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Paradisi Fiscali: Bilancio del G20 in 12 domande 28

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in 12 domande

28 2010

COLLANA

STRUMENTI

DI LAVORO

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Questo rapporto è pubblicato in Italiano da FOCSIV - Volontari nel mondo

Il rapporto in lingua originale è stato elaborato da CCFD - Terre Solidaire Scritto da Renaud Fossart e Jean Merckeart con l’aiuto di Céile Nelh.

Ha beneficiato dei consigli preziosi, a titolo personale, di Vincent Drezet (Segretario Nazionale del Syndicat Unifié des Impots) e di Olivier Longchamp (responsabile del programma fiscalità e finanza internazinale alla Dichiarazione di Berna).

P aradisi F iscali :

B ilancio del G20

in 12 domande

(3)

Salvaguardare le risorse domestiche dall’evasione fiscale e dalla fuga di capitali

Sempre di più negli ultimi anni, oltre a portare avanti in modo incessante la richiesta agli stati di mantenere l’impegno di destinare lo 0,7% del proprio PIL all’aiuto pubblico allo sviluppo, si riconosce come necessario garantire che i Paesi, spesso proprio i più poveri, possano mobilitare le proprie risorse interne per impiegarle nei programmi di lotta alla povertà. Sono infatti molteplici le modalità con cui tali risorse vengono sottratte ai bilanci pubblici, a volte come conseguenza di politiche governative corrotte e colluse, altre a causa della mala- gestione di queste risorse da parte di multinazionali straniere che non investono i profitti delle proprie attività nel paese in cui operano ma li trasferiscono all’estero fornendo combustile a quella finanza fuori controllo che ha manifestato i suoi effetti proprio con la grande crisi del 2008.

Mobilitare le risorse nazionali per lo sviluppo è il primo dei sei principi di azione contenuti nel Monterrey Consensus – il documento finale della Conferenza indetta dalle Nazioni Unite sul tema del Finanziamento dello Sviluppo e svoltasi in Messico dal 18 al 22 marzo del 2002 - che stabiliva l’interdipendenza delle politiche finanziarie, commerciali e di governance per il raggiungimento dello sviluppo dei Paesi poveri. Mobilitare tali risorse è cruciale, non solo per finanziare lo sviluppo ma anche per rafforzare la responsabilità democratica e la partecipazione sia a livello nazionale che internazionale.

Molti Paesi in Via di Sviluppo dispongono di risorse naturali e di capitale sociale. Il problema principale sono gli ostacoli che, a livello nazionale ed internazionale, impediscono il loro utilizzo per finanziare i beni pubblici a beneficio di tutta la popolazione, soprattutto delle fasce più povere.

L’allentamento, nel corso degli anni, degli standard finanziari internazionali sulla trasparenza, ha gradualmente portato al fiorire dei paradisi fiscali e giurisdizioni segrete, accelerato dalla interconnessione globale sempre più forte. Le giurisdizioni segrete hanno avuto un ruolo importante nella crisi finanziaria attuale, in quanto hanno minato sistematicamente l’applicazione della legislazione di altre giurisdizioni, hanno permesso l’occultamento dei rischi eccessivi assunti da banche ed imprese garantendo la sicurezza e favorendo complessi accordi finanziari, hanno offerto domicilio ai fondi speculativi, fonte di grande sfiducia nei confronti del sistema finanziario.

La libertà giuridica di cui godono i paradisi fiscali consente loro di essere un rifugio per le fughe illecite di capitale e per la corruzione. Le risorse sottratte da dittatori e funzionari sono spesso nascoste dietro segreto bancario, fondi fiduciari, fondazioni o altri strumenti che garantiscono l’anonimato.

Le giurisdizioni segrete ostacolano direttamente lo sviluppo, scatenando una fuga di risorse che dovrebbero, invece, contribuire alle entrate del bilancio di un paese. I Paesi in Via di Sviluppo hanno perso tra gli 858,6 miliardi e 1,06 trilioni di dollari USA nel 2006 in flussi finanziari illeciti. L’ONU ha calcolato che i trasferimenti netti dai Paese in Via di Sviluppo hanno raggiunto un picco di 658 miliardi di dollari nel 2006, ben sei volte l’aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi OCSE in quel periodo. La libertà giuridica di cui godono i paradisi fiscali fa da schermo alle ricchezze sottratte da dittatori e funzionari, che spesso si nascondono dietro la segretezza bancaria, titoli, fondazioni ed altri strumenti particolari che favoriscono l’anonimato.

Anche le imprese multinazionali fanno spesso ricorso ai paradisi fiscali. Secondo le statistiche dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO), oltre la metà del commercio mondiale è condotto all’interno di uno stesso gruppo tra affiliati di una stessa impresa o holding, la maggior parte delle quali mantiene delle entità nei paradisi fiscali.

Le entrate più basse derivanti dalla tassazione su capitali e profitti, unite ai patrimoni rubati, implicano una pressione maggiore su consumi e redditi, pesando di più sui poveri e sulle donne in particolare. Una stima prudente delle perdite derivanti dai patrimoni non tassati, appartenenti a ricchi individui e protetti dai paradisi fiscali, rileva come essi ammontino nei soli Paesi in Via di Sviluppo a circa 50 miliardi di dollari l’anno.

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Il 2 aprile 2009, il Summit del G20 di Londra, ha lanciato une serie di misure per regolamentare la finanza internazionale, in particolare per eliminare i paradisi fiscali e stabilire regole certe per la collaborazione fiscale internazionale. Dal allora le grandi economie mondiali hanno avviato un percorso in tale direzione costantemente verificato nelle successive edizioni del Vertice dei G20. Questo documento ha come obiettivo quello di facilitare la comprensione di quanto sin qui concretizzato, di cosa poteva essere fatto meglio, e soprattutto di cosa resta ancora da fare per reimpostare una finanza sana, controllabile e orientata al perseguimento del bene comune.

La sua pubblicazione a cura di FOCSIV, è una decisione assunta all’indomani delle conclusioni ancora una volta deludenti dell’ultimo G20 tenutosi in Canada per rafforzare la nostra azione di sensibilizzazione e di mobilitazione su tematiche cruciali per lo sviluppo e la giustizia globali. Avendo a disposizione il documento di grande qualità e di immediata comprensione elaborato dal CCFD - Terres Solidaires – organizzazione che partecipa alla CIDSE insieme a FOCSIV e ad altre 16 realtà legate alle Conferenze Episcopali di Europa e Nord America – abbiamo ritenuto di tradurlo in italiano per diffonderlo tra il nostro pubblico.

Con questo elaborato, vogliamo contribuire ad accrescere la consapevolezza ed il numero delle persone che come noi ritengono che i venti capi di Stato e di Governo che rappresentano il 90% della ricchezza mondiale ed il 75% del totale della popolazione potrebbero e dovrebbero compiere atti decisivi per uscire dalla drammatica crisi in cui versa l’economia globale ponendo queste tematiche in cima alle loro priorità. Agire contro l’evasione e la frode fiscale è un primo passo indispensabile per consentire uno sviluppo dei Paesi dei Sud del mondo e condizione determinante la ripresa economica globale.

I singoli Paesi non sembrano avere le idee chiare sulle politiche efficaci da adottare per combattere i paradisi fiscali, come dimostrato in questo rapporto. Sebbene ci sia stata qualche “vittoria” (come il caso LGT, Credit Suisse, USB ecc.) e una parvenza di reale volontà da parte delle grandi potenze di agire su questi temi, vediamo che ancora molto c’è da fare. Di certo “L’amnistia generalizzata” portata avanti dal nostro governo non va in una direzione giusta ed efficace per combattere l’illegalità dilagante, ormai quasi cronica, del Bel Paese.

Restiamo convinti che a fianco alla lotta alle speculazioni finanziarie, una gestione corretta delle entrate fiscali, al Nord come al Sud mondo, è uno dei punti fondamentali per ripartire e provare ad aggiustare quest’economia mondiale malata, che premia i “furbetti” e penalizza le fasce più povere.

Sergio Marelli Segretario Generale FOCSIV – Volontari nel mondo

(5)

Pag.

Perché questo bilancio? 2

I paradisi fiscali sono scomparsi? 6

1.

A cosa sono servite le liste nere e grigie dell’OCSE? 8

2.

Il fisco potrà prendere con maggior facilità i frodatori? 10 3.

Il G 20 può pubblicare una lista esaustiva dei paradisi fiscali? 11 4.

Quali sono le più belle vittorie del fisco nell’ultimo anno? 13 5.

I paradisi fiscali si stanno spaventando? 15

6.

Cos’è cambiato per le banche? 17

7.

Cos’è cambiato per le multinazionali? 19

8.

Cos’è cambiato per il crimine organizzato e la corruzione? 21 9.

Cos’è cambiato per i Paesi in Via di Sviluppo? 23

10.

A cosa è servita la mobilitazione della società civile? 24 11.

Ci si può attendere ancora qualcosa dal G 20? 26

12.

