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Bruxelles insurrezione

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Academic year: 2021

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Bruxelles insurrezione

D’un colpo solo, un lampo nel pieno centro della pupilla. Una freccia di luce scoccata dai tubi al neon che si addentra nel suo occhio dolorante. Gli hanno appena tolto la benda, e la luce l’ha subito rianimato. Il vecchio strizza gli occhi, aggrotta le sopracciglia, vorrebbe sfregarsi le palpebre ma ha le mani legate, là dietro la schiena, contro lo schienale della sedia.

Idem per i piedi.

Ha paura. La paura gli sale lungo le gambe come una formica su una canna da zucchero. Fa pressione sui polsi, forza sui talloni, ma no, non si muove niente. Si dice che dev’essere un sogno, ma non ci crede neanche lui. Chiude gli occhi, li riapre: è ancora tutto lì. Come in un incubo.

Per essere più precisi, sono in due, lì, di fronte a lui. Due giovani vestiti di pantaloni di jeans, con delle camicie senza collo e un’aria da drogati. Hanno sicuramente già messo le mani sul suo portafoglio, hanno avuto tutto il tempo di frugargli le tasche mentre era privo di conoscenza. Stanno in piedi, a meno di un metro, con dei sorrisi da farabutti e un’aria piena di soddisfazione.

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Si direbbe che sono felici di vederlo sudare. Si direbbe che si divertono a vederlo lì, legato su questa sedia da cucina.

Il più basso dei due, un giovane con i capelli ricci e grassi, fa un passo in avanti. Ha in mano una macchina fotografica, una di quelle grosse macchine moderne della grandezza di una vecchia radio. Ecco che compare l’obiettivo… Il vecchio vorrebbe farsi indietro, ma è troppo tardi, flash!, un lampo di luce lo costringe di nuovo a chiudere gli occhi.

Li riapre. Non vede più nulla. È tutto rosso, bianco, rosso.

Troppo bianco, troppo rosso. Sente ancora dei “flash!” ma non li vede più. È accecato.

È arrivato il momento di ricapitolare.

Per quanto il vecchio si ricordi – e la memoria non è la più efficace delle sue funzioni cerebrali, ha iniziato a perdere i colpi ancora prima della prostata, molto tempo or sono – per quanto si ricordi, quindi, è arrivato a Bruxelles con il Thalys, il “treno lampo”, alla gare de Midi. Il segretario gli aveva parlato di un giovane, Éric, che sarebbe venuto a prenderlo al binario e l’avrebbe accompagnato all’albergo. Éric è il nipote del segretario, è avvocato – ancora tirocinante, ma pur sempre avvocato – conosce Bruxelles come il vecchio conosce Balzac e avrebbe avuto il piacere di fargli da guida nei tre giorni a venire. Il vecchio scende dal treno, un po’ appesantito dalla bottiglia di Sauvignon gustata tra Parigi e Bruxelles. Un’ora e venticinque minuti per settantacinque centilitri. Una media di 8,8 ml al minuto, abbastanza per rallentare il passo e anchilosare le cosce. Ha posato il piede sul marciapiede di marmo grigio e alzato la testa verso la nuova volta in metallo, dove l’acciaio e il vetro si contendevano il tetto dell’edificio, in una serie di curve e rivetti.

