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54 CAPITOLO II

LA BUONA FEDE NEI SISTEMI GIURIDICI EUROPEI

II.1 La buona fede all'interno dell'ordinamento giuridico francese dalle origini alla più recente modifica del febbraio 2016.

Nell’ambito del codice civile francese si rinviene più volte il riferimento alla buona fede.

Così come accade nel nostro ordinamento, anche in Francia, il legislatore usa indistintamente il termine “bonne foi” per riferirsi alla buona fede soggettiva ed alla buona fede oggettiva, delegando all'interprete il compito di individuarne, di volta in volta, la natura e il significato1.

Nel Code Napoléon la buona fede è presente, sia nella disciplina dei diritti reali, sia nella disciplina del diritto di famiglia, che nelle norme sui contratti. In particolare, nel “droit des biens”, all’art. 550 c.c. sul possesso di buona fede, si scorge la sua definizione in senso soggettivo, ovvero nella convinzione di un soggetto di essere titolare del diritto di acquistare un bene dal proprietario in base al presupposto dell’esistenza di un titolo2, mentre nel “droit de la famille”, la buona fede viene definita a proposito del "mariage putatif". Ma la buona fede, qualificata in senso oggettivo, acquista

1 Y. Picod, Le devoir de loyauté dans l'exécution du contract, Paris, 1989

tratto da I. Musio, Breve, cit., pag.15.; J. Carbonnier, Droit civil, T. IV, Les obligations, Paris, 1993, pag. 222 e ss.

2 P. Raynaud, Les biens, in G. Marty - P. Raynaud, Droit civil, Paris, 1980,

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una vera e propria valenza specifica, soprattutto nell’ambito del “droit des contracts”. Ciò lo si poteva rilevare dal combinato disposto dell’art. 1134 del Code civil, che rappresentava una delle fonti normative di riferimento per lo studio della buona fede contrattuale, con il successivo art. 1135 c.c. L’art. 1134, comma 3, statuiva il dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede, mentre l’art. 1135 c.c. stabiliva che il contratto poteva essere integrato con l'utilizzo di fonti esterne allo stesso nell’equità, negli usi, nella legge e nella natura del contratto stesso.

La storia della buona fede in Francia è alquanto complessa ed articolata; la sua antica tradizione storica è testimoniata dalla sua origine nell’ambito del diritto canonico, dalle successive previsioni nel contesto della lex mercatoria, fino ad essere stata oggetto di studio costante da parte del Domat. In Francia, come in Italia, sia la dottrina che la giurisprudenza si sono soffermate principalmente sull’analisi del contenuto e della funzione del concetto di buona fede contrattuale.

Le pagine che seguiranno faranno cenno a previsioni passate che sono state modificate dalla riforma del febbraio 2016, che sarà analizzata alla fine del paragrafo. Qui pertanto continueremo ad esporre quanto previstosi anteriormente alla modifica sopracitata.

Viene dunque naturale procedere ad un'analisi congiunta dei due ordinamenti, in considerazione delle notevoli affinità che si possono riscontrare sul piano operativo e dogmatico, entrambe espressioni di

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una comune matrice di ispirazione romanistica. In principio, l’influenza della concezione moralizzatrice, estrinsecazione della teoria del diritto naturale, ha indotto i Francesi a concepire il principio della buona fede come una nozione fondamentale del diritto dei contratti. Basti pensare che l’originario art. 1134 c.c. nel project de Code civil, redatto dal Portalis, recitava come “les conventions doivent être contractées et exécutées de bonne foi”. Ripert, in proposito, attribuiva alla buona fede un ruolo particolarmente importante di mediazione, quale “punto di contatto” tra il diritto e la morale3. Tuttavia, è qui opportuno precisare che in sede di redazione finale del code civil, contrariamente al progetto iniziale, l'efficacia della buona fede venne limitata alla mera fase esecutiva del contratto. Una simile scelta ha reso la base legislativa della bona fides insufficiente. A discapito delle sue antiche origini, si assiste, nel XIX secolo, ad una sostanziale trascuratezza da parte della dottrina nei confronti della previsione di cui all’art. 1134 c.c., che veniva considerato dai giuristi d’Oltralpe, per lo più, come una norma di puro stile, di fatto non applicata. Un simile approccio, in un certo qual modo marcatamente riduttivo, era generato da due ordini di motivi: da un lato, per l'imporsi della volontà come dogma assoluto, in base al quale il contratto è la "legge", creata esclusivamente dalle parti, in una logica di prevalenza dell'autonomia privata; dall'altro, per il

3 G. Ripert, La régle morale dans les obligations civiles, Paris, 1949, pag.

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timore di una intromissione arbitraria da parte del giudicante, in quanto potenzialmente legittimato ad “insinuarsi”, nel contenuto dell’assetto contrattuale modificandolo. Altra parte della dottrina4 considera la buona fede come una struttura immaginaria, dal momento che sarebbe più opportuno parlare piuttosto di una “collaborazione necessaria tra le parti”.

In tale assetto, per diversi anni, dottrina e giurisprudenza hanno assunto un approccio sfavorevole verso la buona fede, che solo in parte appare superato dagli orientamenti recenti5. La buona fede, per la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria francese, consiste in un dovere di comportamento che deve essere assunto dalle parti contrattuali. Problematico appare determinare il tipo di atteggiamento richiesto ai contraenti ed il criterio di valutazione che deve essere applicato dal giudice, per poter stabilire se un comportamento sia o meno rispettoso del dovere di buona fede.

Proprio in merito a tali difficoltà qualificatorie, la dottrina francese, come in Italia, si presenta divisa in due macro-orientamenti. Da un lato, coloro che ritengono di poter oggettivizzare le condotte che i contraenti debbono assumere, e che, quindi, sarebbero desumibili a priori, come comportamenti standardizzati. Dall’altro lato, invece,

4 G. Lyon-Caen, De l’évolution de la notion de bonne foi, in R.T.D. civ.,

1946, pag. 83 e ss.

5P. Delbecque, Il ricorso dei giudici alle clausole generali in Francia, in

AA.VV., Clausole e principi generali nell'argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta, a cura di L. Cabella Pisu e L. Nanni, Padova, 1998, pag. 188.