Le 10 proposte della campagna “Stop ai paradisi fiscali” 28

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PERCHE’ QUESTO BILANCIO?

La nostra epoca è segnata da promesse non mantenute. Fare un bilancio degli impegni è dare peso alla parola pubblica.

Questo esercizio partecipa alla riabilitazione del politico alla quale CCFD - Terre Solidaire vuole contribuire.

Il Summit dei G 20 di Londra, 2 aprile 2009, doveva tradurre in fatti le intenzioni rese pubbliche a New York il 15 novembre 2008, in occasione della prima riunione delle 20 maggiori economie del mondo a livello di capi di Stato. Il Summit ha fatto della fine dei paradisi fiscali il suo cavallo di battaglia n° 1. In questa iatanza, che già necessita di legittimazione perché costruita sull’esclusione di una maggioranza di paesi, ci si gioca la propria credibilità.

Per CCFD - Terre Solidaire, la posta in gioco è significativa in quanto i Paesi in Via di Sviluppo sono le principali vittime dei paradisi fiscali.

I Paesi dei Sud, duramente colpiti da una crisi finanziaria della quale non sono minimamente responsabili, necessiterebbero di molti dei fondi che fuggono verso i paradisi fiscali. Ogni anno sono infatti tra i 600 e gli 800 i miliardi di euro che fuoriescono in modo illecito dai Paesi in Via di Sviluppo – ovvero circa 10 volte l’ammontare dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo stanziato dall’insieme dei Paesi ricchi. La causa: un’economia criminale che mina la democrazia e lo sviluppo economico (la corruzione per un 3 – 5% delle somme, il crimine organizzato per un 30 – 33% delle stesse), ma anche frode ed evasione fiscale da parte di imprese multinazionali per un 60 – 65% 1.

Una quantità di denaro che gli Stati non possono tassare. Infine, mancano dalle casse degli Stati del Sud oltre 125 miliardi di euro per la sola evasione fiscale delle multinazionali, ovvero cinque volte la somma necessaria per sradicare la fame nel mondo secondo la FAO. Risultato: gli Stati tentano una compensazione spostando il carico fiscale sui consumatori e sugli imprenditori locali e, per i Paesi più poveri, ricorrendo all’Aiuto internazionale e all’indebitamento – una dipendenza troppo spesso sinonimo di asservimento ai finanziatori esterni.

1 Dati del think-tank americano Global Financial Integrity, animato da Raymond Baker, dicembre 2008.

Comunicato finale del G 20 di Londra, 2 aprile 2009:

“L’era del segreto bancario è terminata.”

Gordon Brown, 2 aprile 2009:

“Siamo d’accordo per porre fine ai paradisi fiscali che non pubblicano le informazioni che chiediamo loro.”

Nicolas Sarkozy, 2 aprile 2009:

“Tutti i partecipanti seduti attorno al tavolo vogliono farla finita con i paradisi fiscali. Da questo punto di vista non c’è alcuna divergenza.”

Barack Obama, 2 aprile 2009:

“Individueremo i territori che si rifiutano di cooperare, ivi compresi i paradisi fiscali, e assumeremo misure per difendere il nostro sistema finanziario.”

(7)

Secondo l’OCSE, ci sono ancora 17 territori non cooperativi.

Secondo il GAFI, esistono 28 Paesi che restano favorevoli al riciclaggio di denaro.

Secondo Bercy, ci sono 18 territori che non cooperano con il fisco francese.

Secondo la rete Tax Justice Network (TJN; rete di ONG e di ricercatori), esistono almeno 60 territori che alimentano la non trasparenza.

Secondo il 60% dei francesi la lista dei paradisi fiscali pubblicata dal G 20 non è affidabile nè completa (sondaggio BVA-CCFD effettuato il 3 ottobre 2009).

Secondo Nicolas Sarkozy “i paradisi fiscali e il segreto bancario sono finiti” (dichirazione del 24 settembre 2009, alla vigilia del Summit G 20 di Pitsburgh).

Territori in cui la parte delle attività dei servizi finanziari offshore sul totale mondiale è superiore allo 0,1%:

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(9)

Frutto di compromessi diplomatici, le liste pubblicate in occasione del G 20 hanno spinto alcuni paradisi fiscali a svilupparsi troppo superficialmente per “evidenziarli in bianco”.

Su richiesta del G 20 di Londra, l’OCSE ha pubblicato il 2 aprile 2009 una lista “nera” dei Paesi che non si sono ancora dichiarati pronti a cooperare con il fisco straniero, una lista “grigia” dei Paesi che non si sono impegnati che verbalmente (e che si definiscono “territori non cooperativi”) e una lista “bianca” per quelli che hanno firmato i trattati (TIEA) con almeno dodici Paesi ai quali hanno promesso di comunicare le informazioni che verranno chieste in materia fiscale.

Il 2 aprile 2009, la lista nera risultava composta da 4 Stati, la lista grigia da 38. Sono serviti meno di otto giorni perché la lista nera si vuotasse (un impegno verbale di quattro Paesi è stato sufficiente). Quanto alla lista grigia, ad oggi non conta più di 17 territori non cooperativi (vedi www.oecd.org/dataoecd/50/436062256.pdf ). Va notato che la Cina figura sulla lista bianca, ma con un’annotazione a piè di pagina che indica tra le righe che Hong-Kong e Macao non sono stati ancora giudicati “cooperativi”.

In buona sintesi, queste liste hanno consentito di entrare in una nuova era, come proclama l’OCSE, o sono servite solamente a “sbiancare” i paradisi fiscali come denunciano i suoi detrattori? La verità sta nel mezzo.

Un invito pressante al cambiamento

Bisogna riconoscere a favore dell’OCSE l’evoluzione che ha effettuato a seguito della pressione di numerosi paradisi fiscali. All’inizio del 2009, la stessa idea che un giorno si sarebbero comunicate delle informazioni ad un’amministrazione fiscale straniera era assolutamente esclusa da parte di numerosi Paesi. Singapore, ad esempio, rifiutava addirittura di discutere con l’OCSE. Oggi, nessun territorio può più permettersi di rifiutare l’apertura al dialogo su tale questione. Non restano oggi che 5 Paesi (Guatemala, Liberia, Nauru, Niue, Filippine) che non hanno ancora firmato alcun trattato di scambio di informazioni fiscali, contro i 26 del 2 aprile del 2009. Oltre 230 trattati di scambio di informazioni fiscali sono stati firmati dall’aprile 2009, contro una sessantina precedenti.2 In altri termini, la lezione è chiara: additare i territori è una strategia efficace per obbligarli a cambiare.

Una lista bianca troppo accogliente

Il criterio fissato per entrare nella lista “bianca” è estremamente lassista e permette ai principali paradisi fiscali di rifarsi un’immagine “cooperativa” a basso costo:

Le liste OCSE non considerano che il settore fiscale dei paradisi fiscali, come se questi ultimi non costituissero dei buchi neri per la giustizia straniera e per le autorità di regolamentazione finanziaria.

Le convenzioni firmate non sono troppo vincolanti(vedi domanda 3).

Il numero dei 12 trattati è debole, dato che esistono oltre 246 territori in grado di firmare delle convenzioni fiscali.3 E’ forse una coincidenza che il Jersey, il Guernesey e l’Isola di Man, satelliti della City londinese (ospite del G 20) abbiano giustamente firmato il loro dodicesimo trattato di scambio di informazioni fiscali qualche giorno prima del 2 aprile 2009?

La debolezza del criterio per uscire dalla lista grigia ha permesso sin dall’inizio di risparmiare numerosi paradisi fiscali conosciuti (Barbados, Isola Mauritius, Jersey ..). In un anno, il G 20 ha anche consentito di “sbiancare” 25 territori, trasformando ad esempio il Lussemburgo, la Svizzera, il Liechtenstein, le Isole Cayman, Monaco, le Bahamas, le Bermuda e Singapore in territori cooperativi.

E’ bastato, per numerosi paradisi fiscali, firmare tra di loro per raggiungere il numero di 12 trattati firmati. Il

2 Va notato che questi dati non prendono in considerazione i trattati di doppia imponibilità firmati dall’aprile 2009, dei quali un buon numero contengono anche una clausola di scambio di informazioni conformi all’articolo 26 del modello OCSE (circa 130). In totale, sono più di 360 le convenzioni che comprendono lo scambio di informazioni dietro richiesta dal G 20 di Londra in poi, secondo Francois d’Aubert, che presiede il Forum mondiale sulla trasparenza e lo scambio di informazioni a fini fiscali animato dall’OCSE (Forum Fiscale Mondiale).

3 http://www.iso.org/iso/english_country_names_and_code_elements

(10)

CCFD ha calcolato, a partire dai dati disponibili sulle liste OCSE 4, che tra i 25 territori “sbiancati”, solo otto non avevano bisogno di altri paradisi fiscali per raggiungere i 12 trattati ed essere inclusi nella lista bianca (e inoltre, cinque di questi hanno avuto bisogno delle Isole Féroé e della Groenlandia).

