto apparente – 5. La consulenza tecnica d’ufficio come banco di prova della tenuta dell’equilibrio del sistema.

1. Inquadramento generale dell’istituto.

Prima di addentrarci in quello che sarà il cuore dell’indagine è bene procedere a un più organico (ancorché sintetico) inquadramento generale dell’istituto del quale ci stiamo occupando1.

Questo non soltanto per porre qualche punto fermo da cui prendere le mosse per le analisi successive, ma anche per la necessità di fare giustizia

1 Sulla consulenza tecnica in generale, cfr. CONTE, La consulenza tecnica, Milano,

2004; PROTETTÌ-PROTETTÌ, La consulenza tecnica nel processo civile, 3a ed., Milano, 1999; ROSSETTI, Il C.T.U. (“l’occhiale del giudice”), 3a ed., Milano, 2012; VELLANI,

Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, in Digesto civ., III, Torino, 1988 (rist.

1995); RADOS-GIANNINI, La consulenza tecnica nel processo civile, Milano, 2013.

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di alcuni luoghi comuni che, a ben vedere, non trovano riscontro (o almeno: lo trovano solo in parte) nel diritto positivo. D’altronde, non è raro che in questo campo (come in molti altri) le caratteristiche “percepite” di un determinato istituto facciano premio su quelle reali e introducano qualche elemento di confusione preclusivo di un’accurata disamina strutturale dello stesso.

Le norme “eversive” rispetto allo schema dispositivo, ben lungi dal rappresentare rare eccezioni, finiscono per dar vita a un corposo innesto di attività istruttoria officiosa concorrente.

È bene partire dal presupposto che già la collocazione sistematica della disciplina della consulenza tecnica d’ufficio rappresenta una spia del suo ruolo davvero peculiare.

Il primo dato interessante è che incontriamo ben presto nel codice di procedura civile la figura del consulente tecnico (che rappresenta la dimensione soggettiva dell’istituto), perché esso viene inquadrato come ausiliario del giudice e quindi inquadrato come soggetto processuale fin dal Libro I, Titolo I, Capo III (artt. 61-64).

Il secondo dato interessante è che la consulenza tecnica d’ufficio, intesa nella sua dimensione funzionale e dinamica, è sì inserita nel corpus dedicato all’istruzione probatoria (Libro II, Capo II, Sezione III), ma è poi soggetta a una disciplina “preliminare” a sé stante (artt. 191-201), che precede sia le regole sull’assunzione dei mezzi di prova in generale (artt.

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202-209), sia le regole sui singoli mezzi probatori in particolare (artt. 210-266).

Tutto ciò riflette quella che è indubbiamente un’ambiguità intrinseca dell’istituto, quanto meno nella sua matrice genetica. È stato infatti rilevato che, in base all’idea sviluppata dal legislatore del 1942, la

consulenza tecnica d’ufficio non dovrebbe essere considerata un mezzo di prova in senso proprio2, pur rientrando senz’altro fra i mezzi istruttori in senso lato3.

E questa distinzione, ben lungi dal rappresentare un mero esercizio di stile, investe subito quello che è uno dei nodi centrali dell’indagine: l’idea è che questo “strano” mezzo di prova (strano perché officioso in un mondo che proclama di ispirarsi al principio dispositivo) non dovrebbe avere la finalità di provare i fatti controversi e di consentire direttamente al giudice un controllo sulla verità o falsità delle allegazioni di parte, ma piuttosto quella di offrire un ausilio integrativo (in termini di apporto di conoscenze tecnico-scientifiche che il giudice non possiede) per valutare ex post le “vere” prove assunte precedentemente e per altra via4.

Siamo, in sostanza, di fronte a quella bipartizione fra fatti

principali e fatti secondari di cui si dirà di seguito nel capitolo successivo:

2 Cfr. TARUFFO, I mezzi di prova (2), cit., p. 488.

3 Cfr. MANDRIOLI-CARRATTA, Corso di diritto processuale civile, cit., II, p. 165. 4 Cfr. MANDRIOLI-CARRATTA, op. ult. cit., p. 167; TARUFFO, op. ult. cit., pp.

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la consulenza tecnica d’ufficio sarebbe per sua natura (sia sistematica che contenutistica) destinata a operare sui secondi, e non sui primi.

Soluzione questa che appare l’unica compatibile con le iniziative istruttorie di una figura “terza” super partes quale il giudice, del quale il consulente tecnico rappresenta una sorta di “appendice”: e proprio la veste di ausiliare attribuita a quest’ultimo ne esalta l’accostamento alla figura del giudicante, sia pure con le sue ovvie specificità5.

È anche il caso di dire che questo “avvicinamento” del consulente tecnico al giudice assumeva nella versione originaria del codice del 1942 un’intensità del tutto particolare. In un sistema convintamente ispirato ai principi di oralità e di immediatezza, si prevedeva che l’ausiliare lavorasse davvero “fianco a fianco” con il magistrato, consigliandolo per lo più – appunto – oralmente e in udienza in ordine ai vari passaggi delle indagini tecniche: un’attività del consulente non in presenza del giudice era vista come un qualcosa se non di eccezionale quanto meno di diverso rispetto allo schema fisiologico di attuazione della consulenza6.

Oggi, come è noto, l’evoluzione della legislazione e della prassi ha portato a esiti ben diversi, ma non al punto da snaturare questo tendenziale “affiancamento” delle due figure. Se lo svolgimento dell’attività di consulenza si svolge ormai di regola con modalità tutt’altro che “orali” e

5 La novità dell’impostazione si apprezza soprattutto rispetto agli istituti previgenti, che

avvicinavano invece il consulente più alla figura del teste che a quella del giudice.

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“immediate” – e anzi privilegia sedi separate da quella di udienza e il ricorso a relazioni scritte – ciò non vuol dire che il risultato finale dell’indagine peritale non sia comunque il frutto di una collaborazione dialettica fra giudice e consulente.

Quello che però va precisato è che attraverso l’ausilio di un consulente tecnico così inteso il giudice finisce per compiere valutazioni anche su fatti principali e non, come poteva sembrare a prima vista, solo su fatti secondari.

Da qui la conclusione che, alla fin fine, è difficile negare alla consulenza tecnica d’ufficio il ruolo di mezzo di prova in senso tecnico, o comunque - se proprio vogliamo mantenere il distinguo rispetto ai “normali” mezzi di prova7 – di fonte probatoria primaria.

D’altronde, non è neppure vero che la consulenza tecnica d’ufficio possa assolvere alla sola funzione di valutare8 il materiale probatorio acquisito aliunde, perché è certamente concepibile (e nella pratica frequente) che il consulente fornisca al giudice elementi di conoscenza

storica diretta9 i quali, pur affiancandosi di regola a un’attività anche valutativa, rappresentano di per sé la prova di un fatto primario.

