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CAPITOLO I «Io non sono nemmeno un uomo, non ci tengo ad esserlo, io sono una creatura sensuale,

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CAPITOLO I

«Io non sono nemmeno un uomo, non ci tengo ad esserlo, io sono una creatura sensuale, un palpito libero nell’aria.» (Due imperi…mancati, A. Palazzeschi)

1.1 Aldo Palazzeschi: dal mito della finestra al mito del

saltimbanco

Aldo Giurlani, in arte Aldo Palazzeschi, nasce a Firenze il 2 febbraio del 1885 in una secolare casa fiorentina di piazza Pitti. Figlio unico di Alberto Giurlani, commerciante e gestore di un negozio di abbigliamento, e di Amalia Martinelli, donna austera e severa, il piccolo Aldo trascorre un’infanzia tranquilla e mite, alternando la propria esistenza, a causa dei numerosi traslochi familiari, tra la casa fiorentina di Piazza Pitti e le successive dimore di via Santo Spirito e del quartiere fiorentino delle Cure.

Sebbene ancora molto piccolo, Aldo si rivela fin da subito come un bambino sveglio e attento e manifesta un’acuta e sorprendente curiosità verso tutto ciò che lo circonda.

In particolare, è attratto dall’imponente finestra della «vecchia casa fiorentina d’oltrarno»1 dalla quale osserva le modeste esistenze degli

abitanti che popolano la via sottostante lasciandosi sorprendere dalle loro faccende e dalle umili abitudini.

Questa curiosa passione nasce da un simpatico aneddoto raccontato dallo stesso autore all’interno della novella Una casa per me, testo di apertura di una delle raccolte di racconti in cui è più presente l’elemento autobiografico: Stampe dell’800.

In questo racconto Palazzeschi, con l’ironia che puntualmente lo contraddistingue, ci regala uno squarcio di vita quotidiana all’interno della

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seconda dimora della famiglia situata in via Santo Spirito, quando, all’età di ancora due anni, è obbligato a consumare l’odiata e detestata «minestrina» che, di volta in volta, la nonna, la balia o la mamma gli fanno «ingoiare»2, un cibo divenuto ormai «ripugnante quanto più forzato»3.

Da questo terribile rituale una sola cosa riesce a distrarlo, a tenerlo totalmente assorbito, facendogli dimenticare per qualche istante l’dea del disdegnato pasto, ovvero l’atto del guardare al di là della gigantesca finestra che dà sulla via principale:

«Avevo due anni. Due anni e un amore già: la finestra, tutte le finestre. […] che cosa a quell’età potesse rappresentare la finestra non è facile a dirsi. Uno spettacolo architettonico che solo oggi posso comprendere? L’aria, la luce, la libertà, il mondo, la vita? Gli scarsi passanti veduti a picco, come in una fossa, e serrato nelle braccia che mi concedevano quel piacere? I rari veicoli, in quella strada d’un quartiere poco battuto e meno ricercato? Le grida dei venditori di commestibili, gli oggetti di necessità casalinghe sui loro carretti o fardelli?»4.

Aria, luce, libertà, mondo, vita: ecco quello che per il piccolo Palazzeschi allora la finestra rappresenta.

Anche se a distanza e solo attraverso un’invisibile parete, la possibilità di poter guardare fuori, osservare e fare suoi avidamente tutti gli oggetti, le cose, i piccoli particolari sui quali il suo sguardo attento riesce a poggiarsi, si offre a lui come un’occasione di partecipazione ad un mondo che, pur sentito come estraneo, provoca in lui un’inspiegabile attrazione. In seguito, l’occasione di consumare il pasto in prossimità della finestra aperta, convince il piccolo Aldo non solo a mandar giù la minestra senza capricci e discussioni, ma il fascino della realtà esterna, l’opportunità di poter guardare liberamente fuori senza ostacoli e impedimenti, gli fa addirittura tentare un «gesto inatteso»5, come quello di avvicinare una

sedia al davanzale per poterlo scavalcare.

L’intervento provvidenziale della madre lo salva miracolosamente, ma quel gesto, che da tutti viene interpretato come un atto disperato di

2 Ivi, p. 8. 3 Ivi, p. 7. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 10.

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suicidio dell’«appena iniziata esistenza»6, rappresenta in realtà

esattamente il contrario. Non un atto disperato appunto, ma il «desiderio di guardar fuori, nella via a mio talento, senza che braccia tiranniche mi stringessero, senza minestre davanti e neppure vagamente misurando il pericolo che a quel piacere si accompagnava»7.

Pur essendo ancora a uno stadio istintuale e facilmente interpretabile come quegli incidenti di cui i bambini si rendono inconsciamente protagonisti, l’atto di saltare al di là della finestra è la dimostrazione, già in giovane età, di una irrefrenabile necessità di andare oltre, di evadere, di sollevarsi che in età adulta diverrà uno degli elementi distintivi della sua personalità.

Questo desiderio di evasione non si ferma neanche davanti al trasferimento coatto che i genitori impongono al bambino dopo lo spiacevole accadimento presso l’austero palazzo familiare.

È proprio nel giardino della nuova abitazione familiare presso il quartiere delle Cure, un nuovo sobborgo fiorentino fatto di case modeste e villette fiorite, indubbiamente meno pericolose dagli alti palazzi del centro fiorentino che, dopo l’incredibile scoperta della finestra, avviene per Aldo la seconda miracolosa visione: la scala.

Una scala alta, lunghissima, appoggiata incautamente alla parete della casa da un tappezziere che in quei giorni si trovava lì per lavoro, ignaro dell’indole prematuramente sovversiva del piccolo Palazzeschi:

«Mi avvicinai, rimasi per qualche istante perplesso davanti a quell’ordigno. Guardavo intorno, guardavo in fondo, in cima, guardavo su, guardavo giù…ero solo, brillavo…palpitavo…incominciai a salire. […] il cuore mi scoppiava in petto. Più mi levavo, più la gioia aumentando mi faceva palpitare; ridevo silenzioso, e salivo silenzioso palpitando»8.

Come facilmente si può intuire, lo stesso impulso che lo prende nella vecchia abitazione e che gli fa desiderare di scavalcare la finestra, guida adesso Aldo, un gradino dopo l’altro, a salire lungo la ripida scala.

6 Ibidem. 7 Ivi, p. 11. 8 Ivi, p. 14.

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Ma questa volta a nulla valgono i «falsi vezzi» e i «sorrisi bugiardi»9 della

mamma e della nonna che da terra tentano inutilmente di convincerlo a scendere.

Il suo salire non è più interpretabile come l’estremo atto di fuga dalla terribile minestra né giustificabile come un gesto involontario. È, come lo era il salto dalla finestra, un gesto consapevole, fatto per il puro gusto di farlo, senza una ragione, senza un particolare perché:

«Perché salire? E lo so io il perché? Salire…non come il tappezziere certamente, per un pane, né per vedere qualcosa ché nulla si poteva vedere di più […] salire…come non sale nessuno, per salire…senza un perché»10.

La motivazione che lo spinge a compiere l’impresa non è dunque da ricercare in un fattore esterno, bensì nel gesto stesso che diventa manifestazione concreta di una nuova consapevolezza.

«Salire…come non sale nessuno»11 significa distinguersi, esprimere

la propria personalità in maniera piena e assoluta, libera da qualsiasi tipo di costrizione o regola impartita.

Una casa per me è una novella particolarmente significativa, non

solo per la posizione che occupa all’interno della raccolta, ma anche da un punto di vista interpretativo più ampio.

Al di là della veste favolistico-fantastica del racconto, considerando che la voce narrante è quella di un Aldo ancora bambino, questo racconto ci illumina riguardo ad alcuni aspetti della personalità dell’autore che diverranno vere e proprie linee guida nella sua pratica di scrittore: la curiosità, la vivacità, l’irrefrenabile istinto di ribellione, l’incapacità di adeguarsi a schemi precostituiti o di sottostare a regole precise, la sensazione di diversità, un incontaminato amore per la vita.

In quest’ottica la finestra12 diviene, in un certo senso, immagine

concreta della sua istintuale e viscerale curiosità.

9 Ivi, p. 15. 10 Ibidem. 11 Ibidem.

12 La finestra è infatti, in questa lettura interpretativa, un’icona ricorrente all’interno di numerose

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Questa apertura sulla realtà gli consente di osservare persone e conoscere luoghi e, in altre parole, di arricchire la sua conoscenza del mondo.

Nello stesso tempo, diventa involontariamente il primo stimolo per la sua fantasia attraverso la quale può immaginare e ipotizzare l’esistenza di luoghi e persone oltre lì, dove lo sguardo non arriva.