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coloro che sostengono che la clausola generale della buona fede delegherebbe al giudice la formulazione dei criteri che, di volta in volta, debbono essere utilizzati e che variano in base al caso concreto ed in base alle singole fattispecie giuridiche. Detto orientamento abbandona la logica delle definizioni e dell’individuazione delle funzioni della buona fede a priori, in astratto, optando, invece, per esaminare il “dovere di lealtà”, analizzandolo nelle sue singole manifestazioni più rilevanti. Seguendo quest’ultima impostazione né la legge, né il contratto sembrano in grado di specificare in maniera completa i comportamenti che debbono essere tenuti dalle parti contraenti e che, per risolvere le questioni interpretative, è necessario l’intervento del giudice che, sulla base del caso concreto, indicherà, a titolo di direttiva, la condotta ritenuta conforme a buona fede.

Nell’ambito dei vari e contrastanti orientamenti dottrinali francesi, merita poi, di essere menzionata la questione afferente la possibilità, o meno, di fare rientrare nel concetto di buona fede anche una serie di obblighi ulteriori, quali quelli di: informazione, sorveglianza, assistenza, cooperazione. Anche in merito a questa interpretazione si sono sviluppati due contrapposti orientamenti.

Secondo una prima visione dottrinale, la buona fede, in quanto mera regola di condotta di obbligazioni già determinate, non appare idonea a generare doveri ulteriori, caratteristica che si rinverrebbe solamente nell'equità.

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L’orientamento maggioritario ritiene, invece, che l’evoluzione metodologica in tema di buona fede abbia dimostrato come l’impiego della clausola possa imporre comportamenti ulteriori, di carattere positivo, cioè nuove obbligazioni6. Secondo tale impostazione, dunque, oltre al dovere di lealtà, assumono una rilevante importanza, anche altri doveri come quello di informare, vigilare, cooperare, tutti comportamenti attivi, positivi. La buona fede impone alle parti un comportamento cooperativo indirizzato a comporre un conflitto sociale in linea con le esigenze del sistema economico e della società, la clausola dovrà quindi adeguarsi ai cambiamenti storici, in particolare, con riferimento al dovere di cooperare, che implica un comportamento attivo e positivo da parte dei contraenti. Secondo Carbonnier, ognuno degli stipulanti, nel perseguire i fini individuali, sceglierà gli strumenti giuridici sulla base di un criterio di opportunità; proprio per questo motivo parla di “cooperazione antagonista”, in quanto ritiene che nell’ambito di un rapporto contrattuale vi sia un costante conflitto di interessi, poiché ogni contraente vorrà perseguire, attraverso il contratto, fini individuali e personali, in una logica assolutamente utilitaristica7.

Diversamente da questa impostazione, Demogue ritiene che il contratto tende a raggiungere oltre ai fini individuali anche uno scopo ulteriore e comune, quindi una vera e propria cooperazione, che si

6R. Demogue, Traité des obligations in général, II, Effets des obligations,

Paris, 1987, pag. 565.

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concretizza in primo luogo con l’astensione da comportamenti in contrasto con la buona fede, e in secondo luogo nel porre in essere un vero e proprio facere, cioè quale condotta positiva posta in essere dalle parti8. In ultimo, è opportuno accennare ad un orientamento che ha sviluppato un approccio ancora più favorevole al ruolo operativo della buona fede. Il suo più grande interprete è rappresentato da Desgorces, secondo il quale attestare che gli accordi devono essere eseguiti in buona fede significa riconoscere la forza obbligatoria del contratto9.

Per comprendere al meglio le caratteristiche del principio di buona fede nell’ordinamento giuridico francese, può senz'altro essere utile partire da una rilevante differenza rispetto al nostro ordinamento giuridico. Mentre in Italia il riconoscimento e l’applicazione del principio di buona fede si erano resi indispensabili allo scopo di strutturare l'equilibrio contrattuale attraverso la costituzione di obblighi ulteriori, in Francia si è svolto un percorso diverso per garantire tale equilibrio, vale a dire l’applicazione della disciplina dell’abuso del diritto.

Nel Codice civile francese, così come in quello italiano, non esiste una norma di carattere generale che disciplina l’abuso del diritto, tale teoria infatti trae origine dall’insieme di una serie di fattispecie diversificate presenti nel codice. Il divieto dell’abuso del diritto è

8R. Demogue, Traité, cit., pag. 567 e ss.

9R. Desgorces, La bonne foi dans le droit des contrats: rôle actuel et

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derivato dalla necessità di mitigare quel senso di assolutezza dei diritti che si era fatto strada partire dal periodo successivo alla rivoluzione francese. Infatti, si era determinato un clima di assoluta tutela dell’autonomia contrattuale e di preminenza, su tutti, del principio della libertà del soggetto contrattuale. Allo scopo di mitigare questa concezione, la teoria del divieto dell’abuso del diritto ha rilevato come il cattivo esercizio di tutti i diritti, anche quelli assoluti, possa dare vita ad abusi10. Nel sistema francese, infatti, la sanzione prevista dalla disciplina del divieto dell’abuso del diritto opera attraverso due criteri: il primo è quello della responsabilità civile, laddove l’abuso deriva dall’aspetto psicologico, cioè dall’animus nocendi; il secondo quello dell’inefficacia, quando l’abuso deriva da una responsabilità oggettiva.

I più recenti orientamenti non solo dottrinali hanno rivisto il dogma dell’intangibilità degli accordi presi dalle parti, optando per il superamento, o quanto meno il temperamento, della libertà contrattuale. Difatti, verso la metà del secolo scorso, si è andata trasformando la visione del contratto esaltando maggiormente il profilo economico dello stesso, legato all’esigenza di certezza dei traffici, ciò ha sicuramente indotto a temperare la concezione del principio di autonomia contrattuale; in tal senso, l’art. 1134, comma

10L. Josserand, De l’esprit des droits et de leur relativité. Théorie dite de

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3, c.c. rappresentava lo strumento più idoneo ad attenuare il principio dell’intangibilità delle previsioni contrattuali.

Appare a tal punto doveroso accennare ad un importante orientamento dottrinale che ha ritenuto consentito al giudice (anche se entro certi limiti) di insinuarsi nell'ambito contrattuale ed eventualmente modificarne l’equilibrio in due modi differenti: imponendo un obbligo di rinegoziazione o, addirittura, controllando l’attività di rinegoziazione. Si è assistito così, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ad un graduale, seppur lento, riconoscimento, da parte della giurisprudenza di un maggiore valore giuridico alla clausola della buona fede, quale vero e proprio strumento di protezione a favore di una eventuale parte debole nell’ambito del rapporto contrattuale. A titolo esemplificativo si citano alcune decisioni giurisprudenziali, come, per esempio, una sentenza della Corte di Cassazione francese del 1976 che aveva applicato l’art. 1134, comma 3, c.c. in tema di clausole risolutive relativamente ad un contratto di locazione nell’ambito del quale si reputava in “mala fede” la condotta tenuta del locatore, che intimava al conduttore il pagamento del canone di locazione o l’esecuzione di riparazioni obbligatorie, approfittando dell’assenza dello stesso11. Inoltre, particolarmente interessante è una pronuncia della Corte d’Appello di Parigi12 che ha riconosciuto il dovere di collaborazione e

11Cass. civ.,15 dicembre 1976, III, n. 354. 12Corte app. Parigi, 18 giugno 1984.

