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una malsana e disperata nostalgia, sarebbe più saggio insegnare ad osservare

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Academic year: 2022

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Architettura, città, progetto

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"Centinaia di migliaia di persone devono vivere nelle città, e invece che inculcare loro una malsana e disperata nostalgia, sarebbe più saggio insegnare ad osservare realmente la città, per attingervi più forza e più gioia che sia possibile". Lo ha scritto August Endell oltre un secolo fa, nel 1908, prima che si manifestassero molti dei mali tipici della città del Novecento: crescita a macchia d'olio, scadente qualità delle costruzioni, aumento esponenziale della popolazione, traffico, inquinamento e tutto il resto che sappiamo.

Non credo che il pensiero di Endell sia un paradosso. Assomiglia a certi adagi sull'arte di accontentarsi, ma si illumina di concretezza se contrapposto alle tesi nostalgiche di chi sostiene che bisogna creare a ogni costo una città bella, e tuttavia non sa dire in che modo, se non resuscitando idealisticamente un passato visto come un'età dell'oro, pretendendo di progettare e costruire come allora, ma per vivere come oggi; e dividendo il paesaggio urbano in buono e cattivo. Io preferisco osservare il mio ambiente di vita così com'è, buono e cattivo insieme. Sento una voce al mio fianco che mi chiede: “E dimmi (poiché sei così sensibile agli effetti dell'architettura), non hai osservato, passeggiando in questa città, che tra gli edifici di cui è popolata alcuni sono muti; altri parlano; e altri ancora, i più rari, cantano? Non è la loro funzione, né la loro figura generale che li animano a tal punto o che li riducono al silenzio. Dipende dal talento del loro costruttore, o dal favore delle Muse” (Paul Valéry, Eupalinos, Mondadori, 2014).

Ammetto che tra gli edifici costruiti nel Novecento non sono molti quelli che cantano.

Perché? I costruttori non hanno avuto talento, le Muse sono rimaste lontane? In verità conosciamo già i colpevoli: lo stile internazionale che ha omologato i luoghi, e poi la globalizzazione, che è stata come la pioggia sul bagnato; l'uso di materiali industriali, comodi, veloci e versatili, anche troppo, fino a diffondere il qualunque, il pressapoco, lo sciatto; la dissoluzione novecentesca delle regole e delle tradizioni, tra le quali l'ordine, l'eleganza, la misura, il gusto, o anche l'abitudine a fare sempre uguale; la ricerca di una maggiore democrazia anche nel costo del prodotto edilizio, che ha prodotto la casa minima ed economica e ne ha massificato la produzione; e tante altre cose simili,

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molte delle quali inevitabili: perché era giocoforza che accadessero, e soprattutto perché sono già accadute.

Tra queste c'è anche la perdita di fiducia dell'architetto nell'utopia in cui ha creduto, di potere trasformare non solo la città ma addirittura la società. Già nel 1968 lo storico Manfredo Tafuri descriveva la crisi dell'architetto contemporaneo: “...insicuro nei confronti della tradizione del movimento moderno, dato che i suoi fallimenti e il declino del suo orgoglio rivoluzionario si toccano quotidianamente con mano, incapace – perché ciò è oggettivamente impossibile – di superare con un atto di rottura l'impasse, con lo sguardo disperatamente rivolto ad un passato di cui non sa bene cosa fare […], dedito all'eclettismo e al pastiche: ma senza eccessivi drammi, quasi per vocazione”

(Manfredo Tafuri, Teorie e storia dell'architettura, Laterza, 1968).

Se l'obiettivo che ci poniamo è la cura della città è difficile perseguirlo quando i curanti sono essi stessi malati o tutt'al più convalescenti.

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Ho cercato in diversi autori - ma ho trovato poche risposte - le tracce di una idea in cui credo: che la città e l'architettura rispondono, più che a obiettivi estetici, a intenzioni funzionali e psicologiche. Architetti e storici dell'arte naturalmente non ammettono un ruolo subalterno della bellezza; con tutti i suoi corollari, che per gli architetti sono la sacralità del progetto, della composizione, della proporzione, e per gli storici dell'arte il peso della storia e dell'arte, appunto.