Il senso di non appartenenza alla propria condizione sociale e al proprio ambiente familiare si identifica invece nel gesto del salto. La voglia di entrare in quel nuovo mondo prima sconosciuto ma adesso meravigliosamente scoperto è talmente forte da spingerlo al «gesto inatteso»13.

Interessarsi alle vite degli altri, immedesimarsi in esse è un’occasione di evasione, di sospensione momentanea, un rifugio sicuro per estraniarsi da tutto quello che pur essendogli così vicino sente irreprensibilmente come estraneo.

Una volta adulto, la scoperta di questa realtà ‘altra’, diversa e parallela alla propria, si rivela d’un tratto insufficiente alle sue aspettative di emancipazione.

Anche la società esterna come la propria esistenza è sofferente di imposizioni e obblighi. Deve, come lui, rispondere a delle regole e a delle norme che sono imprescindibili e senza le quali non sarebbe possibile la civile convivenza.

Si sveglia, quindi, in Palazzeschi la necessità di trovare un nuovo rifugio, lontano dalle semplici e umili esistenze della gente comune, un luogo diverso, distante, rarefatto, leggero come l’aria, trasparente come il cielo, al quale trovare accesso attraverso un altrettanto nuovo, incredibile «ordigno»14: la scala.

insistito. Basterà elencare qualche titolo: Il pappagallo (I Cavalli bianchi, 1905); La finestra terrena;

Apro la mia finestra; Le finestre di Borgo Tramontano, queste ultime tutte inserite nella raccolta Poemi (1909).

13 ALDO PALAZZESCHI, op. cit. 1944, p. 10. 14 Ivi, p. 14.

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Lo troverà nella scrittura e nella conduzione di una vita appartata e solitaria che non lo distrarrà completamente dagli eventi del mondo, dei quali continuerà comunque ad interessarsi seppur a distanza, ma che gli offrirà una certa dose di conforto alle sue inquietudini interiori.

Tre semplici operazioni che riescono nell’insieme a sintetizzare tutta un’esistenza, tanto umana quanto artistica e che, per la loro significanza, diventano immagini simboliche destinate a ritornare come costanti all’interno di tutta la sua produzione letteraria, sia poetica, sia narrativa: osservare, saltare, salire.

1.1.1 Osservare : scoprire gli altri per scoprire se stessi L’osservazione del mondo circostante, i luoghi, le città, gli incontri, i personaggi della quotidianità più genuina ed essenziale nei quali l’autore si imbatte durante tutto l’arco della sua vita, e soprattutto durante la sua infanzia e giovinezza, sono per lui fonte inesauribile di ispirazione letteraria, dalle prime creazioni poetiche alla più intensa fase narrativa. Lo sguardo del piccolo Aldo e poi del Palazzeschi adulto è uno sguardo universale o, come si direbbe oggi, a tre dimensioni. È inclusivo di ogni minima sfaccettatura che l’ambiente esterno può offrire. Ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, dalla più bella alla più umile, è da lui accuratamente registrata con egual misura e attenzione.

Ogni cosa contribuisce, in grande o in minima parte, all’equilibrio circostante e, per questo, non deve essere vittima di trascuratezza.

Anche l’amico Spagnoletti15, a distanza di due anni dalla morte

dell’autore, chiamato ad esprimere un suo giudizio sul Palazzeschi uomo in occasione del primo Convegno Nazionale in sua memoria svoltosi a

15 «Ricordava tutti i dettagli, tutti i particolari dei personaggi e delle persone che incontrava»,

GIACINTO SPAGNOLETTI in Speciale radiodue su Aldo Palazzeschi. Trasmissione radiotelevisiva

culturale del sabato, a cura di Guglielmo Petroni, 13 novembre 1976, in occasione dell’anniversario

a due anni di distanza dalla morte dell’autore. A questa intervista partecipano anche altri esperti che furono vicini all’autore in vita quali Mario Luzi, Geno Pampaloni, Egisto Marcucci. Le interviste radiofoniche e audiovisive citate in questo e nei successivi capitoli sono state consultate sul sito on-line dell’Archivio digitale del Fondo Aldo Palazzeschi (www.ad900.it) a cura del Dipartimento di Italianistica dell’Università degli Studi di Firenze. Per questioni di brevità, ogni qual volta si farà riferimento al portale elettronico si utilizzerà la sigla : ADAP.

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Firenze nel 1976, ne ricorderà proprio l’incredibile curiosità verso il mondo, in particolare verso quello giovanile, e l’eccezionale memoria, addirittura prodigiosa che gli permetteva di ricordare tutto senza particolare fatica, anche ciò che normalmente potrebbe sfuggire all’uomo più attento.

Questa sete di realtà si inizia a manifestare fin dalla giovane età, forse anche incentivata dai numerosi viaggi che Palazzeschi compie insieme alla famiglia, non solo in Toscana durante i soggiorni estivi trascorsi tra Livorno, Settignano 16 e l’Appennino, ma anche nelle altre

città d’Italia.

All’età di cinque anni risale, infatti, il suo primo viaggio fuori porta a Roma in compagnia della madre e a quattordici la visita a Napoli, città che per prima lo colpisce per la vivacità degli abitanti e per il clima.

Un’altra città alla quale Palazzeschi diventa particolarmente affezionato è Venezia, a tal punto da essere meta prediletta di numerosi viaggi e frequenti soggiorni durante l’età adulta17.

Ma il primo incontro con il capoluogo veneto non è dei più felici in quanto sede della Reale Scuola Superiore di Commercio Ca’ Foscari alla quale, su spinta dei genitori ma contro il proprio volere, Aldo si iscrive per condurre gli studi universitari dopo essersi diplomato ragioniere nel 1902. L’esperienza universitaria dura infatti ben poco. Alcuni mesi dopo l’iscrizione, Aldo abbandona gli studi economici per dedicarsi invece a quello che lo appassiona di più in quel momento, ovvero conoscere la vita, osservare la realtà, interessarsi alle vite degli altri per ricavare da esse una qualche risposta.

16 «I miei genitori avevano una Villa a Settignano, sopra la Caponcina. Così sapevo tutto, sentivo

tutto [..]», ALDO PALAZZESCHI in Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di E.F. Accrocca, Edizioni Sodalizio del Libro cit. MARIO MICCINESI, Palazzeschi, La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 1.

17 Scrive Aldo Palazzeschi ad Antonio Baldini il 24 luglio 1934, appena rientrato a Settignano dopo

uno dei suoi numerosi soggiorni nella città veneta: «Mi sono trattenuto a Venezia qualche giorno più del previsto, Venezia è fra le mie passioni più ardenti e mi è difficile abbandonarla una volta qua. […] Venezia ha riserve sue proprie per tenere il forestiere e tutte le volte che si parte già si pensa al momento di poterla rivedere. Per me almeno è così.», ALDO PALAZZESCHI in Baldini, Antonio / Palazzeschi, Aldo, Carteggio (1915-1960), a cura di M. Bruscia, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1989, p. 68.

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La via o meglio lo strumento che in quel periodo gli si offre più di tutti per soddisfare questa sua aspirazione sembra essere il teatro, al quale inizia ad accostarsi fin da piccolo, dapprima come fruitore18 e

successivamente come attore; si iscrive, infatti, dopo la breve esperienza universitaria, alla Scuola di Recitazione Tommaso Salvini, diretta da Luigi Rasi a Firenze.

Il teatro si rivela per lui una nuova ed entusiasmante scoperta. Nell’adolescenza ha la stessa funzione che la finestra ricopre durante l’infanzia: è un modo per avvicinarsi alla vita e, attraverso questa, a se stesso:

«La verità è che il teatro mi aiutava a conoscere la vita di cui avevo una curiosità struggente, me ne apriva le porte, mi spingeva e sosteneva nel cammino, forniva tante risposte ai tanti interrogativi che mi pungevano la pelle, e altri ne faceva sorgere, nuovi nuovi, che mi facevano un pizzicore!»19.

L’interesse verso questo nuovo ambiente è un passaggio cruciale nella vita di Palazzeschi, sia dal punto di vista artistico, sia dal punto di vista formativo-culturale.

Egli stesso si diletta a comporre per il teatro (fu infatti autore di alcuni abbozzi di commedie durante l’adolescenza) ed esercita per un breve periodo la professione di attore nella compagnia di Lyda Borelli.

La Scuola Salvini si trasforma inoltre in un’occasione di accrescimento culturale in quanto è proprio in questa sede che avvengono gli incontri e le conoscenze importanti destinate a segnare profondamente la sua vita, sia come uomo, sia come artista.