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Era di una bellezza commovente, e avrebbe voluto condividere questa emozione con la giovane sessantenne che scendeva dal predellino dietro di lui, ma ecco che un uomo gli avanzava incontro, tutto sorridente. Indossava una giacca dalle maniche troppo corte, come amano tagliarle gli Inglesi. Il vecchio aveva subodorato il Paul Smith, o un qualunque altro giovane sarto incapace di perpetuare la vera tradizione del tailleur inglese, buono soltanto a fare la linguaccia agli artigiani parigini. Era ben lungi dall’apprezzare questo genere di bravate nel vestiario, ma evitò di farlo notare al suo ospite. Questi ebbe il buon gusto di presentarsi. Si chiamava Éric e sarebbe stato il suo ospite, ed è con cortesia che il vecchio ha teso la mano verso quella che gli offriva l’avvocato. Sì, aveva fatto buon viaggio. Era fortunato, il tempo si annunciava clemente per i tre giorni a venire. Allora Éric lo ha pregato di seguirlo, il vecchio se lo ricorda bene. Ha afferrato la sua borsa e, un po’ troppo velocemente per le gambe usurate del suo invitato, si è lanciato verso la scala mobile che si addentrava nel marciapiede. Fino a lì, è tutto chiaro. Le immagini si susseguono e i ricordi si succedono l’uno all’altro. Il marmo si è fatto grigio fumo, il vecchio si è attaccato al corrimano in caucciù nero e si è lasciato trasportare. Bruxelles, capitale dell’Europa! All’epoca della sua visita precedente, era ancora un semplice anello della CECA e dell’Euratom. Era con Régine, molto tempo prima della sua morte. Allora erano giovani, aveva pensato, erano venuti a festeggiare i loro trentadue anni di matrimonio al riparo dalla confusione parigina. Era il maggio 1968, e gli studenti si erano messi in testa di farsi notare.

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Ma il vecchio aveva fatto suo da tempo il motto di Dumarsais: “Non c’è niente di notevole nel farsi notare”. Aveva trascorso con sua moglie due settimane stupende, correndo dal Sablon a La Monnaie, di vernissage in concerti improvvisati, da cene di gala a letture di incomparabile raffinatezza. Ma era chiaro che Régine non era più lì per scendere dal Thalys con lui, e il vecchio non aveva nessuna voglia di veder risorgere dal passato le vecchie conoscenze che li avevano ospitati. È per questa ragione che aveva accettato la proposta del segretario perpetuo e si trovava alloggiato nel più che centenario hotel Métropole, in place de la Bouckère.

Éric e la borsa hanno toccato terra, poi lui ha aiutato il Parigino a scendere dalla scala mobile. Ci dirigiamo verso il parking, ha detto Éric (l’area di sosta, ha rettificato il vecchio tra i denti). Si ricorda di aver seguito il giovane attraverso una serie di viaggiatori seduti e di borse e valigie ammucchiate. Gli altoparlanti diffondevano messaggi in francese, inglese e fiammingo, questa lingua che il vecchio non tollera e che deve a sopportare ad ogni visita nella patria del cioccolato e delle cozze. Per fortuna che non metto piede in questa provincia che una volta ogni terzo di secolo, si era detto. Il multilinguismo finirà per sconfiggere l’Europa, ne è certo, è solo questione di tempo. Babele sta costruendo la sua torre. Gli operai finiranno per strapparsi l’un l’altro gli attrezzi.

Poi si ricorda di aver cercato di raggiungere Éric. Camminava troppo veloce, e il vecchio l’aveva perso di vista. Avendolo visto in lontananza vicino a una porta d’uscita, aveva accelerato il passo per raggiungerlo. Era arrivato alla porta e si era ritrovato sul marciapiede, di fronte a un cantiere enorme. Edifici crollati dove ruggivano gru rosse, arancioni, dalle zampe ingombre di escavatori verdi e gialli.

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Ma dov’era Éric? Che non fosse ancora uscito dalla stazione? L’uomo si era voltato, voleva tornare all’interno, ma un giovane mascalzone dai capelli neri e mossi si ergeva dritto alle sue spalle, con uno sguardo glaciale.

- Di qui non ti muovi, vecchio mio, e vedi di fare il bravo.