7 È palpabile la preoccupazione della giurisprudenza di mantenere ferma la distinzione

concettuale, soprattutto al fine di non precludere l’ammissione della consulenza in ogni stato e grado del giudizio, incluse le fasi di impugnazione: cfr. Cass. 22/5/1996, n. 4720, in Rep. Foro It.1996, v. Consulente tecnico, n. 6.

8 C.d. consulenza “deducente”

9 C.d. consulenza “percipiente”. La distinzione fra consulente deducente e percipiente

è classica, risalendo a CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1938, p. 530

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Questo è possibile quando l’acquisizione stessa del dato storico presuppone proprio il possesso di quelle speciali competenze tecnico-scientifiche che hanno costretto il giudice ad avvalersi di un ausiliare. Si pensi al consulente tecnico medico-legale incaricato di procedere a un’autopsia, il quale attraverso la propria indagine potrà scoprire per primo (e sottoporre al giudice) fatti oggettivi, come ad esempio la presenza di acqua nei polmoni, la lesione di un organo, e così via10.

In ogni caso, non vi è dubbio che il presupposto “naturale” del ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio sia la necessità di fare affidamento su un esperto dotato di specifiche conoscenze tecnico-scientifiche non disponibili al giudice, al fine di valutare fatti preventivamente accertati con altri mezzi di prova e di risolvere ogni conseguente questione rilevante ai fini della decisione.

È però bene precisare che, proprio per la veste di ausiliare così solennemente riconosciuta al consulente tecnico, i risultati della sua attività non possono mai essere interpretati come una produzione istruttoria totalmente esterna all’ambito operativo del giudice: di fatto, il consulente concorre con il giudice a produrre una valutazione comune, alla quale il primo fornisce la “stampella” tecnico-scientifica, il secondo la “stampella” giuridica.

10 MANDRIOLI-CARRATTA, op. ult. cit., II, p. 167, fa l’esempio dell’accertamento

dell’idoneità o meno di una macchina a un determinato uso, ovvero del pericolo di crollo di un edificio lesionato.

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L’atteggiamento del giudice rispetto alla consulenza tecnica è dunque sostanzialmente diverso da quello con il quale egli si pone davanti agli altri mezzi di prova: se egli è chiamato a valutare ex post questi ultimi come elementi già consolidati e “archiviati” nel materiale istruttorio, rispetto alla consulenza deve assumere un atteggiamento diverso perché – proprio per le dinamiche interne del peculiare rapporto giudice/consulente – egli è chiamato a farla propria.

Ciò significa che il giudice – non a caso tradizionalmente insignito del pomposo ma efficace titolo di peritus peritorum11 – non è soltanto un interprete della consulenza, ma ne diviene necessariamente un protagonista, filtrandola attraverso la propria personale valutazione e plasmandola (naturalmente attraverso adeguata motivazione logica e giuridica) nella direzione probatoria voluta: il giudice non è affatto vincolato ad aderire acriticamente alle conclusioni del consulente e può certamente discostarsene, anche clamorosamente.

In realtà, proprio su questo aspetto si gioca la vera ragion d’essere della consulenza tecnica d’ufficio: il consulente tecnico, per quanto

11 La classica definizione non ha peraltro mancato di suscitare critiche e

puntualizzazioni. Si veda ad esempio BRUSCO, La prova tecnico-­‐scientifica nel processo penale, in www.csm.it: “…Lasciamo perdere l’illusione del giudice peritus peritorum. Parliamo invece di un giudice informato sui presupposti di validità del metodo o prova scientifici utilizzati nel processo, di un giudice pronto a esaminare contrapposte visioni scientifiche e a scegliere quella più convincente non in base ad una opzione pregiudiziale e immotivata ma, dopo aver dato il più ampio spazio al contradditorio, quella fondata su una dimostrata competenza scientifica e su argomentazioni che non abbiano trovato obiezioni insuperabili tenendo anche conto, e non marginalmente, delle eventuali evidenze probatorie atte a confermare o smentire il giudizio dell’esperto”. Ma, al di là dell’eccessiva

semplificazione propria di formule come questa, il concetto che essa evoca (supervisione e addirittura “sovrapposizione” da parte del giudice, e non mero recepimento) rimane comunque centrale.

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preparato e autorevole possa essere, non è un oracolo chiamato a dare responsi immotivati e vincolanti; egli, al contrario, deve “convincere” il giudice (e, con lui, tutti i destinatari della relazione) della bontà delle sue conclusioni attraverso un apparato che non è soltanto tecnico-scientifico, ma anche e soprattutto logico e che dunque può e deve essere sottoposto a un approfondito vaglio critico12.

Il netto salto qualitativo che la storia della conoscenza ha fatto passando dall’oscurantista principio dell’auctoritas (quell’affermazione è vera a prescindere, perché proviene da persona affidabile: ipse dixit) al moderno principio galileiano della verificabilità scientifica (quell’affermazione è vera perché è stata dimostrata rigorosamente su basi sperimentali e/o logiche inoppugnabili) rischierebbe di essere cancellato se davvero si attribuisse al consulente tecnico il ruolo di portatore di verità indiscutibili.

In qualche modo – e qui si accentua il parallelismo con la figura del giudice – egli è chiamato a redigere una sorta di “sentenza tecnica”, della quale le conclusioni rappresentano il dispositivo e le premesse rappresentano la motivazione. E, come accade per le sentenze giuridiche, la tenuta dell’insieme in termini di legittimità dipende dalla coerenza dell’apparato argomentativo, perché l’obbligo di motivazione rappresenta il

12 Per il principio in base al quale il giudice, in qualità di peritus peritorum, è tenuto in

ogni caso a un completo riesame dell’elaborato del consulente, cfr. BARONE, Consulente

tecnico: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, par. 5. In

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necessario contrappeso alla libertà di convincimento: in caso contrario, avremmo un “verdetto” immotivato da accettare a scatola chiusa, con un’evidente lesione dei principi del sistema.

Il consulente è dunque chiamato a spiegare al giudice - profano della disciplina tecnico-scientifica implicata nell’indagine - la ragione per la quale ha potuto pervenire a quella valutazione. Certo, il percorso argomentativo conterrà alcuni passaggi per la cui soluzione occorre possedere proprio quelle speciali competenze in vista delle quali il consulente è stato prescelto. Ma, date per buone le premesse specialistiche dell’argomentazione non attingibili dal giudice che è privo di quelle competenze (spetterà semmai ai consulenti tecnici di parte confutarle, se saranno in grado di farlo), i passaggi logici attraverso i quali l’argomentazione si sviluppa devono essere verificabili passo per passo e devono rivelare una tenuta inoppugnabile13.

