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La Doma Tradizionale

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Academic year: 2021

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DOMA TRADIZIONALE

Introduzione

La doma è quella fase in cui l’uomo entra in contatto con il cavallo e lo mette in condizione di obbedirgli ed eseguire le sue richieste, in generale, domare significa rendere mansueto un animale. L’addestramento è la fase successiva alla doma, in cui vengono insegnati all’animale determinati esercizi ed una determinata disciplina. Può essere definito come la modificazione intenzionale della frequenza e/o intensità di specifiche risposte comportamentali, che possono essere ottenute tramite rinforzi positivi, negativi o punizioni (Waran & Casey, 2005).

I metodi di doma sono numerosi e legati alla tradizione di ogni popolo. Intendiamo per doma tradizionale quella che, nelle varie sfumature e peculiarità tipiche di ognuna, prevede che l’uomo si imponga al cavallo e si faccia rispettare con la forza e con meccanismi di premi e punizioni. Prenderemo in esame quindi alcuni principi e tecniche al riguardo.

Origini dell’addestramento

Lo stile Europeo

La scuola Europea è rimasta, per molti aspetti, inalterata da quella che i Greci misero a punto per domare i cavalli per la guerra, il trasporto e le competizioni. La scuola “classica” d’equitazione ha le sue origini in campo militare, dove l’elevata prestazione del cavallo era indispensabile per il successo in battaglia. L’equitazione moderna e lo stile inglese si sono sviluppati sotto questa influenza e successivamente si è evoluta nello “stile caccia” e nel dressage. Qualsiasi uso del cavallo, escluso quello come mezzo di trasporto, fu influenzato principalmente dall’aristocrazia del sedicesimo secolo, che stabilì lo stile di svolgimento delle competizioni, in un modo piuttosto formale e stilizzato. In quel tipo di società, i cavalli erano tenuti in stalla piuttosto che nei prati, a differenza che in America.

Lo Stile Western

I cavalli furono reintrodotti in America nel sedicesimo secolo dagli Spagnoli, per cui questi influenzarono molto lo stile che si diffuse nel continente. L’uso del cavallo era

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prevalentemente funzionale e non formale come quello che si andava affermando in Europa. I cavalli in America dovevano ricoprire lunghe distanze, con l’andatura più confortevole per il cavaliere. Per questo motivo si svilupparono diverse razze e tipologie adatte a questo scopo, insieme a metodi di addestramento e gestione che si confacevano al terreno e alla funzione del cavallo. I cavalli vivevano nei prati e non venivano maneggiati finché non venivano domati. L’abilità dell’uomo di cavalli era catturare il soggetto nel prato, cavalcarlo nonostante fosse pressoché selvaggio e renderlo utile per il lavoro col bestiame. Il tipo di competizione che si andò affermando fu quello che metteva in evidenza queste abilità, vale a dire, il “rodeo”. Il termine “rodeo” si riferiva all’attività di “riunimento” del bestiame con i cavalli (Waran & Casey, 2005).

Principi delle tecniche di addestramento

Metodo Europeo

L’educazione del puledro inizia appena nato, con un processo graduale che prevede di farlo assuefare all’uomo. Nei primi giorni viene abituato alla cavezza, successivamente ad essere condotto a mano con la longhina, in un primo momento dietro alla madre, poi da solo. Tramite rinforzo negativo, apprende che rifiutarsi di camminare fa entrare in trazione la corda e crea una situazione spiacevole, mentre seguire la trazione fa ridurre la pressione. Una volta abituato ad essere condotto a mano, il puledro viene abituato ad essere toelettato, a farsi sollevare i piedi ed a farsi toccare su tutto il corpo. Successivamente viene introdotto in nuovi ambienti come la stalla o il trailer. In questo caso l’addestramento avviene con la combinazione di abitudini e rinforzi negativi. Una volta maneggiato nei primi giorni di vita, il puledro torna nei prati con la madre o i compagni fino alla doma vera e propria.

A seconda della disciplina a cui è destinato il cavallo, l’addestramento inizia a diverse età, in genere intorno ai 3-4 anni, nei cavalli da corsa avviene prima, in modo da prepararli alla prima corsa a 2 anni (Waran & Casey, 2005). Le fasi della doma europea sono riportate nel paragrafo successivo “Tecniche di doma attuali”.