Non si era mosso di un millimetro e non aveva urlato né pianto. Un camioncino gli aveva frenato davanti, in un fracasso spaventoso di pneumatici. Una mano l’aveva afferrato alla bocca, mentre qualcuno gli dava un colpo in testa. Aveva perso conoscenza, come quando uno cade in un buco. È a quel punto che i suoi ricordi si interrompono. Ed eccolo qui, abbagliato, legato, immobilizzato su una sedia da cucina in un luogo a lui sconosciuto. Apre gli occhi. Gli fa male. I due giovani sono sempre lì, a guardarlo come se dovessero fargli un ritratto a memoria. Gira la testa verso sinistra: libri. La gira verso destra: altri libri. Da terra fino al soffitto, su più di tre metri di altezza, nient’altro che libri impilati. Di tutte le forme e di tutte le dimensioni. Enciclopedie, ricette di cucina, biografie. Dappertutto. A terra, ci si cammina sopra, ci si potrebbe persino sprofondare. C’è una sola porta visibile. Nel muro di destra, dietro una pila di casse di banane riciclate come libreria di fortuna. Nonostante il suo udito dia segni di cedimento, sente dei rumori di macchine che circolano sull’asfalto, rumori provenienti dalle sue spalle non direttamente dalle sue spalle, ma forse da una finestra da qualche parte dietro di lui. Sente cambiare le marce, frenare e accelerare, deve esserci un incrocio nelle vicinanze.

Gira di nuovo la testa verso i suoi aggressori. Il più alto dei due si avvicina con un dizionario in mano. È un “Petit Larousse” del 2001 con il fiore sulla copertina, ancora protetto dalla sua pellicola di plastica.

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Il giovane lo tiene come una mazza, nell’incavo del palmo. Avanza a passo rapido e alza il braccio all’indietro. Ora mi manda all’altro mondo, si dice il vecchio. Chiude gli occhi e stringe forte forte le palpebre per non sentire il colpo.

Il problema con i vecchi è che non puoi trascinarli lontano. Come ostaggi, voglio dire. È quello che avevo spiegato a Pierre fin dall’inizio. Non tengono duro a lungo, non hanno resistenza, a causa dei problemi di vescica e di tutta quella roba lì. E gli accademici, quelli sono tutti dei vecchi. Chissà che la degenerazione delle cellule e i problemi di locomozione non siano i criteri d’accesso alla professione. Per un bel po’ ho creduto persino che ci fossero dei test di assopimento per farsi incorporare nella legione, ma Pierre mi ha spiegato che a quell’età è normale. E visto che prima di diventare disoccupato di professione Pierre ha lavorato in un ospizio, lui di vecchi se ne intende. Ciò non toglie che io un po’ offeso lo sarei, se i miei soci si facessero un pisolo mentre parlo al microfono. È vero che quelli lì, sotto le cupola, non parlano più, farneticano. E leccano dei piedi sperando che più tardi qualcuno leccherà i loro. Anche nella tomba. Perché è noto, gli Immortali non lavorano per il loro ego, ma solo per la posterità. O la polverosità, chissà.

Lo so che ci si deve abituare, ma fatto sta che continuo a trovarla irritante, questa confraternita di russatori che si svegliano a fatica alla fine degli speech per applaudire o sputare la dentiera.

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Avrete capito che gli accademici non sono la mia passione. Per essere chiaro, la sola volta che ci ho preso gusto con uno, questo era in un sacco, arrotolato come un salame in venticinque metri di cavo elettrico, con una palla da ping-pong a mo’ di bavaglio. Uno spettacolo che meritava delle foto, così ne abbiamo fatte una marea. Soprattutto io, visto che è la mia formazione: fotografo. Sono io che faccio tutti i flash, clic, slap e compagnia bella a ogni nostro intervento. In questo caso preciso, stavo lavorando con una Polaroid. È meglio quando si ha a che fare con i giornali, la Polaroid, così nessuno può sostenere che l’immagine è truccata e che si manipola l’informazione.

È alla Gare du Midi che abbiamo preso in custodia il nostro vecchio. Una vera cariatide, un vecchio rimbambito in loden, mezzo morto per l’usura: faceva pena a vederlo. D’altronde, lo si vedeva a pena. Allora l’abbiamo stordito di colpi, così non dovevamo guardarlo troppo. Ho avuto un po’ paura quando è venuto il momento del colpo di manganello, mi sono detto che questa storia poteva finire male e che il mio colpo di mazza poteva appiattirgli l’encefalogramma per sempre, invece di addormentarlo provvisoriamente. Ho colpito comunque, non troppo forte, e il tipo ci è caduto tra le braccia. L’abbiamo issato nel furgone e siamo ripartiti senza che nessuno avesse visto nulla. Quanto all’avvocato che lo accompagnava, quello era già fuori uso. Nel momento in cui avesse ripreso coscienza, nudo nei bagni dell’Eurostar da qualche parte tra Mons e Lille, poteva affannarsi quanto voleva a cercare i suoi documenti, passando in rassegna i santi del paradiso e tutte le altre imprecazioni del caso, fatto sta che, prima di poter dichiarare la perdita del suo accademico, doveva innanzitutto convincere le autorità ferroviarie che non era matto completo. Mica facile, tanto più se avesse avuto la fortuna di imbattersi in un controllore inglese dell’altra parte del tunnel.