Tra queste si ricordano la frequentazione con Gabriellino D’Annunzio, figlio del più famoso Gabriele, nonché l’inizio della duratura amicizia con Marino Moretti, poeta crepuscolare e autore di numerose opere teatrali: sarà lui a indirizzare Aldo verso letture più impegnate di tipo

18 La passione per il dramma l’aveva infatti ereditata dal padre che già da piccolissimo lo portava

con sé in teatro durante gli spettacoli di opera lirica. «Il piccolo Aldo, portato dal genitore a quattro anni al circo equestre, a cinque ad assistere al Trovatore, a sei ad ascoltare Il Padrone delle Ferriere, non poteva ereditare l’amore paterno per lo spettacolo; […]», VALENTINO BROSIO, Ritratto segreto

di Aldo Palazzeschi, Daniela Piazza editore, Torino, 1985, p. 18.

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letterario e filosofico, fondamentali per la sua formazione di scrittore, oltre che ad avvicinarlo al Crepuscolarismo.

Ma più che sui libri, come più volte ribadito dallo stesso Palazzeschi, la sua cultura si forma essenzialmente sul palcoscenico, a stretto contatto con quel mondo fatto di attori, scenografie, musica, spettacolo, tecniche teatrali che influenzeranno immancabilmente anche il suo modo di fare letteratura, di concepire e strutturare i propri romanzi.

Il teatro è il luogo per eccellenza del rovesciamento, dell’imitazione, della creazione fittizia di un mondo inventato, verosimile o fantastico, aperto a un’infinita gamma di vicende e ambientazioni:

«Sono nato dal teatro, perché da giovane la mia cultura me la sono fatta proprio con la frequentazione assidua del teatro, tanto che io credevo addirittura di essere un attore…non pensando poi che nella mia natura c’erano altre cose che rendevano difficile la vita dell’attore»20.

Ma il senso di inadeguatezza e l’eterno atteggiamento di autocritica al quale puntualmente Palazzeschi si sottopone, lo portano ad avere, dopo un breve periodo, dei ripensamenti riguardo alla propria vocazione di commediante. Il «genio del grande attore» non riesce più a «tenere a bada gli assilli che lo tormentano»21.

Il teatro inizia a non suscitare più su di lui quel fascino che, come un’illuminazione, lo aveva guidato sulla strada della recitazione da adolescente, non riesce più a soddisfarlo: agli interrogativi che gli «pungono la pelle»22 è capace di offrire solo risposte parziali.

Sorge in lui l’esigenza di trovare una propria dimensione, un proprio equilibrio interiore al di fuori di quell’ambiente troppo ricco di vita quale è il teatro, non adatto ad offrirgli ciò che adesso desidera.

20 Ultimo intervento di Palazzeschi (età 86 anni) in occasione della trasposizione scenica nel 1971

de Il Codice di Perelà da parte della compagnia «Il gruppo della Rocca». Estratto di una precedente intervista per la 1° rete Rai inserita all’interno dello Speciale radiodue su Aldo Palazzeschi, ADAP.

21 GINO TELLINI, Introduzione, op. cit. 2004, p. LXXI. 22 ADELE DEI, Cronologia, Ivi, p. CXXX.

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Non senza sofferenza abbandona quindi la carriera di attore23 ed

inizia a ricercare nuove forme di arte che possano meglio rispondere alle sue esigenze di espressione.

Essendo portato all’arte in genere, l’appena ventenne Aldo inizia allora ad appassionarsi a nuove forme artistiche. Si interessa dapprima alla scultura e in seguito alla pittura:

«Nella gioventù di studente, di cose tecniche, io fui sempre trasportato col pensiero verso le cose dell’arte, ma allora non potevo dire quale sarebbe stata l’arte che mi attirava. Mi attirava l’arte in generale. Da principio mi attirò il teatro, dato che la mia passione per il teatro mi aveva portato da giovinetto a recitare in una scuola di arte drammatica e dato poi io avevo cominciato a fare dei disegni, dei disegni che accennavano a un futuro pittore, debbo dire che, in fondo, io sono e un attore mancato, e un pittore mancato. Debbo anzi aggiungere che fra tutti gli artisti, la figura del pittore è sempre quella che mi è piaciuta di più. E a tutt’oggi, davanti al pittore, io sento qualche cosa di grande affetto e anche di invidia oserei dire»24.

Ed è proprio attraverso la pittura che Palazzeschi arriva a comprende la sua vera vocazione: la poesia.

La scoperta avviene durante un’uscita in campagna con l’idea di dipingere un paesaggio:

«La mia poesia nacque a questo modo. Una mattina io sono andato in un paesaggio, in campagna…ero in campagna, in questo paesaggio per fare un disegno, di un certo luogo. Mentre facevo questo disegno, venne fuori la mia prima poesia. Invece che un disegno, era una poesia. Avevo scritto il luogo. E da allora cominciai a fare delle poesie. Così è incominciato. […]»25.

Ora Aldo è veramente pronto ad andare oltre, a compiere il grande salto. Il salto al di là di tutto, verso la poesia26.

23«[…] Invece fu attore per la vita, dinnanzi agli altri e, soprattutto, dinnanzi a se stesso. Le sue famose, interminabili e frequentatissime risate furono l’applauso che egli, unico spettatore, riserbava al grande attore.», VALENTINO BROSIO, op. cit. 1985, p. 36.

24 Incontro con Aldo Palazzeschi, Radio Televisione Svizzera italiana, Roma, 12 maggio 1966, ADAP. 25 Ibidem.

26 In occasione dell’avvenuta scoperta, Palazzeschi compone anche una poesia dal titolo Incontro

con la musa che egli legge nel corso della stessa intervista ma che, all’epoca, è ancora inedita. La

poesia in questione verrà poi inserita all’interno della raccolta Cuore mio (1968) come poesia di apertura: «In una strada di campagna/ dov’ero solo/ sola t’incontrai/ una mattina/ e subito ti chiesi:/ hai padre/ madre/ fratelli hai? / Neppure una sorellina? / Perché porti la gonna così corta/ ti domandai:/ sei donna o una bambina? / Vane/ vane le mie parole/ a tutte le domande/ non rispondesti mai. / Fammi sentire la tua voce/ quando parli delle cose buone/ con angelico candore/ o quando canti/ come gli angeli del Paradiso/ le cose belle/ alla più dolce delle maniere/ e nella pace del Signore. / O delle cose immonde/ ce ne stanno anche di quelle/ parecchie/ per resping erle col male/ nella forma più volgare/ non appena la parola stride/ nelle caverne/ della tua vociaccia orrenda/ divenuta gutturale:/ rabbrividii…/ tu non rabbrividisti. / Me lo dai un bacio? /Mi rivolgesti/ un sorriso così ingenuo/ che mi fece misurare/ fino in fondo/ la mia adorabile ingenuità. / Vieni ti

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1.1.2 Saltare : da Aldo Giurlani ad Aldo Palazzeschi «[…] Così è incominciato. In seguito a questa io ne feci delle altre, finché non ne ebbi una piccola raccolta e nel 1905 pubblicai il mio primo libro di versi che si chiamò, non so perché, per quale ispirazione mi venne questo titolo, I Cavalli bianchi. Da quel tempo, io diventai scrittore e, a periodi più o meno lunghi, ho sempre pubblicato dei libri, prima di versi, quindi di prosa, di romanzi e così la mia vita di scrittore si è compiuta»27.

Dalle sue affermazioni possiamo dedurre che scrivere poesie nasce come un gesto spontaneo, così, d’istinto, come se fosse una cosa naturale.

Più volte infatti, in diverse occasioni, Palazzeschi ci terrà a precisare di non essere un letterato, ma al contrario «uno scrittore nativo, di istinto, non di sapere»28.

Il verso è per lui, più che ricercatezza e artificio, una forma di espressione libera, come poteva esserla il teatro, un modo per trovare se stesso, per raccontare e per raccontarsi sempre conforme a un certo grado di spontaneità.

Non a caso i suoi componimenti non sono vere e proprie poesie, nel senso più canonico del termine, ma più che altro narrazioni o descrizioni in versi29.

Il lirismo è sì presente, ma parzialmente accennato, mai gridato: ruota sempre intorno a quella peculiare tecnica palazzeschiana di interrogare il mondo per trovare delle risposte ai propri interrogativi interiori.

dissi/ seguimi/ e mi seguisti/ anderemo fino in città/ a vedere quello che capita/ quello che si fa nel mondo. / Come cane fedele mi seguisti/ voluttuosa come una donna/ svelta come una bambina… / Se ti dicessi: va’! / come un cane battuto te ne anderesti/ ma…», Incontro con la musa, in

Palazzeschi. Tutte le poesie, a cura di ADELE DEI, Mondadori, Milano, 2002, pp. 651-52.

