• Non ci sono risultati.

P REMESSE TEORICHE E SPERIMENTALI

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "P REMESSE TEORICHE E SPERIMENTALI"

Copied!
29
0
0

Testo completo

(1)

P

REMESSE

TEORICHE

E

SPERIMENTALI

I Disturbi dell'Umore

L'

UMORE

L'umore è definibile come uno “stato del sentimento

di una certa durata, non sempre reattivo”

(Schneider,1966)*; con altre parole potremmo definirlo un “tono emotivo” variabile, che permea ed influenza profondamente la percezione di sé e dell'ambiente e il modo in cui il singolo individuo si presenta agli altri.

Le sue oscillazioni sono risposte fisiologiche, in una certa misura adattative, sottese da meccanismi neurobiologici e correlate ad eventi vitali esterni: esse modulano il senso d'iniziativa e le risposte dell'individuo e gli consentono l'adozione di differenti modelli comportamentali in seguito al mutamento delle circostanze ambientali. L'ampio insieme di queste oscillazioni si può descrivere come un continuum (spettro)

* Secondo Schneider l'umore "medio" contiene: -sentimenti somatici

-risonanza di esperienze recenti

-sentimenti psichici non reattivi portati dal "fondo"

Per fondo Schneider intende "un sottosuolo di base non vissuto, non motivante", influenzato da avvenimenti, cenestesi, condizioni meteorologiche, sostanze voluttuarie, musica, etc. [psicopatologia].

(2)

che accoglie i vari stati d'umore facenti parte dell'esperienza quotidiana di ogni persona.

Altri stati, francamente patologici, trovano posto alle polarità estreme di questo spettro: un'alterazione dei processi neurobiologici di base può portare al superamento degli adattamenti fisiologici del tono dell'umore che così divengono troppo ampi, recidivanti ed indipendenti per durata ed entità dai possibili stimoli a cui rispondono, configurando i distinti quadri clinici propri dei

disturbi dell'umore. Questi sono condizioni (comuni ed

anche potenzialmente letali ma, spesso, adeguatamente trattabili) distinte tra loro per sintomatologia, gravità e possibile evoluzione, nel corso delle quali i pazienti fanno esperienza di livelli di umore abnormemente depressi od elevati. (Cassano, Tundo 2006) (Kaplan e Sadock)

S

TORIA DEI DISTURBI DELL

'

UMORE

Sindromi ed episodi maniacali, ipomaniacali e depressivi erano stati ampiamente descritti ed inquadrati secondo un approccio scientifico già da Ippocrate, Areteo di Cappadocia ed altri autori dell'antichità classica.

(3)

La prima descrizione del concetto “moderno” di disturbo bipolare, visto come entità nosologica a se' stante, si ritrova nei lavori di due ricercatori della metà del XIX secolo: Jean-Pierre Falret (“De la folie circulaire[...]”) e Jules Baillarger (“De la folie à double forme”), nettamente differenti per l'importanza attribuita alla fase intercritica del disturbo.

L'attuale inquadramento dei disturbi dell'umore si deve all'opera dello psichiatra tedesco Emil Kraepelin che nell'edizione del 1896 del suo Trattato di psichiatria propose alla comunità medica due grandi categorie diagnostiche per i disturbi mentali: la psicosi maniaco-depressiva (corrispondente ai disturbi bipolari della nosografia contemporanea) e la demenza precoce (a cui dopo qualche anno Bleuler darà il nome contemporaneo di Schizofrenia), distinte per età d'insorgenza, familiarità e decorso. Nel modello di psicosi maniaco-depressiva Kraepelin riunì per la prima volta forme differenti che fino ad allora erano state considerate autonome - depressione, stati misti, follia circolare e periodica - dalle manifestazioni franche alle forme più lievi al confine con la normalità (anni dopo, nel 1921, scriverà: “dovunque noi cerchiamo di porre il confine fra sanità e malattia mentale, lì troveremo un terreno neutrale, nel quale ha luogo

(4)

l'impercettibile passaggio dal regno della vita normale allo sconquasso patologico”).