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Stile Western

Molti degli obiettivi della doma Western sono gli stessi della monta Europea: agilità di controllo, obbedienza, rilassamento ed equilibrio. Mentre nella scuola Europea si va ricercando la sottomissione del cavallo ed ogni movimento avviene su richiesta del cavaliere o dell’addestratore, lo scopo della scuola Western è di produrre un cavallo da lavoro, che è incoraggiato a pensare e ad agire in modo piuttosto indipendente, cavalli addestrati in questo modo, infatti, sono capaci da soli di separare le mucche. Nello stile Western i cavalli possono assumere un’andatura libera, sulla bocca viene esercitato solo un leggero contatto, per cui tendono ad avere un portamento più allungato rispetto a quelli della scuola europea, più raccolti. Lo stile americano varia da regione a regione, a seconda delle caratteristiche topografiche e funzionali. L’origine dei cavalli influenza il tipo di doma, quelli allevati in ambiente domestico e maneggiati fin da puledri, come avviene in Europa, sono più facilmente addestrabili di quelli che vivono allo stato selvatico fino al momento della doma.

Il tradizionale metodo usato per domare cavalli selvatici prevedeva un certo grado di sottomissione. I mustang selvatici in genere venivano domati a 4-5 anni di età e mai avvicinati fino a questo momento. Venivano messi all’interno di un recinto, presi al lazo e gettati a terra con un altro lazo alle zampe. Venivano impastoiati o tenuti con la testa legata ad una zampa posteriore, per prevenire la loro ribellione. L’insellaggio avveniva, di solito, quando il cavallo era a terra, i successivi atti di insubordinazione, come le impennate, erano puniti con frustate. Il moderno stile Western si differenzia molto da quello appena descritto. Come i cavalli europei, questi sono addestrati in modo graduale. La tecnica di insellaggio, l’applicazione della briglia e la prima monta, sono simili, l’unica differenza consiste nella leggerezza di mano. Invece del filetto viene usata una briglia detta “bosal”, all’inizio pesante, poi gradualmente più leggera mano a mano che il cavallo impara, tramite rinforzo negativo, a rispondere ad una pressione della mano sempre minore. A differenza dei cavalli europei, quelli americani non vengono separati fino al momento della doma e vengono svezzati dalla madre all’interno di un box, dove sono alquanto isolati, in modo da aumentare la dipendenza verso l’addestratore. Per quanto riguarda il lavoro a terra, il metodo Western è molto simile a quello Europeo. In linea generale i due metodi prevedono che il cavallo si abitui gradualmente alle varie manualità ed entrambi i metodi utilizzano i rinforzi negativi (Waran & Casey, 2005)

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Federico Tesio

Tesio, allenatore dei più famosi purosangue da corsa della fine dell’800, inizi ‘900, sosteneva che l’allenatore, il fantino ed il caporale sono i maestri del cavallo e la scuderia da corsa, il collegio.

“Domare significa costringere ad ubbidire. Da parte dell’uomo astuzie, crudeltà e carezze. Da parte del cavallo intelligenza e rassegnazione.”

“Il maestro introduce nella bocca del cavallo uno strumento di tortura, il filetto, poi gli lega la testa alla longhina e, con l’uso della frusta lo obbliga a galoppare nel tondino, per sfuggire al dolore. Il puledro dapprima si ribella, poi capisce che l’uomo è più forte, quindi si rassegna, ubbidisce e cerca di soddisfare le sue richieste. In meno di venti minuti al giorno, in meno di un mese e senza conoscere la lingua, il puledro impara a portare l’uomo sulla schiena e ad interpretarne i gesti e le parole. Nessun bambino imparerebbe così rapidamente con la sola interpretazione delle punizioni e delle carezze” (Tesio, 1984).

I Gauchos

I Gauchos delle Pampas costringono i cavalli ad ubbidire all’uomo, usando questa tecnica: gettano il lazo intorno al collo di un puledro brado, che si arresta immediatamente per non soffocare. In questo stato di semi-asfissia gli viene introdotta a forza fra i denti una sbarra di ferro a leva con due redini, che gli procura dolore quando l’uomo dà degli strapponi. Fatta quest’operazione l’uomo sale in sella, dopodichè viene tolto il lazo. L’animale respira e subito ricorre a tutti i mezzi per liberarsi dalla persona che lo cavalca e tenta di scaricarla mettendo la testa tra le gambe, sgroppando e facendo piroette. Spesso il cavaliere viene gettato a terra, ma il puledro viene subito ripreso al lazo e rimontato. La “battaglia” continua finché l’animale si ferma esausto e rassegnato ad ubbidire: l’uomo ha vinto ed il cavallo è domato. Con questo metodo il cavallo decide di ubbidire all’uomo per evitare il dolore, scegliendo quindi il male minore (Tesio, 1984).

