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Introduzione L’era della traduzione

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Academic year: 2021

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Introduzione

L’era della traduzione

Apro gli occhi e non so dove sono o chi sono. Non è una novità: ho passato metà della mia vita senza saperlo. Eppure oggi è diverso. È una confusione più terrificante. Più totale.1

Andre Agassi si è appena svegliato nella suite del suo hotel di New York. Giocherà il suo ultimo US Open o meglio il suo ultimo torneo di sempre. Un insieme di problemi di salute e questioni personali lo costringeranno a ritirarsi dal mondo del professionismo tennistico all’età di trentasei anni. Il suo senso di confusione sarà familiare per coloro che sono attualmente impegnati a qualsiasi livello con la traduzione. L’onnipresenza di opzioni di traduzione online, la proliferazione di app di traduzione per smartphone, l’inarrestabile corsa verso l’automazione nei progetti di traduzione su larga scala, i cambiamenti fondamentali nelle abitudini letterarie, visto che la lettura migra dalla pagina allo schermo, la istantaneità spietata della comunicazione elettronica, poiché le risposte sono richieste sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, il cambiamento costante della gamma di accessori della traduzione digitale come i software di memoria traduttiva che mutano senza sosta: tutti questi fattori contribuiscono a quel senso per cui “oggi è diverso”. Ci saranno stati cambiamenti in precedenza ma questa volta, è “una confusione più terrificante. Più totale.” Questo libro parla di questo senso di confusione. Nell’ultimo decennio, nel parlare a pubblici in diverse parti del mondo, continua a risuonare la stessa domanda: esiste un futuro per i traduttori? Nell’era di Google Traduttore, il traduttore umano è condannato a estinzione su larga scala oppure alla pittoresca marginalità del dilettante della domenica? La richiesta di traduzione continua a crescere velocemente nel mondo contemporaneo, ma agli umani verrà ancora

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chiesto di rispondere a questo bisogno, o saranno le macchine stesse a fare la richiesta?

Quel che le domande esprimono è una sensazione, che credo essere ben fondata, che la traduzione stia vivendo in un periodo di straordinario subbuglio. Gli effetti della tecnologia digitale e di internet sulla traduzione sono continui, diffusi e profondi. Non possono più essere confinati ai congressi di fanatici che valutano i software più recenti, o essere derisi abitualmente nella poco divertente ripetizione delle papere delle ultime traduzioni automatiche. A studenti, studiosi e, di fatto, a chiunque sia interessato al futuro delle lingue e delle culture umane si consiglierà di fare attenzione a ciò che sta accadendo alla traduzione nell’era digitale.

Questo libro è un lavoro di interpretazione, non una profezia. In un ambito in cui vi è una corrente infinita di innovazioni tecnologiche, sarebbe una follia totale cercare di predire quale potrebbe o non potrebbe essere l'ultimo successo dei sistemi automatici nel trattare problematiche o questioni di traducibilità. L’obiettivo è piuttosto capire in senso più ampio le implicazioni della saldatura tra traduzione e tecnologia per la lingua, la cultura e la società. Per fare questo, il libro adotta prospettive disciplinari dall’antropologia alla zoologia e si occupa di esempi storici che vanno dagli insediamenti fluviali lungo il Tigri e l’Eufrate alle sorti alterne delle forze armate australiane nel mondo contemporaneo. In tutto il libro si evita intenzionalmente l'inutile suddivisione delle prove, e la traduzione letteraria è trattata insieme a quella tecnica, commerciale e scientifica. Si afferma più volte che la tecnologia non è semplicemente un accessorio, un’aggiunta alla traduzione, ma che è stata centrale per la definizione dell’attività traduttiva in diverse società e in diversi periodi storici fino a includere sicuramente il nostro. Frances Yates, l’illustre storica del Rinascimento europeo, ha fatto delle osservazioni sull’apparente paradosso della marcia in avanti che è soggetta allo sguardo all’indietro:

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I maggiori e più avanzati movimenti del Rinascimento derivano tutti il loro vigore, il loro impulso essenziale, guardando al passato. La concezione ciclica del tempo inteso come un moto perpetuo avanzante da primitive età dell’oro, dominio della purezza e della verità, attraverso successive età bronzee e ferree, era quella dominante e perciò la ricerca della verità veniva a identificarsi con la ricerca di quell’oro primitivo, antico e originario, rispetto al quale i più vili metalli dell’età presente e di quella immediatamente trascorsa costituivano corrotte degenerazioni.2

In ogni analisi della traduzione nell’era digitale, vi è il duplice pericolo di ciò che potrebbe essere definito lo “sguardo all’indietro” e lo “sguardo in avanti”. Lo sguardo all’indietro è la tentazione di vedere il presente digitale come l’evidenza di un irrimediabile decadimento delle questioni traduttive. Nell’immacolata età dell’oro della giovinezza del traduttore, le persone conoscevano l'ortografia, leggevano libri, potevano concentrarsi su una pagina per più di cinque secondi e conoscevano i nomi di tutti e cinquanta gli stati degli Stati Uniti d’America senza dover sfoderare lo smartphone. Lo sguardo in avanti è la tentazione altrettanto forte di vedere il presente digitale come un mondo di miracoli e meraviglie, narrate nella comune prosa mozzafiato di “Ma non è incredibile che...”. Nell’iperbole emotiva dei cyber-apostoli, la traduzione automatica significherà la fine di ogni conflitto, pena e miseria mentre gli umani si uniranno nella più alta condivisione della reciproca intelligibilità.

La Traduzione nell’era digitale cerca di evitare i duplici pericoli del pessimismo estremo e dell'ottimismo fanatico esaminando da vicino ciò che sta accadendo nel mondo della traduzione. Fa, comunque, un'affermazione di più ampia portata che mostra la grande importanza della traduzione per ogni studente

2Frances A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, trad. di Renzo Pecchioli, Bari, Laterza, 1969, p. 11.

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della cultura e della società contemporanee. Si sostiene, infatti, che l’epoca attuale, alla quale spesso ci si riferisce come l’era dell’informazione con il suo corollario, ovvero la società della conoscenza, dovrebbe essere definita più esattamente l’era della traduzione. L’estrema flessibilità degli strumenti digitali significa che questi possono generare un’ampia varietà di prodotti. Un comune portatile con i giusti software e la connessione a internet può fungere da archivio, contabilità, console per videogiochi, biblioteca, album fotografico, agente immobiliare. La variabilità delle attività di queste macchine è resa possibile, in parte, dalla convertibilità universale nel codice binario, ovvero l’abilità di convertire parole, immagini e suoni nel linguaggio universale del codice. In questo senso, i cambiamenti radicali in tutti gli ambiti della vita come conseguenza dell’avvento della tecnologia dell’informazione devono essere posti sotto il segno della convertibilità o della traduzione. Sono proprio gli effetti metamorfici o trasformativi della convertibilità al centro della rivoluzione digitale a fare della traduzione il punto di vista più appropriato dal quale osservare criticamente cosa accade alle lingue, alle società e alle culture in un regime di convertibilità avanzata, e capire cosa succede quando questa convertibilità fallisce o raggiunge i limiti.