L'influenza di Kraepelin ha pervaso il pensiero psichiatrico fino a quando alcuni autori, tra i quali Leonhard nel 1957 e poi Angst e Perris nel 1988, hanno suggerito la separazione delle forme unipolari depressive da quelle bipolari. Questa divisione è stata e tuttora viene recepita dai sistemi internazionali di classificazione dei disturbi mentali: il DSM-IV dell'American Psychiatric Association e l'ICD-10 dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Essi adottano un approccio rigidamente categoriale che consente l'individuazione di forme prototipiche non complicate e pone una netta distinzione fra quel che non è patologico e quello che lo è (e permette la diagnosi di un disturbo psichiatrico). Nell'ambito dei disturbi dell'umore, la distinzione tra forme unipolari e bipolari affermatasi con la pubblicazione del DSM non si limita ad essere una classificazione puramente descrittiva, ma ha rappresentato un notevole progresso nosografico fornendo una base per la valutazione di differenze genetiche, cliniche e terapeutiche(Pini et al,2005)

Con questa distinzione può però sfuggire la complessità clinica dei singoli soggetti, che pone concreti

(5)

problemi per la ricerca e la terapia, a causa dello scarso rilievo che esso riconosce alla storia naturale della malattia, alle caratteristiche longitudinali e familiari ed alle forme sub-cliniche intermedie od attenuate che costituiscono l'anello di congiunzione tra le forme unipolari e bipolari (Cassano, Tundo 2006). E' quindi stato proposto un nuovo modello nosografico fondato sull'ipotesi che le diverse forme cliniche dei disturbi dell'umore siano sottese da gradi diversi di una comune vulnerabilità genetica disposte non casualmente lungo un continuum o spettro clinico.

E' stato così descritto lo “Spettro dei disturbi

dell'umore”, che comprende non solo e forme franche ad

espressione piena sia unipolari che bipolari, ma anche stati fisiologici come le alterazioni temperamentali, le forme sottosoglia e le espressioni attenuate a decorso protratto, parziali od atipiche.

Il concetto di Spettro Clinico (Cassano,1997-1998) apre ad un procedimento diagnostico svincolato dalla necessaria rigidità di una nosografia ad orientamento epidemiologico, abbracciando fenomeni che vanno oltre i disturbi definiti secondo i criteri DSM pur trovandovisi in stretto rapporto:

(6)

1. Sintomi Nucleari tipici, atipici e subclinici del disturbo di Asse I secondo la codifica del DSM

2. Sequele di un episodio pieno

3. Segni e sintomi isolati

4. Raggruppamenti di sintomi o schemi comportamentali ricorrenti che sono in relazione con i sintomi cardine e possono costituire precursori o prodromi di una condizione che non necessariamente raggiungerà la piena espressione clinica

5. Tratti temperamentali o di personalità

I vantaggi del modello di spettro sono la minor importanza attribuita alla separazione fra tratti stabili di personalità e sintomatologie subsindromiche attenuate e persistente, di cui si riconosce la probabile dipendenza da un unico e altrettanto durevole processo psicobiologico, e la possibilità di definire meglio quel “terreno neutrale” che Kraepelin poneva alle soglie della patologia.

L'adozione di un modello unitario di spettro dei disturbi dell'umore consente di cogliere non solo le patologie ad espressione piena ma anche tutte le espressioni attenuate, parziali od atipiche, così come i

(7)

fenomeni prodromici o successivi alla remissione della fase di malattia conclamata. Queste condizioni, pur non soddisfacendo i criteri di gravità, durata o numero dei sintomi previsti per la diagnosi di disturbo dell'umore, presentano un impatto significativo nella sfera socio-lavorativa ed affettiva del paziente e possono provocare una marcata e persistente sofferenza soggettiva. Nella pratica clinica il modello di Spettro dell'umore mostra sostanziali vantaggi, favorendo l'alleanza terapeutica in ambito psichiatrico e permettendo uno strumento diagnostico più raffinato al fine di orientare scelte terapeutiche sempre più individualizzate (Cassano, Tundo 2006).

E

PIDEMIOLOGIA

In Tabella 1 sono riportati i dati di prevalenza, rischio relativo ed età d'esordio dei sottotipi più frequenti di disturbo dell'umore. Da notare che, il rischio di ammalarsi di depressione per le donne, riportato come doppio rispetto agli uomini, può raggiungere anche un valore di 3-4:1 nella popolazione oggetto di studi clinici; l'osservazione che le donne tendano a consultare più spesso il medico rispetto agli uomini sembra poter rendere ragione di questo incremento.