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Gli indiani

Il metodo di addestramento e di doma che gli indiani impararono dagli spagnoli fu quello che in quell’epoca era in vigore in Europa, fondato sul dominio dell’animale e sulla violenza, con uso di speroni, imboccature severe, ecc. Gli indiani dimostrarono una particolare affinità per il cavallo e, una volta acquisita esperienza, cambiarono totalmente questi metodi, addestrandolo con dolcezza. Sin dall’inizio della doma avvicinavano il cavallo senza spaventarlo, lasciando che pian piano acquistasse fiducia e familiarità con l’uomo e con l’arco, con l’imboccatura ed i finimenti. Per prepararlo ad essere montato gli poggiavano il gomito sul dorso, applicando una pressione per brevi periodi. Il tempo necessario affinché il cavallo si lasciasse montare non era breve, ma l’indiano non aveva fretta. A volte il cavallo veniva fatto entrare in un fiume o in un lago fino a che l’acqua non gli copriva le spalle. Solo allora il cavaliere lo montava e se il puledro cercava di ribellarsi, l’acqua serviva da protezione e non permetteva che si provocasse danni fisici. Al governo del cavallo erano dedicati molto tempo e cura e questo lavoro era riservato agli uomini. L’animale non veniva confinato né in scuderie né in paddocks, infatti, veniva usato per il lavoro o per la guerra, ma gli veniva anche concessa la libertà di pascolare, di giocare, e, quindi, di essere cavallo. Gli animali gestiti in questo modo erano di indole buona e ben addestrati (Roe, 1968).

La doma maremmana

La doma maremmana è la doma tradizionale della Toscana e del Lazio, praticata dai butteri maremmani per addestrare cavalli della stessa razza ed usati per lavorare con il bestiame. La monta praticata è detta anch’essa maremmana. Per monta si intende il modo di andare a cavallo definito in base alla specifica bardatura, agli aiuti che il cavaliere usa per comunicare al cavallo la propria volontà, al tipo di atteggiamento che il cavallo assume ed ai movimenti che riesce a compiere in vista dell’impiego in particolari condizioni. Tutte le monte da lavoro hanno lo stesso scopo: addestrare nel modo migliore il cavallo, che deve cooperare con l’uomo nel lavoro con il bestiame in campagna.

La doma si svolge all’interno di un tondino con al centro un robusto palo di legno detto “giudice” o “staccione”. Nella prima fase, viene usata la “lacciara”, questa è una semplice

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corda di canapa con cui si ottiene un laccio scorsoio che viene messo intorno al collo del cavallo per lavorarlo allo staccione.

Lacciara

Nel tondino, per catturare un cavallo, questo deve essere fatto girare in senso antiorario in modo che l’uomo, con la mano destra, possa usare la lacciara, lanciandola dal dietro in avanti. Il laccio stesso, infatti, raggiungerà il cavallo da dietro e, sfiorandolo, cadrà oltre la testa. Il puledro legato tramite la lacciara viene fatto girare intorno al giudice, fino a che la corda accorciandosi ad ogni giro, non costringe l’animale a rimanere immobile al palo, come mostrato in foto.

Prime fasi della doma maremmana.

A questo punto viene tolta la lacciara e posizionata la capezza maremmana. Questa è un finimento molto semplice, costituito da una testiera con un laccio scorrevole che anteriormente si appoggia sul muso del cavallo e posteriormente cinge il mento, per poi scorrere attraverso una larga asola formata dalla corda stessa.

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Capezza maremmana.