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2 Parlare chiaro

Uno dei problemi centrali affrontati dalla traduzione nell’era digitale è come uno degli strumenti che gli umani usano per comunicare, il linguaggio, sia influenzato dagli altri strumenti utilizzati. Se tempo, massa critica e costi sono fattori che guidano l’organizzazione della traduzione come attività, cosa accade al linguaggio stesso nei nuovi sistemi di traduzione? Partendo dal costo, è attualmente stimato che scrivere, revisionare e pubblicare una nuova pagina di documentazione costa 200$. La spesa arriva a 1.200$ se quella pagina è tradotta nelle 23 lingue attive e ufficiali dell’Unione europea (Wignall 2009). La nozione di costo è legata alla natura polisemica della lingua. Più cose si dicono in una lingua, più costa dirlo in altre lingue. Nelle parole del Direttore dello sviluppo commerciale di Software and Documentation Localization (SLD) “la molteplicità dei modi in cui possiamo dire la stessa cosa significa che dobbiamo revisionare e approvare tutto ciò che viene scritto. Senza alcuna possibilità di sapere in anticipo qual è il modo “corretto” di dire qualcosa, gli scrittori continuano a creare, senza volerlo, nuovo materiale” (Wignall 2009). Così, per esempio, nel contesto dell'Unione europea, una nuova frase nella lingua originale ne genera altre ventitré. Questo nuovo materiale è chiamato “contenuto involontario” e si sostiene che una riduzione nella generazione di questo contenuto possa produrre risparmi significativi. Tuttavia, le ragioni per combattere la proliferazione di “contenuto involontario” non sono solo economiche. L’elevata quantità di questo tipo di contenuto “riduce la chiarezza, la qualità e in sostanza la facilità dell’uso. In casi estremi, può anche colpire la sicurezza se il contenuto è abbastanza inconsistente e confuso” (ibid.). In questo scenario, il dovere di chiarezza e l’attenzione vengono in soccorso del costo.

Si ritiene che l’utilizzo di versioni di un linguaggio naturale controllato (LNC3

) sia un modo per evitare il caos costoso e pericoloso della novità.

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Gli LNC in inglese di solito utilizzano insiemi specifici di regole grammaticali e stilistiche, un vocabolario ristretto, frasi di lunghezza limitata, determinanti e la forma attiva piuttosto che quella passiva per creare contenuto. Ciò rende i testi più facili da tradurre, ma significa anche che più traduzioni possono essere riutilizzate in quanto la probabilità di “contenuto involontario” che è stato prodotto nella lingua di partenza è diminuita. Meno è ciò che viene detto, più spesso questo può esser detto (in altre lingue), senza costi aggiuntivi. Le informazioni procedurali (per esempio, la rimozione e la sostituzione dell’involucro di un PC), gli avvisi e le segnalazioni, il livello di riutilizzo dei componenti (per esempio, la documentazione relativa a motori e cambi riutilizzati per gamme di modelli differenti): tutto ciò si presta a questo tipo di riutilizzo del contenuto che è considerato un elemento importante delle economie di scala dei progetti di traduzione di vasta portata.

Lingua franca

Tuttavia, è utile riflettere più ampiamente su come il linguaggio naturale, e non solo LNC aziendali specifici, diventi un oggetto di controllo in un'epoca di comunicazione globale e come le abitudini reali si oppongano a specifiche ideologie di controllo.

Martin Schell, direttore generale dell’azienda globalenglish.com, considera i diritti globali portatori di responsabilità globali:

La nostra azienda si concentra sulla promozione e sul perfezionamento dell’uso dell’inglese come mezzo per la comunicazione globale. Crediamo che i parlanti di madrelingua inglese abbiano bisogno di diventare più responsabili del ruolo globale della nostra lingua. Ciò comporta parlare e scrivere in

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VII

inglese in modo più chiaro cosicché possano essere compresi in tutto il mondo.

(Schell 2008)

Parlare e scrivere in inglese come una lingua franca include la semplificazione della sintassi, riducendo le proposizioni subordinate e i sintagmi modificatori, la diminuzione del numero totale di sostantivi, verbi, aggettivi e avverbi composti, e l’espressione di un’azione attraverso un verbo piuttosto che con un gerundio. L’inglese globale di Schell, come i linguaggi naturali controllati di SDL, è ritenuto più semplice, più sicuro e più economico. Inoltre, tuttavia, è presentato come più sensibile dal punto di vista culturale. Mentre si potrebbe presumere che la particolare complessità o “densità” di una lingua costituisca la sua ricchezza, e che la sensibilità culturale nella traduzione implichi riuscire a carpire e rispettare questa densità, il paradigma dell’inglese globale di Schell è sorprendentemente diverso. Più l’inglese è privato della sua differenza, più è sensibile alla differenza. La comunicazione interculturale responsabile per il parlante nativo inglese deve essere sempre già tradotta, per immaginare cosa vuol dire sperimentare l’inglese come soggetto tradotto. La rimozione, non la conservazione, del “contenuto involontario” è l’unico modo per evitare i problemi di incomprensione, reali o presunti.

Paradossalmente, la retorica della trasparenza trova sostegno nella campagna “Fight the FOG” avviata dai traduttori dei Servizi di traduzione della Commisione Europea nel 1998. FOG è un acronimo per numerose espressioni come “farrago of Gallicisms” (“miscuglio di gallicismi”), “frequency of gobbledygook” (“frequenza di linguaggio incomprensibile”) e “full of garbage” (“pieno di robaccia”), (Taviano 2010: 44). La campagna è stata promossa dalla preoccupazione che l’inglese, usato sempre più come una lingua franca nelle istituzioni dell’UE, fosse caratterizzato da prolissità, imprecisione e pesantezza. In effetti, ciò che la campagna ha riconosciuto è stato che molti dei documenti originali prodotti dall’UE in inglese sono stati a loro volta tradotti in precedenza,

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dal momento che sono stati redatti da gruppi multilingui che non hanno l’inglese come prima lingua. Le abilità collaborative e interattive dell’informatica, oltre al tempo ridotto necessario per la realizzazione materiale e la consegna virtuale dei documenti, hanno entrambi facilitato e accelerato la creazione di questi documenti di più autori. Nella predominanza crescente nell’Unione europea dell’inglese come una lingua franca (si veda Phillipson 2003), sembrerebbe che, proprio come vi è convergenza tecnica in termini di scambio e interoperabilità (per esempio i protocolli di internet), vi sia una convergenza simile a livello linguistico in termini di una lingua comune di scambio e comunicazione. Un unico sistema operativo. Un’unica lingua. L’inglese è, allora, la “lingua perfetta” per la quale gli studiosi di Umberto Eco hanno lottato nei secoli (Eco 2010), la lingua dell’Eden che comunica i significati con chiarezza perfetta, essendo la sua comunicabilità un perfetto parallelo della connettività istantanea dell’informatica globale?

Stefania Taviano, nel suo studio della traduzione dell’inglese come una lingua franca, nota che, nel caso di molti documenti dell’UE in inglese, ciò che tende a caratterizzarli è una sintassi contorta (abuso di proposizioni relative, proposizioni incidentali e subordinate), uso di collocazioni non comuni, gergo europeo, aggettivi/participi passati in posizione postnominale, e ampio uso di nominalizzazioni (Taviano 2010: 27). Nota inoltre che:

I sintagmi nominali tendono a essere postmodificati da un sintagma preposizionale con un sintagma incidentale con verbo indefinito, come nel caso di “the establishment of a mechanism of structured cooperation with the Member States using methods that have been tried and tested under the Open Method of

Coordination was welcomed by many respondents”.4

(Ibid., 29)

4 “La creazione di un meccanismo di cooperazione strutturata con gli Stati membri che utilizzano metodi che sono stati provati e testati dal Metodo aperto di coordinazione è stata accolta da numerosi convenuti”.

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L’inglese come lingua franca nel corpus da lei esaminato non era una lingua caratterizzata da una efficace immediatezza, ma era, invece, complessa, prolissa, e, in certi punti, impenetrabile. È stata l’esistenza di questi testi ibridi e implicitamente multilingui che ha portato Anthony Pym a rappresentare i traduttori non come agenti di ibridazione, ma come professionisti della deibridazione:

In Europa la traduzione non-letteraria professionale contemporanea è un agente di deibridazione per il semplice motivo per cui i processi di realizzazione dei testi originali sono sempre più multilingui, laddove i prodotti traduttivi sono di solito monolingui. Le traduzioni in generale sono agenti di deibridazione, nel senso che questi creano e danno l’illusione del testo non ibrido.