Ma gli studiosi dell'architettura spontanea (tra i quali Giuseppe Pagano, curatore di una celebra mostra dell'architettura rurale alla Triennale del 1936; o Bernard Rudofsky nel suo Architecture Without Architects del 1964) hanno invece posto all'origine dell'abitare i bisogni più che l'intenzione estetica. Lasciare il discorso sulla città in mano agli storici dell'arte o agli archeologi - come si è fatto a lungo, a partire da Cesare Brandi - è servito a conservarla nei suoi episodi monumentali e nel suo tessuto storico, ma ha contribuito a formare un'opinione pubblica ostile alla necessità di ogni trasformazione e incline alla nostalgia di cui parlava Endell.

Scrittori, giornalisti, architetti hanno rincarato la dose. Calvino, con il suo romanzo La speculazione edilizia, è il capostipite di una schiera - che comprende Cederna, Cervellati, Erbani e molti altri - che continua a ripeterci ad alta voce che dobbiamo aspirare a un'idea di città diversa da quella prodotta da una pubblica amministrazione inadeguata o corrotta, che ha lasciato mano libera al capitale e alle sue sole ragioni.

L'impressione però è che non di rado chi scrive concetti così condivisibili li renda in sostanza astratti, se mostra di rifiutare ogni responsabilità personale e qualunque

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coinvolgimento nei fatti che descrive; passando un po' troppo sotto silenzio evidenti, evidentissime ragioni storico-sociali che invece ci accomunano un po' tutti, e che sono alla base delle imponenti trasformazioni, soprattutto negative, della città della seconda metà del Novecento.

Mi spiego meglio con un esempio fatto dallo scrittore Francesco Piccolo qualche anno fa in un suo romanzo. Goffredo Parise, in una rubrica che teneva negli anni Settanta sul Corriere della Sera, rispose al direttore del parco nazionale del Gran Paradiso, che gli chiedeva di prender posizione contro la costruzione di un grande albergo che avrebbe deturpato un delicato ambiente delle Alpi vicentine. Parise argomenta a lungo le ragioni per cui si rifiuta di fare ciò che gli viene chiesto: non vuole condividere l’atteggiamento di coloro che si chiamano fuori con sdegno e attribuiscono sempre agli altri il peggioramento del paesaggio italiano. Cita “la forza delle cose che ha mutato profondamente il volto del nostro Paese”, per cui “l'Italia di trent'anni fa è lontana, lontanissima, in tutti i suoi aspetti, politici, culturali, linguistici, fonici, agricoli, non soltanto paesaggistici” e “la realtà del nostro paese essendo profondamente mutata, sento la necessità di vivere oggi, non ieri”.

È una posizione che condivido, non lontana da quella di Endell. Credo che dovremmo sforzarci tutti di fare uso della stessa onestà intellettuale nel cercare la misura giusta per giudicare i fatti odierni e per tenerci esenti da tabù nuovi e antichi.

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È scontato che in un territorio come il nostro, così ricco di stratificazioni storiche, ci siano vincoli dati dalla necessità di conservare le tracce del passato. Sui molti rapporti tra architettura e tempo, architettura e storia, trovo dei bei pensieri nel libro di Gio Ponti, Amate l'architettura, che mi sembrano ancora attuali, anche se il libro è del 1957. Ponti cerca di avvicinare il pubblico all'architettura, invitandolo a guardarla per bene, senza pregiudizi ma anche senza troppo rispetto. Abbiate la voglia e il coraggio di esprimervi, dice: “Giudicare l'architettura. Molti dicono: non so giudicare l'architettura moderna. Perché – dico io – non giudicarla come l'architettura antica? E come si giudica veramente della bellezza dell'antica? Forse in base alle apparenze stilistiche? Ma allora la bellezza rinascimentale escluderebbe quella gotica o barocca!