Tirando il laccio, la corda si stringe attorno al muso del cavallo. La capezza, in questo caso, viene usata per “dare il giro” al cavallo sia allo “staccione”, sia sottomano, come una longhina e può essere utilizzata in ogni fase di lavoro. La capezza è uno strumento che può essere usato come laccio fisso o come testiera. Viene impiegata nelle due attività iniziali di addestramento del cavallo: la prima è la così detta “rottura di collo”, vale a dire l’addestramento del cavallo attorno all’uomo trattenuto dalla corda sul collo. Quest’operazione abitua il cavallo a cedere il collo, cioè a girare flettendo in modo uniforme il corpo a partire dal collo. La seconda è la “rottura di testa”, che consiste nell’addestrare il cavallo a girare trattenuto dalla capezza, che cinge la testa e che in caso di tirate del cavallo, ne stringe il muso. Con la rottura di testa il cavallo impara a cedere anche la testa ed a fletterla lateralmente nella direzione del movimento. Ciò è molto utile nelle successive fasi dell’addestramento, perchè anticipa la risposta che il cavallo deve saper dare all’azione della briglia e del capezzone. Quest’ultimo è un finimento utilizzato nelle prime fasi della doma, soprattutto nella maremma laziale.

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È costituito da una testiera formata da un sopracapo, due montanti di cuoio largo e spesso la cui lunghezza è regolata per mezzo di una fibbia. I montanti terminano in due larghi anelli di ferro all’altezza dei margini della bocca. Agli anelli è fissata una catena di ferro rivestita di stoffa e foderata in pelle che poggia sul muso del cavallo ed a cui sono affibbiate due redini, chiamate “lasse” o “suste” di corda di canapa. La lassa affibbiata all’anello di sinistra passa sotto il mento del cavallo e attraverso l’anello di destra termina nella mano destra del cavaliere, quella affibbiata a destra passa nell’anello di sinistra e viene tenuta dalla mano sinistra. In tal modo le lasse del capezzone, quando vengono tirate, si stringono sul muso del cavallo inducendolo ad obbedire ai comandi del cavaliere. Nel momento in cui il capezzone viene tolto e si passa ad usare la briglia “asciutta”, inizia la fase della “sbrigliatura”. In senso lato per “briglia” si intende tutto l’insieme costituito da testiera, morso e redini. La testiera si trasporta prendendo con la mano destra il sopracapo e le redini a circa la metà della loro lunghezza. Per infilarla ci si avvicina alla spalla sinistra del cavallo e rivolgendosi verso l’avanti si solleva la mano sinistra (che regge il sopracapo) fino all’altezza delle orecchie così che il morso arrivi all’altezza della bocca. Si appoggia quindi il pollice della mano destra tra le labbra, nel punto d’inizio della barra solleticando il cavallo ad aprire la bocca. Quando apre la bocca si infila il morso e contemporaneamente si passa il sopracapo sopra le orecchie. Si allaccia quindi il sottogola ed infine si sistema il barbozzale. Per una perfetta sistemazione della testiera e degli altri finimenti, tutte le fibbie (della camarra, della testiera ed eventualmente del capezzone) devono essere alla stessa altezza. La fase successiva consiste nel dare “il giro allo staccione” al cavallo per poterlo sellare, a volte il cavallo viene bendato per tranquilizzarlo. Dopo l’insellaggio lo si rimanda in tondo per fare in modo che si abitui al peso della sella. Avvenuto questo, viene introdotto nel tondino un cavallo adulto montato, detto “marrone” o “ruffiano”, con lo scopo di infondere tranquillità al puledro in doma. Il cavaliere in sella porta il puledro in circolo a mano destra, tenendolo più indietro rispetto alla propria cavalcatura ed ogni tanto si arresta, ponendosi trasversalmente alla sua direzione. A questo punto un buttero monta il puledro, mentre il cavaliere in sella al ruffiano tenta di limitarne le reazioni e lo riporta in circolo ripetendo la fase precedente, con la sola eccezione che ora il cavallo è montato. Nei giorni successivi il puledro viene nuovamente montato fino a che non si abitua, poi inizia la fase di addestramento vera e propria (Molinari et al., 2005).

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Tecniche di doma attuali

Di seguito viene riportato un tipo di doma piuttosto comune nel nostro paese da cui abbiamo preso spunto, insieme al metodo maremmano, per domare le cavalle del gruppo “tradizionale” del nostro studio e descritto nella Parte Sperimentale Materiali e Metodi.

Prime fasi

Le tecniche di doma tradizionale attuali prevedono premi e punizioni, ma sono molto meno violente rispetto al passato. La prima fase di doma di un soggetto giovane è detta “scozzonatura” e deve essere svolta senza usare violenza e coercizione, mezzi che, talvolta, vengono ritenuti erroneamente utili per abbreviare i tempi. La pazienza è indispensabile per ottenere risultati solidi e sicuri per il lavoro futuro. Il primo obiettivo da raggiungere è la conquista della fiducia del puledro, questo sarebbe bene ottenerlo sin dalla più giovane età. Il buon addestratore, secondo questa tecnica, tiene sempre in tasca qualche leccornia per il suo allievo, e non deve mai essere impaziente, per non provocare danni irreparabili.