Un brutto segnale politico

La mancanza di consistenza di questa lista pone diversi problemi:

La lista dell’OCSE, l’unica istituzione internazionale a recensire i paradisi fiscali, serve da riferimento per numerosi attori pubblici e privati. In pratica: secondo i calcoli del CCFD-Terre Solidaire, i 17 che ancora figurano sulla lista grigia, al 25 marzo 2010, rappresentano solamente lo 0,25% del mercato mondiale della finanza offshore (servizi finanziari a non residenti)5. Quindi le banche si avvarranno della loro assenza da qualche piccolo soggetto della lista OCSE per sottolineare la loro virtuosità6. Gli stessi Stati hanno fatto ricorso a questo riferimento distorto fornito dall’OCSE per elaborare le loro politiche sanzionatorie. Ad esempio, la Francia si è basata sulla lista OCSE per elaborare la sua lista di paradisi fiscali e per tassare pesantemente i profitti che da lì provengono.

Una volta che un paradiso fiscale è “sbiancato”, non subisce più alcuna pressione internazionale. I progressi da compiere verso la trasparenza rimangono per questo colossali. Così, per giungere ad una reale riflessione sull’opacità finanziaria di ogni Paese, la rete Tax Justice Network utilizza il numero dei trattati di scambio delle informazioni fiscali solo come uno dei criteri di non trasparenza (vedi www.argentsale.org/les-12- indicateurs-de-lindice-dopacite-financiere.php )

Le liste dell’OCSE forniscono una lettura da “sogno” a chi non intende andare oltre nella lotta ai paradisi fiscali.

4 Solo i trattati di scambio di informazioni sono recensiti (232) sul sito OCSE, e non i trattati di non doppia imponibilità emendati nella stessa direzione (circa 130), dati che saranno disponibili in linea a partire dal settembre 2010. E’ per questo che,i dati disponibili non fanno apparire, per una decina di territori passati sulla lista bianca, i nomi dei dodici territori o più con i quali essi hanno necessariamente firmato (http://www.oecd.

org/datacecd/43/59/43775845.pdf)

5 Calcolo basato sui dati del FMI e del Tax and Justice Network

6 La direzione relazioni con la clientela della Société Gènérale risponde così, il 9 marzo 2010, all’interpellanza di un cliente nel quadro della campagna “Stop ai paradisi fiscali””: “Come sa, l’OCSE ha stilato, sotto impulso del G 20, delle liste di paesi o di territori la cui cooperazione in materia di scambio di informazioni nel settore fiscale è considerata insufficiente. (...) Dall’ultima primavera numerosi paesi hanno firmato le suddette convenzioni e non figurano più, per questo, sulle liste OCSE. E’ il caso in particolare dei paesi nei quali la Société Générale è presente (Monaco, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Singapore)”.

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In teoria, si. In pratica, la storia è un po’ diversa...

Se voi foste il fisco francese e pensaste di avere ragioni serie per ipotizzare che il Sig. Martin non dichiari tutti suoi redditi, e che ha il proprio conto corrente in Liechtenstein, avreste il diritto di rivolgervi alle autorità fiscali del Liechtenstein in virtù del trattato di scambio di informazioni fiscali firmato tra Parigi e Vaduz, che vi dà diritto di avere informazioni sul conto corrente del Sig. Martin. Per questo dovete concretamente:

Sapere che il Sig. Martin ha un conto corrente in Liechtenstein.

Essere a conoscenza del numero di conto e della banca del Sig. Martin (elementi raramente in possesso del fisco).

Riempire una lunga dichiarazione che spiega perché sospettate il Sig. Martin di frode fiscale (spesso, è esattamente questa prova che ricercate chiedendo informazioni al Liechtenstein).

Il Liechtenstein deve giudicare la vostra domanda come “ragionevolmente pertinente” (foreseeably relevant), il che apre un margine di interpretazione.

Occorre che il Liechtenstein disponga delle informazioni richieste : se l’intestatario del conto corrente bancario non fosse il Sig. Martin, ma un prestanome, il Liechtenstein non potrà rispondervi. Esso infatti non ha un registro che consenta alle autorità di conoscere il vero possessore del conto corrente che si nasconde dietro la società che fa da schermo o la struttura giuridica non trasparente (che si chiamano Anstalt in Liechtenstein, Trust in Jersey, ecc.).

La frode, soprattutto quando non è opera del singolo Sig. Martin, ma della multinazionale Martin & Martin Inc., di solito è di molto più difficile individuazione.

L’esperienza non è concludente:

E’ troppo presto per giudicare l’efficacia dei trattati firmati di recente, la cui implementazione sarà oggetto di un preciso monitoraggio da parte del Forum Mondiale sulla trasparenza e lo scambio di informazioni a fini fiscali, o Forum Fiscale Mondiale (vedi domanda 4).

L’isola anglo-normanna di Jersey è elencata negli Stati Uniti, dal novembre 2002, in un trattato di scambio di informazioni fiscali secondo le normative OCSE. Ora, nel 2008 ad esempio, il Jersey è stato sollecitato solamente in 4 casi. Insignificante. Tra Berna e Washington, legati da un trattato di non doppia imponibilità che prevede la cooperazione fiscale (ma non ancora secondo le normative OCSE), gli Stati Uniti, dall’anno 2000, hanno richiesto solo 13 volte alla Svizzera delle informazioni fiscali, tanto l’ottenimento di tali informazioni è blindato. 7 Una cifra da comparare con i 14.700 clienti americani di USB, detentori di conti correnti in Svizzera denunciati al fisco americano a seguito dello scandalo USB del 2009.8

Si poteva agire in modo diverso?

Si:

Da un lato, non c’era l’obbligo di moltiplicare gli accordi bilaterali affinché il fisco del Paese “A” accettasse di cooperare con il fisco del Paese “B”. Tutto ciò porta ad un negoziato di enorme pesantezza soprattutto per i paesi poveri (vedi domanda 10). Il G 20 avrebbe potuto lanciare una convenzione multilaterale di scambio di informazioni e obbligare i paradisi fiscali ad aderirvi, il che avrebbe fatto beneficiare immediatamente tutti i Paesi firmatari della cooperazione fiscale. Questa proposta, avanzata dal governo inglese, potrebbe anche essere realizzata in altra forma. All’inizio dell’aprile 2010, l’OCSE e il Consiglio d’Europa hanno emendato, con l’accordo di 14 Stati firmatari, la Convenzione sulla cooperazione amministrativa della quale essi sono i depositari, in modo da permettere lo scambio di informazioni fiscali su richiesta di tutti gli Stati aderenti. A partire dal 28 maggio 2010, i Paesi in Via di Sviluppo potranno aderirvi e quindi beneficiarne. Resta la sfida di obbligare i paradisi fiscali ad parteciparvi…

Dall’altro lato, si potrebbe adottare un modello di scambio di informazioni fiscali molto più performante:

lo scambio automatico. Questo modello è già in vigore e ben esteso nell’Unione Europea per i prodotti di risparmio. Esso si applica anche tra paesi nordici, così come tra Australia e Nuova Zelanda, o ancora tra Stati Uniti, Canada e Messico per alcuni piatti fiscali.

7 http://www.parlement.chD/Suche/Seiten/geshaefte.aspx?gesh_id=20071026 8 http://www.reuters.com/article/idUSTRE6252N20100322

(12)

I

l

g 20

può pubblIcare unalIsta

4.

esaustIvadeI paradIsIfIscalI

?

La risposta è semplice: no. Difficile immaginare i paradisi fiscali che siedono al G 20 spararsi un colpo alle gambe.

Il 2 aprile 2009 a Londra, il G 20 ha partorito una la lista dei 42 territori “non cooperativi”. Un esercizio di contorsionismo diplomatico. Come spiegare al Lussemburgo perché le isole anglonormanne o le Isole Vergini americane sono improvvisamente sparite dalla lista grigia alla vigilia del Vertice di Londra? Come giustificare ancora il trattamento di favore riservato a Hong Kong e Macao se non con gli interessi diplomatici del G20 verso la Cina? Come, semplicemente, immaginare che un giorno siano nella lista il Delaware o la city londinese, che figurano tra i centri finanziari più nocivi del pianeta come affermato dal Tax Justice Network?