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cooperazione, che deve necessariamente intercorrere tra le parti contrattuali durante le varie fasi del contratto, ponendo l'accento sull’importanza che assume la diversa posizione iniziale delle parti contraenti, in merito alla conoscenza di informazioni utili ai fini contrattuali o il diverso grado di professionalità e tecnicismo che una delle parti ha rispetto alla materia oggetto del contratto. Nonostante l'apertura da parte della dottrina e della giurisprudenza nei confronti della clausola generale della buona fede, erano rimasti nel sistema giuridico francese atteggiamenti incerti e dubbi interpretativi in merito al contenuto di questa. Il riferimento normativo dell’art. 1134, comma 3, c.c. appariva insufficiente e la dottrina era profondamente divisa tra coloro che consideravano la buona fede come una obbligazione in sé, che si accosta alle altre obbligazioni, che costituivano l'insieme del regolamento contrattuale. Diversamente, altri ritenevano che non fosse necessario attribuire alla buona fede una particolare autonomia di contenuti, il che si sarebbe dimostrato dal fatto che esistevano numerose leggi speciali, concepite precipuamente, per sanzionare condotte altrimenti non punibili, ma pur sempre attinenti alla violazione di doveri di correttezza. Tali basi normative sono state soppiantate dalla riforma del febbraio 2016. Il principio di buona fede è stato successivamente esteso dalla giurisprudenza francese anche alla formazione del contratto ed utilizzato a supporto del regime giuridico dell'abuso del diritto, rientrante nell'art. 1143 "caso di abuso di dipendenza".

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Per quanto di nostro interesse si farà cenno alle modifiche consacrate nell'ordinanza n°133-2016, di riforma del diritto contrattuale, del regime generale e della prova delle obbligazioni (Ordonnance portant réforme du droit des contrats, du régime général et de la preuve des obligations), entrata i vigore il 1°ottobre dello stesso anno13.

In essa, infatti, il nuovo testo dell'art. 1104 si configura come una clausola generale di buona fede, affermando: art. 1104: (1) Les contrats doivent être négociés, formés et éxcutés de bonne foi. (2) Cette diposition est d'ordre public. [(1) I contratti devono essere negoziati formati ed eseguiti in buona fede. (2) Questa disposizione è di ordine pubblico], mentre il contenuto del vecchio art. 1135 si è trasfuso nel nuovo art. 1194, che ne riproduce nella quasi totalità il testo: art. 1194: Les contrats obligent non seulement à ce qui y exprimé, mais encore à toutes les suites que leur donnent l'équité, l'usage ou la loi [I contratti obbligano non solo a ciò che è espresso in essi ma anche a tutte le conseguenze che l'equità, l'uso o la legge attribuiscono loro]. Rileva dunque come la riforma abbia attribuito un grande ruolo alla clausola generale di buona fede che impone quindi alle parti un dovere di reciproca lealtà, cooperazione e di informazione, limitando l'operatività delle clausole di esonero da responsabilità per inadempimento.

13A. Petrucci, Fondamenti, cit., pag. 74.; Per un primo commento generale

si rinvia a F. Chénedé, Le nouveau droit des contrats et des obligations. Consolidations-Innovations-Perspectives, Paris, 2016, pag. 20 e ss.; D. Mazeaud, Prime note sulla riforma del diritto dei contratti nell'ordinamento francese, in Riv. dir. civ., 2016, pag. 430 e ss.

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II.2 La buona fede all'interno dell'ordinamento giuridico tedesco. In Germania, così come in Italia, non sono rilevabili né una definizione legislativa, né un’interpretazione concettuale univoca della buona fede; ma il sistema giuridico tedesco è, tra quelli europei, quello che ha dato maggiore significato alla clausola generale in esame, sia in dottrina che in giurisprudenza. Anche nell’ordinamento tedesco, il codice civile prevede la buona fede soggettiva ed oggettiva ma, a differenza del nostro Paese, il legislatore tedesco ha scelto di separare i due concetti, utilizzando due termini differenti, ovvero “Guter Glaube”, che indica la buona fede soggettiva (§922, 955, 957, ecc. BGB) e “Treu und Glauben” (§242 BGB) che sta per buona fede oggettiva. Il §242 BGB14, che afferisce alla disciplina delle obbligazioni, ed è intitolato: “Prestazione secondo buona fede”. Esso costituisce un cardine del sistema giuridico tedesco, in quanto ha consentito ai giuristi di interpretare in chiave evolutiva le previsioni del BGB. Treu und Glauben è un’espressione di origine medievale, usata nei rapporti commerciali, e consiste in un criterio di valutazione del comportamento che può essere rilevato solo in presenza di uno preciso rapporto giuridico. Questa nozione ha un valore più ampio rispetto alla bona fides romanistica. La conseguenza di questa diversa concezione ordinamentale è che la bona fides di ispirazione

14Il 242 BGB dispone:<<Il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione in

buona fede, tenendo conto degli usi>> (der Schuldner ist verpflichtet, die Leistung so zu be wirken, wie Treu und Glauben mit Rücksicht auf Verkehrssitte es erfordern)>>.

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romanista, come in Italia, è solo fonte di un risarcimento del danno per violazione di una norma comportamentale; invece, il Treu und Glauben attribuisce al giudicante un potere di controllo sul contratto, al fine di assicurare un più equo e soddisfacente bilanciamento degli interessi dei contraenti, fino a valutare la validità e il contenuto del contratto stesso.