La prima operazione da compiere con il puledro è quella di mettergli la capezza, poiché è il primo approccio, va fatto con estrema cautela. Si inizia con l’accarezzare il puledro sul collo, evitando movimenti bruschi e senza toccare troppo presto la testa. Una volta introdotta la capezza sul muso, deve esser chiusa lentamente per evitare che si spaventi con i movimenti delle mani. Durante i primi giorni la capezza viene lasciata per lunghi periodi, togliendola e mettendola più volte, in modo da abituare il puledro.

Il secondo passo è quello di far accettare il morso. La difficoltà iniziale consiste nel far aprire la bocca al giovane animale. Si può ricorrere a diversi artifizi, il più usato è quello di spalmare il filetto di miele o di tenere, nella stessa mano che inserisce il morso nella commessura delle labbra, una zolletta di zucchero o qualcos’altro di appetitoso. Se il passaggio della testiera davanti agli occhi provoca spavento sarà necessario distaccare il frontalino e far passare il montante della briglia dietro le orecchie. È necessario abituare il cavallo ad essere toccato e manipolato in tutte le parti del corpo, soprattutto laddove è più sensibile, come dietro le orecchie, dove carezze e grattatine gli renderanno piacevole il contatto con la mano dell’uomo. La stessa cautela va usata quando la briglia viene tolta.

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La terza fase è l’insellaggio. Dapprima viene fatto annusare il sottosella al puledro e poi gli viene fatto scivolare sul dorso, ripetendo l’operazione più volte finché non si abitua. Lo stesso viene fatto con la sella. È importante stringere il sottopancia in modo tale che non sia troppo largo, perché può far girare la sella sotto la pancia e spaventare il puledro, né troppo stretto perché darebbe troppo fastidio al puledro, quindi l’ideale è usare una cinghia elastica. All’inizio devono essere tolti staffe e staffili, che verranno aggiunti in un secondo momento. La parte in sella verrà omessa perché nel nostro esperimento non era prevista (De Maria, 1989).

Lavoro a terra

All’inizio di ogni seduta di addestramento è bene avere chiaro quale parte del programma si vuole affrontare. Si comincia sempre con il tranquillizzare il cavallo, mettendolo nel giusto equilibrio. I primi esercizi da svolgere sono quelli eseguiti la volta precedente più facili, gradualmente poi si ripercorre tutto il lavoro svolto per affrontare, verso la fine della lezione, gli esercizi nuovi e più impegnativi. Qualora il cavallo sia stanco o agitato, non bisogna assolutamente richiedere esercizi faticosi, poiché il comportamento del cavallo è determinato molto più dalla memoria che non dall’intelligenza ed il lavoro svolto in queste condizioni creerebbe associazioni pericolose tra certe azioni ed il suo stato di malessere. Ogni lezione inizia con un lavoro preparatorio, mettendo il cavallo al passo in libertà nel tondino, con l’incollatura distesa, evitando di disturbarlo in qualsiasi modo ed, anzi, inducendolo al rilassamento con la voce e qualche carezza. Dopo qualche minuto si passa al trotto, sempre in libertà, con lo scopo preciso di scioglierlo nei movimenti, nelle articolazioni e riscaldarlo. Vengono effettuati diversi cambi di mano e fermate con qualche passo indietro, per poi passare alla ripetizione di esercizi eseguiti nei giorni precedenti, iniziando dai più facili per giungere ad affrontare quelli che costituiscono il tema della seduta. La sessione di lavoro deve esser terminata sempre con qualche esercizio di facile esecuzione per rinfrancare il cavallo ed infondergli fiducia. Ogni soggetto è unico e dà problemi diversi da affrontare in modi differenti. Non esistono cavalli impossibili, esistono invece difficoltà umane nella comprensione e nella capacità di adattarsi ad esigenze particolari. Il cavallo, come tutti gli animali che vivono a contatto con l’uomo, rispecchia il proprietario, mettendo in luce anche i

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suoi difetti e manchevolezze. Quando un cavallo, in seguito alla richiesta di un esercizio, va in confusione o lo esegue in modo incerto, esprime un’imposizione troppo coercitiva da parte del suo addestratore. L’esecuzione di un esercizio non ha valore se non è condotta nella massima calma e distensione. Non tutti i cavalli hanno attitudine agli stessi esercizi e non tutti gli addestratori sono in grado di indurre l’allievo a compiere questi esercizi, quindi è dovere dell’addestratore comprendere le proprie capacità e non turbare l’equilibrio psicofisico del soggetto.