Un altro problema è rappresentato proprio dal fatto che la consulenza, per arrivare al termine del suo faticoso percorso di formazione, deve - come si è visto - camminare su due “stampelle” molto diverse fra loro.

13 Per un’accurata disamina del metodo argomentativo che si richiede da un consulente

tecnico d’ufficio e delle conseguenti verifiche a cui il giudice è chiamato, cfr. MINARDI,

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Ora, per restare nella metafora, non sempre la stampella giuridica e quella tecnico-scientifica si muovono in modo armonico ed equilibrato. E quando questo accade, il cammino si fa incerto e pericoloso.

Il problema si verifica molto più spesso di quanto sarebbe auspicabile e nasce sempre da un indebito sconfinamento: raramente del giudice sul terreno tecnico-scientifico, frequentemente del consulente tecnico (magari con l’involontaria complicità del giudice) sul terreno giuridico.

In realtà, la ragione per la quale il consulente è stato prescelto è che egli è dotato di specifiche competenze in una determinata materia, che per definizione non è quella giuridica: se così fosse, non avrebbe senso ammettere una consulenza tecnica, perché le competenze professionali del giudice sarebbero già idonee a risolvere ogni problema.

Ma allora – per la stessa ragione – egli, nell’affrontare l’indagine con gli strumenti propri della sua materia, non può neppure in parte sconfinare su temi esclusivamente giuridici: anche se si volesse prescindere dall’evidente incongruenza formale (che consulenza tecnica sarebbe?), lo stesso buon senso fa capire che non vi è alcuna ragione di affidare una valutazione giuridica a chi di diritto non sa (o, a tutto concedere, sa molto meno del giudice).

Torneremo con maggiore profondità sul tema degli sconfinamenti della CTU, al momento di esaminare la fase di concreto espletamento

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dell’indagine. Ma è bene sottolineare che qui non ci riferiamo tanto all’estensione della consulenza a un oggetto diverso da quello inquadrato dai quesiti, quanto all’invasione di una materia diversa rispetto a quella nella quale il consulente è specializzato. E se nel primo caso i risultati ottenuti (pur discutibili in termini di rispetto del contraddittorio) possono quanto meno garantire una ragionevole utilizzabilità in ragione dell’affidabilità tecnico-scientifica della valutazione14, nel secondo si rischia un vistoso deragliamento concettuale, affidando la soluzione di problemi tecnico-giuridici a chi non ha né il ruolo né le competenze per poter fornire le giuste risposte15.

Quanto alla disponibilità della prova, essa rientra fra quelle che il giudice può ammettere ex officio. Naturalmente nulla esclude che le parti possano assumere in proposito concrete iniziative, volte a sollecitare il giudice ad ammettere una consulenza. Ma resta fermo che qualsiasi istanza formulata in questo senso è assolutamente non vincolante e che il giudice è libero16 di disattenderla.

14 E proprio per questo, come vedremo, la giurisprudenza ha sul punto un atteggiamento

alquanto elastico: il consulente ha certamente le competenze per affrontare con cognizione di causa i temi ulteriori, ancorché estranei ai quesiti.

15 Per una radicale inammissibilità di una consulenza “teorico-giuridica”, disancorata

dai fatti da valutare e finalizzata soltanto a fornire al giudice uno strumento conoscitivo da usare indirettamente, in violazione del principio iura novit curia, cfr. FRANCHI,

Consulente tecnico, in ALLORIO, Commentario del codice di procedura civile, Torino,

1973, pp. 687-689. Un marginale spazio può essere riconosciuto per la ricognizione di fonti normative peculiari come quelle di natura consuetudinaria, che fuoriescono dalla “scienza ufficiale” del giudice.

16 Nei limiti in cui egli è “libero” di assumere le sue decisioni e, cioè, con l’obbligo di

fornire comunque una motivazione logica e coerente. In caso contrario la mancata ammissione della consulenza può – come ogni altra decisione officiosa – integrare un vizio suscettibile di essere denunciato in sede di impugnazione.

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In definitiva, la posizione assunta da una parte (neppure se, per avventura, dovesse essere addirittura condivisa da tutte le parti) non condiziona minimamente la decisione del giudice: egli può ammettere il mezzo di prova in assenza di qualsiasi sollecitazione e perfino a fronte di una espressa opposizione della(-e) parte(-i), come pure può non ammetterla a fronte di una espressa istanza della(-e) parte (-i).

Ecco perché nessuna decadenza o preclusione è concepibile rispetto a questo specifico mezzo di prova: gli istituti della decadenza e della preclusione si riferiscono ai mezzi di prova riservati all’iniziativa delle parti e non (ovviamente) a quelli ammissibili ex officio.

Per questa ragione, le parti sono libere di sollecitare l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio anche quando siano spirati tutti i termini per la formulazione di richieste istruttorie. Questa facoltà non costituisce affatto un’eccezione, proprio perché si tratta di un mezzo di prova non disponibile dalle parti: se anche fosse stato “richiesto” tempestivamente, non vi sarebbe stato un diritto della parte di ottenerne l’ammissione. E siccome il giudice può ammettere la prova senza limiti di tempo (perfino dopo aver trattenuto la causa a sentenza) è certamente possibile per la parte prospettargli in ogni tempo (ad esempio: anche nella comparsa conclusionale) le ragioni che rendono opportuno il ricorso alla consulenza.

Da questo chiaro inquadramento sistematico deriva anche l’insensibilità della decisione sull’ammissibilità o meno della consulenza ai

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divieti di nuove prove connessi al passaggio a un diverso grado di

giudizio17. Una consulenza tecnica d’ufficio può essere ammessa ex novo dal giudice di appello o dal giudice del rinvio, come pure nelle stesse sedi può procedersi a una integrale rinnovazione di consulenze già espletate in gradi di giudizio precedenti.

E ciò, ancora una volta, a prescindere dalle iniziative delle parti. Non ci riferiamo qui soltanto al fatto che una parte abbia chiesto o meno l’ammissione della consulenza (evento che abbiamo già chiarito essere del tutto irrilevante sul piano formale) ma anche al fatto che la decisione di ammettere la nuova prova non presuppone neppure la proposizione di uno specifico motivo di impugnazione sul punto18.

In sostanza, riguardo alle decisioni sull’ammissibilità o meno della consulenza tecnica, non si può mai assistere a un abbandono della richiesta istruttoria (non coltivata) o alla formazione di un qualche giudicato interno su quanto deciso nel grado precedente e non espressamente impugnato, perché il giudice del grado successivo disporrà comunque di tutte le medesime facoltà delle quali disponeva il giudice del grado precedente.