Se ciò non avviene è perché esistono dei termini perenni di giudizio che sono al di fuori del tempo, cioè degli stili, della cultura […]: cerchiamoli ed adottiamoli”.

Soprattutto, cerchiamo di non sottostare e formule semplicistiche: tutto buono il passato, tutto cattivo il presente. Scrive Ponti: “Per me non esiste il passato perché considero che tutto è simultaneo nella nostra cultura e nemmeno esistono quindi per

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me, nel giudicare architettura, e quindi anche e specialmente nel giudicare l'architettura moderna, fratture fra l'architettura antica e la moderna, né storiche e neppure tecniche. […] Per giudicare Architettura aggiungi agli elementi di giudizio il tempo. Storicamente il tempo è un collaboratore-collaudatore dell'architettura (come di tutte le arti), esso ha – dice France – i suoi strumenti, il sole, la pioggia, il vento del Nord...”.

Quest'ultima osservazione ci ricorda qualcosa che si tende a dimenticare, soprattutto quando l'architettura viene trattata dai quotidiani come se fosse cronaca, e cioè un episodio qualunque, sul quale emettere subito sentenze definitive. Gli edifici devono invece essere giudicati senza troppa fretta, quando sono congruamente invecchiati, hanno superato l'esame dell'usabilità e della funzionalità e sono stati assorbiti dal contesto urbano; io credo che questo assorbimento sia perfino quantificabile: lo stimerei connesso al tempo della prima manutenzione necessaria, diciamo un ventennio-trentennio, quando il rifacimento della pelle (intonaci, tinteggiature, serramenti) integra l'edificio che fu – ma non è più - nuovo con quelli pre-esistenti.

Questo inglobamento nel genius loci, nello spirito della città, riguarda qualsiasi edificio, persino quelli che ai tempi dei primi piani di conservazione dei centri storici venivano definiti superfetazioni, e cioè le aggiunte, più o meno storiche e dunque giudicate più o meno incongrue, a edifici pre-esistenti, che dovevano essere eliminate per tornare al pristino (la pratica si chiamava infatti ripristino architettonico). In verità, tutto – aggiunte, sopraelevazioni, ampliamenti – con il tempo si uniforma all'esistente. Finisce per assomigliargli. E oggi, al contrario di ciò che si pensava trenta o quarant'anni fa, vi sono teorie che propongono il parassitismo architettonico come una pratica da incentivare, sia perché è sempre esistita, sia perché virtuosa, in quanto consiste nel costruire sopra, sotto, a fianco del costruito, risparmiando suolo vergine (ma attenzione: aumentando la popolazione nelle zone dense della città, e creando il cosiddetto carico urbanistico che per conseguenza rende necessario incrementare i servizi pubblici).

Guardiamo alla storia: il mausoleo di Augusto è un edificio-simbolo della capacità dell'architettura di riciclarsi, cambiare destinazione, servire a nuovi scopi. Riemerse dopo secoli di oblio come fortezza dei Colonna, fu spazio ortivo nel Medioevo, sito di esplorazione archeologica nel Cinquecento, giardino di statue e marmi e abitazione del monsignor Francesco Soderini, ammiratissimo da artisti e antiquari. Di nuovo fu area di scavo nel Settecento, poi arena per spettacoli popolari - giostra di animali visitata da Goethe e combattimento di tori nel racconto di Stendhal - anfiteatro Correa, cava di marmo e perfino auditorium, l'Auditorium Augusteo, inaugurato nel 1907 e utilizzato

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fino all'isolamento fascista degli anni trenta, che restituì l'edificio al suo assetto originario.

La stessa adattabilità a mille usi diversi dimostrano anche le seconde e ennesime vite di tanti edifici nel tessuto urbano, primi tra tutti i conventi dopo le soppressioni napoleoniche, che sono divenuti caserme, ospedali, scuole. Dunque “parassitare” la città, senza troppo riguardo a stili e a regole estetiche, risponde anche a criteri estetici, oltre che funzionali: Variatio delectat, la varietà non è segnale di vivacità e vitalità solo di una lingua, è un principio che vale per tutti i linguaggi.