In altri termini, mentre in Italia i concetti di buona fede e di equità appaiono ben distinti,15 sia per contenuto che contesto applicativo, nell’ordinamento giuridico tedesco la buona fede si “confonde”, sostanzialmente, con l’equità, fino quasi a combaciarvi. La portata di tale fenomeno è evidente, alla luce del diverso potere attribuito al giudice. In particolare nell’ordinamento italiano, l’equità svolge la funzione di riequilibrare gli interessi delle parti contrattuali, attribuendo al giudice un criterio di giudizio che si rifà a circostanze di fatto, non riconducibili a fattispecie standardizzate ed un potere di penetrare il contenuto del contratto fino a modificare gli accordi delle parti. Va detto, inoltre, che l’equità non viene assimilata ad una clausola generale e, pertanto, non si rifà a modelli c.d. generali ed astratti; viceversa, la buona fede, data la sua natura di clausola generale, impone al giudice una valutazione dei criteri

15M. Franzoni, Buona fede ed equità fra le fonti di integrazione del

contratto, in Contratto e impresa, 1999, 1, pag. 83; G. De Cristofaro, La riforma del diritto tedesco delle obbligazioni, Padova, 2003, pag. 140; G. Alpa, La completezza del contratto: il ruolo della buona fede e dell’equità, 2002, pag. 611 e ss.; F. Gazzoni, Equità ed autonomia privata, Milano, 1970, pag. 90.

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comportamentali richiesti alle parti durante le varie fasi di vita del contratto e non del contratto in sé considerato.

Nell’ordinamento giuridico tedesco, al contrario, proprio a causa della labile distinzione tra buona fede ed equità, le conseguenze operative del §242 BGB sono sicuramente più pregnanti16. Infatti, il giudice tedesco, attraverso l’applicazione di tale norma, può entrare nel merito degli accordi tra le parti, fino a valutare non solo il loro comportamento, ma anche la validità ed il contenuto dell'accordo contrattuale stesso17, ampliando così l’ambito applicativo della clausola generale della buona fede, fino a ricomprendervi gli effetti incidenti della nostra nozione di equità. In tal senso, un'autorevole dottrina ha sostenuto che la giurisprudenza tedesca ha attribuito alla clausola della buona fede non già il “significato di norma che indica al giudice un criterio per la decisione secondo legge di una generalità di casi, bensì il significato di norma che fornisce al giudice un mezzo per scoprire una lacuna legislativa e, al tempo stesso, la possibilità di colmare tale lacuna con una decisione che si rifaccia a giudizi di valore extrapositivi”18.

16A. Di Majo, La modernisierung del diritto delle obbligazioni in Germania,

in Europa dir. priv., 2004, pag. 533 e ss. e A. Musio, La buona, cit., pag. 73 e ss.; M.R. Will, Le condizioni generali di contratto secondo le nuova legislazione tedesca: la loro disciplina nei rapporti interni e internazionali, in Riv. dir. comm., 1979, pag. 87.

17 F. D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in Il ruolo della

buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, vol. II, Padova, 2003, pag. 411 e ss.

18L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir.

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Dal momento che il §242 BGB amplia in modo significativo il potere del giudice in tema di buona fede, essa assume senza dubbio una ancor maggiore centralità nel sistema tedesco. In quest’ottica la dottrina ha svolto un rilevante ruolo, distinguendo, attraverso l’identificazione di tipici gruppi di casi (Fallgruppen), tre funzioni principali del §242: in primo luogo quella concernente l’interpretazione e la concretizzazione del contratto, che impone un adeguamento del contratto in presenza di fatti sopravvenuti, che ne potrebbero alterare l’equilibrio (Veranderungsfunktion); in secondo luogo, quella concernente l'integrazione del contenuto del contratto sulla base di circostanze concrete (Ergänzungsfunktion); ed, infine, quella di restringere le ipotesi di abuso del diritto. A conferma di tale centralità, appare opportuno svolgere un’analisi comparativa tra Germania e Italia, con specifico riferimento a tre categorie fondamentali: il divieto dell’abuso del diritto; l’exceptio doli generalis; il divieto di venire contra factum proprium. Per abuso del diritto si intende “un uso cattivo, riprovevole e illegittimo di un diritto da parte del suo titolare”, ovvero un “improprio uso” del diritto, in violazione del dovere di solidarietà sociale. Il divieto dell’abuso del diritto indica un limite all’esercizio di un diritto soggettivo che è di per sé pieno ed assoluto, ma che viene limitato in caso di un suo uso anomalo, ovvero quando il suo titolare lo esercita in contrasto con gli scopi sociali per cui il diritto stesso viene riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico. Il codice civile tedesco contiene una

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norma specifica per vietare l’abuso del diritto, il §226 BGB, che recita: “L’esercizio del diritto è inammissibile se può avere il solo scopo di provocare danno ad altri”; tuttavia, nonostante l’esistenza di una norma precisa, in Germania, la repressione dell’abuso del diritto (unzulässige Mißbrauch) ha trovato il proprio fondamento normativo nel §242, cioè nella Treu und Glauben. In altre parole, secondo la giurisprudenza tedesca19, il divieto dell’abuso del diritto trova la sua legittimazione nella disposizione in cui è codificata la buona fede. La disciplina del divieto dell’abuso del diritto impernia il suo esame sulla condotta posta in essere del titolare del diritto e non sul diritto in sé. Di fondamentale importanza dunque, diventa la distinzione posta in essere da una frangia della dottrina, che differenzia tra diritto (elemento statico) e modalità di attuazione del diritto stesso (elemento dinamico), vale a dire distinguere tra l’astratta previsione normativa e la sua esplicazione dinamica, che si concretizza attraverso una determinata condotta. Tale condotta, intesa in senso oggettivo, diventa oggetto di valutazione da parte del giudice e, pertanto, rientra nell’ambito del §242 BGB. Si nota che in rapporto al nostro codice civile non esiste una norma che sanzioni in via generale l’abuso del diritto in quanto, da tempo risalente, si era ritenuto che esso non fosse propriamente degno di divenire un autonomo istituto giuridico, ma

19P. Kindler, Il ricorso dei giudici alle clausole generali in Germania, in

Contratto impresa Europea, 1998, pag. 662; L. Klesta Dosi, Il controllo delle clausole abusive: la Direttiva 93/13 alla luce della giurisprudenza tedesca, francese ed inglese, in Nuova giur. civ. comm., 1994, pag. 434 e ss.

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che fosse un concetto di natura etico-morale, tale da non necessitare di alcun tipo di sanzione. Il nostro legislatore, a differenza di quello tedesco, pertanto, ha preferito ad una norma di carattere generale, singole e specifiche norme in grado di sanzionare l’abuso del diritto in relazione a particolari categorie. Un ulteriore approfondimento delle differenze tra Treu und Glauben in Germania e buona fede oggettiva in Italia, passa anche attraverso l’esame della moderna exceptio doli generalis.