La peculiarità dell’istituto e la pregnanza dell’iniziativa probatoria officiosa sono tali che l’ammissione o la rinnovazione della consulenza resta

17 Abbiamo visto che la giurisprudenza, per sottolineare questo principio, tende ad

esaltare la diversità strutturale (e non solo per le modalità di ammissione) della consulenza rispetto ai “normali” mezzi di prova: cfr. Cass. 22/5/1996, n. 4720, cit..

18 Naturalmente qua ci riferiamo a un’iniziativa istruttoria propriamente “libera” del

giudice dell’impugnazione. Se invece il presupposto dell’ammissione fosse rappresentato dalla declaratoria di nullità di una precedente consulenza, allora il vizio (se non rilevabile d’ufficio) dovrebbe essere certamente denunciato con l’impugnazione.

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libera perfino in sede di giudizio di rinvio e perfino in assenza di un’esplicita statuizione in tal senso da parte della Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento che a quel giudizio ha dato origine19.

Analizzeremo meglio nel prossimo paragrafo i limiti all’ammissibilità della consulenza connessi al rispetto delle regole in materia di onere di allegazione e di prova. Possiamo intanto anticipare come:

- da un lato, è certamente precluso al giudice procedere a indagini su fatti (anche secondari) che le parti non abbiano mai allegato, pur avendone l’onere20;

- dall’altro, il giudice non può (né di sua “pura” iniziativa, né su istanza di parte) ammettere una consulenza con la finalità di produrre un effetto “sanante” rispetto alle omissioni e decadenze in cui sia incorsa la parte assoggettata all’onere della prova;

- in particolare, non è ammissibile procedere a un’indagine meramente

esplorativa, “alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provate”21.

19 Con l’unico, ragionevole limite dell’ipotesi in cui la consulenza non abbia assolto alla

(naturale) funzione valutativa, ma abbia piuttosto costituito un mezzo di “acquisizione delle prove” (cfr. Cass., 7/11/1989 n. 4644, in Rep. Foro It., 1989, v. Rinvio Civile, n. 22): in questo caso più che di una vera e propria “preclusione” connessa alla diversità (e alla natura) del grado di giudizio, si deve parlare di un elementare principio logico, non potendosi ammettere la modifica (non di una valutazione, bensì) di un fatto ormai acquisito al processo.

20 Esistono invece fatti secondari (nel senso precisato) rispetto ai quali non è

configurabile alcun onere di allegazione.

21 Cass. 16/3/1996 n. 2205, in Rep. Foro It. 1996, v. Consulente Tecnico, n. 6.

Naturalmente resta riconosciuta la possibilità di derogare a tale principio nei casi eccezionali di cui si è detto, nei quali solo la consulenza può costituire fonte oggettiva di prova per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di un perito (cfr. Cass. 5/2/2013, n. 2663).

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In proposito è stato esattamente affermato che “occorre che la situazione o le circostanze di fatto sottoposte all’opera del consulente siano precisamente dedotte e dimostrate dalla parte, non potendosi supplire con la consulenza all’indicazione incompleta dei fatti su cui essa fonda la propria pretesa, o alla carenza della parte stessa nel fornire la prova; o, almeno, è necessario che l’indicazione e la prova di tali fatti siano già acquisite al processo, o anche date e offerte dalla controparte”22.

Ne consegue che, se il consulente può essere autorizzato “a domandare chiarimenti alle parti e ad assumere informazioni da terzi”, “questo suo potere va circoscritto agli elementi accessori dei fatti in ordine ai quali è chiamato a svolgere la sua attività di accertamento e di valutazione e non può spingersi all’acquisizione di dati fondamentali mediante informazioni chieste ad un terzo, ciò che fra l’altro si traduce nell’assunzione di una prova testimoniale da parte di un organo del processo diverso da quello previsto dalla legge e senza l’osservanza delle forme e delle garanzie prescritte”23.

Ulteriore conseguenza dell’impianto sistematico che caratterizza l’istituto è rappresentata dalla insindacabilità in sede di giudizio di

legittimità della decisione del giudice di merito (congruamente motivata)

che abbia ammesso la consulenza rilevandone la necessità o comunque l’opportunità.

22 Cass. 20/8/1977, n. 3817, in Foro It. 1977, I, 2680. 23 Loc. ult. cit.

(24)

Il giudice non può incorrere in alcun vizio di illegittimità per il solo fatto di ammettere o non ammettere una consulenza tecnica d’ufficio, per la semplice ragione che la legge gli attribuisce in via esclusiva il potere di prendere queste decisioni e che quindi esse di per sé non possono mai rappresentare una lesione del diritto di difesa di un parte. Il “recupero” del controllo di legittimità si ha sul piano della motivazione, essendo evidente che la decisione in punto di ammissibilità della consulenza deve rivelare un’adeguata tenuta in termini logici e giuridici; ma si tratta dello stesso requisito che vale per tutti i provvedimenti del giudice e che, se non rispettato, potrà comunque essere valorizzato in sede di impugnazione.

Da questo inquadramento preliminare dell’istituto, per quanto necessariamente succinto, emergono già con estrema chiarezza i temi più nevralgici rispetto all’obiettivo della nostra indagine: si pensi alla problematica dei limiti di compatibilità fra consulenza tecnica d’ufficio e regole in materia di onere di allegazione e di prova, oppure al tema dello sconfinamento del consulente rispetto ai quesiti sottopostigli dal giudice.

Si tratta d’altronde di un dato che, come vedremo meglio nei capitoli successivi, non può sorprendere. Stupirebbe semmai il contrario, visto che è piuttosto naturale che il legislatore prima e la giurisprudenza poi, a fronte di un mezzo di prova officioso (e quindi anomalo in un sistema tendenzialmente dispositivo), si siano preoccupati non solo di chiarirne la natura giuridica e il ruolo nell’impianto sistematico, ma anche di porre

(25)

subito l’accento su quelli che emergono anche a prima vista come i risvolti più rischiosi di questo tipo di indagine rispetto al principio di parità delle parti.

2. Il sistema istruttorio del processo civile come sistema “dispositivo attenuato”.

Prima di focalizzare l’obiettivo della nostra indagine sulle tematiche interne all’istituto che costituiscono lo specifico oggetto di questo lavoro, è indispensabile inquadrare la consulenza tecnica d’ufficio in una più ampia prospettiva panoramica, per meglio comprenderne la peculiarità nel sistema istruttorio del processo civile e per poter tracciare alcuni punti di riferimento che torneranno utili quando si tratterà di individuare le corrette opzioni interpretative nei più delicati passaggi della concreta dimensione applicativa.