(Pym 2001: 11)

In un esperimento che Taviano ha condotto con i suoi studenti (principalmente di madrelingua spagnola e italiana), ha scoperto che questi considerano la traduzione delle frasi lunghe e complesse dall’inglese all’italiano e allo spagnolo relativamente semplice. I testi ibridati, per via della presenza di strutture sintattiche comuni alle lingue romanze, avevano già fatto il lavoro di deibridazione per i traduttori. È stata la resa di prosa concisa e più succinta che si è dimostrata più problematica (Taviano 2010: 76-77). La traduzione implicita presente nella produzione dei documenti, in un certo senso, ha facilitato il compito della traduzione esplicita nella trasposizione in altre lingue. Ciò che colpisce, come indica Taviano, è che l’utilizzo esteso dell’inglese “sembra contraddire l’opinione secondo la quale dovremmo essere testimoni dell’uso di una lingua internazionale ridotta e semplificata per la comprensibilità globale e per i costi di traduzione limitati” (ibid., 40). L’inglese può arrivare a dominare le istituzioni

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dell’Unione europea, ma non vi è correlazione semplice o ovvia tra un uso maggiore e una maggiore semplicità. Il più comporta il più.

Arturo Tosi, nel suo studio della traduzione dei libri bianchi e verdi dell’UE in italiano, ha rilevato che le traduzioni portano alla produzione di un ibrido: l’italiano europeizzato. I traduttori, in altre parole, non erano tanto impegnati in un processo di deibridazione quanto in uno parallelo all’ibridazione della lingua d’arrivo (Tosi 2007). Le traduzioni italiane erano caratterizzate da livelli di ambiguità lessicale relativamente alti, da un’assenza marcata di coerenza e coesione dovuta alla tendenza di seguire lo schema del testo di partenza, e da una insistita preferenza per lo stesso numero di parole dell’originale inglese. Ciò che ha amplificato ulteriormente queste tendenze è stato il ricorso a sistemi di memoria traduttiva che immagazzinavano traduzioni e database precedenti, che incoraggiavano l’utilizzo di traduzioni passate. L'effetto moltiplicatore della tecnologia della traduzione, come si osserva nello studio di Tosi, smentisce le visioni più utopistiche di strumentalismo della lingua che caratterizzano le presentazioni di strumenti traduttivi. Se il predominio della lingua inglese nell’informatica (Microsoft, Apple, Google, Facebook) favorisce, in parte, l’ampia promozione dell’inglese, non ne segue necessariamente che il destino dell’inglese come lingua franca per la traduzione sia una lingua priva di “contenuto involontario” o drasticamente semplificata per gli scopi di comunicazione istantanea e globale. Al contrario, la maggiore incidenza della produzione di testi in inglese da parte di non nativi può portare a una ibridazione collaborativa del testo, al fine di facilitare la produzione e la comprensione collettive di esso. Gli effetti epidemiologici della tecnologia digitale si esprimono attraverso l’uso di memorie traduttive e database terminologici, che promuovono la diffusione di nuove varietà tradotte di questo inglese ibridato.

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Parlare chiaro

L’idea che “parlare e scrivere inglese più chiaramente cosicché possa essere compreso in tutto il mondo” include il presupposto che le preferenze retoriche e culturali di una comunità linguistica possano relazionarsi con un codice di comunicazione universale. In altre parole, l’idea che l’utilizzo di un linguaggio chiaro e spoglio sia il modo ideale e più efficace per comunicare è radicata nell’ideologia teocratica dell’inglese della Riforma. Un impulso importante per la traduzione della Bibbia nelle lingue volgari è stata, certamente, l’idea secondo la quale in questo modo la Parola di Dio poteva essere trasmessa direttamente alla comunità dei fedeli. Non ci si nascondeva più dietro il prestigio preso in prestito di una lingua morta o la dipendenza da una mediazione inaffidabile di un clero corrotto: la Parola di Dio era resa direttamente accessibile a ogni Uomo e ogni Donna (McGrath 2002). In una più ampia elaborazione puritana dell’ideologia della franchezza e dell'immediatezza, grande enfasi è data al parlar chiaro, la semplice e sobria enunciazione della nuda verità, che rese il teatro elisabettiano e giacobino oggetto di scandalo (Cronin 2005: 13-24). L’idea del parlar chiaro è una preferenza retorica che è legata a un particolare insieme di disposizioni religiose e culturali, e non c’è motivo di presumere che possa essere l’espressione, o debba fondare un’idea, di comprensibilità universale. Anzi, nel romanzo di Pascal Mercier Perlmann's Silence, tali possibili supposizioni irritano il linguista tedesco Philip Perlmann e provocano le sue reazioni all’uso del lingua del collega americano Brian Millar:

La voce formò le parole in un modo completamente distaccato. Il tono non mostrò solamente che quella era la lingua madre del parlante; quel tono non era solo un'espressione di autodimostrazione con la quale la lingua era a disposizione del parlante. C'era altro in ballo: quel

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tono conteneva [...] il messaggio che quella era l’unica lingua che meritava davvero di essere presa sul serio. Moralista, capisci, quella voce invasivamente sonora è moralista. Parla come se gli altri dovessero essere biasimati e parecchio compatiti per il fatto che nemmeno loro parlano l’americano della costa orientale, questa lingua Yankee.

(Mercier 2011: 42; corsivo suo)

Perlmann esprime queste opinioni alla compagna Agnes, che in qualche modo è scettica sulle sue generalizzazioni radicali riguardo i parlanti di inglese americano. Tuttavia, ciò che Perlmann non riesce a osservare come linguista è che la circolazione deterritorializza una lingua, e che la tecnologia della circolazione non è un fattore indifferente nella mutazione della lingua. Vale a dire, maggiore è l’incidenza dell’uso dell’inglese da parte di parlanti non nativi, più probabili sono gli effetti traduttivi nell’inglese usato come seconda lingua, come è confermato dallo sviluppo di una particolare varietà di inglese nell’Unione europea. Ciò che dà una presenza più permanente a questi effetti traduttivi è che a loro volta essi sono riscontrati nella traduzione verso diverse lingue europee, portando a quel tipo di ibridazione descritta da Tosi nel caso dell’italiano. Un collegamento importante in questo processo di riproduzione è la tecnologia della memoria traduttiva e terminologica. Questa tecnologia funge da potente moltiplicatore di mutazione. A tal proposito, non è diversa dalla tecnologia di stampa dell’Europa della Riforma, dove gli effetti congiunti delle traduzioni in volgare e della diffusione della stampa fecero emergere varietà di lingue nettamente diverse, con l’esempio tipico del tedesco (Sanders 2010). Come spiega James Gleick:

La rivoluzione del protestantesimo è dipesa più dalla lettura della Bibbia che da qualche elemento dottrinale: la stampa che supera la scrittura; il codice che soppianta il rotolo; e il volgare che sostituisce le lingue antiche.

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Prima della stampa, la scrittura non era veramente costante. Tutte le forme di conoscenza hanno raggiunto stabilità e permanenza, non perché la stampa aveva una durata maggiore del papiro, ma semplicemente per la moltiplicità delle copie.5

Stabilità, permanenza e affidabilità dipendono dal potere della duplicazione. I lettori possono discutere i testi ed essere consapevoli che si riferiscono alla stessa versione ovunque si trovino, una volta che hanno la stessa edizione stampata. Questa capacità di ristampare una stessa cosa all’infinito implica, certamente, il forte consolidamento degli effetti della riproduzione meccanica o tecnica. Tuttavia, ciò che è altresì evidente è che non ci sono risultati prevedibili per il destino traduttivo dell’inglese globale o per gli effetti dell’inglese come lingua franca nella traduzione in un'era digitale.

Un potenziale scenario traduttivo è l’innocente utopia dell’inglese globale di Schell o il funzionalismo minimalista del linguaggio naturale controllato di SDL. Tali sviluppi sembrerebbero combaciare con una logica digitale di convertibilità fluida e istantanea, un linguaggio semplificato e monosemico che circola molto più rapidamente lungo le autostrade dell’informazione. Quindi l’inglese come lingua non rifletterebbe soltanto la prevalenza aziendale principalmente anglofona di internet ma diventerebbe anche la lingua preferita della comunicazione digitale attraverso la promozione di varietà della lingua altamente controllate e specifiche. Certamente, l’impulso fondamentale per questo sviluppo è traduttivo. La versione ideale della lingua è la sua ideale traducibilità. Più è facile tradurre il documento originale, più avrà successo la lingua “globale” di composizione, con la facilità traduttiva come parametro implicito di comprensibilità e accettazione globali. In questo scenario, l’inglese come cyberlingua è sempre già tradotto.