(8)

Nella popolazione generale si stima una prevalenza dell'occorrenza di episodi maniaco-depressivi del 20% almeno, ed un rapporto tra forme unipolari e bipolari compreso tra 10:1 e 4:1, che raggiunge la parità se si includono i casi di disturbo bipolare attenuato che spesso fuggono ad una corretta diagnosi.

Benché si debba fare ancora chiarezza sulle modalità di trasmissione genetica, è generalmente riconosciuto un alto tasso di familiarità dei disturbi dell'umore: il rischio di ammalarsi per i familiari di primo grado di un malato è stimato da due a diciotto volte superiore rispetto a quello della popolazione generale. Per quanto riguarda i principali quadri clinici, dai dati emerge che i parenti di un soggetto affetto da disturbo depressivo maggiore o da disturbo distimico sarebbero predisposti alla depressione; i congiunti di un paziente con disturbo bipolare sarebbero predisposti ai disturbi bipolari, quelli di un paziente affetto da ciclotimia sarebbero a rischio di sviluppare disturbi di entrambe le polarità. Nella pratica clinica però non si riscontra una netta differenziazione del rischio familiare: è infatti di comune riscontro la compresenza di forme unipolari e bipolari in una stessa famiglia, a conferma del fatto che non stiamo osservando entità distinte e sottese da substrati genetici differenti.

(9)

Per quanto riguarda la comorbidità familiare per gli altri disturbi psichiatrici, nelle famiglie dei soggetti con disturbi dell'umore si riscontra un'aggregazione epidemiologica per i disturbi della condotta alimentare (anoressia e bulimia) e per i disturbi di personalità del

cluster B (disturbi borderline, narcisistico, antisociale ed

istrionico di personalità).

Gli studi demografici sui pazienti hanno individuato i seguenti fattori di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell'umore:

Sesso: Per il disturbo depressivo maggiore esistono fattori ormonali, in particolare la gravidanza, che sembrano essere la causa della prevalenza doppia nelle donne rispetto agli uomini. Anche il disturbo bipolare di tipo II mostra una prevalenza doppia nel sesso femminile, mentre per la ciclotimia ed il disturbo bipolare di tipo I si riscontra una pari distribuzione fra i sessi.

Età: il disturbo depressivo maggiore compare tra i 20 ed i 50 anni d'età, in media intorno ai 40 anni, con un picco intorno ai 60 anni nel 10% dei casi; è stato dimostrato nelle ultime generazioni una

(10)

riduzione dell'età d'esordio al di sotto dei 20 anni, probabilmente in relazione all'aumento dell'abuso di alcool e sostanze da parte dei giovani. Per i disturbi bipolari l'età di esordio va dai 15 ai 50 anni, in media intorno ai 30 anni. Disturbo ciclotimico e disturbo distimico compaiono precocemente, già dall'infanzia o dalla prima adolescenza o, al più, nei primi anni della vita adulta. L'età d'insorgenza sembra correlare in modo inversamente proporzionale col peso del carico genetico.

Stato civile: La patologia bipolare è più frequente tra soggetti celibi o nubili e separati. Questo può essere spiegato sia dalla precoce età di esordio di questo tipo di disturbi, sia dall'oggettiva influenza negativa che la sintomatologia, particolarmente nel corso delle ricorrenti fasi espansive, può avere sulla formazione ed il mantenimento di rapporti affettivi e legami di coppia; inoltre appare valida anche l'ipotesi di un rapporto causale reciproco: non si può escludere l'effetto scatenante su soggetti predisposti che può essere esercitato da una separazione o dalla prolungata mancanza di un partner.

(11)

Classe sociale: Malgrado i molteplici quadri clinici dei disturbi dell'umore possano affliggere soggetti di qualunque estrazione sociale, pare che i disturbi bipolari siano più frequenti nelle classi sociali elevate. E' stato ipotizzato che le caratteristiche temperamentali dei soggetti malati, così come la presenza di lunghe fasi ipomaniacali di lieve entità, ne favoriscano l'ascesa sociale aumentando le loro possibilità di realizzazione lavorativa; anche in questo caso l'insorgenza del disturbo potrebbe essere secondaria, ipotizzando che l'appartenenza ad una classe sociale elevata ed il mantenimento di tale condizione abbiano un significativo effetto stressante in soggetti predisposti.