27 Incontro con Aldo Palazzeschi, Radio Televisione Svizzera italiana, Roma, 12 maggio 1966, ADAP. 28 Dizionario critico della letteratura italiana, vol. III, UTET, Torino, 1986, p. 319.

29 In sostanza, egli traferisce gli elementi del teatro, ovvero il dialogo e la drammatizzazione, sul

piano letterario. Come specifica Fausto Curi: «La straordinaria originalità di Palazzeschi deriva […] principalmente da una doppia violazione della norma che presiede alla comunicazione poetica tradizionale, e cioè dalla radicale desublimazione stilistica e dalla drastica riduzione della soggettività a favore dell’alterità. […] Si tratta pertanto di una poesia almeno tendenzialmente transletteraria, e transletteraria in due sensi: da un lato si apre verso la conversazione orale, da un altro verso il teatro», cit. in MARIO BARENGHI, op. cit. 1982, p. 141.

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Come sottolinea Solmi30 c’è nel Palazzeschi poeta un «assillo della

figurazione, del disegno» che lo porta a pensare «per figure, per dialoghi, per immaginazioni indirette», facendo prevalere nella sua lirica, attraverso «uno stato d’animo trasposto» anzitutto il «mondo fantastico».

Per Palazzeschi descrivere e narrare ciò che vede significa esprimere contemporaneamente ciò che sente, in perfetta linea con la sua fisiologica e istintuale curiosità.

In questa nuova dimensione creativa, come lo fu per il teatro, si ritrova ancora una volta a dover combattere contro la volontà dei genitori. Questi, dopo il suo rifiuto di continuare gli studi universitari, si erano accanitamente opposti alla sua volontà di fare teatro e, ancor di più, quando egli si convince a voler mollare anche questa seconda strada, sperano che nel giovane ritorni la voglia di riprendere gli studi.

«Scrivere per i miei genitori era una cosa da morti di fame»31

dichiarerà in una intervista il poeta.

La stessa raccolta, I cavalli bianchi (1905), sarà da lui autofinanziata, pubblicata all’insaputa della famiglia presso il tipografo Spinelli, grazie alla collaborazione di uomini fidati quali l‘ormai frequentatissimo Moretti e l’appoggio di un nuovo amico, Sergio Corazzini, poeta all’epoca ancora alle prime armi come lui, ma con il quale l’autore inizia un intensissimo scambio epistolare.

L’esigenza di nascondersi ma nello stesso tempo l’incapacità di tenere a freno la propria vocazione poetica e il suo desiderio di ribellione lo portano addirittura a rifiutare il vero cognome, Giurlani, per assumere quello della nonna materna, Anna Palazzeschi, «donna straordinaria»32,

figura gioviale e libertina, proprio come il nipote, verso la quale l’autore prova, fin da piccolo, un sentimento di grande stima e ammirazione.

30 SERGIO SOLMI, Palazzeschi poeta e romanziere in Scrittori negli anni: Saggi e note sulla letteratura

italiana del ‘900, Il Saggiatore, Milano, 1963, pp. 154-55. Sempre secondo Solmi «sarà quella

maggior concretezza di disegno a portar lo scrittore, più tardi, a significazioni umanissime, di comune umanità, anzi, e addirittura di valor sociale […]», Ivi, p. 155.

31 Op. cit. LIVI 1971 in ADELE DEI, Cronologia, op. cit. 2004, p. CXXXI. 32 Ibidem.

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Il passaggio dal cognome istituzionale al nome d’arte nasce, anche questo, da quella necessità di distinguersi e autoaffermarsi che già in età adolescenziale lo aveva portato ad affidarsi all’ambiente del teatro.

Rinunciando al proprio cognome, rinuncia a quell’immagine di sé che la famiglia vuole imporgli a tutti i costi, rifiuta, una volta per tutte, gli obblighi e l’artificiosità della morale prestabilita.

Se per vivere o meglio per sopravvivere nella società che lo circonda e che non lo rispecchia è necessario assumere una forma, allora che sia lui stesso a sceglierla, senza doverla subire come imposizione esterna.

Da questo punto di vista possiamo accostare le tesi palazzeschiane al tema pirandelliano della maschera.

Come per Pirandello anche per Palazzeschi l’uomo deve adeguarsi alle diverse situazioni, vestire diverse maschere. Questa operazione non deve essere però vissuta come un’imposizione esterna, in virtù del giudizio degli altri, bensì dipendente dalla qualità di mutevolezza e cambiamento intrinseca all’uomo, un invito a vivere intensamente33.

Aldo Giurlani è finalmente pronto a saltare nel nuovo mondo di Aldo Palazzeschi:

«Ero stanco di provocare scandali nel chiuso cerchio della famiglia e, soprattutto, di dovermi vergognare della parte migliore di me. Riscattandomi dalle scienze commerciali, dalla ragioneria, e dall’economia politica, il teatro mi aveva messo sulla strada buona, quella della poesia, e buona due volte, perché di mia assoluta proprietà»34.

Dopo il salto del banco del negozio paterno di abbigliamento, simbolo delle condizione borghese e delle scelte genitoriali, e il salto del banco dell’istituto di ragioneria e degli studi universitari, Palazzeschi conquista finalmente un suo apparente equilibrio nel mondo dell’arte, l’arte intesa in senso integrale, sia essa il teatro, la pittura, la letteratura o la musica35.

33 GIORGIO PULLINI, Aldo Palazzeschi, Mursia, Milano, 1965, p. 38.

34 ALDO PALAZZESCHI, Il piacere della memoria, Mondadori, Milano, 1963, p. 295.

35 PIERO PIERI, Ritratto del saltimbanco da giovane: Palazzeschi 1905-1914, Patròn, Bologna, 1980,

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Dico apparente equilibrio, in quanto Palazzeschi in pace con se stesso non lo fu mai fino in fondo.

In Palazzeschi la condizione di inquietudine e angoscia è una condizione permanente36.

Trovare il proprio abito nella poesia o nella letteratura in genere rispetto al teatro, significa soltanto aver trovato l’esatto compromesso tra il proprio turbamento interiore e la possibilità di esprimerlo con il giusto mezzo.

La scrittura è vissuta da Palazzeschi come una cura, una terapia d’urto, il davanzale-finestra al quale aggrapparsi per non cadere giù, l’unica medicina in grado di liberarlo dal suo perenne stato di essere incompreso.

Come un setaccio, essa opera su di lui trattenendo le inquietudini-spinta per lasciar trapelare solo gli esiti letterari più felici.

Saranno forse questi continui conflitti interiori a farlo aderire nella fase letteraria iniziale al movimento del Crepuscolarismo e ad assumerne, nelle prime poesie, i toni malinconici e nostalgici.

L’atto dello scrivere ha quindi lo stesso significato che l’atto del

salire ricopre all’interno della novella Una casa per me: non acquista valore

in base al risultato che esso produce, ma trova il suo senso nel suo farsi,

nel suo compiersi.

Ciò spiega il perché la prima produzione giovanile di Palazzeschi non è occupata semplicemente dalla poesia, ma anche da racconti e romanzi.

Alla prima raccolta di poesie I cavalli bianchi (1905) segue una seconda dal titolo Lanterna (1907) anche questa, come la prima, in linea con le tematiche e le atmosfere di matrice crepuscolare37.

36 GINO TELLINI, Introduzione, op. cit. 2004, p. LXXI.

37 La raccolta Lanterna insieme a Poemi rappresenta, secondo Solmi, «il punto d’equilibrio, sotto

l’aspetto propriamente lirico […] quando quel suo mondo di aeree visioni» acquista «un disegno più secco», il verso prende «ad articolarsi più liberamente sulla monotonia della musica, il movimento narrativo e il “divertimento” del dialogo e del coro» sottolineano «i sensi della sua singolarissima poesia». SERGIO SOLMI, op. cit. 1963, p. 155.

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Ma nello stesso anno di Lanterna Palazzeschi lavora anche alla stesura di racconti, alcuni rimasti in forma di bozza, e alla composizione di un’opera che definirà il suo «romanzo liberty»38, :riflessi, pubblicato nel

1908, in seguito ribattezzato Allegoria di Novembre.

Secondo Gino Tellini39 quest’opera fa da spartiacque all’interno

della prima produzione giovanile.

In quanto romanzo fortemente autobiografico, Palazzeschi convoglia nella figura del protagonista i due atteggiamenti antitetici, ma nello stesso tempo coesistenti, propri della sua personalità: l’inquietudine e l’allegria.