5James Gleick, L'informazione. Una storia. Una teoria. Un diluvio, trad. di Virginio B. Sala, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 364.

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Esiste, tuttavia, un altro percorso potenziale per lo sviluppo della traduzione che coinvolge l’inglese. Nigel Reeves, valutando le direzioni future dell’evoluzione della traduzione, ha delineato due ampie categorie di attività traduttiva:

La prima potrebbe essere chiamata traduzione spontanea, fatta al

momento, spesso dall’inglese internazionale, oppure

composizione diretta di economisti, impiegati statali, scienziati e segretarie; una specie di traduzione interiore che rimuove il bisogno del traduttore come mediatore. La seconda sarà la traduzione specialistica in ambiti tecnico, professionale, legale, politico e culturale, che include i relativi studi di sintetizzazione

e trasferimento delle informazioni.

(Reeves 2002: 28)

Implicita nella distinzione di Reeves è un’opposizione tra l’inglese come lingua di partenza della comunicazione globale, che ripudia il concetto di traduzione (con la rimozione del bisogno del “mediatore” o, più spesso, della mediatrice), e l’inglese come lingua sia di partenza che di arrivo per la traduzione che si riconosce come parte costituente dell’identità culturale di gruppi specifici di parlanti di quella lingua. Tale distinzione ne rispecchia un’altra familiare tra l’inglese come una lingua di comunicazione globale e l’inglese come la “base per costruire identità culturali” (Graddol 2001: 27). Questa divisione a sua volta si basa su una differenziazione disponibile tra la traduzione automatica o semi-automatica del testo per “Global Information Management (GIM) solutions” (Wignall 2009), e le forme altamente specifiche, che includono un sostanziale contributo umano, come le nuove trasposizioni dei romanzi di Dostoevskj in inglese. Tuttavia, tali polarità traduttive, con la connessa opposizione macchina/umano, tendono a mascherare la realtà di una lingua franca globale che evolve in distinte varietà ibride, che non sono necessariamente più semplici o meno complesse ma sono, ciononostante,

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definite. L’inglese dell’UE non è la lingua madre di nessun cittadino dell’Unione europea ma è la lingua franca riconoscibile della comunità discorsiva dei suoi parlanti. Ciò che dà alla lingua la sua forza è l’interfaccia cyborg di umani (traduttori) e tecnologia (memorie traduttive), che riproduce per l’era digitale gli effetti diffusivi della copia stampata ai tempi di Gutenberg e Caxton. La “traduzione interiore”, della quale parla Reeves, complica l’idea di un pidgin ridotto che funzionerebbe come il perfetto parallelo per il riduzionismo binario del digitale. Poiché una lingua come l’inglese si diffonde più ampiamente attraverso l’informatica, non ne segue che l’inglese globale di Schell sia l’inevitabile mezzo di realizzazione del processo, in quanto opposto a un orizzonte di possibilità retorica (si veda anche Crystal 2006). Al contrario, gli effetti ripetitivi della tecnologia non eliminano tanto il traduttore come mediatore ma piuttosto trasformano potenzialmente ogni mediatore in un traduttore, che accede alla propria macchina da stampa virtuale. Ciò non equivale a supporre che il potere è distribuito equamente tra le comunità discorsive, ma ad ammettere che gli effetti della circolazione nella traduzione non sono né prevedibili né omogenei.

Costo

Lo storico e commentatore culturale Tony Judt, in un lavoro pubblicato poco prima della sua morte, ha osservato che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui le persone vivono la loro vita nel mondo contemporaneo:

Per trent'anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell'interesse materiale personale: anzi, ormai questo è l'unico scopo collettivo che ancora ci rimane. Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono.6

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Anche se la seconda persona plurale nell’affermazione di Judt deve essere limitata e riferita a zone specifiche del pianeta, dove l’interesse personale materiale può essere distinto dalla sopravvivenza fisica, egli diagnostica un’attenzione ricorrente e abituale al costo come giudice principale di ciò che è di valore in molte società contemporanee soggette ai dettati e ai vincoli dell’economia di mercato. Di fatto, sono spesso i costi legati alla traduzione a diventare una questione centrale nei tentativi di rimuovere del tutto la traduzione dalle società e imporre una lingua franca. Vediamo, ad esempio, un commento relativo alla situazione della traduzione nel Regno Unito:

Una cifra scioccante: più di 100.000£ sono state spese nell’ultimo anno per la traduzione e l’interpretazione a favore di residenti britannici che non parlano l’inglese. Nel nome del multiculturalismo, un centro fondato dal Ministero degli Interni da solo fornisce questi servizi in 76 lingue [...] La spesa economica è abbastanza sfavorevole, ma esiste un problema più ampio a proposito dei segnali confusi che mandiamo alle comunità di immigrati. Diciamo loro che non è necessario imparare l’inglese, figuriamoci integrarsi.

(Rahman 2006)

Considerevole è il modo in cui l’idea di costo stesso sia costruita. I costi rappresentano sempre una spesa per qualcuno, ed è quel qualcuno che continua a definire cos’è un costo ma, ovviamente, secondo i suoi termini. Implicita nell’affermazione di Rahman è l’opinione per cui, se tutti imparassero l’inglese, i costi superflui legati alla traduzione scomparirebbero. Questo è un punto di vista riguardo a una discussione articolata nelle analisi del multilinguismo di base di organi sovranazionali come l’Unione europea. Si spiega che le grandi quantità di denaro che attualmente sono spese per servizi di traduzione e interpretariato verrebbero risparmiati se l’unica lingua attiva dell’UE fosse una lingua veicolare

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come l’inglese (si veda van Psrijs 2004: 13-32). Queste osservazioni centrate sul costo non riescono a chiarire i costi ugualmente onerosi nel caso in cui si debba ricorrere a una lingua franca. Se si prende l’esempio dell’inglese, enormi quantità di denaro sono spese dai governi in tutto il globo per insegnare questa lingua ai propri cittadini (Grin 2004: 189-202). Questo costo non è sostenuto dagli anglofoni stessi ma da coloro che non parlano quella lingua e sentono la necessità di impararla. Inoltre, la circolazione di beni culturali quali musica, cinema e letteratura in inglese non deve in automatico sopportare i costi di traduzione, che sono quasi scontati per le culture non anglofone che tentano la diffusione globale dei propri beni culturali. In un certo senso, ciò che è in gioco è un esempio di quel che potrebbe essere definito costo trasferito, caratteristico della ridefinizione di consumo nei contesti digitali. Con una pratica che si è creata con gli operatori di compagnie aeree low-cost, i passeggeri sono invitati o, nel caso di alcune compagnie, obbligati a stampare le proprie carte d’imbarco in anticipo. Ciò vincola il passeggero ad accedere a dispositivi (computer e stampante) e connessione internet che gli permettano di inserire i dettagli necessari e di stampare il biglietto. Sia i dispositivi che la connessione hanno un costo per il passeggero e per l’azienda che glieli ha resi disponibili. Vi è l’ulteriore costo opportunità del tempo speso per accedere al sito, inserire i dettagli e stampare il biglietto. Nel frattempo il passeggero avrebbe potuto fare qualcos’altro. In breve, quelli che in precedenza erano costi di produzione per la compagnia,

che doveva pagare qualcuno per preparare e stampare la carta d’imbarco, adesso diventano costi di consumo per il passeggero.