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Il corpo dell'utente, del fruitore, è stato e dovrebbe sempre essere il riferimento ovvio di ogni progetto di architettura. Ma nel Novecento ci sono molti esempi di uno stravolgimento di questo criterio. Uno dei più noti è la teorizzazione dell'existenzminimum (che è la ricerca dello spazio minimo necessario di un appartamento, che fu il tema del Congresso Internazionale di Architettura Moderna del1929 a Francoforte). Da allora, per decenni si è cercato di ridurre gli alloggi popolari alla superficie minima possibile.

Ma De Carlo scrive: “... è del tutto lecito domandarsi perché l'alloggio debba essere il più possibile economico e non invece, per esempio, assai costoso; perché invece di compiere ogni sforzo per ridurlo ai minimi livelli di superficie, di spazio, di spessori di materiali, ecc., non ci si debba piuttosto sforzare a renderlo ampio, protetto, isolato, confortevole...” (Giancarlo De Carlo, La piramide rovesciata, Quodlibet, 2018 – prima ed. 1968). De Carlo come sempre usa la polemica, la provocazione; ma è vero che la parola economico è nel frattempo diventata un paradigma così irrinunciabile del progetto che il P.E.E.P (Piano per l'edilizia economica e popolare) lo promuove a vero e proprio riferimento amministrativo (L. 167 del 1962), rendendolo indiscutibile, scontato.

Le teorie architettoniche del Novecento hanno deformato il corpo umano, lo hanno negato, minimizzato? Sappiamo che alle origini il corpo è stato il parametro, il modello del costruire, ogni gruppo sociale conosceva il proprio corpo, al punto che nel corso della storia le costruzioni sono state ideate in riferimento a corpi molto diversi.

“C'erano tre archetipi nell'arte del costruire: la tenda, la caverna e la capanna. La tenda fu adottata dai cinesi e dagli sciti, ma la sua architettura era troppo fragile. La caverna fu l'archetipo egiziano; essa però aveva condotto ad un'architettura troppo greve e indifferenziata. La struttura in legno, che venne perfezionata dai greci, è l'unica degna di imitazione. I cacciatori nelle caverne, i pastori nelle tende, i contadini in

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capanne” (Bruno Zevi, Architettura. Concetti di una controstoria, Newton Compton, 2006).

Oggi le cose sono molto diverse: “Tutto ci induce a credere che l'idea del monumento architettonico come incarnazione e rappresentazione astratta del corpo umano, un'idea la cui autorità in fatto di proporzioni e figure si basa sull'analogia antropomorfa, sia stata abbandonata con il crollo della tradizione classica e la nascita di un'architettura asservita alla tecnologia. Se escludiamo il vano tentativo compiuto da Le Corbusier per fissare il modulor come base delle misurazioni e delle proporzioni, pare che la lunga tradizione di riferimenti al corpo (da Vitruvio passando per Alberti, Filarete, Francesco di Giorgio e Leonardo) sia stata definitivamente abbandonata con l'insorgere di una sensibilità modernista più dedita alla protezione razionale del corpo che non alla sua inscrizione matematica o all'emulazione pittorica” (Antohny Vidler, Il perturbante dell'architettura, Einaudi, 2006).

Con il modernismo sono scomparsi dal progetto architettonico anche altri riferimenti corporei, come quello alla faccia: “... Colin Rowe ha osservato, non senza una nota critica, che la nuova Staatsgalerie di Stoccarda è a tutti i fini e gli effetti paragonabile all'Alte Museum di Schinkel, a parte il fatto che è «senza facciata». […] Rowe afferma da tempo che la mancanza di interesse nei confronti della facciata-volto è un punto debole ricorrente dell'architettura moderna. Una volta che la lastra orizzontale sui pilastri, permeabile a luce, aria e spazio, ebbe sostituito tecnicamente e polemicamente il muro portante verticale, la facciata si trovò inevitabilmente in pericolo” (Vidler, cit.).