A questa immagine di identità doppia si adegua anche la composizione del romanzo che presenta infatti una struttura bipartita: la prima parte, totalmente in forma epistolare, raccoglie le lettere che il protagonista, Valentino Kore, un avvenente giovane dell’aristocrazia romana, indirizza dalla sua villa Belmualda nella campagna toscana al suo caro amico Johnny, giovane londinese incontrato durante uno dei suoi soggiorni a Venezia e verso il quale prova un particolare affetto; la seconda, a mo’ di reportage giornalistico, raccoglie invece interviste, ritagli di giornale, comunicati stampa che ci informano, per via indiretta, sulla coeva situazione del protagonista e sull’epilogo della storia.

Valentino Kore impersona, all’interno del romanzo, il perfetto prototipo del dandy. Cultore della bellezza, dell’eleganza e della raffinatezza concepisce la propria esistenza come fosse un’opera d’arte e, per tale ragione, vive in una dimensione alienata rispetto alle cose del mondo, completamente concentrato su se stesso ma nello stesso tempo vittima di forti turbamenti interiori.

Attraverso gli scambi epistolari egli può dar sfogo ai suo pensieri, trovando in Johnny l’unico interlocutore veramente in grado di comprenderlo. Nelle lettere egli ama parlare di ogni cosa, descrivere le sue

38ALDO PALAZZESCHI, Opere giovanili, Mondadori, Milano, 1958, p. 2. 39 GIORGIO TELLINI, Introduzione, op. cit. 2004, pp. LXXXV- XCIII.

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giornate all’interno della villa, le sue abitudini, i suoi passatempi, gli eventi improvvisi e le sue inquietudini.

Come è facile intuire dalla scelta di un’impostazione epistolare, l’attenzione dell’autore, più che concentrarsi su un’attenta e sistematica registrazione degli eventi nel loro susseguirsi, è interamente proiettata sull’analisi dei moti d’animo che affliggono il personaggio principale. Anche questo, come lui, soffre di un’eccessiva introversione che lo costringe a una vita solitaria e appartata, lontana dal mondo circostante al quale partecipa, come in Una casa per me, solo a distanza, (e qui si può notare come l’autobiografismo sia una costante dell’ispirazione palazzeschiana) dall’angolo di una finestra.

Col trascorrere del tempo, le insicurezze di Kore sfociano in una vera e propria mania, in un «egotismo paranoico»40 che lo porta a

compiere un gesto inconsulto, come quello di appiccare il fuoco ad un pagliaio. L’incendio agisce su di lui come un rito di iniziazione, un momento catartico attraverso il quale arriva a rivisitare completamente tutta la sua esistenza e a cambiare atteggiamento nei confronti della vita. Egli pone finalmente fine alla sua reclusione volontaria, spalanca le porte della sua villa alla vita, pronto a tuffarvisi dentro per lasciarsi meravigliosamente sorprendere dall’imprevedibilità degli eventi.

Alla fine del romanzo il protagonista, uscito dal portone, svanisce nel nulla, proprio come farà Perelà più tardi, lasciando tutti in preda allo stupore e al dubbio.

Tellini insiste particolarmente sulla «carica eversiva» che in questo romanzo prende forma e che fa intendere all’autore che la fase dello «stile patetico-sublime» si è storicamente esaurita annunciando che «il “saltimbanco” è alle porte»41.

La struttura bipartita del romanzo, prima e dopo l’incendio, non è occasionale, ma scandisce in due tempi il momento che precede e segue alla scoperta del sé: dalla malinconia del ritiro coatto alla vivacità

40 GINO TELLINI, Introduzione, op. cit. 2004, p. LXXXIX. 41 Ivi, p. XCII.

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provocata dalla conoscenza del presente. La conquista di Valentino Kore è la conquista del nuovo Palazzeschi.

È proprio dopo :riflessi che «il percorso di Palazzeschi vira energicamente verso l’invenzione clownesca»42.

Infatti, la terza raccolta di poesie dal titolo Poemi risente già di questo rovesciamento di prospettive interiori e di questo nuovo modo, disincantato e ironico, di guardare la realtà.

In questa raccolta, più che in quelle precedenti, emerge la vena più sperimentale e avanguardistica dell’autore toscano.

Del Crepuscolarismo egli riprende i toni ingenui e malinconici in quanto opposti ai tradizionali toni del poeta-vate, ma nello stesso tempo, li rovescia e li reinterpreta in maniera personale.

Palazzeschi non ricade, né nel senso di morte e di malattia, come avviene in Corazzini, né nella dimensione consolatoria della letteratura come in Gozzano, bensì ricerca una nuova dimensione vitale, giocosa e infantile nella fuga verso l’irrazionalità e il gioco.

La regressione allo stadio infantile è, secondo lui, l‘unica dimensione possibile per l’uomo per poter veramente raggiungere l’esperienza più autentica della vita. A tale dimensione si legano i concetti più positivi della sua appena conquistata allegria: la giocondità, l’irrazionalità, il divertimento, il piacere puro, che può portare in sé anche un che di trasgressivo.

La polemica cosciente e tagliente, anarchica e provocatoria nello stesso tempo, è incarnata nella produzione giovanile, proprio dalle figure del saltimbanco e del clown.

La poesia Chi sono?43 è da considerare in questo senso la chiave di

lettura della poetica del primo Palazzeschi.

42 Ibidem.

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Nella figura del saltimbanco, ritorna non solo il concetto del saltare evidenziato in precedenza, ma anche quello del banco, inteso tanto in senso autobiografico, quanto in quello metaforico44.

Inoltre, nel saltimbanco c’è anche l’idea del rovesciamento, del ribaltamento tipico del mondo teatrale: un cambio di traiettoria che si realizza prima a livello interiore e, successivamente, si riflette su quello esteriore. In Chi sono?45 si ritrova un perfetto esempio di «personaggio

teatrale in azione»46.

Anche l’immagine del pittore e del musico hanno una radice autobiografica, perfettamente allineate con quell’amore per la totalità dell’arte sempre dichiarato dall’autore.

La funzione del saltimbanco è quella di far divertire il pubblico durante i suoi spettacoli nelle piazze, di stupire gli spettatori con agili esibizioni circensi e giochi spettacolari. E lo stesso deve fare il poeta: non ripiegarsi su se stesso, assumendo toni malinconici per esprimere la propria condizione esistenziale, bensì sorprendere l’uditorio con giochi di abilità verbale e creazioni poetiche fantasiose.

Il poeta deve divertire e regalare gioia, ma nello stesso tempo è investito di una missione dissacrante e provocatoria nei confronti del falso perbenismo borghese e della sua falsa e costruita rigidità.

1.1.3 Salire per osservare, scendere per accogliere: dall’alienazione aerea di Perelà all’umanità della maturità

L’improvviso successo ottenuto con la pubblicazione di questa raccolta incrementa la sua cerchia di amicizie.

Palazzeschi inizia così a collaborare con alcune importanti riviste tra cui «Poesia» diretta da F.T. Marinetti il quale, rinvenendo in Palazzeschi

44 Cfr. PIERO PIERI, op. cit. 1980, pp. 49-50.

45 «Chi sono? / Sono forse un poeta? / No certo. /Non scrive che una parola, ben strana, /la penna

dell’anima mia:/follìa./Sono dunque un pittore? /Neanche. /Non à che un colore la tavolozza dell’anima mia:/malinconìa./Un musico allora? /Nemmeno. /Non c’è che una nota/nella tastiera dell’anima mia:/nostalgìa./Son dunque…che cosa? /Io metto una lente/dinanzi al mio core, / per farlo vedere alla gente. / Chi sono?/ Il saltimbanco dell’anima mia.», Chi sono?, in ADELE DEI, op. cit. 2002, p. 72.

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lo spirito interventista e anticonvenzionale che caratterizza il movimento avanguardistico da lui fondato, si mobilita per arruolarlo all’interno della ancora giovane schiera dei futuristi.

Dopo aver aderito al Manifesto nel 1909, Palazzeschi trascorre nel nuovo ambiente ben cinque anni della sua vita, fino al 1914.

Ricorderà questi anni come i più intensi e felici, anni nei quali, come lui stesso afferma nell’introduzione a Opere giovanili (1958), «conobbi la giovinezza»47.