La tecnologia digitale permette il trasferimento del costo dal produttore al consumatore. Il lavoro è fatto dal passeggero, non dall’operatore della linea aerea, cosicché il valore aggiunto maturi a favore non del passeggero ma della compagnia. Quando si promuove l’utilizzo di una lingua franca per eliminare i costi di traduzione, si presenta, in effetti, un’altra forma di costo trasferito. Sia come consumatori della lingua franca sia come produttori potenziali di quella lingua, coloro che non la parlano devono sostenere

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i costi di apprendimento spesso considerevoli. Questi costi includono non solo il denaro realmente speso per l’istruzione ufficiale ma anche i costi opportunità dell’apprendimento della lingua, ovvero il tempo che potrebbe essere stato utilizzato per altre attività potenzialmente vantaggiose. Dunque, mentre molto è stato detto nel contesto della traduzione su come la tecnologia digitale possa ridurre i costi di traduzione, poco spazio è stato dato alla nozione di costo stesso, al modo in cui è interpretato e da chi. La traduzione rappresenta sempre un “costo” per la lingua dominante anche se quest’ultima è apparentemente gratuita. I costi scompaiono dalla vista, trasferiti con discrezione ai parlanti degli idiomi non dominanti. Ciò che la traduzione, o la richiesta di traduzione, rende evidente è la natura o l’esistenza di questo costo implicito per i parlanti non nativi di una lingua franca globale. Se non c’è alcun bisogno di tradurre vuol dire che un determinato gruppo ha speso tempo e/o denaro considerevoli per trascurare quella necessità.

Disintermediazione

L’invisibilità del lavoro linguistico codificato nell’uso di una lingua globale è parzialmente facilitata dal fenomeno della disintermediazione, che è una caratteristica impressionante della pratica economica e sociale nell’era digitale. Come osserva lo scrittore e commentatore economico britannico John Lanchester “Ogni volta che si ha a che fare con il menù di un telefono o con il servizio di segreteria telefonica interattivo, si dona il proprio valore aggiunto alle persone che contattiamo” (Lanchaster 2012: 8). Quando si fa un prelievo al bancomat o si prenota un volo su internet, si fa il lavoro di un agente umano assente. L’agente che in passato prenotava il volo o lo sportellista che consegnava i soldi, ovvero l’intermediario, non esiste più. La tecnologia digitale comporta la disintermediazione, e adesso siamo noi a fare il lavoro. In effetti, ciò che la disintermediazione tende a favorire è un’ideologia del risparmio, che maschera la natura degli effettivi costi necessari.

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Vi è un ulteriore dimensione della disintermediazione che non ha molto a che fare con il costo ma piuttosto con la natura di ciò che è mediato. In una ricerca di Google di siti in altre lingue, accanto ai risultati della ricerca, troviamo, tra parentesi quadre, la formula incisiva “Traduci questa pagina”. Cliccando sull’opzione di traduzione, i risultati possono essere, certamente, assai irregolari. Alle conferenze di traduttori si è dedicato molto umorismo occasionale a esempi molto più disdicevoli di quel che viene fuori dai sistemi di traduzione automatica online. Le battute possono intrattenere ma non sempre sono particolarmente educative. Ciò che si può notare riguardo a Google Traduttore non sono i limiti a ciò che può fare, ma la natura illimitata di quel che dice su ciò che intende tradurre. Si ha, in effetti, un’altra forma di disintermediazione: in questo esempio, il traduttore come intermediario non si vede da nessuna parte. Il lavoro di traduzione diventa invisibile e il solo lavoro evidente è quello di post-editing più o meno incisivo esercitato dall’utente quando prova a dare un senso ai testi tradotti. Tuttavia, esiste un’altra dimensione di questo fenomeno di disintermediazione traduttiva che si collega al modo in cui l’attività di traduzione stessa è percepita. Il sapere è fondamentalmente una questione di differenziazioni. Comprendiamo qualcosa facendo riferimento a qualcos’altro: gli aspetti per cui un limone, per esempio, è simile a un’arancia, e gli aspetti per cui se ne distingue. Certamente, ciò che scegliamo di paragonare a qualcos’altro determinerà quali aspetti saranno posti in primo piano e quali saranno messi da parte. Così, come ha spiegato Iain McGilchrist, paragonare una partita di calcio a una visita in un’agenzia di scommesse susciterà alcuni aspetti dell’esperienza, mentre paragonarla alla visita di un luogo di preghiera religiosa ne susciterà altri:

Il modello che scegliamo per comprendere qualcosa determina quel che troviamo. Se la nostra comprensione è un effetto delle metafore che scegliamo, è anche vero che essa ne è una causa: la comprensione stessa guida la scelta della metafora tramite la quale

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la capiamo. La metafora scelta è sia la causa che l’effetto della relazione. Perciò il modo di pensare a noi stessi e alla nostra relazione con il mondo è già rivelato nelle metafore che inconsapevolmente scegliamo per parlarne. Questa scelta rafforza ulteriormente la nostra visione parziale del soggetto.

(McGilchrist 2009: 97; corsivo suo) Se supponiamo che l’universo sia meccanico e prendiamo la macchina come nostro modello, troveremo, senza sorprese, che il corpo e il cervello sono tipi particolari di macchine. Come osserva McGilchrist “A un uomo con un martello tutto comincia a somigliare a un chiodo” (ibid., 98). Quindi se supponiamo che la mente sia una specie di computer, la nostra idea di memoria cambia, come ha mostrato Nicholar Carr. Cominciamo a pensare alla memoria come un deposito di informazioni, estendibile in modo potenzialmente infinito, e la cui efficacia è determinata solo dalla nostra capacità

di memoria. Il fatto che la memoria umana trasformi e alteri le informazioni che contiene e che sia fondamentalmente un processo dinamico e metaforico è mascherato dalla metafora computazionale dominante (Carr 2010: 110-11). Mentre un file in una cartella, se inutilizzato, rimarrà esattamente lo stesso, anche se lo recuperiamo dopo uno, due o dieci anni, con il tempo i ricordi di eventi nelle nostre vite spesso cambiano notevolmente. Come notiamo sempre di più, i ricordi sono aggiunti al nostro deposito già esistente e quelli precedenti sono alterati o riconfigurati da queste nuove aggiunte. Tali sono il prestigio e il potere del digitale che si verifica una certa perdita metaforica, quasi inevitabile, in modo che gli umani tendono sempre più a considerare i loro stessi ricordi simili alle memorie negli hard disk dei loro computer.

Uno sviluppo analogo coinvolge potenzialmente l’attività di traduzione in seguito alla comparsa della traduzione automatica online. L’esecuzione incorporea, istantanea del lavoro traduttivo implica che la traduzione sia una funzione automatica e senza mediatore, che può essere compiuta

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XXI

in men che non si dica, e che la traduzione sia fondamentalmente un’operazione di abbinamento o sostituzione, con il testo che cambia man mano che la lingua è tradotta ma con la struttura che rimane inalterata. Premere il pulsante “Traduci” o il link “Traduci questa pagina” è più di un azionamento di un tasto: è un cambio di paradigma. Senza considerare i risultati, ciò che è implicito in questo tipo di disintermediazione in azione è la rappresentazione della traduzione come una specie di passaggio di lingua istantaneo simile ai sottoprogrammi automatici dell’elaborazione digitale. San Gerolamo nel suo studio dà la precedenza al chip di silicio. Sottintesa in questa rappresentazione è, certamente, una particolare idea del ruolo della lingua nelle forme globalizzate di scambio. L’obiettivo della lingua è soprattutto strumentale. La sua funzione equivale a quella di uno strumento di comunicazione che più veloce è, meglio è. Come Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, ha affermato nel presentare Conversation Mode, un’applicazione di traduzione orale per Google Traduttore, “Mai sottovalutare l’importanza della velocità” (Schmidt 2010).