Quest'ultimo è un istituto che rinviene le sue antiche origini nel diritto romano, in particolare nell’opera del giurista repubblicano Aquilio Gallo; essa mirava ad evitare che nascessero situazioni di ingiustizia a seguito di una rigida attuazione dello ius civile. Per quanto di nostro interesse, successivamente anche Gaio (Inst., 4.119) conferma che tale categoria giuridica potesse essere utilizzata in ambito processuale, come effettivo strumento di difesa da parte del convenuto nei confronti dell'attore, il quale faceva valere in giudizio una sua pretesa apparentemente fondata, che aveva, in realtà, l’unico scopo di recare un danno ed un pregiudizio all’altra parte. Da un punto di vista processuale l’exceptio doli generalis costituiva, quindi, un mezzo di difesa a favore del convenuto, il quale poteva chiedere al giudice, chiamato a dirimere la controversia, di disapplicare le regole proprie del diritto (ius strictum), qualora queste fossero invocate dall’attore al solo fine di danneggiarlo.

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In tal senso l’exceptio doli generalis attribuiva al giudice la possibilità di valutare il caso concreto secondo un criterio etico di correttezza delle parti20.

Fin dal XIX secolo, in Germania, si era accolto e sviluppato sia l’istituto dell’abuso del diritto, sia l’interpretazione più moderna dell’exceptio doli generalis. In sostanza, nell’ordinamento giuridico tedesco anche l’exceptio doli generalis sarebbe riconducibile al principio di buona fede sancito dal §242; ciò è confermato dal fatto che, secondo la prassi delle Corti tedesche, la disciplina dell’abuso del diritto ricomprende anche l’applicazione dell’exceptio doli generalis fondata sulla Billigkeitsklausel del §242 BGB21; pertanto le decisioni dei giudici si fondano sulla valutazione di una eventuale violazione della buona fede oggettiva22. In Italia, per lungo tempo, si è palesato un rifiuto all’ingresso nel sistema giuridico della categoria dell’exceptio doli generalis; prevalendo, infatti, l’esigenza di voler evitare una discrezionalità, da parte dei giudici, che si sarebbe rivelata fin troppo ampia e dai confini incerti, che potevano spingersi sino a limitare la tutela dell’autonomia privata.

20G. Cattaneo, Buona fede ed abuso del diritto, in Rivista di diritto

processuale civile, 1971, II, pag. 613 e ss

21K. Luig, Il ruolo della buona fede nella giurisprudenza della Corte

dell’Impero prima e dopo l’entrata in vigore del BGB dell’anno 1900, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, vol. II, Padova, 2003, pag. 411e ss.

22G. Alpa, La buona fede integrativa: note sull'andamento parabolico delle

clausole generali, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea, cit., pag. 158 e ss.

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Solo recentemente anche nel nostro Paese si è assistito, seppur lentamente, ad una evoluzione dell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale, con il graduale riconoscimento dell’exceptio doli generalis, anche in merito alla sua applicazione secondo il principio di buona fede. In quest’ottica la categoria dell’exceptio doli generalis rappresenta, nei sistemi giuridici moderni, un genus omnicomprensivo che abbraccia un’altra fondamentale fattispecie collegata all’abuso del diritto, cioè quella del divieto di venire contra factum proprium. Quest'ultima definizione consiste in più comportamenti leciti, posti in essere da un soggetto, ma caratterizzati dal fatto di essere in aperta contraddizione tra loro. Nel sistema giuridico tedesco emerge l’esigenza di individuare le origini di tale divieto, al fine di sanzionare tutti quei comportamenti iniqui, ancorché leciti nell’ambito dello ius strictum. In Germania, infatti, è riconosciuto, a fianco delle citate figure di abuso del diritto e di exceptio doli generalis, anche il divieto di venire contra factum proprium (Schikane), oggetto di apposite decisioni giurisprudenziali basate sull’applicazione della Treu und Glauben del §24223. In un primo momento, i giudici tedeschi utilizzavano le varie espressioni quasi come sinonimi, contribuendo, in tal modo, a generare ancor di più incertezza sul piano dogmatico e lessicale. A fronte di tale iniziale confusione, che si potrebbe far derivare dall’assenza di un esplicito

23F. Procchi, L’exceptio doli generalis e il divieto di venire contra factum

proprium, in L’eccezione del dolo generale, Applicazioni giurisprudenziali e teoriche dottrinali, pag. 79.

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riferimento normativo nel BGB, si è rafforzata la necessità di creare una specifica base dottrinale. In questo senso è stato fondamentale l’apporto di un importante giurista dei primi del ‘900 Kurt Riezler che, nella sua opera a sfondo comparativistico del 191224, ha sottoposto a valutazione le diverse sanzioni predisposte nei vari ordinamenti giuridici contro i suddetti comportamenti contraddittori posti in essere dal titolare di un diritto. Prendendo le mosse dalle fonti giurisprudenziali contenute nel Digesto, Riezler aveva individuato un elenco di azioni giudiziarie capaci di arrestare, a livello processuale, condotte contraddittorie, seppure legittime. Intorno agli anni sessanta e settanta del secolo scorso ha recuperato la ribalta, sia in Germania che in Italia, il principio di venire contra factum proprium trovando fondamento normativo nell’ambito della buona fede oggettiva. In particolar modo, la dottrina e la giurisprudenza tedesche ritengono che tale divieto esplichi i suoi effetti, oggettivamente, a prescindere dall'animus del soggetto che pone in essere comportamenti contraddittori. In ultimo, nel rispetto della completezza espositiva dell’esperienza giuridica tedesca, merita una menzione la c.d. Verwirkung. Detta espressione indica la circostanza in cui si viene a trovare un diritto che non è stato esercitato per lungo tempo dal suo titolare e che, proprio per tale motivo, non può più essere esercitato senza che vengano a porsi in essere conseguenze lesive in capo ad un

24K. Riezler, “Venire contra factum proprium”. Studien im römischen,

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altro soggetto, per violazione della buona fede oggettiva25. Tale categoria, che rientra nel più generale divieto di venire contra factum proprium, ha trovato una sua consacrazione, immediatamente dopo la fine della prima guerra mondiale, quando il tasso di inflazione nel Paese schizzò alle stelle. In questo contesto, il ritardato esercizio di un diritto di credito poteva determinare un inaccettabile squilibrio di prestazioni tra il creditore ed il suo debitore; infatti, a fronte della differenza temporale tra il momento della assunzione dell’obbligazione ed il momento dell’adempimento, si produceva un aumento sproporzionato della misura monetaria dell’iniziale debito. Pertanto, proprio allo scopo di porre rimedio a questa insostenibile situazione i giudici stabilirono che tramite la Verwirkung, laddove la richiesta del creditore fosse avvenuta dopo un decorso di tempo intollerabile, capace di danneggiare il debitore in maniera eccessiva e sproporzionata, questi poteva legittimamente rifiutarsi di adempiere l'obbligazione. Quello che preme precisare è che per i giudici tedeschi non veniva meno il diritto, ma era il suo esercizio ad essere impedito in virtù del principio della buona fede oggettiva, che diveniva, da tale punto di vista, strumento di tutela dell’affidamento che si era ingenerato nell’altra parte circa l’esatto ammontare del debito. Nell’ambito della sentenza della Suprema Corte di Cassazione26, in un primo momento, in Italia sembrava negarsi l’introduzione nel

25F. Procchi, L'exceptio, cit., pag. 102.