E ancora l’autore aggiunge in una intervista riguardo all’esperienza futurista:

«Dato poi che io facevo una poesia, effettivamente, senza saperlo, indotto solamente dal mio istinto di avanguardia, e non era facile agganciarsi con gli editori, né col pubblico, io ho vissuto i primi anni nella più grande solitudine, sconosciuto nel modo più completo. Finché un bel giorno non ho ricevuto una lettera da Marinetti che, allora, aveva in quei giorni proclamato il Futurismo, questo movimento artistico, letterario… e dalla più grande solitudine, sono passato addirittura al palcoscenico, cioè il contrario di quello che avevo fatto e che, in fondo, mi porta a fare la mia natura. Perché la mia natura è di solitario, non è di uomo che vive nelle bolge… però, quello che mi aveva spinto al Futurismo era proprio questo senso di AVANGUARDIA, e non nel Futurismo di quello che il Futurismo voleva proclamare, ma nel senso DI AVANGUARDIA, DI SCOPERTA, DI NOVITA’ che è sempre stata, in tutti i paesi e specialmente nel nostro, AVVERSATISSIMA. Perché in pochi paesi, come nel nostro, si è conservatori. Fu una cosa pratica per me il Futurismo. Però debbo dire che in quei cinque anni che io ho appartenuto al movimento futurista, ho conosciuto la GIOVINEZZA. Io che non ero stato studente, io che non avevo fatto grandi combriccole con ragazzi, roba così… conobbi veramente la gioventù, fu una parentesi della mia vita. Una volta staccatomi dal Futurismo sono rientrato nella mia solitudine, così ho seguitato a lavorare fino al giorno d’oggi. Però, per quelli che credessero che io ho un cattivo ricordo del Futurismo, è proprio il contrario! Io ho del Futurismo un bellissimo ricordo»48.

Aldo Palazzeschi, dunque, si accosta al Futurismo non perché trasportato da una sentita e piena condivisione della nuova ideologia del movimento, ma per una questione pratica, per quel carattere di improvvisa rottura e di novità che esso rappresenta.

Ad esempio, egli ne accetta solo in parte il corredo stilistico, ricorrendo sì all’uso dell’onomatopea e della frammentazione fonetica, ma al contempo senza stravolgere eccessivamente la struttura rigida e tradizionale della sintassi. Inoltre, alle soglie del conflitto mondiale, a

47 Ivi, p. 4.

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differenza degli altri futuristi che guardano alla guerra con spirito rivoluzionario e rinnovatore, Palazzeschi si mostra neutrale, rifiutando la violenza e il militarismo.

Pur essendo tendenzialmente schivo e, per natura, incline alla solitudine e all’isolamento, riconosce che l’ingresso nel movimento rappresenta una fase di svolta, artistica e umana, un risveglio improvviso dal torpore e dall’inquietudine dei suoi anni giovanili.

L’Incendiario (1910), la quarta e ultima raccolta della fase giovanile,

è il risultato poetico più felice dell’esperienza futurista.

Siamo già oltre gli sperimentalismi giovanili, caratterizzati dai toni seri, dai dubbi e dalle insicurezze di stampo crepuscolare delle prime raccolte poetiche.

Nell’Incendiario sono presenti poesie che segnano attivamente questa fase di svolta poetica, come, ad esempio, la famosa E lasciatemi

divertire! nella quale Palazzeschi, pur riprendendo il tema di fondo di Chi sono?, lo libera dalla rarefatta atmosfera crepuscolare per lasciare spazio

solo alla follia e all’esuberanza di matrice futurista.

La volontà di dissacrare la vecchia morale precostituita si riflette anche sul piano del linguaggio: il rifiuto della norma linguistica porta alla scelta di un linguaggio alternativo, privo di nessi di tipo logico-sintattico e fatto regredire allo stadio primitivo, originario, basato su associazioni casuali di vocali e suoni come quelle fatte dai bambini appena iniziano a parlare49.

Anche nel verso dunque egli non rinuncia a quel grado di estro creativo e istinto bizzarro al quale poteva dar sfogo sul palcoscenico, ma lo trasforma in qualcos’altro, in una nuova sensibilità, tutta musicale.

La musicalità è uno degli elementi peculiari di tutta la sua poesia: il fonosimbolismo e l’onomatopea diventano, insieme alla sinestesia e

49 Secondo il Solmi, all’interno della raccolta, soltanto in alcune poesie riaffiorano quelle «inflessioni

liriche, moti di sentimento profondo […]» tipiche dei primi esperimenti poetici, ma nel complesso, egli giudica l’Incendiario, come la poesia più di “maniera” di Palazzeschi, in cui il «divertimento intellettuale» occulta se non esaurisce del tutto, «l’incanto del poema». SERGIO SOLMI, op. cit. 1963, p. 156.

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all’ossimoro, due figure retoriche ricorrenti all’interno dei suoi componimenti50.

Sul piano della prosa il romanzo futurista palazzeschiano per eccellenza, dopo l’esperimento de La Piramide (1912-14), è Il codice di

Perelà.

«Perelà è la mia favola aerea, il punto più elevato della mia fantasia»51 scrive Aldo nella premessa alle Opere giovanili.

La critica si è a lungo confrontata sul valore di quest’opera, si è ripetutamente domandata se sia o meno da considerarsi come il capolavoro letterario di Palazzeschi. Tutti, da Solmi52, a Baldacci53, al più

contemporaneo Marchi54, riconoscono la carica innovativa di questo

romanzo a partire dal grado di originalità e atipicità del personaggio principale.

Perelà è una figura straordinaria, fantastica, surreale, piovuta dal cielo in una realtà altrettanto magica e sognante, un regno incantato fatto di re, regine, cortigiani, dame e gentiluomini per assolvere ad una precisa e fatalistica funzione: rivelare la futilità e la precarietà dell’esistenza umana, agendo come specchio riflettente nei confronti del mondo circostante, mostrando, attraverso la sua inconsistente e rarefatta figura, le miserie e le debolezze umane. «Perelà non fa nulla e non ha nulla da dire. Guarda senza intervenire. Lascia che siano gli altri a mostrarsi come sono e come credono di essere»55.

50 Non a caso, una delle poesie più musicalmente incisive di Palazzeschi come La fontana malata fu

il testo più largamente utilizzato ai fini della sperimentazione radiofonica.

51 ALDO PALAZZESCHI, Premessa, in op. cit. 1958, p. 3.

52 «E che altro è forse quel suo vecchio romanzetto del Codice di Perelà, se non una lunga poesia

dell’Incendiario, portata ad assumere le proporzioni della prosa? Prosa nervosa e leggera, piena di inflessioni, di musica e ingenue movenze, […] romanzetto così sfogato e musicale, così pieno di humour malinconico e allucinato, così necessario nella sua incoerenza, dove la narrazi one è ridotta al minimo, e un libero intreccio di voci senza corpo dà linea e colore al racconto», SERGIO SOLMI, op. cit. 1963, pp. 156-57.

53 «Perelà resta per noi il libro più felice e importante di Palazzeschi […] il libro veramente còlto di

Palazzeschi. Qui, come nelle Poesie, il simbolo riveste un’importanza preminente», LUIGI BALDACCI,

Aldo Palazzeschi in Letteratura e verità: Saggi e cronache sull’Otto e sul Novecento italiani, Riccardo

Ricciardi editore, Milano-Napoli, 1963, p. 146.

54 MARCO MARCHI, Palazzeschi e altri sondaggi, Le Lettere, Firenze, 1996, pp. 11, 17, 24, 54. 55 GINO TELLINI, Introduzione, op. cit. 2004, p. XCVI.

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Rispetto a :riflessi il punto di vista è dunque spostato dal protagonista che osserva alla pluralità delle forme del mondo osservato.

«Il che equivale a dire che il Codice è il romanzo-teatro e racconto-spettacolo, costruito per sequenze dialogiche […]»56.

La tecnica del parlato come strumento di evasione dalla prosasticità che, nelle raccolte poetiche si traduce in «ritmo ironico e saltellante»57, è al contrario ampliamente sviluppata nel romanzo come

tecnica di rappresentazione corale attraverso una illimitata «infilzata di battute»58 in grado di produrre un originale «spettacolo sonoro»59.

Ancora una volta l’osservazione dell’altro e l’indagine sulla realtà sembrano essere i centri d’interesse della penna di Palazzeschi: la vita dell’uomo e le sue innumerevoli sfaccettature sono l’oggetto di attenzione della sua curiosità.

Ma l’atteggiamento assunto dall’autore è quello di colui che osserva la realtà dall’alto, da un punto di vista partecipe ma nello stesso tempo distaccato.

È il mondo osservato dalla scala sulla quale Palazzeschi si arrampica da bambino per prendersi gioco della gente di quaggiù.