Equipaggiamento per il lavoro alla corda

Il lavoro alla corda è un esercizio fondamentale, da cui si possono ottenere notevoli risultati, per cui deve essere svolto in modo ottimale. Spesso viene usato da alcuni cavalieri, prima di montare, per far stancare il cavallo, che, indotto a correre tra la frusta che lo spinge e la corda che lo trattiene, si muove scompostamente, si eccita e si spaventa, senza capire cosa gli viene richiesto. È importante quindi svolgere questo lavoro in modo idoneo per ottenere risultati efficaci.

Il materiale occorrente è innanzitutto la longhina, una corda piatta, larga due-quattro centimetri e lunga almeno dieci metri, di cotone o nylon, leggera e morbida. Ad una delle due estremità è munita di moschettone, robusto e girevole, all’altra estremità di un’asola che l’addestratore tiene in mano per tenere la corda raccolta. È necessario poi un capezzone con montanti larghi, ben imbottito e della giusta misura, che deve essere posizionato sul naso senza che interferisca con la respirazione, stretto in modo da evitare fiaccature e posizionato in modo tale da non spostarsi se viene tirato con la corda. Il capezzone è munito lateralmente di due piccole cinghie per fissare eventualmente il filetto.

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Il capezzone è indispensabile nella prima fase di addestramento per evitare di nuocere alla bocca del cavallo.

Il fascione dell’addestramento è costituito da una larga fascia, di una decina di centimetri, imbottita sul dorso, in modo da non scivolare lateralmente ed allacciata ai due estremi ad una fascia che fa da sottopancia, delle stesse dimensioni e materiale. È munito di anelli sul dorso e sui lati per le redini o la longhina.

Essenziale per il lavoro alla corda è la frusta, che deve schioccare facilmente. Deve essere usata in modo da non spaventare il puledro e sempre dopo un ordine vocale; viene spesso tenuta dietro la schiena, in questo modo il cavallo sa che c’è, ma non ne viene allarmato. Obiettivi del lavoro alla corda

Gli obiettivi che si possono ottenere con il lavoro alla corda sono molti: tranquillizzare il cavallo, renderlo obbediente agli ordini vocali dell’addestratore, eseguire la parte iniziale della doma, insegnargli nuovi esercizi, fargli fare ginnastica per renderlo più elastico e dritto. Il lavoro alla corda

All’inizio del lavoro può essere usato un aiutante che accompagna il cavallo lungo la pista del tondino, tenendolo per il capezzone e che poi si allontana uscendo dal recinto. In genere il cavallo viene fatto girare all’inizio a mano sinistra, la più facile per lui. La longhina non deve servire ad ancorare rigidamente il cavallo all’addestratore, ma a trasmettere la volontà di quest’ultimo, che con piccoli continui richiami della mano, decisa ma morbida, insegnerà all’allievo a rimanere sulla pista senza appoggiarsi alla corda, che non deve mai essere in eccessiva tensione. La frusta deve esser rivolta verso la spalla, se il cavallo tende a stringere il cerchio, verso il posteriore per dare impulso al suo movimento.

Si inizia a far girare il cavallo al passo, facendo precedere da un ordine verbale qualsiasi azione della corda o della frusta. Quando vengono compresi ed eseguiti gli ordini richiesti, deve esser premiato con carezze o del cibo. In questa prima fase, in cui cammina al passo lungo la pista, gli viene insegnato anche a fermarsi a comando di voce ed a venire al centro del tondino verso l’addestratore, che, recuperando pian piano la corda mentre il cavallo

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continua a camminare, fa ridurre il cerchio percorso dal cavallo ad un metro di raggio. A questo punto l’istruttore dice “Alt” e, retrocedendo, lo tira a sé, premiandolo con ricompense quando si avvicina. Per far ripartire il cavallo, la frusta viene diretta verso la spalla in modo da farlo allontanare, poi verso il posteriore per dargli l’impulso.