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nostro ordinamento del principio della Verwirkung, affermando che in caso di ritardo nell’esercizio di un diritto non sarebbe possibile accertare la non conformità del comportamento alla buona fede; tuttavia, si precisa meglio nel seguito della motivazione della sentenza che, se è vero che il semplice ritardo non fa estinguere in capo al titolare del diritto la possibilità di agire per inadempimento dell’altra parte, in nome di una sua presunta rinuncia tacita, nondimeno si ritiene che non sia concesso l’esercizio ritardato di un diritto, in ragione della meritevolezza della tutela dell’affidamento determinatasi in capo all'altra parte, quando tale esercizio non sia giustificato da un interesse tangibile dell’altra parte a procrastinare la richiesta in giudizio.

Alla luce di quanto sin qui detto si evince l’importanza del principio di Treu und Glauben nell’ordinamento giuridico tedesco e la imponente e fondamentale portata applicativa del §242, norma richiamata spessissimo nelle decisioni dei giudici tedeschi per regolamentare diverse situazioni giuridiche.

Appare dunque chiara ed evidente a questo punto,la differenza tra la funzione del principio di buona fede in Germania e in Italia. In Germania nell’ambito delle categorie civilistiche il principio di buona fede svolge un ruolo centrale a scapito dell’autonomia contrattuale, in quanto la Treu und Glauben ha indubbiamente un contenuto più ampio e profondo rispetto a quello che viene riconosciuto in Italia alla buona fede oggettiva.

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La Treu und Glauben, infatti, come si è avuto modo di notare precedentemente, consiste intanto in un criterio di valutazione del comportamento delle parti ma, anche e soprattutto, in un parametro di valutazione del contratto, al fine garantire un quid pluris, cioè un equo e conveniente bilanciamento degli interessi tra le parti contraenti dal punto di vista sostanziale.

II.3 La buona fede all'interno dell'ordinamento giuridico inglese. Nel diritto inglese, ed in particolare nel diritto contrattuale, è del tutto originale il recepimento del concetto “continentale” di buona fede oggettiva sviluppato nel resto d’Europa. Il termine che si usa in Inghilterra per indicare la buona fede good faith, inteso sia in un'accezione “soggettiva” che in una “oggettiva”. Nel primo caso non si rileva alcuna differenza tra la good faith e la buona fede soggettiva continentale, tant’è che in ambedue i casi si adottano regole comuni intese a tutelare il possessore e l’acquirente in buona fede. Il senso di good faith oggettiva è, al contrario, profondamente diverso rispetto alla nozione di “buona fede oggettiva” utilizzato nei Paesi di civil law, dove essa indica i criteri oggettivi di valutazione del comportamento delle parti contrattuali. Nell’ambito della disciplina contrattuale dei sistemi di common law, infatti, il discorso relativo alla buona fede è diverso rispetto a quello svolto sinora a proposito degli ordinamenti di civil law. Tale peculiarità deriva, in primis, dall'imbarazzo dei giuristi anglo-americani nell’approcciarsi alla

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tematica della buona fede oggettiva, che è legato ad un insieme di fattori propri della tradizione giuridica di common law, il cui campo di applicazione è senza dubbio costituito da casi concreti, cosiddetti cases, su cui si sviluppa e si struttura la law of the contract. I casi pratici non determinano certamente una meritevolezza generale della tutela dell’affidamento della controparte, valutata secondo un criterio oggettivo. Di certo i cases sui quali si basa la law of the contract non implicano una flessibilità verso la mala fede, bensì, indubbiamente, una reticenza a enunciare principi di carattere generale e, pertanto, una certa preferenza ad intervenire ogni volta in modo diverso, a seconda delle necessità emergenti dal singolo caso concreto. È quindi di fondamentale importanza, in premessa, capire le differenze strutturali che sono insite sui due sistemi di civil law e di common law, allo scopo di comprendere la peculiarità della concezione della good faith. La più rimarchevole differenza tra i due sistemi in esame è costituita dal fatto che, mentre nei sistemi giuridici di civil law il punto di partenza è l’analisi e la definizione dei diritti soggettivi, nell’ordinamento giuridico inglese fondamentale importanza è conferita ai rimedi (remedy) elaborati, nel corso del tempo, dalle giurisprudenza, di common law e di equity.

Ciò costituisce un aspetto cardine del sistema giuridico anglo-americano: infatti, si può sostenere che il remedy è alla base del riconoscimento di un diritto e non è l’effetto del diritto stesso. In tale prospettiva si comprende meglio perché è comune dire che il remedy

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precede i rights, per altro tale caratteristica accomuna perfettamente il diritto di common law al principio romanistico espresso dal brocardo latino: ubi remedium, ibi jus. Per quanto, invece, attiene l’origine storica della good faith, viene fatta risalire al periodo medievale inglese, ed in particolare modo, a quel momento storico, politico e culturale che ha determinato la nascita e, successivamente, lo sviluppo, della giurisdizione dell’equity, quando negli usi dell’epoca, spettava al Re, con l’ausilio di un Cancelliere, il ruolo di garantire e preservare la pace e di amministrare la giustizia. Appare opportuno, in questa sede, tralasciare l’excursus storico che ha determinato l’affermazione della giurisdizione di equity. Preme di più specificare che proprio in tale contesto storico nasce e si sviluppa il concetto di good faith. In questo quadro, comunque, la figura, che acquisisce sempre di più maggior rilievo, è senza dubbio quella del Cancelliere. Costui era un ecclesiastico scelto dal Re, spesso un Vescovo, la cui competenza giurisdizionale consisteva nell’applicazione del diritto romano e del diritto canonico. I primi Cancellieri della Court of Chancery, così come gli avvocati canonici delle Corti Ecclesiastiche, riconoscevano alla buona fede un fondamento morale, in quanto si rifacevano alla legge canonica. In particolare, si riteneva che una promessa potesse essere vincolante per il solo fatto di essere tale per la coscienza dell’uomo che la poneva in essere; le regole applicate, dunque, erano prevalentemente quelle della morale cristiana, in virtù delle quali diventava di fondamentale importanza mantenere e