Oggi lo sappiamo: i dirigenti del G 20 hanno scrupolosamente evitato, a Londra, di evocare il problema dei

“trust” che è la versione inglese del segreto bancario svizzero, per non urtare l’ospite del G 20. E’ chiaro: le contraddizioni interne al G 20 rendono illusorie qualunque ambizione di una lista obiettiva, quindi esaustiva, dei paradisi fiscali. Il problema non è nuovo: nel 2000, il sovraintendente delle istituzioni finanziarie del Canada, John Palmer, escluse d’autorità Londra e il Delaware dalla lista che doveva stilare per il Forum di stabilità finanziaria.9

Una lista esaustiva richiederebbe un approccio globale ai paradisi fiscali, giudiziari e prudenziali. Con l’avvicinarsi del G 20 di Londra, Barack Obama e Nicolas Sarkozy richiamarono un simile approccio, al posto del pasticcio che prevale da 10 anni tra la lotta al riciclaggio (GAFI), la lotta contro l’evasione fiscale (OCSE) e la regolamentazione finanziaria (FSF). Non ce l’hanno fatta. Innanzitutto preoccupati di impedire fughe dai loro bilanci in preda alla crisi finanziaria, i Paesi del G 20 hanno privilegiato l’approccio strettamente fiscale del problema proposto dall’OCSE. La lista del GAFI è finalmente uscita nel febbraio 2010 (vedi domanda 9) e quella del Consiglio di stabilità finanziaria potrebbe essere pubblicata entro la fine del 2010. Nell’aprile del 2009, solo l’OCSE era pronto a sdoganare le sue liste.

Un approccio obiettivo e globale al problema richiederebbe che si misurasse il grado di non trasparenza dei paradisi fiscali. Perché sono gli stessi vettori della non trasparenza che proteggono gli speculatori sfrenati, i frodatori del fisco e la rete del crimine. E’ quanto ha intrapreso il Tax Justice Network (TJN), rete internazionale per la giustizia fiscale al quale aderisce il CCFD – Terre Solidaire, con la sua “classifica dei territori non trasparenti”10 . Comprendendo 60 territori 11, si è misurato il grado di non trasparenza sulla base dei dodici criteri (segreto bancario, disponibilità di informazione rispetto ai beneficiari dei trust, ai detentori di società, qualità della cooperazione fiscale, ecc.) 12. Tra i meno trasparenti (indice 100), si trova la Svizzera, le Barbados e le Bahamas – tutti e tre “sbiancati” dall’OCSE. Il Regno Unito (42% di non trasparenza) è soprattutto pizzicato sulle questioni dei trust e dell’informazione bancaria disponibile e sull’accessibilità delle informazioni sui detentori di società. Combinando il grado di non trasparenza con il peso dei centri finanziari offshore, si ottiene un’idea della nocività dei luoghi offshore. Nel gruppo di testa si vedono: gli Stati Uniti (1°), a causa dello Stato di Delaware, la City di Londra (5°), l’Irlanda (6°), il Belgio (9°), l’Olanda (15°)…e altrettanti Paesi risparmiati da tutte le ultime liste dell’OCSE e del GAFI. Si potrà davvero pensare che la comunità internazionale un giorno pratichi il “name and shame” (la stigmatizzazione) nei confronti di tali potenze?

Meccanismo di revisione da parte dei pari del Forum Fiscale Mondiale: è difficile andare oltre?

L’esercizio internazionale più promettente per liste “obiettive” dei paradisi fiscali è la revisione da parte dei pari impegnati dall’OCSE. Fortemente criticato, l’OCSE ha ammesso che integrare la lista bianca non deve significare un sigillo bianco per i paradisi fiscali. Da qui la decisione, presa dal Forum Fiscale Mondiale che raggruppa 91 Paesi, di auto valutare la messa in moto della cooperazione fiscale. Questo meccanismo, detto “di revisione dei pari”, è stato ufficialmente lanciato nel marzo 2010 a seguito della conferenza del Forum Fiscale

9 Thierry Godefroy e Pierre Lascumes, Les Sentinelles de l’argent sale, 2009, p.199.

10 http://www.argentsale.org/data/File/fsi---rankings---2009.pdf

11 Selezionati perché erano stati censiti almeno due volte come paradisi fiscali tra la quindicina di liste pubblicate da diverse istituzioni dopo gli anni ‘70.

12 http://www.argentsale.org/les-12-indicateurs-de-lindice-dopacite-financiere.php

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autorità di controllo (in particolare del fisco) e la cooperazione prevista con le autorità straniere;

un controllo in loco nella fase 2, per giudicare l’effettiva messa in opera dello scambio di informazioni (studio di terreno).

La valutazione dovrebbe condurre ad una nota su 10 criteri. Da qui alla fine dell’anno 2010, un quarantina di territori dovrebbero essere passati in rassegna in fase 1, e alcuni di questi anche in fase 2. Questo nuovo meccanismo, che affronta la questione spinosa dei trust e delle società fittizie, promette una certa pubblicità ai rapporti di valutazione e lascia intravedere la possibilità di una nuova classificazione dei paradisi fiscali nel 2014, deve essere accolto positivamente. E’ probabilmente il massimo che ci si possa attendere da un processo internazionale sottoposto a così tanta pressione diplomatica. Ma è anche una nuova dimostrazione dell’impossibilità di un esercizio completamente esaustivo e trasparente:

Il gruppo di valutazione delle giurisdizioni non cooperative dell’OCSE è oggi presieduto dalla Francia, nella persona di Francois Aubert 13, ma il suo potere è ben limitato dato che la vice presidenza è condivisa con Paesi come Singapore o il Jersey.

L’orizzonte 2014, se non cambia nulla prima di allora, lascia ampiamente tempo ai paradisi fiscali per sbiancarsi a poco prezzo.

Il vantaggio che avranno o non avranno i Paesi in Via di Sviluppo dai progressi compiuti in materia di cooperazione fiscale non sarà oggetto di alcuna valutazione specifica, sebbene un simile criterio, semplice da applicare, avrebbe testimoniato l’interesse del Forum nei loro confronti. I Paesi più poveri sono anche i più esposti alla fuga illecita di capitali.

Il processo di valutazione non sarà aperto alla società civile, e ogni rapporto di valutazione dovrà essere validato, prima della sua pubblicazione, dal Forum Fiscale Mondiale in base alla regola del consenso (cui farà eccezione il Paese valutato). Da qui conseguirà la cancellazione delle asperità che tali rapporti potrebbero comportare.

L’esame delle informazioni disponibili quanto ai trust segnano un progresso dato che questa struttura giuridica 14, comunque al centro della non trasparenza del sistema finanziario internazionale, non è stata sino ad allora oggetto di alcuna attenzione particolare da parte dell’OCSE. Ma Londra ha ottenuto che la revisione dei pari non esamini che un certo numero di soggetti 15.

Ci sono tre modi di affrontare il problema dei paradisi fiscali: chiedere ai territori di porre fine alla non trasparenza;

esigere la trasparenza dagli utilizzatori; esigerla degli intermediari giuridici e finanziari. Focalizzandosi solo sulla prima opzione, attraverso liste irrimediabilmente viziate e processi di controllo lunghi e fastidiosi, la strategia del G 20 lascia dubbiosi. Diversi territori non hanno alcun mezzo di accesso alle informazioni che si sono impegnati a comunicare.

13 Délegué générale alla lotta contro i territori e le giurisdizioni non cooperativi nominato in aprile 2009 a seguito del vertice di Londra.

14 IL Trust (fiducia in italiano) è una specializzazione del diritto anglosassone che vede un “costituente” cedere la sua proprietà di un bene ad una persona di fiducia (un “trustee”) che lo gestisce a beneficio di un terzo.

15 A questo proposito, bisogna citare Jacques Terray, vice presidente di TI-France e membro attivo della piattaforma sui paradisi fiscali e giudiziari:”l’OCSE tratta in modo sufficiente i casi nei quali (1) il trust è stato costituito secondo il diritto dello Stato determinato o (2)il trust è amministrato nel determinato Stato (3) il trust vi risiede. Ma prendiamo l’esempio di un trust costituito secondo il diritto inglese, amministrato nel determinato Stato (cioè il cui portafoglio è gestito) dall’Inghilterra, e che il trustee sia la Barclays Bank di Londra, ma che il portafoglio oggetto di inchiesta fiscale è depositato alle Cayman. Le autorità delle Cayman diranno di non avere modo di rispondere alle domande dello Stato richiedente, e che occorre rivolgersi all’Inghilterra. L’Inghilterra a sua volta dirà che essa non è il luogo di collocazione dei beni dei quali si cerca di stabilire l’origine. Ho preso il caso dell’Inghilterra. Ma rimpiazzando l’Inghilterra con le Barbados o qualunque altra isola poco cooperativa, non spremo mai chi è il beneficiario del trust”.

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Quali sono le più belle vittorie del fisco nell’ultimo anno? 5.

A fronte dei frodatori identificati nel corso degli ultimi 12 mesi, non vince certo l’approccio dell’OCSE.

Non è certo il metodo italiano di amnistia generalizzata verso i frodatori 16. No: i maggiori fornitori di nominativi di frodatori non sono i paradisi fiscali, ma in verità le banche – sebbene a loro insaputa. Vediamo qualche caso istruttivo:

Il caso LGT.