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Senza biglietto, di fronte a un inglisc monolingue, tanto valeva saltare direttamente sulle rotaie.

Abbiamo guidato tranquilli fino al boulevard. Non era lontano, visto che era boulevard Lemonnier e che anche a piedi non ci sarebbero voluti più di dieci minuti. È lì che stiamo noi, sul boulevard, nel magazzino di un libraio, al primo piano. Il paradiso dei topi, l’impero delle parole che nessuno leggerà più, l’incubo degli autori. È da non crederci, il numero di libri che finiscono al macero. Ce ne sono delle tonnellate, e non è per modo di dire, ce ne sono veramente delle tonnellate nei sotterranei e nei retrobottega di tutti i venditori di libri di seconda mano. E dire che già sugli scaffali accessibili al pubblico di merda ce n’è un sacco, ma nei retrobottega si sfiora la fossa biologica integrale. In un raggio di meno di cento metri intorno a Place Annessens trovi tutto quello che non cercavi: romanzi che costano il terzo di una birra, guide routard cadute dal camion così bene che le pagine non sono mai state aperte, i Classici del Giallo di ogni epoca, a prezzo più stracciato di un pacchetto di chewing-gum. È il bazar dei lettori di ogni tipo, ci si può trovare tanto il maniaco che divora solo Harmony, quanto il vecchio che si rolla le Historia chiuso nel bagno per soddisfare i suoi sogni erotici ispirati dai baffi di Bellemare. E ci sono anche gli snob col culo stretto che comprano solo i millesimati, le rarità, le rilegature in piena pelle e gli esemplari autografi, e i tossicomani che si portano sottobraccio la cassa dei DVD e collaborano, ciascuno come può, alla libera circolazione delle merci. E in tutto questo viavai nessuno fa caso ai veicoli parcheggiati in doppia fila.

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Siamo arrivati all’altezza di Philo, Pierre ha dato una frenata e io mi sono caricato quel trippone sulle spalle. Ne pesavano di chili tutte sue stronzate, era indiscutibile. Chissà che non li rimpinzino di foie gras e andouillette, i letterati in pensione. Così, quei due piani li ho sentiti passare. Ci sono casette niente male nei dintorni. Un secolo fa, all’epoca in cui il Belgio era la seconda potenza mondiale, dietro solo all’Inghilterra vittoriana, quando il nostro buon re era impegnato a tagliare braccia di neri nel centro dell’Africa, boulevard Lemonnier era i Champs-Élysées di noialtri, con le sue ville e i soffitti alti quattro metri più delle suole. Era a questo che pensavo mentre sollevavo quel pallone gonfiato gradino dopo gradino, e ce l’avevo a morte con Leopoldo II, la sua barba e il suo Congo pieno di missionari. In fin dei conti, dello splendere coloniale oggi non resta altro che delle case impossibili da riscaldare dove accatastiamo le famiglie di immigrati. Avevo bisogno di sfogarmi e avrei preso volentieri a botte il vecchiaccio, ma non serviva a nulla, era ancora svenuto. Ogni rampa di scale mi restava sui polpacci, peggio ancora che i passati remoti e le favole di La Fontaine quand’ero ragazzino. “Un giorno, la quercia dice alla canna…”. Pierre ha spinto la porta, e io ho depositato il salame su una vecchia sedia di legno. Pierre l’ha slegato e poi l’ha insaccato di nuovo con le caviglie strette ai piedi della sedia e i polsi dietro lo schienale. Io gli ho tolto la palla da ping-pong e la benda dagli occhi e ho iniziato a rianimarlo con qualche piccolo scapaccione amichevole. Questo gli ha ridato un po’ di colore. E finalmente ha aperto gli occhi.