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A cosa si deve lo scadimento del progetto di architettura e di città? Al fatto che i suoi ingredienti si sono impoveriti? Ma quali sono poi gli ingredienti del progetto? Visto che è così frequente la necessità di confronto con l'ambiente storico, assume un grande rilievo il rapporto tra invenzione e memoria. Ernesto Nathan Rogers sottolineava “[...] il nesso, sempre reperibile, tra la creazione di nuovi fenomeni e l'osservazione dei fenomeni esistenti (invenzione e rilievo)”. E osservava: “[…] Sia che si muovano nel tempo, sia che si muovano nello spazio, gli artisti si trovano al centro di un sistema di influenze: il tempo passato si colora secondo la gamma dello spirito dell'artista e il presente non può non sentirne l'effetto. […] L'elemento memoria è dunque inerente alla costituzione dell'attività artistica. […] L'operazione creativa viene influenzata da due azioni della memoria, o meglio dal rapporto dialettico di due tensioni opposte: la prima azione si rivolge al passato, trae alimento cosciente o subcosciente dalle

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esperienze già consumate per crearne di nuove. È il senso dei ricordi ancestrali (anche senza considerare gli argomenti della psicanalisi) della conservazione, del ripensamento; la rielaborazione per cui le cose già fatte continuano in noi, determinano una tradizione, cioè si portano avanti tramite nostro, s'inverano nell'oggi, gli danno stabilità con fondamenta più ampie di quel che avrebbero se nascessero solo da noi.

[…] Ammonire e ricordare (moneo e memini) hanno la stessa radice semantica e da essa acquista valore la parola monumento ed il concetto simbolico che essa racchiude.

[…] Qui è l'altra azione della memoria, non quella che si muove da noi verso le cose, ma dalle cose a noi e oltre noi” (Ernesto Nathan Rogers, Gli elementi del fenomeno architettonico, Laterza, 1961).

Il disegno, oggi soppiantato dal CAD, è stato a lungo lo strumento privilegiato del progetto. “Gli schizzi, gli abbozzi contengono la meta ma non sono ancora la meta, in quanto questa, una volta raggiunta, pur contenendo la carica dei disegni originari, può perfino negarli [...]. Cercare e trovare non sono momenti successivi del processo creativo, perché si cerca ciò che si vuol trovare e si trova qualcosa di modificato di quel che si credeva di cercare. Cercare e trovare sono una coppia, un sistema di due forze applicate a un oggetto che ne subisce l'influsso e si determina di conseguenza”

(Rogers, cit.).

Qualcosa di molto simile diceva Le Corbusier: che le forme non si creano, ma si trovano. Dunque ecco l'importanza dell'analisi di ciò che esiste, del rilievo, anche fotografico. Bisogna guardare, e guardando ricordare; e magari anche ascoltare. La capacità di ascolto del progettista è alla base della pratica della partecipazione.

Secondo la quale anzi, ascoltare è forse più importante che guardare. L'architetto dovrebbe ascoltare le esigenze, le lamentele, i desideri, e trasformarli in un prodotto più amichevole di quanto non sia la scatola razionalista, la stanza che più piccola non si può, la città troppo densa o troppo grande.

Però guardare e ascoltare non vogliono dire copiare il già fatto o l'esistente. Per non correre questo rischio, piuttosto che usare riferimenti stilistici, geometrici, formali, bisogna riesumare pratiche antiche i cui esiti a ben gurdare si trovano ovunque nel corpo della città: scavare, parassitare, aggiungere, riciclare. Trascuriamo il puro aspetto visivo, l'eleganza, la proporzione e perseguiamo invece il benessere, l'amichevolezza, la condivisione. Mescoliamo. Lo si fa con il cibo, con l'arte, con la musica, dunque è bene farlo anche con l'abitare. Calpestiamo l'abitudine e il nesso abitare-abitudine che la lingua ci ha consegnato e continua a suggerirci. Perché non è il solo occhio che deve essere la nostra regola (forse regola non va bene come parola?