Naturalmente un’analisi approfondita ed esaustiva del sistema delle prove civili esula decisamente dagli specifici confini di questo lavoro, perché l’importanza e la complessità dell’argomento richiederebbero di dedicargli uno spazio così imponente da produrre effetti dispersivi rispetto allo specifico tema trattato.

Ma è quanto meno il caso di rilevare che la consulenza tecnica d’ufficio rappresenta un elemento di particolare interesse al fine di individuare il corretto baricentro di un sistema che può definirsi a grandi

(26)

linee “misto” e, con maggior precisione “dispositivo attenuato”24: con queste espressioni si allude da subito a quello che, in definitiva, è il motivo ispiratore di questo lavoro e, cioè, la dinamica dell’intreccio fra (oneri probatori e) iniziative istruttorie delle parti da un lato e poteri istruttori officiosi dall’altro.

L’aggettivo “misto”, ancorché formalmente corretto, non vale a rendere immediatamente l’idea del progetto sistematico, perché la scelta del legislatore, ben lungi dal rivelarsi equidistante fra i due potenziali poli di attrazione, ha decisamente spostato25 il punto di equilibrio verso il tendenziale monopolio dei poteri istruttori di parte: si può dire, semplificando al massimo, che l’approccio c.d. dispositivo rappresenta la regola e che gli interventi officiosi nelle dinamiche istruttorie dovrebbero rappresentare l’eccezione, utile a temperare ragionevolmente, ma non a stravolgere, la chiave di lettura del processo civile come processo a impulso di parte.

Ciò non vuol dire che la presenza dei poteri istruttori officiosi nel sistema istruttorio sia relegata a un ruolo marginale e insignificante. È vero semmai il contrario, come dimostra proprio la consulenza tecnica d’ufficio,

24 Cfr. MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto Processuale Civile I, Nozioni Introduttive e

Disposizioni Generali, I, Milano, 2014, p. 128; COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010, p.

131.

25 Almeno sul piano della “dichiarazione programmatica”: vedremo in seguito che

un’obiettiva disamina del sistema di deroghe al principio dispositivo induce a temperare la qualifica di eccezionalità che alle stesse viene apparentemente attribuito e a constatare che la somma dei loro effetti (assai rilevante sul piano quantitativo e qualitativo) consente di inquadrare l’iniziativa officiosa come componente sistematica “concorrente” e non propriamente “eccezionale”.

(27)

mezzo di prova tipicamente officioso e ciò nonostante in grado di produrre l’inserimento nel processo di elementi di impatto notevole (e non di rado determinante) ai fini della decisione.

Proprio per questo, come si vedrà meglio in seguito, è lecito spingersi a rilevare che la natura eccezionale dell’iniziativa probatoria officiosa sembra alla fine rappresentare più un’enunciazione programmatica di principio – in omaggio a una chiara scelta di campo dogmatica per l’opzione (tendenzialmente) dispositiva - che la fedele fotografia della disciplina normativa concretamente applicabile26.

3. Alla ricerca di un punto di equilibrio fra iniziative di parte e poteri officiosi.

La verità è che in questo caso – come in molti altri – il sistema al quale si è pervenuti (prima attraverso l’impianto legislativo e poi attraverso le interpretazioni giurisprudenziali) non si presta a una chiave di lettura in termini di contrapposizione fra due principi in conflitto e, come si è avuto modo di anticipare, impone di ragionare invece in una logica di bilanciamento, di sapienti e (sperabilmente) equilibrati contrappesi, idonei a fornire il giusto tasso di ragionevolezza all’intero processo.

26 Per l’idea di una scelta di fondo globalmente dispositiva che tende ad aprirsi

progressivamente a correttivi inquisitori in nome di una concezione più attiva del ruolo del giudice, v. CAPPELLETTI, Processo e ideologie, Bologna, 1969, pp. 143 ss., 155 ss., 169 ss..

(28)

Sarebbe effettivamente alquanto sterile pretendere di individuare aprioristicamente la “prevalenza” dell’uno o dell’altro principio, perché i rapporti fra poteri di parte e poteri d’ufficio si atteggiano inevitabilmente in modo molto diverso a seconda del concreto oggetto dell’indagine processuale.

In questo senso il sistema è veramente “misto”, perché, pur muovendo dalla filosofia “dispositiva” di fondo di cui si è detto, lascia un adeguato margine di flessibilità che non consente affatto di pervenire a un automatico giudizio di superiorità gerarchica dell’iniziativa di parte rispetto a quella d’ufficio.

Il nodo centrale è, naturalmente, rappresentato dall’obiettivo a cui si vuole che il processo tenda: la previsione di illimitati poteri inquisitori facilita la ricerca della verità27 (intesa ovviamente nella sua dimensione processuale, ma con un’ideale tendenza verso la sua dimensione storica ed effettuale) a prescindere dal contributo che le parti possono (o vogliono) dare in tal senso; l’opzione dispositiva in purezza finisce per far dipendere l’esito del processo dalle iniziative delle parti in base a regole formali ben precise e accetta esplicitamente l’idea che la decisione, nel riflettere un assetto probatorio alla cui formazione il giudice non partecipa affatto, possa non corrispondere alla realtà oggettiva (e possa dunque anche rivelarsi

27 Obiettivo esplicitamente invocato dalla Relazione Ministeriale al codice di procedura

(29)

sostanzialmente ingiusta, ancorché giuridicamente ineccepibile sul piano formale).

Fra questi due estremi si trova ad operare la discrezionalità del legislatore. E naturalmente le scelte non sono frutto del caso, ma di una riflessione sistematica sugli istituti giuridici rilevanti.

È così del tutto naturale che il tasso di inquisitorietà del processo sia direttamente proporzionale al tasso di pubblicità degli interessi coinvolti: laddove gli effetti della sentenza siano puramente e semplicemente “privati” (non solo per la loro natura giuridica, ma anche perché destinati ad incidere su diritti disponibili esclusivamente dalle parti in causa) è ragionevole lasciare che siano proprio le parti ad essere padrone del proprio destino, perché in definitiva esse avrebbero potuto disporre di quei diritti anche al di fuori del processo; laddove invece gli effetti della sentenza siano destinati a ripercuotersi (anche parzialmente o indirettamente) su situazioni meritevoli di tutela dal punto di vista dell’interesse pubblico, un elementare criterio di ragionevolezza impone che il giudice sia chiamato a vigilare affinché le iniziative delle parti non vadano a ledere (più o meno consapevolmente) l’interesse generale.