Nel febbraio 2008, la Germania acquista da un vecchio dipendente della banca del Liechtenstein LGT, per un ammontare di 5 milioni di euro, una lista di potenziali frodatori: oltre 1.400 nomi di individui e di imprese 17 residenti in una dozzina di Paesi, tra i quali la Francia, gli Stati Uniti, il Canada, l’Italia, la Spagna, la Svezia e l’Australia. A partire da queste informazioni, Bercy ha ottenuto da 64 famiglie il versamento di 5,2 milioni di euro di imposte non versate, e ha rimesso tre dossier concernenti le imprese al tribunale di Parigi.

Il caso Crédit Suisse.

I risultati probanti del caso LGT hanno convinto la Germania ad adottare il metodo offensivo contro la frode e l’evasione fiscale. A prova di ciò, la Germania ha acquistato in febbraio, per 2,5 milioni di euro, un CD contenente più di 1.500 nomi di clienti tedeschi del Crédit Suisse detentori di conti correnti in Svizzera; da allora, sono circa 11.200 i frodatori del fisco tedesco che sono stati denunciati.

L’amministrazione fiscale tedesca conta oltre un miliardo di euro di imposte pregresse.

Il caso UBS.

La passività delle autorità svizzere l’avrà vinta sulla pazienza delle autorità fiscali americane.

Dopo una ventina di domande di informazioni fiscali con la Svizzera, formulate nel giugno 2008 a seguito di un accordo di non doppia imponibilità, il fisco americano (IRS – Internal Revenue Service) ha scelto un metodo più diretto. Il governo americano minaccia di ritirare alla USB la licenza che gli consente di esercitare negli Stati Uniti a meno che essa non riveli i dati bancari di 250 clienti americani. La prima banca a livello mondiale, che realizza un terzo dei suoi profitti negli Stati Uniti, si vede obbligata ad adeguarsi e a versare 900 milioni di dollari di multa. Il mese successivo, la Svizzera adotterà gli standard dell’OCSE per l’assistenza amministrativa in materia fiscale. Troppo tardi: gli Stati Uniti avranno già avviato nuovi procedimenti giudiziari contro la banca per ottenere le informazioni relative a 52.000 conti correnti della USB. Dopo uno scontro diplomatico tra Berna e Washington, un accordo concluso nell’agosto del 2009 ha previsto la trasmissione di informazioni che riguardavano 4.450 conti correnti svizzeri di clienti americani. Di fronte alla minaccia, sono più di 14.700 i contribuenti che si sono denunciati spontaneamente al fisco americano (dato comunicato del IRS il 17 novembre 2009). La giustizia svizzera dal gennaio 2010 si è, invano, mostrata compiacente ai tentativi di ostacolare la trasmissione dei 4.450 nominativi, e l’IRS ha già recuperato i suoi costi.

Il caso HSBC.

La Francia ha anch’essa sperimentato l’efficacia delle liste bancarie nel caso “Falciani”, dal nome dell’ex dipendente della filiale svizzera di HBSC Private Bank che ha derubato e fornito al fisco e alla giustizia francese informazioni che riguardano 13.000 clienti della banca, di nazionalità diverse. Bercy, che assicura di aver potuto stilare una lista di 3.000 contribuenti francesi che hanno nascosto capitali in Svizzera, ha probabilmente impaurito alcuni frodatori, e così facendo ha “dopato” l’attività della sua “cellula di regolarizzazione” dei capitali nascosti (il rimpatrio volontario comporta l’annullamento del procedimento penale). Quest’ultima ha così portato al trattamento di 3.500 dossier, ovvero 6 miliardi di fondi regolarizzati, tra i quali 700 milioni del Ministero del Tesoro francese. Se, come indica Eric Woerth, all’epoca ministro del Bilancio, il fisco si è servito della sua lista di 3.000 nomi, l’ammontare di fondi rimpatriati potrebbe aumentare ulteriormente.

16 La misura ha sicuramente riportato 100 miliardi di euro (tassati al 5%), cosa che le vale le lodi di alcuni. Ma l’efficacia del dispositivo è soggetto a cauzione: essa si deve rapportare all’ammontare delle somme piazzate offshore. Ora, secondo lo SNUI, il principale sindacato delle imposte francese, “la nostra ratio di regolarizzazione è migliore”, in quanto ci sarebbero all’incirca 400 miliardi di beni francesi nascosti in Svizzera. Inoltre, i frequenti ricorsi dell’Italia a questo tipo di amnistia per i frodatori incita alla recidività. Soprattutto, Roma si è dimostrata poco attenta quanto alla provenienza dei fondi rimpatriati tanto che il GAFI, l’organismo internazionale incaricato della lotta al riciclaggio, ha aperto un’indagine.

17 Les Echos, 25 febbraio 2008.

(15)

di trasmissione di informazioni al fisco da parte dei paradisi fiscali, invece che rivolgersi direttamente agli intermediari finanziari? Di certo, sarà preferibile non doversi rimettere al furto o all’occultamento degli archivi informatici per braccare i frodatori. Ma ciò è di esclusiva competenza dei governi (vedi domanda 7).

(16)

I paradisi fiscali si stanno spaventando? 6.

Alcuni paradisi fiscali si innervosiscono. Non la City londinese evidentemente, né gli Stati americani come il Delaware, il Wyoming o il Nevada – esclusi d’autorità dalle liste ufficiali

dei paradisi fiscali. Gli altri si sentono vulnerabili.

La Svizzera sta attuando la sua rivoluzione?

All’inizio del marzo 2010, la direzione del partito liberal-radicale svizzero, situato a destra, ha suscitato scalpore rimettendo apertamente in causa il segreto bancario per i casi di sottrazione al fisco estero (il che in Italia corrisponde a reato fiscale ma, per il momento, non in Svizzera). Essa ha anche evocato l’idea di obbligare le banche svizzere a non detenere che i fondi dichiarati al fisco nei rispettivi Paesi di origine! Una presa di posizione che fa eco al “manifesto per un riorientamento della politica fiscale” lanciato in novembre 2009 da una trentina di parlamentari e da una coalizione di ONG, sindacati, ricercatori, artisti e chiese. Secondo un sondaggio recente, il 73% degli svizzeri si oppone alla soppressione del segreto bancario, ma oltre il 60% giudica ineluttabile la sua evoluzione nei prossimi cinque anni 18. L’evoluzione non è banale, visto che tra la Germania, la Francia, gli Stati Uniti e l’Italia, la cassaforte svizzera è stata oggetto di ogni avidità nel corso degli ultimi mesi (vedi domanda 5). Rimane il fatto che le autorità svizzere negozino con tenacia ogni concessione – esse cercano di ottenere delle condizioni di “regolarizzazione” il più indulgenti possibile (amnistia) per le persone che hanno depositato i loro fondi in Svizzera prima dell’entrata in vigore dei nuovi accordi di cooperazione fiscale firmati – ma non ancora ratificati – lo scorso anno. La Svizzera è un caso a sé, dato che la sua leadership in materia di gestione di fortune private è così indiscussa e la sua tradizione democratica così solida, che si può permettere più che in altre situazioni di dibattere pubblicamente di questa questione.

Tensione autoritaria

In altri eden fiscali, la paura delle autorità si traduce in repressione. Nell’Isola di Jersey, dove alcune ONG hanno visitato le banche qualche giorno prima del G 20 di Londra 19, gli abitanti contestatori si dichiarano isolati, ovvero esclusi da impieghi pubblici. Alla partenza dell’ultimo Tour de France a Monaco, nel luglio 2009, i militanti di ATTAC sono stati respinti con i loro manifesti, mentre quelli del CCFD –Terre Solidaire hanno trascorso il pomeriggio in caserma. Il loro crimine? Aver voluto diffondere dei volantini per sensibilizzare i passanti sui paradisi fiscali e sul loro impatto nei Paesi dei Sud … 20. La corda è così tesa che il Principato ha affidato, dal luglio 2009, la missione a diversi esperti in comunicazione per riqualificare l’immagine di casa – un investimento che dovrebbe costare milioni di euro. Per il Principe Alberto non è possibile lasciar tacciare Monaco di essere un “paradiso fiscale” 21. Il primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker anch’egli non si lascia più sorprendere e ottiene le scuse dalla direttrice di France 2, nell’ottobre 2008, per la diffusione di un reportage che ha osato insinuare che il Gran Ducato fosse teatro di un’operazione di riciclaggio. Nell’agosto 2009, sono le ONG lussemburghesi ad essere ridotte al silenzio dall’azione della lobby bancaria (ABBL) e del governo Juncker 22. Minacciate di rappresaglie finanziarie, sono state costrette a smentire il rapporto esplosivo che avevano appena pubblicato sul ruolo deleterio della piazza finanziaria lussemburghese per i Paesi dei Sud23.

18 Sondaggio condotto nel gennaio 2010 dall’ “Institut MIS Trend” per conto della “Association Suisse de banques”.

19 Vedi il film realizzato in questa occasione da Zoe Young su http://www.youtube.com/watch?v=XmACN2sJvrQ

20 In occasione del “Tour de France des paradis fiscaux” su iniziativa della piattaforma contro i paradisi fiscali e giudiziari; tanto che per la prima volta nella sua storia, la Grand Boucle ha attraversato Monaco, Andorra e la Svizzera.