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rispettare la parola data. In nome della coscienza e della morale, si muoveva la giurisdizione di equity, per intimare ed ottenere da una parte un determinato comportamento; la Chancery Court, infatti, individuava i criteri di valutazione, che potevano essere, positivi o negativi di un comportamento, basandosi su valori etici o morali. Tra il XIV e XV secolo, in particolare, assume una funzione sempre più decisiva e pregnante, in tema, l’opera del Cancelliere ecclesiastico, consigliere e confessore del Re, in grado di giudicare le suppliche e le petizioni che venivano presentate dai sudditi, offrendo soluzioni che si rivelavano in coerenza con il diritto naturale27. Il Cancelliere aveva il compito di esaminare attentamente l’animo delle parti e le loro intenzioni, al fine di garantire il rispetto della buona fede, in nome della coscienza e dell’equità. Un senso del dovere generale della buona fede, sotteso all’assunzione del vincolo e dell’accordo, ispirò, dunque, fortemente i giudici della Cancelleria. In seguito, tra il XVII ed il XIX secolo (epoca che è stata successivamente definita dai giuristi moderni, di “cristallizazione dell’equity”), sotto l’influenza del clima storico, politico e culturale del resto d’Europa, si determinò, in Inghilterra, come conseguenza, una graduale evoluzione dell’attività svolta dai cancellieri, i quali affiancarono alla logica di una giustizia condotta da un ordine morale, una giurisdizione ordinata e deducibile dalle proprie decisioni precedenti. Così anche l’equity, come la giurisdizione di common law,

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cominciò a legarsi al principio del precedente giurisprudenziale. Nell’ambito della naturale evoluzione del sistema giudiziario inglese, il merito principale della giurisdizione dell’equity risiede nella continua rilevanza attribuita alle clausole generali, tra cui quella di buona fede. Ancora oggi, infatti, si può sostenere che la good faith trova formale riconoscimento nella giurisdizione dell’equity, come è chiaramente deducibile dai criteri ispiratori di tale giurisdizione. Una volta che si è proceduto ad analizzare il particolare contesto storico in cui la good faith è stata gradualmente riconosciuta dalla giurisdizione dell’equity, è interessante, poi, soffermare la nostra attenzione, circa il riconoscimento della good faith anche nella giurisdizione di common law. In realtà, questo riconoscimento non esiste. Nell’ambito dei rimedi previsti dalla giurisdizione di common law non vi è un “general positive duty of good faith”. Gli ultimi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali inglesi, in merito al principio di buona fede nella common law, affermano che essa non riesce a trovare applicazione nel diritto dei contratti28.

L.J. Potter29 ha affermato che nella disciplina inglese dei contratti non è presente una dottrina generale della buona fede, pertanto le parti contraenti appaiono libere di agire nel modo che esse ritengono più utile, rispettando in ogni caso l’unico vincolo di non violare le regole

28G. Alpa, Contratti nei sistemi di common law, in Dig. disc. priv. sez. civ.,

III, Torino, 1989, pag. 344 e ss.

29L. J. Potter, Historical Introduction to English Law, London, 1958, pag.

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contrattuali. La negazione nel diritto inglese di common law di un dovere generale a negoziare o ad eseguire un contratto secondo buona fede è strettamente riconducibile ad un altro principio, tutto di matrice inglese, che riguarda il generale rifiuto della teoria dell’abuso del diritto. A tal proposito, una parte importante della dottrina ammette il principio secondo cui il titolare di un diritto, derivante da un contratto o da un altro atto, possa esercitarlo “per una buona ragione, per una cattiva ragione, senza ragione”. Nello stesso senso, anche Lord Ackner, nel famoso caso Walford/Miles30, affermava, inconcepibilmente per i civil lawyers, che “il dovere di concludere negozi secondo buona fede è per sua natura contrario alle posizioni contrattuali ed è qualcosa di irrealizzabile nella pratica”. I common lawyers non sono totalmente avulsi ai valori sottesi alla good faith, ma sono tuttavia restii ad una introduzione universale della buona fede come "soluzione di tutti i mali” nella disciplina generale del contratto e senza effettuare nessun tipo di distinzione a seconda delle tipologie contrattuali e fattispecie concrete. In altri termini, la specificità del sistema inglese consiste nel riconoscimento della buona fede solo laddove essa sia utile e rilevante nel caso di specie. Infatti, la realtà contrattuale non viene considerata omogenea e, pertanto, ciascuna categoria di contratti esige regole specifiche e differenziate. In questa prospettiva il diritto inglese riconosce il principio di good faith nei contratti uberrimae fidei, che sono

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caratterizzati da un peculiare rapporto di fiducia che lega le parti. Basti pensare che un esempio evidente è rappresentato dai contratti di assicurazione, ove sussiste a carico di uno o più soggetti l’obbligo di comunicare (disclosure) quei fatti (material fact) che sono in condizione di influire sulla decisione dell’altra parte di stipulare o meno l’accordo. Ad eccezione di questi casi specifici, tuttavia, l’applicazione ed il riconoscimento della good faith nella giurisdizione di common law delle Corti inglese, di fatto, è esclusa; la giurisprudenza di common law predilige concetti diversi, come fairness (correttezza) e reasonableness (ragionevolezza). In particolare, i termini good faith e reasonableness non possono essere intesi come sinonimi, in quanto sottendono a principi diversi: nel primo caso si intende un criterio di valutazione di un comportamento sulla base di valori etico-sociali; nel secondo caso, invece, si fa riferimento alla razionalità, per quanto limitata, dell’uomo, richiamata durante tutte le fasi del contratto.

Parte della dottrina di civil law si è posta il quesito se la reasonableness nella common law sia in condizione di operare come parametro di comportamento nello stesso modo in cui nel nostro ordinamento ci si appella alla buona fede. La risposta è indubbiamente negativa, perché, nonostante sia vero che la buona fede e la reasonableness offrono criteri di valutazione del comportamento della parte contrattuale, nel primo caso tali criteri sono riconducibili a valori assoluti di ordine superiore (etico, sociale),

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mentre nel secondo caso derivano solo dalla possibilità di affidarsi alla razionalità ed al buon senso insito nell’uomo medio.