La matrice pubblicistica è certamente più imponente nel processo

penale28, il quale infatti non può accontentarsi di relegare il giudice al ruolo di arbitro spettatore ed è tendenzialmente ispirato al principio della ricerca

28 Sulla peculiarità dei poteri del giudice penale e sulla loro giustificazione teorica cfr.

(30)

della verità anche al di là dei limiti probatori segnati dall’ambito di iniziativa delle parti (una delle quali29, fra l’altro, è immancabilmente pubblica). Ma è decisamente presente anche nel processo civile30, con il quale interferiscono (più spesso di quanto si sarebbe portati a pensare istintivamente e anche al di fuori dei casi di partecipazione obbligatoria del pubblico ministero) pubblici interessi che il giudice è comunque chiamato a tutelare.

L’esistenza di una “scala” di valori pubblicistici destinata a incidere significativamente sull’assetto istruttorio dei diversi settori è confermata con particolare chiarezza dalle scelte operate dal legislatore in tema di processo del lavoro: è proprio la percezione delle materie soggette al rito del lavoro come “sensibili” dal punto di vista del pubblico interesse a giustificare un ampliamento dei poteri officiosi31, attraverso il quale si mira ad accentuare la tutela dell’interesse generale a produrre una pronuncia equa e a controbilanciare i possibili squilibri fra le posizioni delle parti che rischierebbero di prodursi in ragione dei rispettivi ruoli sociali ed economici.

29 Il Pubblico Ministero, che per la sua natura peculiare cumula (o dovrebbe cumulare)

il ruolo di parte con quello di cercatore della verità e quindi fornisce una decisa spinta in quest’ultima direzione anche a prescindere dall’intervento attivo del giudice nel tema istruttorio.

30 Anche nel rito ordinario. Naturalmente la considerazione acquisisce maggior vigore

nei processi sottoposti a riti speciali (si pensi a quello del lavoro, e ancor più ai procedimenti in materia di fallimento e di famiglia) che già in partenza sono orientati alla tutela accentuata degli specifici interessi in gioco.

31 Con una parallela e significativa relegazione ai margini del ruolo del pubblico

ministero: cfr. DENTI-SIMONESCHI, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974, pp. 123 ss., 126-127, 233.

(31)

D’altronde, il concetto stesso di sistema probatorio “dispositivo” assume un senso soltanto se si parte dal presupposto che anche i diritti azionati siano disponibili: uno scarto fra disponibilità processuale e disponibilità sostanziale finirebbe (nell’uno o nell’altro senso) per produrre una situazione di intollerabile irragionevolezza.

4. L’iniziativa probatoria officiosa come eccezione soltanto apparente.

Se i valori in gioco sono in linea di principio molto nitidi, si deve però prendere atto che il loro recepimento formale nel processo civile non brilla per chiarezza e univocità, perché il “temperamento” del principio dispositivo viene introdotto in modo piuttosto sfuggente e ambiguo.

L’art. 115 c.p.c. prevede infatti che “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti e dal pubblico ministero32”. L’opzione sembra dunque chiaramente “dispositiva”, ma la norma deve poi essere letta in coordinamento con le deroghe concretamente “previste dalla legge”. E, come si è avuto modo di anticipare, la clausola di riserva contenuta nell’art. 115 si rivela alla prova dei fatti assai meno marginale di quello che potrebbe sembrare da una lettura asettica della norma, proprio perché l’apparato normativo derogatorio finisce per consentire poderose invasioni di campo da parte dell’iniziativa probatoria officiosa.

(32)

La tecnica con la quale è redatto l’art. 115 sembra dunque condizionata dalla preoccupazione programmatica di sottolineare a chiare lettere l’opzione dispositiva, centrando l’inquadratura proprio sul principio dell’iniziativa probatoria di parte e lasciando filtrare soltanto sullo sfondo un richiamo a possibili deroghe. Ma questa sensazione iniziale è destinata ad essere messa seriamente in discussione una volta che ci si rende conto di quale sia l’impatto quantitativo e qualitativo di queste “deroghe”, le quali, nonostante il biglietto da visita che le accredita come eccezioni a una regola generale, finiscono per caratterizzarsi più propriamente come regole

concorrenti e per erodere in modo significativo il monopolio dell’iniziativa

di parte.

Tuttavia, anche se i poteri istruttori officiosi acquisiscono per questa via un ruolo importante, il favore dichiaratamente manifestato per l’opzione dispositiva trova comunque un sostanziale riconoscimento nell’impianto sistematico. L’idea di fondo è, infatti, che il giudice – soggetto “terzo” e imparziale per antonomasia, come garantisce l’art. 111, 2° comma, Cost. - non possa, attraverso un uso “disinvolto” dei poteri istruttori che la legge gli consente di esercitare d’ufficio, alterare la corretta attuazione del principio del contraddittorio: il suo ruolo non è quello di introdurre elementi di squilibrio nella dialettica processuale delle parti, ma semplicemente quello di integrare le fonti di prova che le parti hanno proposto, e di intervenire soltanto nel caso che se ne presenti l’effettiva necessità.

(33)

In altre parole il giudice, pur disponendo di strumenti probatori davvero incisivi, non ha né il dovere né il potere di attivarsi a prescindere dalle iniziative delle parti per ricercare una possibile verità alternativa a quella ricavabile dal materiale istruttorio acquisito agli atti. Lo spazio per l’iniziativa istruttoria officiosa si apre, al contrario, in funzione delle prove proposte dalle parti, per colmare quelle lacune che non consentono di farne un pieno utilizzo.

Il giudice non può dunque essere chiamato a stravolgere l’esito del processo, ad esempio sopperendo alle inerzie (o, peggio, alle decadenze istruttorie) in cui le parti siano incorse: il suo intervento officioso non ha mai carattere sostitutivo o lato sensu “sanante” rispetto alle omissioni delle parti, ma resta meramente integrativo e per di più è ammissibile solo a condizione che la lacuna che si va a colmare sia ricavabile oggettivamente dagli atti, che vi sia l’assoluta necessità di colmarla per rendere i risultati istruttori concretamente utilizzabili ai fini della decisione e che la situazione non possa essere imputata a “colpa” di un parte33.

5. La consulenza tecnica d’ufficio come banco di prova della tenuta dell’equilibrio del sistema.

33 In questo senso, cfr. ex plurimis Cass. 10/1/2006 n. 154, in Rep. Foro It., 2006, v.

Lavoro e previdenza (controversie), n. 117. Ma occorre sottolineare che la legge processuale può essere violata anche nella direzione opposta, perché un elemento di illegittimità potrebbe essere ravvisato proprio nella insufficiente valorizzazione dei poteri officiosi, naturalmente in presenza degli opportuni requisiti: cfr. BELLÈ, Poteri istruttori

del giudice del lavoro e sindacabilità in cassazione della loro mancata utilizzazione, nota a

(34)

Da questo punto di vista la consulenza tecnica d’ufficio incarna in modo particolarmente esemplare la natura e le finalità dei poteri istruttori officiosi.