21 Nice Matin, “Monaco non è un paradiso fiscale” detto dal Principe Alberto il 24 novembre 2008.

22 Jérome Tuckey ritorna su questo episodio nel suo blog: http://www.cfo-news.com

23 Questo studio di Rainer Falk afferma che da sola la fortuna privata in Lussemburgo comporta perdite per 2,5 miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo, ovvero sei volte la somma consacrata dal Lussemburgo all’aiuto allo sviluppo (409 milioni di dollari).

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miliardi nel 2007. Per aver costruito il bilancio pubblico su di una contribuzione del settore finanziario a pro rata dei suoi dipendenti, si sono ritrovati sull’orlo del fallimento sotto l’impatto della crisi. Al punto di dover ristabilire un’imposta diretta scomparsa dal 179.. Panama, preoccupato di vedere la BPN – Paribas chiudere bottega, ha inviato a fine gennaio 2010 il suo Ministro dell’Economia e delle Finanze ad incontrare Christine Lagarde per tentare di sfuggire alla lista dei paradisi fiscali stilata da Bercy 24. Fatica inutile, fortunatamente.

Paradisi vulnerabili, utilizzatori intoccabili?

La vulnerabilità è inerente ai paradisi fiscali. Luogo di delocalizzazione virtuale dell’economia, i loro territori e i loro abitanti importano poco. Il solo interesse che essi rappresentano agli occhi dei visitatori “informatici” (dato che basta un click per installarsi), è la malleabilità della loro sovranità. Multinazionali e persone ricche spesso non fanno che transitare offshore. Cambiare area di transito non potrebbe scomporli, a patto che ci sia non trasparenza. E’ li che si colloca la vulnerabilità dei paradisi fiscali. Pronti a svendere la loro sovranità ai logisti della finanza e della contabilità offshore, che sono le grandi banche e i “quattro grandi” della certificazione e della consulenza 25, questi piccoli territori sono alla mercede di uno scandalo o di un cambiamento di contesto internazionale. L’esperienza di Nauru, l’Isola del Pacifico caduta in miseria dopo la sua messa al bando da parte delle Nazioni Unite lo testimonia.

Ad eccezione dei piccoli ereditieri di conti in Svizzera che, divorati dal rimorso, hanno fatto la coda davanti alla cellula di “sgrigiamento” messa in campo da Bercy, la paura non ha presa sui principali utilizzatori dei paradisi fiscali. Grazie ai loro consiglieri finanziari e giuridici, gli “ultra ricchi”26 e le multinazionali hanno una incredibile capacità di adattamento alle variazioni della geografia offshore. Il Liechtenstein fa uno starnuto?

Direzione Singapore. Intoccabili, dite?

24 Vedi Anne Cheyvialle, “Le Panama, pret à sortir de la liste des paradis fiscaux” Le Figaro, 27 gennaio 2010

25 Altre volte, le “big five” con Arthur Andersen, hanno designato in questo modo i quattro leader di settore: Ernst & Young;PriceWaterhouse Coopers;Deloite;KPMG.

26 Secondo “High Net Worth Individuals”.

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Cos’è cambiato per le banche? 7.

Non completamente risparmiate dalla posizione del G 20 contro i paradisi fiscali, le banche subiscono solo timide ripercussioni.

Delle regole prudenziali che tardano ad evolversi

Al centro della debacle finanziaria e sottomesse alla vendetta delle opinioni pubbliche, le banche hanno visto evolvere il loro ambiente nel corso degli ultimi 18 mesi. Ma paradossalmente, mentre i paradisi fiscali si sono ritrovati sotto il fuoco incrociato nel mezzo della crisi finanziaria, è sul fronte delle regole prudenziali relative alle attività offshore che le cose sono cambiate di meno:

Il G20 ha richiesto al Consiglio di Stabilità Finanziaria (CSF) di produrre nuove liste di centri finanziari offshore che presentano un rischio per la stabilità finanziaria internazionale, come fece nel 2000 il suo predecessore, il Forum di Stabilità Finanziaria (FSF). Ora queste liste e le raccomandazioni con le quali esse potrebbero essere completate, se l’esercizio funziona, non sono attese prima della fine del 2010. E’ il direttore del Tesoro francese, Ramon Fernandez, che anima i lavori del CFS in questa direzione. Nell’attesa, sembra difficile imporre alle banche una accresciuta prudenza finanziaria in questi paradisi prudenziali, dato che non si hanno a disposizione le liste. Tuttavia è intenzione chiara della Francia, in preparazione del G 20 di Londra, da un lato accrescere le esigenze di trasparenza e di rendicontazione e dall’altro aumentare le percentuali di fondi propri per le banche che operano in centri finanziari mal regolati.

Anche il progetto di direttiva europea che mira a regolare gli hedge fund (fondi speculativi) ha fallito, il 16 marzo 2010, sotto pressione della Gran Bretagna. Il progetto di Londra? Un passaporto europeo che permetta agli hedge fund che obbediscono alle regole dubbiose delle Isole Cayman o delle Bermuda di commercializzare liberamente i loro prodotti in Europa.

Difficile, anche, poter affermare con certezza che le banche hanno messo fine alle pratiche di deconsolidamento contabile, che hanno permesso ad alcuni di mentire sulle quote dei loro fondi propri. Quale non fu la reazione, ad esempio, del parlamento britannico quando si accorse che l’essenziale dei crediti della banca Northern Rock, che aveva appena nazionalizzato per impedirne il fallimento, era collocato in una società di facciata nel Jersey, chiamata Granite, senza nessun legame giuridico con la Northern Rock. Le banche assicurano di aver epurato i loro attivi, e il G 20 le ha fortemente incitate, ma quale garanzia offrono di non avere contabilità fuori bilancio?

Il G 20 non sembra aver cercato un rafforzamento della cooperazione tra le autorità borsistiche in materia di insider training – anche se alcune banche si sono avvantaggiate, Crédit Suisse che aveva avvisato per posta nel giugno 2009, i suoi clienti che, da quel momento in poi, avrebbe dovuto rispondere alle richieste di informazione delle autorità borsistiche straniere.

Qualche progresso verso la trasparenza

E’ in materia di trasparenza che alcuni progressi sono da registrare:

A seguito dei risultati probanti del fisco americano nell’affare UBS, l’amministrazione Obama sembra aver compreso tutto l’interesse ad esigere più informazioni dalle stesse banche, invece che contare sulla buona volontà a cooperare da parte dei paradisi fiscali. In effetti, il Senato americano ha approvato, il 24 marzo 2010, una nuova legge che obbligherà, a partire dal 2013, le società finanziarie straniere a comunicare all’IRS le loro relazioni bancarie con i contribuenti americani. L’Irlanda disponeva già di una legislazione simile così come, in misura minore, il Regno Unito.

La Francia ha rafforzato l’obbligo per le banche di trasmettere la lista dei trasferimenti di un certo importo effettuati dai loro clienti, ma unicamente verso piazze finanziarie “strategiche” come Niue, Saint Vincent e

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Paribas, hanno preferito annunciare, nell’ottobre 2009, la loro intenzione di ritirarsi prima del 31 marzo 2009 dai territori non cooperativi. Solo un manipolo di filiali sono coinvolte.

Una questione di immagine

Ciò che è veramente cambiato per le banche, è la loro percezione da parte dell’opinione pubblica:

Il loro ruolo nella e dopo la crisi ha sollevato l’incomprensione, spesso la collera, in particolare negli Stati Uniti.

Visto da un’angolatura diversa, il Congresso americano ha appena pubblicato un sostanzioso rapporto senza concessione sul ruolo che le banche americane hanno nel riciclaggio dei fondi dei quali si sono appropriati i dirigenti africani 28 .

In Francia, le banche hanno compreso che sui paradisi fiscali si gioca una parte della loro immagine. Interrogate dai loro clienti sulla loro presenza nei paradisi fiscali, su iniziativa della campagna “Stop ai paradisi fiscali” 29, le banche hanno deciso di comunicare in merito. Al punto che gli analisti di borsa scrutano l’impatto in corso d’opera a seguito dell’uscita della branca di gestione privata di BNP – Paribas dalle Bahamas, dalle Isole Cayman e da Panama 30.

27 Il decreto ministeriale di ottobre 2009 precisa il quadro della legge: le banche dovranno pubblicare la lista delle loro istallazioni “dirette o indirette”. Sono comprese le “succursali”, le “filiali” e le “partecipazioni in altre entità” che le banche controllano totalmente o parzialmente

“nei territori che non hanno concluso convenzioni di assistenza contro l’evasione fiscale con la Francia. Le istallazioni dovranno anche rendere pubblica “una descrizione della natura delle attività per ognuna delle istallazioni” così come “la denominazione sociale, la percentuale di capitale, i diritti di voto detenuti e la forma giuridica” di queste entità.