Diciamo ispirazione?), attraverso la forma e la proporzione, l'equilibrio. Bisogna

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riesumare concetti sepolti: imperfezione (e non proporzione) – diversità (e non tipologia) – quotidianità e non durata infinita. Smontabile e non inamovibile, aperto e non chiuso, lento e non troppo veloce.

L'uomo proietta verso l'esterno le funzioni del proprio corpo, l'architettura è stata intesa troppo spesso come contenimento, riparo, chiusura, protezione, anche oltre quanto è necessario. Proviamo a pensare a una casa-labirinto, a una casa-museo, a una casa-viaggio, a una casa infinita e non-finita. Installazione, cinema, romanzo possono diventare compagni di strada dell'architettura: pensiamo all'informe, all'infinito, all'astronave, alla casa sull'albero, alla grotta, all'interno che sembra un esterno e all'esterno che entra dentro davvero, non solo attraverso le grandi vetrate o le pareti vuote di Le Corbusier.

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Sui rapporti tra architettura e città. Da un lato è evidente che la seconda deriva dalla prima (per replica, per sommatoria); ma la città è in grado di condizionare la formazione della nuova architettura, e dunque è vero anche che dalla città discende l'architettura.

Aldo Rossi pensava alla “città come essere umano collettivo”; un concetto che prende direttamente dalla lettura di un libro di Marcel Poëte, Introduzione all'urbanistica (1929), in cui si parla di città come “costruzione collettiva”, sommatoria di singoli episodi o “fatti urbani” dovuti ai singoli costruttori. In questo senso la lezione del passato è ineludibile e necessaria, e ogni intervento sul corpo della città deve fare i conti con questa idea di contesto, che è diversa da quella puramente formale-estetica dei conservatori. Il contesto deve guidare il progetto, non sopraffarlo. Il contesto è l'anima della città. Rossi cerca l'âme de la cité, una nozione che trae dal geografo Georges Chabot e dal suo libro Les Villes (1948).

Monumento e intorno, emergenze e tessuto. Come Aldo Rossi, anche Ludovico Quaroni identifica l'architettura con i monumenti e le emergenze, evidenziando il ruolo generativo che essi hanno nella formazione della struttura urbana. Carlo Aymonino (Il significato delle città, Laterza, 1976; Marsilio, 2000) distingue, nella forma urbis, sviluppo e crescita. Risulta evidente come la seconda sia stata per gran parte dell'Ottocento e per tutto il Novecento il meccanismo di creazione della forma urbana, naturalmente insufficiente per non dire controproducente: “La città nuova, odierna, non esiste da un punto di vista della riconoscibilità e individualità mediante soluzioni architettoniche valide. E non può non essere così dal momento che come strumento operativo per il suo sviluppo – divenuto solamente maggiore estensione (quindi

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misurabile in numeri, indici, regolamenti, destinazioni, ecc.) fu scelto quello del lotto privato di terreno edificabile per fini speculativi e non quello dell'architettura”.

Uno dei libri più studiati nelle scuole di architettura, è quello di Kevin Lynch, L'immagine della città (Marsilio, 1964, prima ed. americana 1960). Ma come indica il titolo, è un libro molto più di analisi che di progetto, e infatti è stato molto letto ma poco usato come manuale di progettazione. La città costruita per lotti della quale parla Aymonino segue criteri immobiliari e privati, non certo collettivi e pubblici. E pertanto i temi che tratta Lynch, il disegno e la forma, l'orientamento, la relazione tra gli elementi, il disegno dei percorsi, il senso dell'insieme, i quartieri, i margini, i nodi, sono tutti temi individuati dall'analisi della città esistente, a volte perfino storica: sono constatazioni, non tanto suggerimenti operativi, se mai modelli ma difficilmente replicabili, se non in casi rari e pertanto ininfluenti rispetto alla normalità. In un certo senso è perfino ingenuo pensare che l'urbanistica degli standard, delle regole, dei numeri e non del disegno urbano possa aver commesso una mancanza non seguendo i principi di Lynch, le era semplicemente impossibile farlo.

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