E

ZIOPATOGENESI

Le ipotesi sull'eziologia dei disturbi dell'umore prendono le mosse da approcci sia prettamente biologici che psicologici: i primi hanno sviluppato ipotesi su basi genetiche, neuroendocrine, immunitarie; gli altri hanno permesso di formulare ipotesi psicodinamiche, cognitiviste e psicosociali. In questa sede pare opportuno illustrare i modelli eziologici cognitivisti dei disturbi dell'umore:

(12)

depressione sostenuta da “pensieri automatici” relativi ad una visione negativa di sé stessi, del mondo e del futuro (triade cognitiva depressiva di Aaron T. Beck) (Chamberlain, Sahakian 2006). Lo stato d'animo depressivo verrebbe mantenuto e reso immodificabile da questi pensieri che parrebbero autoalimentarsi; questo a causa di alcune distorsioni cognitive (affective bias) come, ad esempio, la selezione arbitraria delle informazioni, ovvero la tendenza a cogliere solo i dati di realtà che confermano le convinzioni pessimistiche e ad escludere quelli che invece potrebbero smentirle.

Collocando questo modello cognitivo in una prospettiva evoluzionistica, si può ipotizzare che quei pensieri automatici trovino origine in due fenomeni distinguibili: la formazione di un attaccamento insicuro alle figure genitoriali durante l'infanzia e l'iperattivazione di un “sistema motivazionale agonistico”, influenzato da fattori biologici e dall'esperienza, che alimenterebbe una forte tendenza alla competizione. Dinanzi ad eventi di vita dolorosi il soggetto con queste caratteristiche non sarebbe in grado di cercare conforto negli altri: la paura del rifiuto derivante dall'attaccamento insicuro, la percezione di una sconfitta esistenziale e l'inadeguatezza del sistema motivazionale agonistico spingerebbero il soggetto verso

(13)

l'episodio malinconico. Altri soggetti, per un'alterazione dello stesso sistema, potrebbero provare sentimenti di “ipercompenso” con eccesso di sicurezza sensazioni di vittoria e di potenza, corrispondenti alla fenomenica maniacale.

A

SPETTI COGNITIVI DEI QUADRI CLINICI DEI DISTURBI DELL

'

UMORE

La diagnosi dei disturbi dell'umore oggetto di questo studio richiede l'identificazione, secondo i criteri del DSM-IV , di uno o più episodi acuti la cui identificazione richiede la presenza di deficit della sfera cognitiva.

Tra i criteri per la diagnosi di un episodio depressivo rientrano:

● Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi

tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come indicato dalla presenza di apatia per la maggior parte del tempo, riferita dal soggetto od osservata da altri)

● Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno

(osservato dagli altri, e non soltanto sentimenti soggettivi di essere irrequieto o rallentato)

● Sentimenti di svalutazione o di colpa eccessivi o immotivati

(che possono essere deliranti) quasi ogni giorno (non soltanto autoaccusa o sentimenti di colpa per il fatto di essere

ammalato)

● Diminuita capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione,

(14)

Tra i criteri per la diagnosi dell'episodio maniacale ritroviamo invece:

● Maggiore loquacità del solito, oppure spinta continua a parlare

● Fuga delle idee, o esperienza soggettiva che i pensieri si

succedano rapidamente

● Distraibilità

● Aumento dell’attività finalizzata (sociale, lavorativa, scolastica

o sessuale) oppure agitazione psicomotoria

● Eccessivo coinvolgimento in attività ludiche che hanno un alto

potenziale di conseguenze dannose (ad esempio eccessi nel comprare, comportamento sessuale sconveniente,

investimenti in affari avventati)

Questi sintomi corrispondono a deficit misurabili in tutti i principali domini neuropsicologici (memoria, fluenza verbale ed apprendimento, attenzione e funzionamento esecutivo) dei quali tratteremo nel prossimo capitolo. E' opportuno ricordare che è oramai riconosciuto nei risultati della letteratura il persistere (con variazioni di ampiezza ed intensità) dei deficit caratteristici dei disturbi dell'umore proprio in quelle fasi di remissione ed eutimia che vengono definite definite sulla base dei sopra indicati criteri cognitivi ed altri.

(15)

La valutazione neuropsicologica dei

disturbi dell'umore:

La neuropsicologia è una disciplina relativamente nuova che si è definita intorno agli anni '70, malgrado il concetto che si identificava allora con questo termine fosse lontano dal suo significato attuale.