È giusto ricordare per completezza espositiva, nell'ambito di questo breve studio sulla buona fede, senza addentrarci troppo nella materia, che al contrario le Corti nord-americane vanno discostandosi dal sistema inglese, manifestando una considerevole apertura verso il principio di good faith. Al fine di una migliore comprensione degli orientamenti nord americani rispetto alla good faith, appare sempre ragionevolmente utile partire dai cases. In tal senso, a titolo esemplificativo, si riprende il caso Borg-Warner Co. v/s. Anchor Coupling Co, deciso dalla Suprema Corte dell’Illinois nel 1958, in ambito di buona fede durante le trattative contrattuali31.

Premesso che, nei sistemi di common law, tradizionalmente non è ammessa la responsabilità precontrattuale, così come, invece, viene sanzionata negli ordinamenti di civil law, la fase delle trattative sia nell’ordinamento inglese, che in quello nord-americano è vista come in una dimensione del tutto incerta, cioè fondata sulla freedom of contract e sulla freedom to negotiate. Tenuto conto della grande libertà riconosciuta alle parti contrattuali, merita comunque di essere annoverata la tendenza alla stesura di nuovi modelli giurisprudenziali fondati sul criterio proprio della good faith ad opera delle corti statunitensi.

31Born Warner Co. V.Anchor Coupling Co., (1958) 16 Ill., 2d, pag. 234 in,

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A questo punto è opportuno fare riferimento ad un caso specifico, nella fattispecie Borg-Warner Co. v/s. Anchor Coupling Co nella quale si fa riferimento ad un accordo negoziato successivamente ad una lettera di intenti. La società Borg-Warner Co. chiedeva alla società Anchor Coupling Co. di concludere un contratto di opzione per l’acquisto del suo pacchetto azionario. La Anchor Coupling Co., negava il rilascio dell’opzione richiesta e proponeva alla Borg-Warner Co., con una letter of intent, l’acquisto immediato dell’intera società alle stesse condizioni offerte nella precedente proposta, con l’aggiunta di un’ulteriore richiesta, cioè il rilascio di una garanzia, che si sarebbe dovuta specificare in un momento successivo da parte della società Borg-Warner Co., avente ad oggetto la conferma del rapporto di lavoro con il personale dell’Anchor.

Tale lettera di intenti conteneva, quindi, oltre ad un’offerta di vendita anche clausole lasciate ancora in bianco, che dovevano concordarsi successivamente nello specifico.

A questo punto la BorgWarner accettava la proposta e chiedeva di perfezionare l’acquisto, ma la Anchor Coupling rifiutava l’adempimento per il mancato perfezionamento delle clausole che erano state lasciate ancora in bianco. Chiarificatrice, rispetto al contenzioso il parere della Suprema Corte dell’Illinois, che ha riconosciuto le ragioni della società Borg, in quanto i patti with open terms (lasciati in bianco) hanno una determinatezza tale da essere eseguiti. A prescindere, però, dagli specifici orientamenti

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americani, è importante affermare che nei sistemi di common law si propongono principalmente rimedi diversi dalla good faith, per regolamentare casi in cui rilevi l’affidamento dei terzi e la buona fede: si tratta in particolare degli istituti dell’estoppel e della misrepresentation. L’estoppel, assume le diverse forme di estoppel by conduct e promissory estoppel, è termine che esprime, seppur in maniera indiretta, un principio conosciuto nel civil law, cioè quello dell’exceptio doli generalis. Questo istituto riguarda determinate ipotesi in cui ad una parte non è concessa la possibilità di affermare o negare una determinata circostanza, consentendo, in alcuni casi stabiliti, di tener conto dell'affidamento dei terzi e della buona fede. Purtroppo dell'estoppel by conduct non è facile elaborare una definizione unitaria, tuttavia, si può sinteticamente definire come una situazione giuridica determinata da un soggetto che, con dichiarazioni o comportamenti persuade, volontariamente o negligentemente, l'altro contraente ad effettuare delle scelte, per poi rinnegare quelle dichiarazioni e/o comportamenti iniziali, recando così inevitabilmente un pregiudizio a colui che incolpevolmente vi aveva fatto affidamento.

Verosimilmente, questo comportamento potrebbe concretizzarsi anche in un silenzio, in un’omissione, cioè in un comportamento inerte in grado di indurre l’altra parte in inganno, dal momento che anche in simili situazioni si contravverrebbe comunque ai doveri di informazione o di avviso. Il promissory estoppel, invece, indica

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l’ipotesi in cui al promittente viene impedita la possibilità di rinnegare una promise che, sebbene assunta in assenza di consideration, abbia originato nel promissario o in un terzo un affidamento. In tal caso per il promittente, la promise diviene vincolante a tutti gli effetti, pur in assenza della consideration formale, questo a tutela dell’affidamento che si era ingenerato nel promissario.

Con il termine misrepresentation si suole indicare una inesatta, falsa, erronea dichiarazione posta in essere da una parte contraente (representor) durante la fase delle trattative, allo scopo precipuo di condurre l’altra parte (representee) a perfezionare un contratto per effetto di un ragionevole affidamento (reasonable reliance). Effettuando una comparazione con il nostro sistema è evidente la diversità della misrepresentation con il concetto di dolo previsto nell'ordinamento giuridico italiano che indica e presuppone raggiri, manovre, macchinazioni.

La misrepresentation può essere innocent e fraudolent; la prima consiste in una dichiarazione inesatta posta in essere dalla parte senza che vi sia nessuna intenzionalità; la seconda, invece, consiste in una inesatta dichiarazione posta in essere con una vera e propria volontà di compierla.

Le conseguenze ovviamente non possono che essere diverse, ed infatti, nel primo caso, il representee potrà optare per la rescission o,

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in alternativa, per il risarcimento dei danni, mentre nel secondo caso questi avrà la facoltà di poter richiedere entrambi i rimedi.

Alla luce delle considerazioni su esposte possiamo affermare che la giurisdizione di equity sembra riconoscere in modo diretto la rilevanza della good faith, secondo modalità che possono essere assimilabili alla buona fede oggettiva così come ampiamente analizzata nei paragrafi precedenti. L’esame, esemplificativo dei due istituti dell’estoppel e della misrepresentation mostrano come, pur nelle differenze culturali, strutturali e procedurali tra il sistema di common law e quello di civil law, il concetto di buona fede oggettiva abbia trovato anche nella giurisdizione Inglese, una propria identità di espressione.

In conclusione, anche nei Paesi "continentali" la buona fede sembra trovare un proprio spazio di applicazione, capace di assicurare, sistemi speciali che tutelino, caso per caso, direttamente l’interesse delle parti e, indirettamente, l’esigenza sociale del contratto.

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