Dopo la sua breve ma intensa parabola terrena Perelà, generato dal fumo, nel fumo rientra, lasciando tra i sudditi del regno scompiglio e ammirazione. L’uomo di fumo in realtà esiste soltanto nelle aspettative e nelle speranze degli uomini che lo attendono e che desiderano vedere in lui una possibilità di redenzione e salvezza.

Egli è sì ingenuo, spensierato, leggero, ma proprio la sua leggerezza e affabilità sono il punto di forza e l’essenza della sua funzione dissacrante nei confronti della realtà.

L’allegria in Palazzeschi non è mai, infatti, separata dalla riflessione, dall’esigenza di comunicare un personale messaggio morale.

56 Ibidem.

57 GIORGIO PULLINI, op. cit. 1965, p. 16. 58 Ibidem.

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La sua rivoluzione letteraria non aggredisce i contenuti, ma la forme di tale comunicazione, prediligendo l’ironia e il gioco ai toni seri e sentenziosi della letteratura tradizionale.

Il gesto del salire è, in realtà, un moto interiore, un sublimarsi dell’animo che sceglie di confondersi con l’aria come gesto di evasione e rifiuto nei confronti dalla pesantezza della realtà terrena.

Il principio di piacere denunciato in E lasciatemi divertire! e lo spirito provocatorio operante nel Codice, vengono in seguito teorizzati nel manifesto palazzeschiano dal titolo Il controdolore, pubblicato su «Lacerba» il 15 gennaio del 1914:

«Quel manifesto del Controdolore è alla base del mio spirito e annuncia quella che sarà tutta la mia carriera di scrittore tragicomico cioè la mia conquista, quanto di più personale ci possa essere nella sua rozza primitività»60.

Con l’idea del “controdolore” Palazzeschi vuole negare il dolore attraverso il riso e lo sberleffo, tipico atteggiamento dell’avanguardia futurista.

L’uomo, secondo lo scrittore, non è fatto per soffrire: il dolore è transitorio perché la vita è piacere. La gioia è eterna e il riso è più profondo del pianto. A detta di Palazzeschi, i melanconici debbono essere ricoverati; bisogna trasformare gli ospedali “in luoghi divertenti” e i funerali in cortei mascherati e grotteschi. Non bisogna ridere nel vedere uno che ride, ma nel vedere uno che piange, sarcasticamente saper ridere della malattia, della vecchiaia e della morte.

L’assunto palazzeschiano racchiude il consapevole fine di provocare la gente, proprio come facevano Marinetti e i suoi amici durante le serate futuriste al teatro. Deve, dunque, essere insegnato prontamente ai giovani, alle nuove generazioni, affinché crescano bene, che il riso rappresenta l’unica arma per manifestare il contro dolore:

«BISOGNA EDUCARE AL RISO I NOSTRI FIGLI, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente non appena ne sentano la necessità,

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all’abitudine di approfondire tutti i fantasmi, tutte le apparenze funebri e dolorose della loro infanzia, alla capacità di servirsene per la loro gioia»61.

Marinetti accoglie con vivo entusiasmo le dichiarazioni di Palazzeschi, ma la sintonia tra i due è destinata a durare ancora per poco. Per quanto l’autore si lasci affascinare dal vitalismo dinamico del movimento, egli non riesce ad accettarne il culto del titanismo e le false mitologie superomistiche62, dichiarate sempre con maggior vigore in

prossimità del primo scontro mondiale.

L’incapacità di Palazzeschi di accettare questo aspetto del Futurismo lo porta inevitabilmente prima a un momentaneo allontanamento dal movimento e in ultimo alla definitiva rottura.

Siamo così arrivati alle soglie del 1915, l’anno dell’entrata in guerra dell’Italia e il ventiseienne Palazzeschi, come molti giovani italiani, viene chiamato alle armi e arruolato nel 1916 nella sezione telegrafisti, prima a Firenze e poi a Roma insieme all’amico Moretti.

Gli anni della guerra sono segnati da un periodo di totale silenzio letterario. Sono anni particolarmente duri e difficili per il fragile temperamento di Aldo, da sempre ostile alle guerre. L’esperienza bellica è talmente insopportabile da gettarlo in una profonda depressione non priva di rischi per la sua già fragile costituzione. Si ammala frequentemente e per tal ragione è di continuo ricoverato tra Bologna, Roma e Firenze.

Tuttavia, secondo la critica il primo conflitto mondiale costituisce l’inizio della seconda fase letteraria di Palazzeschi.

Come sottolinea Giuseppe Nicoletti:

«[…] gli anni della grande guerra segnano una sorta di spartiacque fra due tempi della sua opera. Due tempi distinti prima di tutto da una diversa disposizione dell’autore nei confronti del proprio pubblico di lettori, donde un mutato atteggiamento di scrittura e pur anche la revisione di una concezione dell’esercizio letterario che il giovane scrittore […] aveva adottato all’indomani dell’esordio letterario […]»63.

61 ALDO PALAZZESCHI, Il controdolore in I manifesti del Futurismo: 1909 – 1913, Introduzione e cura

di Giuliano Manacorda, Empirìa, Roma, 2001, pp. 186-7.

62«L’adesione di Aldo al Futurismo lo portò a seguire il Marinetti nelle manifestazioni di sfrenata propaganda […]; egli figurava sempre come una specie di piccolo e rotondetto passerotto spaurito in compagnia di falchi e di sparvieri.», VALENTINO BROSIO, op. cit. 1985, p. 81.

63 GIUSEPPE NICOLETTI, Sorelle Materassi in opera collettiva Letteratura Italiana, diretta da A. Asor

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Il 1914 è, infatti, l’anno in cui l’autore cessa quasi definitivamente di scrivere poesie. Tornerà al verso in altri due momenti: a partire dagli anni Cinquanta con Viaggio sentimentale (1955), che arricchirà di ulteriori testi nel 1968 in Cuore mio e per l’ultima volta, dopo una seconda parentesi narrativa, a due anni dalla morte con la pubblicazione della raccolta omnia Via delle cento celle (1972).

Chiudere la sua carriera narrativa con un libro di poesie significa per lui concludere la propria esistenza secondo un movimento circolare. In un’intervista rilasciata a Giorgio Fubiani nel ‘66 dichiarerà in previsione dell’uscita de Il buffo integrale:

«una volta terminato questo libro di racconti mi dedicherò a raccogliere e anche a scrivere delle nuove poesie delle quali farò un’ultima raccolta in modo che come ho incominciato avrò finito. Ho cominciato con un libro di versi e con un libro di versi chiuderò la mia carriera»64.

Due imperi…mancati è il romanzo autobiografico che segna la

ripresa della scrittura dopo il lungo periodo di silenzio durante gli anni del primo conflitto mondiale.

Pubblicato per Vallecchi nel 1920, questo saggio polemico nei confronti della guerra sarà celebrato da Pancrazi65 come il testo di svolta

del Palazzeschi prosatore.

Con la dedica al testo «A tutti i poeti che rinnegando sé stessi alimentarono il fuoco immondo, perdonando l’offesa»66 Palazzeschi dà

sfogo alla propria protesta anti belligerante, dichiarando che la guerra va rifiutata in ogni caso e denunciando il conflitto come «tragedia collettiva e irrimediabile»67.

I toni esultanti e trionfalistici dell’interventismo futurista vengono qui irreprensibilmente ribaltati, cozzando con la nuova concezione tutta immanente della realtà elaborata da Palazzeschi subito dopo la guerra.

64 Incontro con Aldo Palazzeschi. Radio Televisione Svizzera italiana, 12 maggio 1966, Roma, ADAP. 65 PIERO PANCRAZI, Umorismo e Umanità di Aldo Palazzeschi in Scrittori italiani del Novecento,

Laterza, Bari, 1934, pp.30-36.

66 ALDO PALAZZESCHI, Dedica a Due imperi…mancati, Vallecchi, Firenze, 1920. 67 GIUSEPPE NICOLETTI, op. cit. 1996, p. 62.

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Nel periodo post-bellico la sua polemica anti-borghese, anziché affidarsi all’ironia e al grottesco degli anni giovanili, predilige nella nuova dimensione narrativa una teatralizzazione della vita, fatta di deformazioni e figurine, dove la parodia delle convenzioni linguistiche e dei costumi borghesi ne svela contemporaneamente l’insignificanza.

In questa nuova fase i toni si fanno più seri e prosastici e la riflessione sul conflitto mondiale e la perdita delle vecchie certezze allontanano definitivamente Palazzeschi dal mito interventista proposto dal Futurismo. L’autore è coinvolto in questi anni in un processo di revisione delle proprie opere giovanili, dovuto all’ acquisizione di una nuova coscienza letteraria e morale. La sua scrittura conosce ora una nuova fase sperimentale che, se in apparenza sembra mescolarsi a vecchi moduli narrativi tradizionali, in realtà li critica e li dissacra dal di dentro attraverso l’uso della parodia.