Le basi empiriche della neuropsicologia furono poste fra il 1860 ed il 1900: nel 1861 gli studi di Broca dimostrarono l'esistenza di un'associazione fra disturbi motori del linguaggio e lesioni delle regioni frontali sinistre; nel 1873 Wernicke localizzò l'afasia sensoriale a livello della porzione posteriore della circonvoluzione temporale superiore di sinistra. Nel 1870, l'individuazione dell'area corticale motoria da parte di Fritz e Hitzig aprì la strada agli studi elettrofisiologici della corteccia cerebrale negli animali e nell'uomo.

La parola “neuropsicologia”era comparsa già alcune volte in ambito scientifico nel corso della prima metà del XX secolo (Sir W. Osler, 1913 e K. Lashley,1937), ma è nel 1949 che per la prima volta viene proposta la funzione della neuropsicologia quale approccio all'indagine dell'attività mentale (Daniel Hebb: “L'organizzazione del

(16)

comportamento, una teoria neuropsicologica”). La prima rivista scientifica dedicata all'argomento,

Neuropsychologia, è stata successivamente fondata da

Henry Hecaen, nel 1963 a Parigi. Un ulteriore contributo alla neuropsicologia è fornito dai progressi in campo neurochirurgico e neuroradiologico che hanno fornito strumenti sempre migliori per la ricerca delle correlazioni anatomo-cliniche delle alterazioni cognitive. Al ramo clinico della neuropsicologia si è poi affiancato il contributo sperimentale della psicologia cognitiva con lo studio delle funzioni mentali in quanto tali tramite l'impiego di modelli funzionali teorici, indipendentemente dalla loro localizzazione neuroanatomica.

Nell'accezione più ampia la neuropsicologia può definirsi come “scienza applicata che riguarda l'espressione comportamentale di disfunzioni cerebrali”

(Lezak et al., 2004).

Numerosi autori hanno fornito definizioni più precise della disciplina, dando la precedenza di volta in volta solo ad alcuni dei suoi differenti aspetti: quelli che ci sembrano più rilevanti per descrivere il contributo neuropsicologico alla psichiatria sono quello, classico, della neuropsicologia clinica e l'indirizzo di ricerca della psicologia cognitiva.

(17)

L

A

N

EUROPSICOLOGIA

CLASSICA

La neuropsicologia clinica, può essere ben definita da una descrizione operativa degli obiettivi dell'intervento neuropsicologico sul paziente:

● Diagnosi: determinare la natura dell'alterazione del funzionamento cognitivo, osservando il comportamento del paziente in condizioni controllate

● Comprensione della natura del danno cerebrale, del risultante deficit cognitivo e del suo impatto sulle capacità del soggetto, volta a valutarne le competenze in determinate aree funzionali e, se necessario, all'elaborazione di un programma riabilitativo personalizzato.

● Analisi delle modificazioni del profilo cognitivo, tramite il monitoraggio delle conseguenza di una pratica neurochirurgica, psicoterapeutica o di un programma riabilitativo.

(18)

neuropsicologia, come scienza composita e multidisciplinare, se ne può descrivere un ulteriore modello operativo: quello dello studio delle corrispondenze tra modificazioni comportamentali e la localizzazione o la tipologia del danno a carico del SNC. L'oggetto della ricerca diviene dunque la localizzazione delle funzioni cerebrali, con enfasi sul “dove” abbia luogo in processo, non necessariamente sul “come”, e sull'identificazione dei sintomi caratteristici dei vari quadri lesionali alla ricerca di modelli di compromissione specifici.

Questa è la forma più tradizionale del contributo neuropsicologico alla psichiatria: il confronto delle funzioni cognitive di pazienti con lesioni cerebrali note e di soggetti con disturbi psichiatrici. Tale valutazione può impiegare vaste e sfaccettate batterie di prove che evidenziano profili cognitivi corrispondenti a modelli di deficit attesi, oppure singoli test mirati all'esame di singole funzioni psicologiche od aree cerebrali , quali la torre di Hanoi od Il

Wisconsin Card Sorting Test, uno degli strumenti impiegati

per il presente studio. Questo modello d'indagine aveva l'obiettivo di ottenere una diagnosi differenziale, in primo luogo rispetto alle patologie cerebrali organiche.

(19)

della ricerca di criteri neuropsicologici per la diagnosi differenziale psichiatrica, dall'altra hanno però dimostrato l'utilità della definizione di un profilo neuropsicologico

dei malati psichiatrici.