Il cambiamento di mano viene fatto dopo aver portato il cavallo al centro del tondino. Vengono ripetute le sequenze come per l’altra mano, usando eventualmente un aiutante se all’inizio il cavallo è riluttante a girare nella nuova direzione (De Maria, 1989).

Quando il cavallo viene lavorato alla corda, se rallegrandosi o in uno scatto di ribellione, si allontana con forza, non bisogna resistere con altrettanta durezza, per non provocare movimenti scomposti che possono causare colpi alle estremità, sovrapposte sulle corone, sui glomi e provocare reazioni violente. In questi casi la corda deve scivolare di mano, evitando lo strappo, ed essere poi recuperata per riportare progressivamente il cavallo agli ordini. Tutte le volte che il cavallo si allontana, anche senza strappi, deve trovare la stessa cedevolezza nella mano dell’istruttore. Uomo, cavallo e longhina devono formare un triangolo rettangolo i cui due cateti sono rappresentati dal corpo del cavallo e dalla linea che dalla sua groppa va all’uomo mentre l’ipotenusa è costituta dalla corda (Mangilli, 1987).

La voce

La voce è importante nel lavoro alla corda e deve essere usata in modo misurato e sistematico con coerenza e metodo. Per impartire degli ordini devono essere usate le stesse parole, con l’intonazione adeguata, ad esempio “Passo” verrà pronunciato in modo prolungato e calmo, mentre “Trotto” in modo più secco, e ancora di più “Galoppo”. Per far rallentare l’allievo può essere usato un suono come “Sss…”, mentre per farlo accelerare si può far schioccare la lingua, per arrestarlo “Stop” o “Alt”. L’importante è usare sempre le stesse parole e suoni, con la stessa intonazione, che precedano qualsiasi ordine dato con la mano o la frusta, azioni che ben presto diverranno inutili, bastando la sola voce che, non solo serve ad impartire ordini, ma anche a calmare, sgridare, eccitare l’allievo (De Maria, 1989).

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Il lavoro con le redini lunghe

Questo lavoro serve a rifinire ed allenare il cavallo già fatto, ma anche a completare l’addestramento del puledro prima di essere montato.

L’attrezzatura necessaria consiste nel fascione con gli anelli, nelle redini lunghe (una decina di metri di lunghezza, un paio di centimetri di larghezza), morbide e maneggevoli. Può essere usata poi una frusta, ma è meglio un frustino da dressage lungo circa un metro e mezzo. L’addestratore può collocarsi in due diversi modi rispetto al cavallo:

A- esattamente dietro, percorrendo la stessa pista. Il cavallo sarà inquadrato tra le redini e quindi ben controllato, ma sarà difficile controllare il movimento del treno anteriore e la posizione della testa. Bisogna esser sicuri che il cavallo non calci.

A -Posizione dietro al cavallo nel lavoro con le redini lunghe

B- Leggermente all’interno, dietro al cavallo, vicino all’anca interna. La redine esterna passa sopra al dorso, ma sempre all’interno dell’anello del fascione. L’istruttore percorre una pista parallela all’interno di quella percorsa dal cavallo.

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Da questa posizione l’osservazione dei movimenti è agevole e permette interventi precisi. Il lavoro precedentemente svolto alla corda rende l’allievo recettivo agli ordini vocali, per cui questa fase con le redini lunghe procederà agevolmente (De Maria, 1989).

Nel lavoro alla corda possono essere usate anche le redini elastiche, fissate in alto dietro al garrese, tese in modo da avere un leggero contatto col filetto, non costrittivo, ma che eviti di lasciare il cavallo nella completa libertà di bocca e che mantenga la testa nella giusta posizione. Le redini fissate in basso danno risultati illusori ed alla fine negativi, perché alla trazione verso il basso il cavallo risponde abbassando la testa e perdendo la giusta consistenza del collo che diventa flessibile, mentre la bocca conserva la sua resistenza. Con il lavoro alla corda, svolto in questo modo, lo scopo è far avanzare decisamente l’allievo, con un appoggio sull’imboccatura trattenuta da redini bene aggiustate.

Alla fine di ogni lavoro l’amicizia tra uomo e cavallo si accresce, specialmente quando le carezze accompagnano l’offerta di qualche leccornia. L’addestratore non può ottenere dei buoni risultati solo con la pazienza, la costanza e la sensibilità, ma deve avere anche la capacità di osservazione, la sicura conoscenza di come il cavallo deve muoversi e gli atteggiamenti che egli stesso deve assumere (Mangilli, 1987).

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