Come si vedrà meglio in seguito, la consulenza non può mai avere una funzione sostitutiva e può rappresentare soltanto uno strumento complementare rispetto all’obiettivo della parte di provare il fatto (costitutivo, impeditivo o estintivo) la cui prova l’art. 2697 c.c. pone a suo carico34. E proprio la necessità di superare ostacoli non meramente fattuali (dei quali la parte deve preoccuparsi spendendo i mezzi di prova attribuiti dalla legge alla sua iniziativa) ma di natura tipicamente tecnica fa comprendere che l’obiettivo perseguito dal giudice attraverso l’ammissione di questo mezzo di prova è quello di completare il quadro (e non di dipingerlo interamente per proprio conto) facendo ricorso a valutazioni che non potrebbero essere introdotte nel processo da una parte e che richiedono invece il contributo di un esperto super partes, dotato di specifiche competenze.

È dunque evidente che la particolare lacuna che si mira a colmare non è affatto imputabile all’una o all’altra parte, per la semplice ragione che il sistema processuale (e la logica stessa) non consentono che una parte

34 Su quali siano i fatti oggetto di prova e su come la questione debba essere

correttamente intesa nello specifico contesto della consulenza tecnica d’ufficio, v. infra, Capitoli II e III.

(35)

possa attribuire dignità di prova a una valutazione di carattere tecnico (tipicamente soggettiva) da lei unilateralmente introdotta nel processo.

Ciò non vuol dire che le parti non abbiano la facoltà di introdurre nel processo questo tipo di valutazioni, ad esempio depositando relazioni elaborate dai propri consulenti tecnici; ma resta fermo il principio che gli elementi così acquisiti agli atti non potranno mai assumere valenza probatoria piena e rimarranno – a tutto concedere - relegati in un ambito (larvatamente) indiziario35.

Ben diverso è il ruolo e il peso che assume sul piano probatorio la consulenza tecnica d’ufficio, perché l’ausiliario36 (a sua volta terzo e imparziale) rappresenta, di fatto una longa manus del giudice e fornisce dunque il necessario supporto specialistico a una valutazione destinata ad essere fatta propria dal giudice stesso37.

Naturalmente questa chiave di lettura della consulenza tecnica d’ufficio, in linea di principio molto chiara, deve poi trovare un’applicazione coerente nella concreta dinamica processuale. Si tratta di un

35 La consolidata giurisprudenza individua nelle consulenze di parte semplici

“allegazioni difensive”: cfr., ex plurimis, Cass. 26/9/2006 n. 20821, in Rep. Foro It., v. Prova Civile, n. 56. Una conseguenza notevole di tutto ciò è che eventuali ammissioni sfavorevoli al mandante contenute nella consulenza di parte non potranno assumere un valore propriamente confessorio: cfr. Cass. 15 Dicembre 2003, n. 19189, ibidem, v. cit., n. 24.

36 La qualità di “ausiliario del giudice” è esplicitamente attribuita dal codice di

procedura civile (Libro I ,Titolo I, Capo III) e vale a porre subito in chiaro, già nell’inquadramento sistematico, il ruolo peculiare attribuito al consulente.

37 Vedremo in seguito come questo processo non si traduca (o comunque non debba in

linea di principio tradursi) in un passivo recepimento delle conclusioni del consulente e imponga invece un’attenta opera di filtraggio, che può addirittura spingersi fino al loro radicale ribaltamento e che presuppone comunque (anche nel caso di totale adesione) un adeguato apparato argomentativo di supporto.

(36)

obiettivo meno semplice a realizzarsi di ciò che potrebbe apparire a prima vista, perché, come si vedrà meglio in seguito, esiste un serio rischio di uscire dal seminato, e anche in una pluralità di direzioni.

Quello che però preme sottolineare fin da adesso è che la verifica del corretto utilizzo dell’istituto è possibile soltanto comprendendo appieno i principi ispiratori che sorreggono non solo la consulenza tecnica d’ufficio in quanto tale, ma l’intero sistema probatorio.

Ogni qual volta ci si rende conto che quella particolare consulenza (o anche soltanto una sua “porzione” più o meno ampia) non risponde ai requisiti di equilibrio sopra delineati, significa non solo che l’impostazione della consulenza è errata, ma che si è tradito il principio fondante della natura dispositiva del processo civile.

Ecco allora che la corretta chiave di lettura dell’istituto richiede una visione panoramica non solo del sistema istruttorio, ma del processo nella sua interezza: la inevitabile emersione di “zone grigie”, nelle quali può insinuarsi il pericolo di una deriva inquisitoria tale da vulnerare irrimediabilmente la tenuta dell’equilibrio del sistema, impone di individuare una stella polare di riferimento che consenta di conservare gli effetti utili della consulenza tecnica d’ufficio (irrinunciabili, per le ragioni che abbiamo già avuto modo di delineare nei loro tratti essenziali) e anzi di espanderli fino al limite del ragionevole, senza però che indebite “invasioni di campo” da parte del giudice finiscano per far smarrire la giusta rotta,

(37)

alterando la corretta attuazione del contraddittorio e, in definitiva, la stessa natura (tendenzialmente) dispositiva del processo civile.

In definitiva, a fronte di un apparato normativo che – come vedremo meglio in seguito - disciplina la consulenza tecnica d’ufficio soltanto nei suoi tratti essenziali e tace su molti dettagli di estrema rilevanza (soprattutto nella dimensione pratica), l’interprete dovrà valutare le opzioni di “fattibilità” non tanto sulla base di un rigido parametro formale (in molti casi difficile da reperire o comunque da armonizzare con la fattispecie concreta) ma sulla base del rispetto di questo principio generale di equilibrio.

Mutuando il gergo dal diritto costituzionale, si può allora dire che il problema dell’ammissibilità di una determinata consulenza tecnica d’ufficio (o di alcune “porzioni” della stessa) dipende molto spesso da una valutazione di ragionevolezza, che, come è noto, impone di seguire un criterio di concreto bilanciamento fra interessi diversi (e non di rado contrapposti).

Tenendo conto non solo della concreta disciplina legislativa ma anche dell’impianto sistematico, a quali condizioni e con quali limiti il ricorso del giudice a questo mezzo di prova officioso (e quindi a una deroga al principio dispositivo) può considerarsi legittimo senza alterare la corretta attuazione del contraddittorio? A questo quesito cercheremo di rispondere spingendo la nostra analisi nel vivo dell’istituto.