Lo studio di questo profilo, basato sul concetto di “analogia” tra sindromi cliniche, offre alla considerazione più livelli: un esempio dell sua applicazione è l'assimilazione fra apatia e demotivazione dei pazienti con lesioni dei lobi frontali ed il quadro clinico della schizofrenia cronica, sulla cui base è stato formulato il modello neuropsicologico della disfunzione frontale, che più di altri sembra spiegare l'eterogeneità dei deficit della schizofrenia.

L

A PSICOLOGIA COGNITIVA Il principale limite dell'approccio neuropsicologico classico consisteva proprio in quel costante riferimento all'anatomia funzionale cerebrale che distingueva la neuropsicologia clinica dalla psicologia e che ha condotto ad un eccessivo riduzionismo anatomo-funzionale.

A tale eccesso si è contrapposta l'adozione dell'approccio sperimentale proprio della psicologia cognitiva, originatasi dalla neuropsicologia classica come

(20)

indirizzo di ricerca sui soggetti sani. Questa integrazione del metodo classico propone l'esplorazione della natura del deficit neurocognitivo mediante la definizione un contesto teorico, in cui lo sviluppo e la validazione di teorie e modelli di funzionamento cognitivo normale conducono ad ipotesi sulle disfunzioni cognitive osservate, definendo la compromissione cognitiva nei termini del danno di una o più componenti delle funzioni mentali

[memoria, attenzione, emozioni, percezione, linguaggio]

rispetto ad un modello cognitivo “normale” (un costrutto teorico basato, appunto, sull'osservazione del comportamento dei soggetti sani). Si è posta così una maggior attenzione sull'architettura dei processi cognitivi a discapito del loro correlati neuro-anatomici.

N

EUROPSICOLOGIA E

P

SICHIATRIA La valutazione neuropsicologica si avvale dell'intervista e dell'osservazione del paziente, dei test neuropsicologici veri e propri e di procedure proprie di altri approcci neuroscientifici, quali esami di diagnostica per immagini, valutazione neurologica e psicopatologica ed un'accurata anamnesi clinica. Essa può contribuire ad un'appropriata diagnosi differenziale dello stato di salute del paziente, e risultare utile per una miglior comprensione dell'eventuale deterioramento del suo

(21)

adattamento socio-lavorativo, familiare e “personale” in rapporto all'insorgenza ed al decorso della patologia.

L'approccio neuropsicologico ai disturbi psichiatrici permette la discriminazione degli aspetti osservabili dei processi cognitivi e delle annesse implicazioni di ordine psicologico, affettivo, e di personalità.

Le applicazioni nella pratica clinica vanno dal perfezionamento della diagnosi, al monitoraggio della terapia, alla programmazione di interventi riabilitativi; nel campo della ricerca la valutazione neuropsicologica delle disfunzioni cognitive permette di indagare i substrati neuroanatomici dei disturbi psichiatrici e convalidare possibili nuovi endofenotipi.

Domini Cognitivi e Test neuropsicologici

L

E FUNZIONI COGNITIVE Si possono definire come degli schemi di controllo che permettono la formazione ed il mantenimento dei legami fra l'individuo ed il contesto sociale, fornendo la capacità di interpretare e gestire correttamente le informazioni. Non è possibile attribuire un'individualità funzionale a questi schemi, ma dallo studio delle funzioni cognitive

(22)

sono emerse strette correlazioni fra una funzione e l'altra esse e con le aree corticali e sottocorticali (filogeneticamente più antiche) che [secondo i risultati della ricerca neuropsicologica] le sottendono. Tali correlazioni sono emerse valutando l'attività funzionale di aree cerebrali specifiche, particolarmente delle aree corticali associative, e questo ha portato ad ipotizzare che esistano definite aree corticali in grado di presiedere a determinate funzioni cognitive.

Questi risultati sostengono un'ipotesi di localizzazione funzionale ma non permettono di una correlazione esclusiva tra una data funzione ed una specifica area corticale: in effetti la maggior parte delle funzioni cognitive richiede l'intervento integrato di più aree distinte.

Quindi: una funzione cognitiva implica l'attivazione di una rete neuronale complessa, interconnessa e diffusa nella corteccia e nelle strutture sottocorticali.