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Il vecchio si prende il Larousse su una guancia senza battere ciglio. Resta seduto, immobile, la schiena ben dritta. Mostrerò loro che uno che ha fatto la Resistenza non cede, si rassicura. Ho visto ben di peggio di questi due ragazzetti, io. Ho attraversato quattro anni di occupazione, ho combattuto quando è venuto il momento e ancora l’anno scorso ho sfilato per una Repubblica francese forte e unita. Può colpirmi di nuovo. Sono pronto.

Aspetta invano. Il giovane lo guarda negli occhi. Il vecchio lo fissa a sua volta. - Allora, Paul, come ci sentiamo?

- Non mi chiamo Paul. Cosa volete da me? Cos’è questa storia?

- Non vogliamo nulla di male, riprende il giovane, non siamo mica cattiva gente. Siamo solo dei burloni. Dei comici. È per questo che ti chiamiamo Paul. Perché dopo tutto ce ne sbattiamo di chi sei in realtà. A interessarci è quello che rappresenti. Hai afferrato?

- Non proprio…

- Fa lo stesso, finirai comunque per capire. Alla tua età, è normale che ci voglia del tempo: il sangue circola più lentamente. Adesso vediamo se hai una cultura. Ti piace l’idea?

- Non troppo.

- Fa lo stesso, ti dico. Del tuo parere ce ne sbattiamo alla grande. Abbiamo organizzato un gioco e tu giocherai, che ti piaccia o meno. Volente o nolente, pazienza. Le regole sono semplici. Noi ti facciamo delle domande, e tu rispondi. Se rispondi bene, si passa alla domanda seguente. Se dici una stronzata, noi cerchiamo di fare entrare la materia in quel tuo vecchio cervello che ti ritrovi. È semplice. Se preferisci, puoi considerarlo come un esame.

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Ma no, il vecchio non vuole proprio nulla. Comincia ad averne già abbastanza, vorrebbe dirlo ai suoi rapitori, ma ha paura che quello alto e non ricciuto la prenda male. Il fotografo si è seduto su una cassa di libri. Appoggia il pacchetto di foto che ha appena scattato e afferra un grande raccoglitore ad anelli.

- Da dove cominciamo?, domanda.

- Dal vocabolario, no? È la cosa più facile, eh, vecchio mio? - Non ne ho idea, Signore.

- Non serve a niente che mi chiami Signore, Paul, questo genere di protocollo non mi intenerisce, anzi. Sono allergico ai Signore quanto alle cravatte, il che è tutto dire. E se speri che in cambio ti darò del Signor Paul, ti sbagli di grosso. Su, il gioco ha inizio! Ti chiami Paul, vero?

- No, mi chiamo…

Non ha neanche il tempo di finire la frase che un colpo di Larousse gli fa saltare il ponte dentale sulla copertina rossa di un fumetto sgualcito.

- Non va bene, Paul, tu sei qui per imparare, non per fare il furbo. Ti ho detto che ti chiamiamo Paul, fa parte del gioco. Allora, Paul, com’è che ti chiami?

- Paul.

- Bene! Direi persino molto bene. Sono felice di vedere che impari velocemente. Come annunciato, giocheremo al gioco del vocabolario. Prima domanda: cos’è una foufoune? Allora, cos’è?

- Non lo so.

- Come, non lo sai? E io che credevo che avessi collaborato all’elaborazione di vari dizionari, che fossi uno specialista del Littré, un vero teratologo della lingua.

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È tutta una bufala la biografia che passi a quei giornalisti del menga? È così, la verità è che sei un buffone?

- No, ma non posso certo conoscere tutte le parole.