(38)

CAPITOLO II

SEGUE: CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO, ONERE DI ALLEGAZIONE ED ONERE DELLA PROVA

Sommario: 1. Introduzione – 2. L’allegazione dei fatti – 3. Fatti principali e fatti secondari – 4. Allegazione dei fatti e consulenza tecnica d’ufficio – 5. Consulenza tecnica d’ufficio ed onere della prova.

1. Introduzione.

Con le avvertenze già poste nel primo capitolo, è ora il caso di introdurre qualche cenno sulla disciplina dell’onere della prova, che costituisce uno dei principali pilastri di sostegno del sistema processuale civile38.

Anche qui sarebbe dispersivo dilungarsi più di tanto su un tema di così ampia portata, ma è indispensabile identificare con chiarezza il terreno operativo sul quale la consulenza tecnica d’ufficio è destinata a innestarsi. È infatti evidente che, proprio per le considerazioni che abbiamo sviluppato nel capitolo precedente, sarebbe impossibile individuare correttamente presupposti, condizioni e limiti dell’iniziativa probatoria officiosa in assenza di un quadro univoco che ci faccia capire quali siano i fatti che debbono

38 Deve condividersi la classica conclusione di RESCIGNO (Manuale del diritto privato

italiano, Napoli, 1980, p. 249) che ha individuato in questa disciplina “uno dei principi fondamentali del sistema giuridico”.

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essere oggetto di prova e quali siano i conseguenti oneri che la legge pone rispettivamente a carico delle parti.

In realtà la disciplina dell’onere della prova acquisisce un ruolo centrale nella nostra indagine perché essa si colloca alle fondamenta della nozione stessa di attuazione del contraddittorio.

Il modo in cui le parti possono e debbono esplicare i rispettivi diritti di azione e di difesa all’interno del processo non vive evidentemente di vita propria, ma deve essere disciplinato (e se del caso interpretato) in funzione delle regole probatorie e delle conseguenti regole di giudizio.

In altre parole, la tutela della corretta attuazione del contraddittorio non si riduce a un concetto astratto di matrice etica, perché essa acquisisce un autentico significato soltanto se viene calata nella realtà tecnico-giuridica del processo e, cioè, se risulta strumentale a preservare l’esercizio di specifici diritti attraverso i quali le parti possono concretamente incidere sul contenuto della decisione.

La “misura” della pienezza del contraddittorio si ricava dunque proprio da questa valutazione: le parti sono state poste in condizione di esercitare efficacemente i rispettivi diritti con specifico riferimento all’individuazione dei fatti da provare e alla formazione delle conseguenti prove da cui verranno ricavati gli elementi decisivi per la sentenza?

(40)

E non è un caso che il legislatore collochi le norme che regolamentano le prove nel Libro VI del Codice Civile, intitolato “Della tutela dei diritti”. Questa scelta ci dice due cose importanti.

La prima: la nozione di prova, pur dovendosi evidentemente accostare per sua natura al processo (unica sede nella quale essa potrà essere fatta valere), trova la sua matrice primigenia sul terreno sostanziale39 e per questa ragione viene disciplinata dal Codice Civile, e non dal Codice di Procedura Civile40.

La seconda: la tematica della prova non riguarda soltanto – come semplicisticamente si potrebbe pensare – il processo, il giudice o l’accertamento della verità, perché l’idea stessa di prova presuppone primariamente l’esercizio di un fondamentale diritto della parte, fra l’altro costituzionalmente garantito.

Dunque è proprio questo diritto a rappresentare da un lato la stessa ragion d’essere della prova, dall’altro il parametro di riferimento alla stregua del quale l’impalcatura concettuale del sistema istruttorio viene costruita.

39 Esprimendo una figura giuridica – quella dell’onere – che si colloca in posizione

intermedia fra incondizionata libertà (dalla quale si distingue per la previsione di conseguenze giuridiche sfavorevoli in caso di inadempimento) e vero e proprio obbligo (dal quale si distingue perché non si tratta di atto dovuto in funzione del soddisfacimento dell’interesse altrui – e quindi coercibile - ma di strumento per soddisfare un interesse proprio del titolare stesso): cfr. RESCIGNO, v. Obbligazioni, in Enc. Dir, 1979, XXIX, 141 ss.

40 Al quale spetta invece regolamentare le modalità e le forme di acquisizione e di

assunzione delle prove all’interno del processo: ma si tratta pur sempre di un “recepimento” di materiale probatorio la cui natura giuridica è interamente delineata “a monte” del processo stesso.

(41)

È stato efficacemente rilevato che da questo punto di vista le prove civili rappresentano un istituto tipicamente “bifronte”41, costituendo il “ponte di passaggio tra il processo e il diritto soggettivo”42.

Si può anche discutere se questo sia dal punto vista teorico il miglior modo di dettare la disciplina normativa delle prove43. Ma non vi è dubbio che la scelta del legislatore è estremamente rivelatrice di quella che è la matrice “ideologica” del sistema: la concezione unitaria della nozione stessa della prova come strumento di “tutela dei diritti”, che assume un significato soltanto integrando la dimensione sostanziale con quella processuale44.

2. L’allegazione dei fatti.

Prima ancora di capire come un fatto possa essere provato è indispensabile stabilire quali debbano essere i fatti da allegare e che formano oggetto di prova. E naturalmente il punto di riferimento per qualsiasi analisi deve essere rappresentato da una della norme-cardine (si potrebbe dire : la norma-cardine) del sistema, che è l’art. 2697 c.c.: “Chi

41 Cfr. COMOGLIO, Le prove civili, cit., p. 31, che riconduce alla medesima categoria

anche il giudicato.

42 E che questo sia frutto di una precisa scelta programmatica lo si ricava

dall’interpretazione “autentica” contenuta nella Relazione del Ministro Guardasigilli al Re sul Codice di Procedura Civile (n. 6, 5° cpv.).

43 Per esempio, nel progetto di riforma elaborato nel 1977 dalla Commissione Liebman,

era stato autorevolmente proposto di ricondurre tale disciplina integralmente nel codice processuale, restituendo così alla materia una “unità di luogo” in favore della quale militano argomenti sistematici altrettanto ragionevoli.

44 Ecco perché, per costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, la violazione

delle norme in materia di onere della prova e di ammissibilità ed efficacia dei mezzi di prova attiene al diritto sostanziale e integra un error in iudicando ex art. 360, n. 3 c.p.c. (e non un error in procedendo ex art. 360, 4° comma, c.p.c.).

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