Dato il comune riscontro di una compromissione delle funzioni cognitive in diverse condizioni d'interesse neurologico e psichiatrico, lo studio delle modalità di espressione di queste alterazioni può consentire ulteriori

(23)

approfondimenti delle basi neurobiologiche del disturbo mentale.

Nell'analisi del funzionamento cognitivo occorre distinguere il livello dei “domini cognitivi” da quello delle semplici funzioni: ogni dominio o classe funzionale comprende numerose attività, discrete, (a cui si fa riferimento quando si parla di funzioni cognitive) come il riconoscimento dei colori o la memoria immediata per le parole pronunciate. Sebbene ogni funzione costituisca una classe distinta di comportamenti, usualmente essi operano in accordo stretto e interdipendente(Lezak,).

I domini cognitivi classicamente definiti sono: memoria, attenzione, funzioni esecutive frontali e linguaggio.

Per il nostro studio ci siamo avvalsi dei dati sulla prestazione a quattro prove neuropsicologiche i cui indici stimano i domini dell'attenzione e del funzionamento esecutivo.

A

TTENZIONE

L'attenzione è un processo che opera il filtraggio e l'organizzazione delle afferenze sensoriali allo scopo di emettere delle risposte adeguate al contesto ambientale:

(24)

questa operazione è resa necessaria dalla natura limitata della capacità di elaborazione delle informazioni, indirizzata da interessi e piaceri soggettivi. L'attenzione rivolta verso un oggetto od una parte dello spazio esterno implica quindi la selezione degli stimoli d'interesse, o “bersaglio”, e l'inibizione degli stimoli distraenti (attività divergenti).

In neuropsicologia vengono riconosciute due componenti di base del dominio dell'attenzione secondo un modello che ne prevede l'influenza più o meno reciproca:

L'Arousal, definibile come “prontezza fisiologica a rispondere agli stimoli”*

L'Attenzione sostenuta: definita come la capacità di mantenere un adeguato livello di attenzione protratto nel tempo.

○ Le caratteristiche del funzionamento normale dell'attenzione sostenuta sono la flessibilità,

* Tartaglione, in un lavoro del 1986, riferiva che le regioni corticali frontali sembrano le più interessate nel sostenere l'arousal, ed infatti si può osservare facilmente come una lesione frontale causi spesso abulia ed

(25)

che rappresenta la capacità del sistema di “scegliere” di volta in volta quale stimolo focalizzare e come elaborarlo, e l'attenzione

selettiva, che impedisce l'interferenza di stimoli

meno rilevanti ai fini dell'azione.

Tra i substrati anatomici del sistema dell'attenzione le strutture più importanti sono la formazione reticolare

ascendente, responsabile del mantenimento dell'arousal, e

la corteccia del giro del cingolo, implicata nel funzionamento dell'attenzione selettiva.

Per essere in grado di attivare il sistema dell'attenzione, uno stimolo deve possedere alcune definite caratteristiche:

● essere personalmente rilevante in base a bisogni obiettivi e valori del soggetto

● avere una sufficiente valenza emotiva

● sorprendere il soggetto

● essere facilmente elaborabile, per prossimità spaziale, concretezza, contrasto con lo sfondo

(26)

ambientale ed evidenza.

Il deficit dell'attenzione è un sintomo nucleare di molti modelli di psicopatologia cognitiva relativi ai disturbi d'ansia e dell'umore che, malgrado le numerose differenze tra le sindromi cliniche, presentano da un punto di vista cognitivistico un tratto comune: spiccata sensibilità e preoccupazione per stimoli ambientali che si riferiscano ai contenuti del vissuto psicopatologico personale. Questo tratto altro non è che una delle “distorsioni affettive” (affective oppure emotional bias per la ricerca anglosassone) ricordate in precedenza a proposito dei modelli patogenetici di Beck e Seligman.

Secondo alcuni autori questo può corrispondere dal punto di vista neuropsicologico primariamente ad un deficit dell'attenzione selettiva, da considerare quindi parte del dominio dell'attenzione; secondo altri autori invece il controllo dell'attenzione selettiva, richiedendo una ridistribuzione delle risorse cognitive, apparterrebbe al dominio del funzionamento esecutivo. L'obiettivo della ricerca in questo campo risiede nella valutazione dell' ”emotional bias” sulla base dei suddetti modelli cognitivi, realizzabile utilizzando alcuni test neuropsicologici tra i quali l'Emotional Stroop Task (Williams, Mathews,

(27)

MacLeod, 1996).