Chiusi gli anni della parentesi futurista e della guerra, nel nuovo ordine che si è costituito, Palazzeschi è costretto a trovare un accordo tra norma e anti norma, tra trasgressione e tradizione. Senza rinunciare alla sua natura di provocatore, dopo aver abbandonato i toni del gioco linguistico e del fantastico dell’età giovanile, abbraccia l’umorismo come unica arma apparentemente innocua ma in realtà più efficace e immediata per colpire il pubblico borghese, da sempre preso polemicamente di mira nelle sue opere. La sua intelligenza poetica gli consente di mescolare il sacro col profano, l’alto con il basso, gli aspetti comici con quelli tragici della vita.

Nel periodo compreso tra le due guerre ed oltre entriamo nella fase della maturità.

In un contesto completamente cambiato, con lo stravolgimento provocato dalla guerra e l’instaurazione del regime fascista, non è più consentito scegliere la via dell’isolamento e del totale disinteresse socio-politico che Palazzeschi aveva assunto durante tutta la sua fase giovanile; nasce adesso in lui una profonda necessità di revisione in relazione alle proprie idee e al suo impegno di scrittore:

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«La guerra, se non altro, ha costretto l’artista a scendere dal piedistallo dei propri privilegi (l’esclusivo, intangibile appannaggio della fantasia e dell’immaginazione) e, mescolandolo alla gente più umile, a contatto con i suoi bisogni e le sue sofferenze, gli ha ispirato un sentimento di dolente solidarietà, di sofferta partecipazione ai destini di un prossimo prima inascoltato e addirittura ignorato»68.

Sono gli anni del “ritorno all’ordine” che, per molti critici, si tradurranno nell’opera palazzeschiana come una sorta di involuzione e regressione del proprio genio creativo69, una specie di compromesso con

le nuove esigenze letterarie e di pubblico che però giocano a discapito della sua originalità. Al di là dei pareri della critica, in questa seconda fase letteraria si concentra la più cospicua produzione palazzeschiana che, come anticipato in precedenza, è quasi interamente rappresentata dalla prosa.

Dopo Due imperi…mancati (1920) composto in piena epoca di propaganda fascista, abbiamo la raccolta di racconti Il re bello (1921), che riunisce in un unico volume alcuni testi già editi nel 1915, e la ripubblicazione de La Piramide (1914) rivisitata secondo i parametri dell’avvenuta conversione letteraria. Nel 1932 viene data alle stampe la raccolta di ricordi d’infanzia Stampe dell’800, antefatto letterario di Sorelle

Materassi (1934), il romanzo che con la precedente raccolta instaura una

forte dipendenza tematica e ideologica. Nel 1937 é la volta de Il Palio dei

Buffi in cui Palazzeschi si riaccosta alla misura del racconto novellistico,

genere nel quale più di tutti si trova a suo agio.

In questa raccolta egli focalizza, in maniera più precisa e sfaccettata, il concetto del buffo, già precedentemente introdotto a

68 GIUSEPPE NICOLETTI, op. cit. 1996, p. 63.

69 È di questo parere il Baldacci che, opponendosi alla critica contingente a favore della conversione

prosastica palazzeschiana, respinge sia il parere del Pancrazi, sia quello del Pampaloni, entrambi concordi nel riconoscere nel Palazzeschi delle Stampe, del Palio, delle Sorelle e dei Cuccoli la vera anima dello scrittore, in quanto esemplari esempi di maturità stilistica e tematica, un ritorno al

realismo dopo la rottura con la tradizione rappresentata dall’ «inconsistenza e le stranezze di Perelà». Secondo Luigi Baldacci invece «nessuno scrittore è stato mai tanto lontano da una

possibilità di realismo quanto Palazzeschi. […] il realismo non è un abito letterario; […]». Quello di Palazzeschi è «un realismo di convenzione che in convenzionali caratterizzazioni crede di poter conservare lo spirito dell’antica poetica […] è insomma una resa senza condizioni […] », LUIGI

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partire dalle Stampe e ampliato successivamente nei diciotto racconti de

Il buffo integrale (1966):

«[…] Buffo, secondo me, è tutto quello che nella vita nostra è fuori dal comune, che esce dalla strada maestra della vita quotidiana nostra e che, per qualche cosa, risalta eccezionalmente»70.

Agli anni Quaranta e Cinquanta appartengono, invece, il romanzo-documentario Tre imperi…mancati (1945) e I fratelli Cuccoli, pubblicato nel 1948.

Il primo testo, presentato come la continuazione di Due

imperi…mancati, ritorna sul tema della guerra e sulle riflessioni che ne

conseguono, alla vigilia della fine del secondo conflitto mondiale.

I fratelli Cuccoli è invece una storia dal taglio familiare. Protagonista

è Celestino Cuccoli, un uomo che, rimasto celibe, decide di adottare quattro ragazzi di un orfanotrofio per regalare loro una vita migliore e benestante.

Il romanzo, che ottiene il Premio Viareggio sempre nello stesso anno, è fortemente autobiografico71, possiamo dire il corrispettivo del

giovanile Allegoria di Novembre: in Celestino convivono, infatti, tanto la fantasia e il surrealismo del giovane Palazzeschi, quanto il moralismo e la disillusione nei confronti della realtà della attuale maturità.

Ciò che cambia, però, rispetto all’ Allegoria, è la struttura del romanzo. La scelta di Palazzeschi non ricade questa volta sul diario epistolare e sull’introspezione psicologica del personaggio, ma su un procedimento narrativo più tradizionale realizzato attraverso uno stile regolare e dei toni più sommessi.

La raggiunta maturità stilistica trova conferma anche nelle opere immediatamente successive ai Cuccoli, rispettivamente nella vitalità espressiva della raccolta novellistica Bestie del ‘900 (1951) e nel realismo fantastico dei quattro romanzi conclusivi: Roma (1953), Il Doge (1967),

Stefanino (1969) e Storia di un’amicizia (1971).

70 Incontro con Aldo Palazzeschi, Radio Televisione Svizzera italiana, 12 maggio 1966, Roma, ADAP. 71 «Quel protagonista […] è il personaggio che più mi assomiglia», op. cit. DE MONICELLI 1959 in

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In Roma, la protagonista è la città. Il romanzo al quale Palazzeschi sembra essere più legato, tanto da considerarlo uno dei suoi lavori più riusciti, è in realtà l’opera meno apprezzata sia dal pubblico, sia dalla critica72.

Il punto, però, sul quale tutti i critici convengono, è l’acuirsi in questo romanzo del suo scetticismo nei confronti della storia e delle masse popolari; predomina la consapevolezza di una visione fatalistica del mondo destinata a travolgere tutto e tutti.

La città ritorna protagonista anche ne Il Doge, ma questa volta non è più Roma, bensì Venezia. Al realismo del romanzo del ’53, Palazzeschi sostituisce una rappresentazione surreale della città, inserita in una dimensione fantastica e bizzarra. Nel romanzo l’autore sembra pertanto riprendere alcuni caratteri della sua giovanile poetica, a partire dalla scelta di toni narrativi da fiaba e dal ricorso a un linguaggio irregolare e giocoso che funga da sovversivo nei confronti del reale.

Questo ritorno al surreale e al fantastico si riconferma anche in

Stefanino nel quale si rifanno vivi anche i toni polemici e rivoluzionari del

periodo futurista.

La produzione letteraria in prosa si chiude in vita con la pubblicazione del romanzo Storia di un’amicizia al quale si aggiungerà solo a quattordici anni dalla morte dell’autore la pubblicazione dell’opera inedita Interrogatorio della contessa Maria. Secondo Baldacci73,

quest’ultima, è l’opera più completa dell’autore, in quanto è da considerarsi contemporaneamente e romanzo e confessione e libro filosofico poiché è in questa sede narrativa che, senza pudore o sotterfugi, Palazzeschi confessa la propria omosessualità.

1.2 Uno “spirito libero” fuori dai canoni

«Aldo ha portato nel nostro mondo letterario un’indipendenza che è cosa tutta sua e un insegnamento che vale per tutti. Egli ci insegna che la poesia non ha

72 Spagnoletti, ad esempio, giudica Roma come «il romanzo certo fra i meno felici della sua maturità

[…]», GIACINTO SPAGNOLETTI, Palazzeschi, Longanesi, Milano, 1971, p. 54.

73 LUIGI BALDACCI, Novecento passato remoto. Pagine di critica militante, Rizzoli, Milano, 2000, pp.

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