Scienza

Per capire cosa accade alle lingue in periodi di cambiamento globale, Wismann e Judet de la Combe hanno messo a punto una distinzione tra ciò che chiamano “lingua di servizio” (langue de service) e “lingua di cultura” (langue de culture) (Judet de la Combe e Wismann 2004: 33-35). La lingua di servizio è, in senso stretto, una lingua usata per trasmettere informazioni di natura strumentale da un parlante a un altro, di solito una lingua come l’inglese utilizzata in incontri internazionali di esperti del cambiamento climatico o per il regolamento del traffico aereo. La lingua, naturalmente, fa molte cose, non tutte delle quali implicano la comunicazione nel senso stretto di passaggio di informazioni. Come ha indicato Claude Hagège:

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XXII

Comunque sia, che la lingua dominante sia o no quella nella quale si sogna, questa capacità delle lingue di funzionare come supporti per i pensieri, l’immaginazione e i sogni oscura, senza certamente sopprimere, la loro funzione di strumenti di comunicazione.7

(Hagège 2012: 180) Ogni lingua si differenzia per tre motivi. Prima di tutto, ogni lingua ha un insieme distinto e separato di strutture linguistiche e per estensione, secondo una certa misura, diverse rappresentazioni linguistiche della realtà. Come seconda cosa, ogni comunità linguistica ha un insieme specifico di abitudini sociali che si articolano attraverso la lingua. In terzo luogo, ogni comunità linguistica è una comunità discorsiva o un gruppo di comunità discorsive che esprime storia, cultura e sistemi di credenze attraverso i discorsi evoluti all’interno di essa (Hagège 1985: 352). I campi di riferimento idiomatici, simbolici e collettivi rappresentano la particolare densità semantica e la specificità storica di ciascun gruppo di parlanti. Sono la densità e la specificità che Judet de la Combe e Wismann cercano di rendere nella loro idea di lingua di cultura. Comunque, la difficoltà dell’espressione “lingua di cultura” sta nel fatto che essa, in quanto fattore di differenziazione, si interessa ampiamente alle aree di cultura alta, e che la scienza e la tecnologia, per esempio, restano principalmente nei settori della lingua di servizio. Da questa prospettiva, mettere una poesia di Rilke in un sistema di traduzione online susciterebbe problemi, ma l’inserimento delle istruzioni operative di una mietitrebbiatrice non sembrerà particolarmente anomalo. La lingua di cultura e la lingua di servizio avrebbero diversi esiti traduttivi. Questa dicotomia è falsa in quanto quel che è in ballo

7 Quoi qu’il en soit, que sa langue dominante soit ou non celle dans laquelle il rêve, cette aptitude des langues à fonctionner comme supports de pensée, de l’imagination e du rêve surplombe absolument, sans évidemment l’annuler, leur fonction d’instruments de communication.

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nella traduzione scientifica e tecnica è senza dubbio tanto importante quanto ciò che è in gioco nella traduzione letteraria, sebbene le loro vicende siano di rado associate.

Laurent Laffourge, vincitore della medaglia Fields nel 2002, ha affermato che, contrariamente all’opinione popolare, i matematici francesi continuavano a pubblicare in francese non perché la matematica francese fosse così importante ma perché scrivere e pubblicare nella loro lingua aumentava l’originalità e la creatività dei matematici francesi:

Sul piano psicologico, scegliere il francese è segno di uno spirito combattivo, opposto all’idea di abbandono e di rinuncia. Certamente, uno spirito combattivo non garantisce il successo, ma è necessario. Come dice un proverbio cinese le sole battaglie perse in partenza sono quelle che non riusciamo a intraprendere. Sul piano morale, ovvero sul piano dei valori che è ancora più importante, la scelta del francese, o piuttosto di un atteggiamento distaccato nei confronti della lingua attualmente dominate nel mondo, significa che si dà maggiore importanza alla ricerca stessa che alla comunicazione di essa. In altre parole, l’amore della verità supera la vanità. Non si tratta di rinunciare a comunicare con gli altri: la scienza è un’avventura collettiva che si persegue nei secoli, e anche il ricercatore più solitario è completamente dipendente da tutto ciò che ha imparato e che continua a ricevere ogni giorno. Ma rifiutare di dare troppa importanza alla comunicazione immediata equivale a ricordarsi del significato della ricerca scientifica.8

8 “Sur le plan psychologique, faire le choix du français [c’est là] le signe d’une attitude combative, le contraire de l’esprit d’abandon et de renoncement ... Bien sûre, un esprit combatif ne garantit pas le succès, mais il est nécessaire. Comme dit le proverbe chinois, les seuls combats perdus d’avance sont ceux qu’on ne livre pas. Sur le plan moral, c’est-à-dire sur le plan des valeurs qui est plus important encore, le choix du français, ou plutôt l’attitude détachée vis-à-vis de langue

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(Lafforgue 2005: 32) La storia scientifica ha confermato l’opinione di Laffourge per la quale scrivere di scienza in una lingua diversa dall’inglese non è un ostacolo alla scoperta. Mendel, Planck e Einstein scrissero in tedesco, Marconi in italiano e Carnot in francese. Il periodo tra la fine del XIX secolo e l’inizio della Seconda guerra mondiale è stato caratterizzato da un grado notevole di multilinguismo nella ricerca scientifica, ed è stato ricco di innovazioni in molteplici discipline (per esempi del tedesco, si veda Watson 2011). Se la ricerca scientifica si occupa, tra le altre cose, di curiosità, complessità, innovazione, rischio e creatività, è difficile vedere come possa essere lasciata al di fuori dell’ambito della lingua di cultura, in quanto queste sono caratteristiche della nostra capacità di operare in maniera efficace nella ricchezza simbolica e nella profondità storica di una specifica lingua. L’attività scientifica è parte della cultura di una comunità e la ricchezza culturale della scienza è valorizzata, piuttosto che sminuita, dalla pluralità culturale delle lingue se non altro perché, per esempio, tutti finiamo col leggere gli stessi identici articoli nella stessa identica lingua.

L’inserimento della scienza nella nozione di lingua di cultura è implicito nell’esistenza stessa della traduzione scientifica o tecnica, proprio come nella traduzione letteraria. Ciò che la traduzione, come attività, espone è l’idea che il valore di ogni campo di ricerca o pratica culturale sia fortemente valorizzato dalle risorse espressive ed ermeneutiche di una comunità linguistica.

actuellement dominante dans le monde, signifie qu’on accorde plus d’importance à la recherche en elle-même qu’à sa communication. En d’autres termes … l’amour de la vérité passe avant la vanité. Il ne s’agit pas de renoncer à communiquer avec les autres : la science est une aventure collective qui se poursuit de siècle en siècle, et même le plus solitaire des chercheurs dépens complètement de tout ce qu’il a appris et continue à recevoir chaque jour. Mais refuser d’accorder trop d’importance à la communication immédiate, c’est se souvenir du sens de la recherche scientifique.”

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Permettere agli scienziati di scrivere nella loro lingua madre è un fattore dell’ecologia culturale dell’umanità tanto importante quanto quello di poter comporre sonetti o scrivere romanzi nei tantissimi idiomi del globo. In questo contesto, è possibile affermare che la traduzione è cruciale per la comparsa della speciazione in opposizione alla specializzazione. Speciazione è un termine che si riferisce allo sviluppo di specie particolari, di solito esito di certi fattori isolanti. La specializzazione è la tendenza della ricerca nella scienza moderna a separarsi in sottodiscipline sempre minori. Il linguista Claude Hagège ha visto nell’intensa creatività dell’antica Grecia, dell’Italia rinascimentale e della Germania del Sacro romano impero (metà del XVI sec. – fine del XVIII sec.) la base della marcata frammentazione degli enti politici che si ha in quei periodi. Le città stato o i principati erano separati ma avevano contatti regolari, così nuove idee potevano essere esaminate in relativo isolamento prima del contatto stimolante e benefico con le altre culture (Hagège 2012: 132-33). In altre parole, determinati esempi storici mostrano come la speciazione possa essere la precondizione e l’espressione di pluralità multiculturale e multilinguistica opposta alla prevalenza e al pericolo della specializzazione monoculturale e monolinguistica, ovvero l’elaborazione infinita di modelli dominanti in una lingua dominante e in uno stato di equilibrio repressivo.

Transitività

In un certo senso, il paradigma della strumentalità intenzionale, basilare per le rappresentazioni di servizi di traduzione online, si collega a una concezione più generale di traduzione, che è ben salda e radicata. In un articolo nel quale analizza i piani delle forze armate statunitensi per lo sviluppo di nuove strategie traduttive, Adam Rawnsley afferma:

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Le forze armate degli Stati Uniti hanno provato ogni tipo di congegno sul campo di battaglia. Tuttavia dispositivi come Phraselator e Voice Response Translator sono limitati.