28 Sotto comitato permanente alle inchieste del Senato americano (presieduto da Carl Levin), Keeping Foreign Crruption out of the United States:

Four Case History, febbraio 2010

29 Vedi http://www.stoppardisfiscaux.fr/stop-pardis-fiscaux-appelle-les-citoyens-%C3%AO-demander-des-comptes-%C3%AO-leur-banque 30 Vedi http://www.latribune.fr/bourse/20100402trib000494958(le-marche-apprecie-que-bnp-paribas-fasse-une-croix-sur-les-paradis-fiscaux.html

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Cos’è cambiato per le multinazionali? 8.

Molto poco. Tanto i particolari sono stati messi all’indice dai governi dei G 20, tanto le multinazionali sono rimaste praticamente fuori dal radar degli Stati del G 20.

Nuove leggi in Francia

Di certo occorre rendere merito al governo ed al parlamento francesi. Con la manovra di correzione della finanziaria adottata a fine del 2009, Parigi si è dotata di un arsenale legislativo per combattere la frode e l’evasione fiscale delle sue imprese nei paradisi fiscali: creazione della nozione di territori non cooperativi, tassazione al 50% (contro fino al 33% di prima) delle somme versate in questi Stati e degli interessi e dividendi provenienti da somme ivi depositate, perdita del beneficio madre-figlia per le filiali istallate in questi territori (il risultato delle filiali non potrà più essere riversato al gruppo in franchigia di imposta: sarà soprattassato fino al 50%), o ancora rafforzamento della contabilità per le transazioni con questi territori ….. in sintesi, le transazioni con gli Stati o i territori non cooperativi sono monitorate e tassate in maniera del tutto particolare dal 1 marzo del 2010.

Il pericolo delle liste

Il problema, come per le banche, è che l’efficacia del dispositivo dipende da ciò che si considera essere un paradiso fiscale – o meglio un “territorio non cooperativo”. Ora, la lista francese si rivela più permissiva di quella dell’OCSE, risparmiando i territori della “lista grigia” che hanno firmato un trattato di scambio di informazioni con la Francia. Infine, l’ira di Parigi si concentra sui 18 territori aneddotici. Il CCFD – Terre Solidaire ha calcolato che sulle 1.500 filiali che detengono le imprese del CAC 40 nei paradisi fiscali 31, solamente sei sono coinvolte: Banque Populaire (2), BNP-Paribas e l’Oréal a Panama, Schneider in Costa Rica e Air Liquide in Brunei.

Resta il fatto che la portata della misura non potrà che essere realmente valutata nel tempo perché la Francia si riserva il diritto di fare evolvere, ogni anno, la sua lista di territori non cooperativi in funzione dell’efficacia della cooperazione fiscale con ciascun paese terzo.

Documentare i costi di trasferimento?

Altra misura da mettere a credito di Bercy: l’obbligo per le grandi imprese (bilancio di oltre 400 milioni di euro) di tenere a disposizione dell’amministrazione fiscale la documentazione relativa ai costi di trasferimento.

In altri termini, una multinazionale deve poter spiegare, fatture alla mano, i costi che applica tra le diverse filiali. La questione non è di poco conto: la grande maggioranza delle multinazionali gioca sulle transazioni commerciali, i trasferimenti del debito, ecc. tra le sue diverse filiali per localizzare i profitti nelle filiali meno tassate. L’obiettivo della misura, per il fisco, è quindi pertinente: vigilare sul rispetto del principio di “piena concorrenza” che vuole che una transazione tra filiali di una società si effettui a prezzo di mercato. Ma il metodo è poco vincolante: il parlamento aveva inizialmente proposto che la documentazione fosse obbligatoriamente allegata alla dichiarazione dei redditi, il che avrebbe permesso alle autorità fiscali di vigilare sull’utilizzo dei costi di trasferimento e non semplicemente “a disposizione” nel caso di un’ipoteca fiscale controllata che implichi delle indagini preliminari tanto laboriose quanto incerte. In aggiunta, allorquando la documentazione non è disponibile, la multa non è assolutamente dissuasiva considerati i montanti in gioco: solamente 10.000 euro. Altra difficoltà, infine, al centro delle manipolazioni dei costi di trasferimento: queste transazioni sono sull’immateriale il cui valore di mercato è sconosciuto o incerto (royalty sulle marche o sui brevetti, spese di sede, servizi giuridici, riassicurazioni,..) e rimane molto difficile per l’ispettore del fisco dimostrare l’abuso.

Rimedio dimenticato

31 Calcolo basato sulle informazioni pubblicate nel marzo 2009 da Alternatives écnomiques quanto alla presenza del CAC 40 nei paradisi fiscali.

Occorre tuttavia notare che Alternatives écnomiques non include tra i paradisi fiscali le Filippine e il Guatemala che figurano sulla lista francese.

D’altro canto, lo studio del mensile si basa sui rapporti annuali delle imprese. Ora, esse non avevano alcun obbligo di fornire una lista esaustiva delle loro filiali: così Alternatives écnomiques non ha trovato nessuna indicazione per quattro imprese del CAC 40. Altri forniscono una lista incompleta, al riguardo di BNP-Pribas, che ha comunicato la sua uscita da Panama (noi l’abbiamo qui contabilizzata) quando questa filiale non è recensita nello studio citato. Infine, occorre notare che BNP-Paribas ha deciso di chiudere ugualmente le sue filiali di gestione delle fortune private alle Bahamas e alle Isole Cayman, quindi assenti dalla lista stabilita da Bercy.

(21)

con la realtà delle loro attività industriali e commerciali (ovvero iscrivere tra le norme internazionali contabili l’obbligo di rendicontazione paese per paese), è esattamente ciò che il CCFD-Terre Solidaire con la rete Tax Justice Network e numerose altre ONG, chiedono da lungo tempo. L’idea avanza (vedi domanda 11). Il G 20 saprà coglierla?

32 “Paradis fiscaux:le patronat défend les entréprises de bonne foi”, Les Echos, 8 dicembre 2009.

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Cos’è cambiato per il crimine organizzato e per la corruzione? 9.

Poco o nulla. Il G 20 si batte contro i paradisi fiscali per altre ragioni. La lotta contro il riciclaggio potrebbe anche perdere terreno.

Il G 20 si è occupato del problema dei paradisi fiscali essenzialmente per due motivi: dare una risposta all’opinione pubblica a fronte della crisi finanziaria; sbloccare le casse dello Stato in un periodo di vacche magre (lo scandalo del Liechtenstein nel febbraio 2008, ha segnato il vero punto di partenza dell’impegno franco-tedesco contro i paradisi fiscali). Nel 2009, la lotta contro la corruzione e il riciclaggio di denaro sporco apparivano come questioni annesse – il G 20 si accontenta dunque di reiterare gli appelli formulati in passato dal G 8 per rafforzare gli sforzi in materia.

La lista inattesa

E no sarà certo la lista pubblicata dal GAFI 33 nel febbraio 2010 che cambierà le cose. Frutto di un esercizio di valutazione incomprensibile, la lista del GAFI non spunta nessun centro finanziario. Al banco degli accusati:

solamente i paesi in via di sviluppo, ad eccezione della Grecia. Si tratta di un esercizio di assoluzione generale dei paradisi giudiziari? Che ne è stato quindi dei lunghi rapporti di valutazione prodotti dal GAFI nel corso degli ultimi anni e che fanno vedere il permissivismo di numerose piazze finanziarie verso il denaro sporco (vedi tabella)? A cosa è servito aver messo in evidenza la non conformità generalizzata dei centri finanziari con le 40 raccomandazioni anti riciclaggio (+ 9 raccomandazioni contro il finanziamento al terrorismo)?

Il Lussemburgo ne esce bene

L’esempio è eloquente. Il rapporto di valutazione del Lussemburgo, apparso in febbraio, lo giudica conforme solo al 20% con le raccomandazioni del GAFI. Il che significa che sulle 49 raccomandazioni oggetto della valutazione, non ce ne sono dieci per le quali il Gran Ducato è giudicato “conforme” o “molto conforme”. Il Lussemburgo è giudicato parzialmente in conformità con 30 raccomandazioni, e sicuramente “non conforme”

rispetto a 9 raccomandazioni. Al setaccio per il reato di corruzione e terrorismo, il Gran Ducato aveva il profilo ideale per figurare sulla lista del GAFI ed essere oggetto di misure drastiche di ritorsione. Beh! Il GAFI ha preferito focalizzarsi sul Kenya e l’Ecuador ….

Paradisi giudiziari

L’incomprensibilità della lista del GAFI presagisce un arretramento della comunità internazionale nella lotta contro la corruzione e la criminalità transnazionale? La vicinanza di certi Stati del G 20 con la malavita non incoraggiano certo l’ottimismo. Non più dell’incapacità, del novembre 2009, degli Stati firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (detta “di Merida”) a mettere in campo un meccanismo di monitoraggio degno di tale nome34! Quando la restituzione dei beni dirottati dai dittatori aveva marcato dei punti nel corso degli ultimi anni, gli ultimi dodici mesi hanno visto soprattutto la Svizzera restituire il denaro di Duvalier e di Mobutu alle loro rispettive famiglie, e la giustizia francese rifiutarsi di aprire una inchiesta sull’affare dei “beni mal comperati” di molti dirigenti africani 35. L’impunità che offrono i paradisi fiscali alla grande delinquenza economica e finanziaria starà guadagnando terreno?