L

E

F

UNZIONI

E

SECUTIVE “Il principio del funzionamento esecutivo può essere ben rappresentato dal concetto neuropsicologico di un “Homunculus neurale” incaricato di pianificare e distribuire le risorse cognitive, o, forse, dal concetto di volontà” (Goodwin, Jamison 2007).

In termini generali, il dominio delle funzioni esecutive si riferisce all’insieme dei processi mentali necessari per l'elaborazione di schemi cognitivo-comportamentali adattativi in risposta a condizioni ambientali nuove e impegnative; essi consentono di ottimizzare la prestazione in situazioni che richiedono la simultanea attivazione di processi cognitivi differenti.

Tali funzioni appaiono particolarmente critiche quando devono essere generate e organizzate sequenze di risposte e quando nuovi programmi d'azione devono essere formulati ed eseguiti.

Nella prospettiva della neuropsicologica cognitiva, l’insieme dei processi che costituiscono il dominio delle funzioni esecutive può essere scomposto in "unità"

(28)

cognitive parzialmente differenziabili che comprendono:

● Capacità di pianificazione e valutazione delle strategie finalizzate.

● Controllo inibitorio e modulazione della risposta alle modificazioni dell'ambiente esterno

● Controllo dell'attenzione selettiva

● Memoria di lavoro, che si riferisce ai meccanismi che consentono l'acquisizione e la disponibilità delle informazioni necessarie allo svolgimento di operazioni complesse

In una prospettiva neurobiologica, un ampio accordo è presente in letteratura sul considerare la corteccia prefrontale il principale substrato neurale di tali funzioni.

In particolare, studi comportamentali e di neuroimaging funzionale hanno permesso di differenziare il contributo delle diverse regioni della corteccia prefrontale, ed in particolare orbitofrontale, nella mediazione delle diverse componenti delle funzioni esecutive (Caltagirone,2005)

(29)

I

TEST NEUROPSICOLOGICI

Gli strumenti dello studio neuropsicologico delle funzioni mentali sono i test, raggruppati in batterie strutturate a seconda delle funzioni cognitive oggetto dell'indagine: la valutazione della prestazione ai test impiega dei parametri che possono essere, ad esempio, il numero ed i tipi di errori commessi, il tempo necessario per ultimare una prova ed i tempi di reazione a determinati stimoli. E' opportuno ricordare che nessun test neurocognitivo, per quanto raffinato, può considerarsi specifico per lo studio di una singola funzione cognitiva; ogni strumento esplora contemporaneamente più dimensioni, ed è proprio l'integrazione di questi diversi “punti di vista” in batterie teoreticamente fondate che permette una stima affidabile del funzionamento cognitivo. Per l'analisi della valutazione neuropsicologica a scopo di ricerca, è spesso preferibile fare riferimento agli indici forniti dalle batterie di test piuttosto che alle diverse funzioni cognitive la cui classificazione può variare a seconda dell'impostazione dei diversi studi.

Riferimenti

Documenti correlati

A seguito della legge sui DSA, dieci Regioni hanno emanato una propria normativa in materia (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Puglia,

La circolazione di brezza è una situazione meteorologica tipica delle valli alpine: nelle giornate estive con cielo sereno, il diverso riscaldamento dei versanti e della massa

Dalla crisi del 2007/08 il mondo ha capito la difficoltà di conciliare domanda e offerta di alimenti in un contesto di (relativa) stabilità dei prezzi. Ed è a questo

 ADJUVANT THERAPY with CHECKPOINT INHIBITORS (CA209-238 trial) AND TARGET THERAPY (BRIM8 and COMBI-AD trials)?. ….the

• Despite its large size and prospective design, IDEA provides no direct evidence on the efficacy of CAPOX compared with that of FOLFOX. Patients could have been

Da poco in parrocchia abbiamo celebrato il funerale di una signora affetta da sindrome di Down: molti erano rimasti toccati dalla suo essere diretta e schietta nelle relazioni. Ma

I POTESI DI COSTITUZIONE DI UNA RETE FORMALIZZATA DI COLLABORAZIONE A LIVELLO TERRITORIALE TRA ISTITUZIONI , SCUOLE , ENTI LOCALI E TERZO SETTORE PER RENDERE LA

▼ L’attività fisica può inoltre migliorare le capacità di socializzazione intesa non solo come capacità di interagire con gli altri ma come sforzo comune per