Non possono tradurre proprio tutte le parole che vorremmo dire. Anzi, sputano qualche sintagma e parola chiave nelle lingue locali, che possono essere utili sul campo di battaglia.

Gli scambi di sintagmi espliciti non possono produrre quel tipo di comunicazione complessa che il Ministero della Difesa vorrebbe che i propri soldati utilizzassero.

(Rawnsley 2011) L’obiettivo dell’iniziativa di ricerca della Broad Operational Language Translation (BOLT) è quello di utilizzare dati visivi, tattili e linguistici in modo che il robot possa elaborare un’ipotesi e compiere un ragionamento automatico nella lingua acquisita. Implicita nei commenti di Rawnsley sui dispositivi traduttivi sviluppati finora dalla Defense Advanced Research Projects Agency9

è l’idea che “gli scambi di sintagmi esplicito” e la conoscenza di qualche “sintagma e parola chiave” non costituiscono una “comunicazione complessa”, né rappresentano l’utilizzo della lingua nel mondo reale. La traduzione che si basa sul paradigma della strumentalità intenzionale è destinata al linguaggio pidgin dell’ordine e del controllo. Il fatto che la traduzione dovrebbe essere vista in tali termini sorprende appena, poiché uno dei miti più difficili sulla traduzione è quello che potremmo definire il mito della transitività della traduzione. Il termine transitività è usato nel senso grammaticale di un verbo con complemento oggetto. Per capire in modo più chiaro ciò che intendo per “transitività della traduzione” è importante considerare diverse rappresentazioni del lavoro o della produzione umani. Nel suo capolavoro incompleto Dialettica della natura, Friederich Engels sosteneva che gli umani si distinguevano dagli altri animali per il fatto che il

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XXVII

lavoro dei primi fosse determinato da un “scopo prestabilito”10

. Affermava che “Quanto più gli uomini si allontanano dall’animale, tanto più la loro influenza sulla natura assume il carattere di attività premeditata, svolta secondo un piano indirizzato a ben determinati scopi”11

.

Considerare la traduzione in questi termini non è affatto inusuale. È un tropo comune delle teorie funzionaliste della traduzione il fatto che le traduzioni abbiano fini definiti e predeterminati (per persuadere, intrattenere, istruire) e che il compito del traduttore consista nell’orientare o pianificare le proprie attività per determinare questi scopi. In altre parole, la traduzione ha un obiettivo specifico. Se traduco delle indicazioni mediche per l’utilizzo di uno spray nasale, il risultato non sarà quello di far sembrare la traduzione un insieme di istruzioni per cambiare una gomma, né un’esortazione ad aderire a Scientology. La visione transitiva della traduzione sta alla base delle istruzioni che il Colonnello Lancey delle Forze armate britanniche dà al suo traduttore/interprete Owen nell’opera teatrale di Brian Friel Translations (1981): “Fa’ il tuo lavoro. Traduci” (Friel 1981: 61). Lancey desidera che Owen informi la popolazione civile degli sfratti pianificati dall’esercito come rappresaglia per il rapimento di un ufficiale e non è interessato a nessuna delle capacità umanitarie di Owen per l’attività predeterminata. La difficoltà nella rappresentazione transitiva della produzione umana consiste nel fatto che essa offre solo un resoconto parziale di ciò che accade quando gli umani si impegnano in un’attività. Secondo Tim Ingold, non sono solo i materiali con cui si lavora a essere trasformati dal processo lavorativo, ma anche il lavoratore stesso è trasformato da quel processo, e questo insieme di trasformazioni è ciò che potrebbe anche essere definito esperienza. Mentre la persona lavora, potenzialità latenti di azione e percezione si sviluppano. Il processo produttivo non è limitato alle finalità di ogni specifico progetto ma prosegue, senza inizio né

10 F. Engels, Dialettica della natura, trad. di Lucio Lombardo Radice, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 50.

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fine, valorizzato dalle forme, materiali o ideali, alle quali dà origine. Come sostiene Ingold, la produzione “deve essere concepita in maniera intransitiva, non come una relazione transitiva dell’immagine verso l’oggetto” (Ingold 1986: 321, corsivo dell’autore). Perciò il verbo “produrre” sarebbe più simile ad altri verbi intransitivi come “sperare”, “prosperare” e “abitare” piuttosto che essere assimilato a verbi transitivi come “progettare”, “fare” e “costruire”. Privilegiare il processo continuo alla forma finale significa che ci ritroviamo con una concezione sostanzialmente diversa di ciò che si deve produrre:

Una volta che mettiamo da parte la rappresentazione anticipata di un fine che deve essere raggiunto come condizione necessaria per la produzione e ci concentriamo piuttosto sulla volontà consapevole o sull’intenzionalità intrinseca all’azione stessa (nella sua capacità letterale di pro-durre, di condurre fuori o dare vita alle potenzialità nel produttore e nel mondo circostante) allora non ci sono più motivi per limitare i gruppi di produttori ai soli esseri umani. I produttori, umani e non, non trasformano tanto il mondo, imprimendo i loro piani predeterminati sul sostrato materiale della natura, piuttosto giocano la loro parte nella trasformazione del mondo stesso dall’interno.

(Ingold 2011: 6, corsivo dell’autore) Le rappresentazioni transitive della traduzione semplificano eccessivamente e in maniera radicale l’idea di ciò che si deve tradurre e, allo stesso tempo, non riescono a giustificare la marcata molteplicità delle traduzioni. L’ossessione della rappresentazione anticipata dei fini conduce altresì a una incapacità più generale nel giustificare il modo in cui la traduzione, secondo l’opinione di Ingold, pro-duce o conpro-duce fuori e dà vita alle potenzialità del produttore e del mondo circostante.

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XXIX

La storia della traduzione è piena di esempi di traduzioni il cui impatto ha ampiamente superato l’obiettivo transitivo originario, ovvero lo scopo stabilito della traduzione. Un caso del genere è rappresentato dalle traduzioni degli scritti di Ermete Trismegisto, un autore apocrifo che nel Rinascimento si credeva fosse un sacerdote-filosofo egiziano, nato prima di Platone, e che avesse anticipato nei suoi scritti una serie di concetti base del Cristianesimo. Successivamente si è scoperto che quelle opere furono scritte nel II o III secolo d.C. Intorno al 1460, un manoscritto greco fu trovato a Firenze, portato dalla Macedonia da un monaco. La raccolta conteneva una copia incompleta (tredici di quattordici trattati) del Corpus Hermeticum attribuito al saggio e conoscitore di magia astrale Ermete Trismegisto. Il monaco che aveva portato il manoscritto lavorava alle dipendenze del nobile fiorentino Cosimo de’ Medici. A Marsilio Ficino, erudito e traduttore presso la dimora di Cosimo, fu immediatamente ordinato di iniziare la traduzione dell’opera di Trismegisto in latino. Particolarmente significativo è il fatto che Ficinio stava per iniziare la traduzione di un’opera di Platone, come ci dice nella dedica a Lorenzo de’ Medici del commento a Plotino. Tuttavia, gli fu detto di porre fine a qualsiasi altra attività finché non avesse completato la traduzione di Trismegisto: “mihi Mercurium primo Termaximum, mox Platonem mandavit interpretandum” (citato in Yates 2002: 14). Come evidenzia la storica Frances Yates:

È una situazione straordinaria: ci sono, disponibili, le opere complete di Platone, ed esse debbono aspettare che Ficino abbia tradotto, sia pure velocemente, Ermete, probabilmente perché Cosimo lo vuole leggere prima di morire. Quale testimonianza può essere più indicativa della misteriosa reputazione del «tre volte grande»?