33 Il Gruppo di Azione Finanziaria (GAF) è un organismo intergovernativo creato dal G 7 nel 1989 per lottare contro il riciclaggio dei capitali e il finanziamento del terrorismo, a partire dalla pubblicazione dei nomi.

34 Vedi www.unaccoalition.org

35 Su questo tema vedi www.ccfd.asso.fr/BMA

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(24)

10

.

Cos’è cambiato per i Paesi in Via di Sviluppo?

Ahimè, nulla.

36

. Per il momento

37

.

36 A parte i grandi emergenti, i Paesi in Via di Sviluppo sono esclusi dal G 20. Risultato: la lotta del G 20 contro i paradisi fiscali non serve praticamente che ai paesi ricchi. Su 232 trattati di scambio di informazioni fiscali firmati dall’aprile 2009, solo dieci (ovvero il 4%) sono stati in favore dei paesi emergenti vittime dell’evasione (Argentina, Messico, Cina). E ancora, la Cina ne è vittima grazie al fatto che Hong-Kong e Macao non sono giudicati cooperativi. Nessun trattato è stato firmato con un paese povero.

37 La consapevolezza del peso dei paradisi fiscali fa progressi sia nei paesi del sud, sia in seno alle amministrazioni che al parlamento europeo hanno degli ambiti internazionali (vedi domande 11 e 12). Ad oggi unica traduzione in concreto: l’OCSE ed il Consiglio d’Europa hanno annunciato il 6 aprile 2010 di aver emendato la convenzione relativa alla cooperazione amministrativa della quale sono depositari, in modo da permettere lo scambio di informazioni fiscali su richiesta di qualunque Stato firmatario. Dalla fine di maggio, i paesi in via di sviluppo potranno, aderendo a questa convenzione, beneficiare dello scambio di informazioni fiscali con tutti i firmatari. Resta di convincere i paradisi fiscali alla firma.

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La scelta, da parte del G 20, di fare della lotta contro i paradisi fiscali un elemento visibile della sua reazione alla crisi è sicuramente dettata dalla centralità della questione, ma anche

dalla volontà di rispondere alle forti attese dell’opinione pubblica al riguardo.

Un’ascesa potente

Questa mobilitazione ha tra i suoi pionieri, a livello internazionale la rete Tax Justice Network (TJN) nata nel 2002, o ATTAC e Survie nate in Francia dopo la fine degli anni 1990. Essa si struttura in Francia dal 2005 attorno alla piattaforma paradisi fiscali e giudiziari, animata dal CCFD-Terre Solidaire e che oggi conta di una quindicina di ONG e sindacati (tra i quali Transparence International, ATTAC, il SNUI, il Secour Catholique, il sindacato della magistratura o ancora Oxfam Francia), e si è allargata ai grandi sindacati dei salariati (CFDT, CGT, Solidaires) nel 2009 con il lancio della campagna “stop ai paradisi fiscali”. La questione fiscale oggi mobilita molti soggetti in Europa: reti tematiche (EURODAD), confessionali (CIDSE), ONG internazionali (Christian Aid, Action Aid, Oxfam) o ancora i sindacati. Le rete per la giustizia fiscale è nata in Africa nel 2007, poi in America Latina nel 2009 attorno alla rete Latinidad.

Competenza riconosciuta

Questo impegno nel tempo, data la convergenza di diverse reti, ha permesso alla società civile di elaborare una competenza specifica e di essere regolarmente consultata dai gabinetti ministeriali e dagli alti funzionari, i parlamentari nazionali ed europei, dalla Commissione Europea, dall’OCSE o dalle Nazioni Unite. Ad esempio:

i dati prodotti dal think tank americano Global Financial Intergity, animato da Raimond Baker, sono di riferimento per la fuga di capitali subita dai Paesi in via di sviluppo.

In occasione della conferenza ONU sul finanziamento dello sviluppo a Doha a fine 2008, le ONG hanno convinto la Francia, la UE e poi le Nazioni Unite a porre la lotta contro l’evasione fiscale e la fuga illecita di capitali al centro della dichiarazione finale.

Su richiesta del CCFD-Terre Solidaire e di Oxfam France, l’amministrazione francese ha creato nel settembre 2009 un gruppo di lavoro interministeriale sulle risorse fiscali per lo sviluppo, al quale partecipano attivamente le ONG. Esso mira a produrre raccomandazioni che la Francia potrà portare nei forum internazionali.

Le ONG hanno anche portato l’OCSE a creare una task force internazionale “fiscalità e sviluppo” che associa governi, organismi internazionali, ONG (tra le quali CCFD – Terre Solidaire) 38 e imprese, che ha avviato i suoi lavori nel maggio 2010.

Influenza in crescita

Combinando una lobbying efficace con azioni multiple di interpellanza, le ONG hanno contribuito a mediatizzate il soggetto e sono riuscite a mettere sul tavolo dei negoziati diverse proposte. Esempi:

la tenacia della Francia, al G 20 di Londra, nell’ottenere una lista dei paradisi fiscali risponde ad una rivendicazione di lungo corso della piattaforma paradisi fiscali e giudiziari. Nel novembre 2008, le ONG cattoliche lanciano, con la rivista Pélerin, una petizione che chiede alla Francia di fare pulizia fuori casa. Dopo le 30.000 firme raccolte, N. Sarkozy chiede per la prima volta ad Andorra e Monaco di mettersi in riga.

Primavera 2009: i militanti di Oxfam Francia e del CCFD-Terre Solidaire si mobilitano per ottenere dalla UE

38 Siedono ugualmente il Tax Justice Network e il TJM Africa, EURODAD, Christuian Aid e Latinidad.

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un registro dei trust e un obbligo di trasparenza paese per paese per le multinazionali 39. Giugno 2009: la metà degli eurodeputati francesi eletti si impegnano per iscritto a difendere queste proposte e il 23 giugno a Berlino, l’idea del registro è ripresa da Christine Lagarde. 2 aprile 2010: intervista a Francois Aubert, nominato da N.

Sarkozy un anno prima come delegato alla lotta contro i paradisi fiscali. Egli formula due proposte: “Sono favorevole alla creazione del registro dei trust (….); occorre che le multinazionali presentino i loro risultati paese per paese 40”.

Nel Regno Unito l’azione combinata di Action Aid, Christian Aid e Tax Justice Network convince Gordon Brown a spingere per una Convenzione multilaterale di scambio di informazioni fiscali, con la benedizione di Parigi, spinta dalle ONG francesi. La suddetta convenzione sarà aperta alla firma dei paesi in via di sviluppo a fine maggio 2010. L’intesa cordiale c’è, il 6 luglio 2009, tra Nicolas Sarkozy e Gordon Brown per chiedere all’OCSE di occuparsi della proposta di punta del CCFD-Terre Solidaire e delle ONG inglesi: la trasparenza contabile e fiscale delle multinazionali paese per paese.

Gli sforzi combinati della campagna “Publish what you pay” e del TJN hanno convinto alcuni investitori a chiedere una revisione della norma contabile internazionale che si applica al settore estrattivo (norma IFRS6).

Dal 7 aprile 2010, una nuova versione della norma è proposta dalla ASB 41 (l’organo che elabora queste norme) e aperta ai commenti per 4 mesi. La battaglia sul livello di dettaglio delle informazioni che dovranno fornire le imprese minerarie e petrolifere è aperta.

La società civile non si fermerà lì

Essa ha imparato con l’esperienza che per essere significativi, i cambiamenti si ottengono con il tempo. La mobilitazione nel mondo contro i paradisi fiscali va quindi a durare e ad amplificarsi. In Francia in particolare, la campagna “stop ai paradisi fiscali” nella quale è fortemente impegnato il CCFD-Terre Solidaire non cessa di innovare (azioni sindacali in seno alle istanze rappresentative del personale, azioni di piazza, firme di appelli, lettere alle banche …) e di riunire nuovi attori: investitori “responsabili”, dirigenti di impresa, esperti contabili, amministratori locali (come la regione Ile-de-France che intende interrompere le sue relazioni con le strutture finanziarie operanti offshore). Nel mirino: il G 20 di Cannes del 2011.

39 Campagna “Hold up international. Affinché l’Europa regolamenti le sue multinazionali”. Vedi http://ccfd-terresolidaire.org/hold-up 40 Vedere ad esempio il recente articolo de La Tribune.fr del 2 aprile 2010, che riporta l’intervista con il delegato francese alla lotta contro i paradisi fiscali.

41 International Accounting Standards Board.

Riferimenti

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