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XXX

[...] L’Egitto veniva prima della Grecia, Ermete prima di Platone. Il rispetto rinascimentale per tutto ciò che fosse antico, originario, remoto, e quindi più vicino alla verità divina, portava come conseguenza che il Corpus Hermeticum venisse tradotto prima della Repubblica o del Simposio platonici, e così esso fu di fatto il primo testo a venir tradotto da Ficino.12

Quindi, lo scopo dell’impresa di Ficinio era di tradurre al mecenate prossimo alla morte gli scritti esoterici di un erudito che si pensava provenisse dall’antico Egitto. Ficino fu totalmente preso dalla traduzione di Trismegisto e continuò a sviluppare la propria versione di “magia naturale” (ibid., 66-89). In altre parole, mentre lavora alle sue famose traduzioni di Platone in latino, inizia a concepire delle somiglianze tra le idee trovate in Platone e le speculazioni ermeneutiche della magia astrale. La traduzione del Corpus Hermeticum, pro-duce un nuovo modo di pensare per Ficinio, “conduce fuori e dà vita alle potenzialità del produttore” nell’opera De vita coelitus comparanda, terzo volume del suo Libri de vita, pubblicato per la prima volta nel 1489. In questo testo egli espone una serie di idee personali sulla magia naturale e le sue teorie evolutive neoplatoniche. Gli effetti delle traduzioni ermetiche di Ficino furono notevoli e influenzarono ogni cosa: dalla pittura e dalle arti decorative rinascimentali alle speculazioni filosofiche e teologiche di Giovanni Pico della Mirandola e di Giordano Bruno. In tal senso, la traduzione “dà vita alle potenzialità” non solo del produttore ma anche del “mondo circostante”. Poiché il traduttore è trasformato dalla sua traduzione, lo è anche il mondo che lo circonda e lo fa sopravvivere.

Si potrebbe, tuttavia, sostenere che questo eccesso intransitivo sia unicamente confinato alle opere artistiche alte o dalla presunta originalità filosofica o teologica. La grande maggioranza dei traduttori, lavorando nei campi pragmatici del commercio, della tecnica e della medicina, si dedica alla

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XXXI

“rappresentazione anticipata di un fine che deve essere raggiunto” e deve rimanere focalizzata sull’obiettivo/produttività delle attività. In un certo senso, questo non è chiaramente il caso. Con grande dispiacere per i traduttori principianti, non esistono ricette per la traduzione. Possono esserci alcune tendenze generali nell’organizzazione stilistica delle lingue che sono utili da memorizzare per i traduttori e che illustrano l’interesse continuo alla stilistica contrastiva nei Translation Studies, specie nel mondo francofono. Alcuni esperti di traduzione, in particolare Peter Newmark, offrono consigli ai traduttori sul modo in cui potrebbero affrontare specifiche difficoltà traduttive, come la traduzione del linguaggio figurato (Newmark 1981, 1993, 1996). Tuttavia, queste tendenze stilistiche o consigli euristici non possono essere affatto considerati degli algoritmi prescrittivi, che assicurano ogni volta una traduzione accurata o accettabile di un testo specifico. Il mancato apprezzamento nella pedagogia traduttiva della strategia della “bella copia”, tramite la quale gli studenti aspirano a realizzare una traduzione che combaci con la perfetta versione del docente, non è motivato solo dal passaggio da forme autoritarie a forme collaborative di insegnamento, ma si basa anche sull’opinione perfettamente ragionevole della possibilità di avere più di una traduzione accettabile di un determinato testo. Il fine da raggiungere può essere espresso in termini di osservazioni generali pratiche (l’infermiera dovrebbe somministrare correttamente la medicina, non mettersi a cantare), ma l’effettivo processo traduttivo, ovvero la “volontà consapevole o l’intenzionalità intrinseca all’azione” traduttiva, non può essere limitato a una transitività in formato ridotto. Le potenzialità latenti di azione e percezione sono rivelate al traduttore perché, se non lo fossero, non ci sarebbe nemmeno la formazione del traduttore o la sua esperienza. Le soluzioni sarebbero sempre già disponibili. La traduzione costante nel tempo indica il trionfo del processo continuo sulla forma finale, una forma di produzione che condivide la trasformazione del mondo stesso, in qualsiasi cosa: dalla diffusione del cinema di Hollywood alla crescita esponenziale nell’uso dei cellulari.

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XXXII

Vi è un altro campo nel quale si combatte la tirannia della transitività nelle conoscenze della traduzione, cioè per mezzo della tecnologia traduttiva stessa o, piuttosto, tramite il modo in cui tale tecnologia interagisce con gli utenti umani. Maeve Olohan, in uno studio sul modo in cui i traduttori interagiscono con i software di memoria traduttiva, osserva quanto le reazioni siano tutt’altro che prevedibili. Per capire ciò che accadeva, Olohan utilizza un’idea di Andrew Pickering, “mangle of practice”, la “rifinitura della pratica”:

Il processo di rifinitura “emerge nel tempo” e con esso Pickering intende che è impossibile prevedere in anticipo le caratteristiche del contributo umano e materiale; esse emergono nel corso della pratica scientifica, proprio come la biancheria strizzata assumerà una forma diversa e imprevedibile man mano che viene fuori dal mangano. Non è possibile predire in anticipo dove si incontreranno resistenze e cosa avrà un ruolo essenziale nello sviluppo della scienza e della tecnologia, o i corsi degli eventi.

(Olohan 2011: 345) Poiché la maggior parte dei traduttori che usa software di memoria traduttiva non riceve una formazione professionale per il loro utilizzo, questi si rivelano autodidatti. In questo contesto, i forum di supporto tecnologico online assumono una particolare importanza. Nel seguire una conversazione introdotta in uno dei forum dedicati alla nuova versione di uno strumento di memoria traduttiva prodotto da SDL (SDL Trados Studio 2009), Olohan mostra come gli utenti e il software si impegnino in una “danza di mediazione”, (“dance of agency”, ibid., 344). Gli utenti riconoscono problemi o resistenze specifici nel software e provano diverse strategie di risoluzione oppure respingono il programma in blocco. Vale la pena notare che, nelle discussioni tra i traduttori, l’interazione con questa tecnologia non è percepicita come indicato dagli obiettivi transitivi del software. In atre parole, i traduttori indicano sia i difetti sia i modi in cui certe

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XXXIII

potenzialità del software di memoria traduttiva non immaginate in precedenza si realizzano man mano che lo si utilizza. In entrambi gli esempi, quindi, vi è una specie di eccesso intransitivo, nel quale sia la mediazione umana del traduttore sia la mediazione materiale del programma “conducono fuori e danno vita alle potenzialità del produttore e del mondo circostante”, dove in questo caso il mondo circostante è rappresentato dal software. Vale a dire che, nella realizzazione di una traduzione tramite l’utilizzo della nuova versione del programma, si mostra la carenza transitiva di quest’ultimo (le cose che pretende di fare ma che non può fare) e la crescita intransitiva dei traduttori, che scoprono nuovi modi di lavorare a prescindere dalla “rappresentazione anticipata di un fine che deve essere raggiunto”.

Nel suo lavoro sui traduttori, le tecnologie e le nuove reti elettroniche della pratica, Iulia Mihalache afferma allo stesso modo che esiste, nell’interazione tra i traduttori e le nuove tecnologie digitali, una costante tensione tra le rappresentazioni anticipate degli scopi e la vera natura della produzione quando si traduce. I fornitori di tecnologia si concentrano soprattutto sulle strategie per implementare gli strumenti tecnologici a livello locale e internazionale e per trovare modi per automatizzare il processo traduttivo, mentre “i traduttori professionali sembrano essere più interessati ai loro bisogni tecnologici, ai vantaggi a breve e lungo termine che possono ottenere e agli ostacoli tecnici o pratici che potrebbero incontrare mentre utilizzano determinate tecnologie” (Mihalache 2008: 62-63). Nella danza di mediazione tra i traduttori e i fornitori, le attività di entrambi in un certo senso superano le aspettative transitive dell’altro. È anche per questo motivo che Mihalache propone di spostare il centro della ricerca traduttiva dalla “società dell’informazione” dei traduttori che lavorano con la tecnologia per accelerare l’elaborazione e la conservazione di dati, alla “società dell’interazione dei traduttori, nella loro relazione costante e variabile con culture e spazi geografici per mezzo delle nuove tecnologie” (ibid., 62; corsivo dell’autrice). Questa società dell’interazione dei traduttori equivale all’ambiente circostante che allo stesso tempo modella ed è modellato dal processo continuo di

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