- Hai ragione, caro il mio Popaul, hai ottenuto un punto. Non ti colpisco, ma neppure ti libero. Qui la foufoune è il sesso della donna, hai presente, là, sotto i peli, dove c’è pieno di labbra e roba del genere? Ebbene, quella è la foufoune. Mentre in Québec la foufoune è una chiappa. Mica così distanti l’una dall’altra, le foufoune, eh?

- Inutile precisare, aggiunge l’altro ancora seduto, che questo è il genere di parola che nei dizionari neanche compare, se non nei libri dedicati al gergo. Come se antanaclasi non appartenesse al gergo della retorica e fecaloma a quello dei maniaci in camice bianco! A quanto pare il gergo della strada è troppo sporco per essere stampato su quelle belle pagine di carta satinata! Come se fecaloma fosse più pulito - o ano meno sporco - che buco del culo! Siete proprio degli imbecilli, tu e i tuoi amici!

Il vecchio si rende improvvisamente conto di cosa gli sta succedendo. È lì, legato alla sua sedia, in mezzo ai libri, da qualche parte a Bruxelles, alla mercé di due giovani degenerati. Di colpo, l’angoscia lo afferra ala gola, come una morsa che si richiude spingendogli in giù la glottide. Il petto inizia a palpitare. Ha paura. Questi delinquenti sono mezzi pazzi, si ripete. Vuole guardare negli occhi il capo-banda, alza la testa, e nel movimento sente il peso del portafoglio di cuoio nella tasca della giacca. Il cuore si mette a battergli all’impazzata. Questi tizi non gli hanno nemmeno rubato il denaro. Non è neanche questo che vogliono. Una goccia di sudore ghiacciato gli scivola lungo la tempia destra.

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Hanno parlato della sua biografia, sanno con chi hanno a che fare, hanno preparato tutto. È caduto in una trappola fatta su misura per lui. Non ha il tempo di portare avanti la sua riflessione, perché quello alto e smilzo continua.

- Non sembri molto bravo col vocabolario, Paul. Se l’avevamo saputo… Il vecchio storce il naso, è più forte di lui, è il genere di orrore che gli strazia le orecchie.

- Dicci, Popaul, cos’hai che aggrotti le sopracciglia in questo modo? Così peggiori le tue rughe. Se c’era qualcosa che ti dà fastidio, dovevi dirlo.

- Ecco, ha fatto di nuovo il muso lungo , aggiunge quello più basso e ricciuto.

- Ma sì, ma sì, riprende l’altro lentamente, per fare durare il piacere. Credo di avere mirato giusto. Se avevo saputo che era così facile, ah! se lo avevo saputo!

Che bastardi, vedono che mi fa stare male, borbotta il vecchio. Lo detesto, non riesco a sopportarlo. Preferirei piuttosto che mi prendessero a botte. Così è troppo facile. Mi traversa da parte a parte e mi distrugge all’interno.

E ora ecco che ci si mettono entrambi.

- Se non venivi in aereo, forse non ti prendevamo nemmeno.

- E se non eri un così vecchio babbione, forse eri anche un po’ meno coglione.

- Se non avevi una faccia che è tutta una ruga, chissà, forse ti lasciavamo prender la fuga.

- Bene, bene, temporeggia quella specie di grande capo, si direbbe che il Signor Popaul è un permaloso della sintassi, uno schizzinoso della subordinata. Passiamo alla domanda seguente, che è sempre dello stesso tipo.

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Vedi di rispondermi bene, Popaul. Dopo dopo che, cosa si mette? - L’indicativo.

- Cosa si mette?!

- L’indicativo, mormora il vecchio, non troppo sicuro di sé.

- Facciamo una prova, Popaul. È normale che ti picchio dopo che

abbia sbagliato o è normale che ti picchio dopo che hai sbagliato?

- Dopo che hai sbagliato. - Sei sicuro? Fai attenzione.

- Ma sì, grida il vecchio, lo sanno tutti. Prima che vuole il congiuntivo, dopo che vuole l’indicativo. Più chiaro di così non c’è niente.

- Sei sicuro di quello che dici. Ci credi veramente? - Smettetela, mi state facendo impazzire!

- Allora, dopo dopo che cosa si mette? - L’indicativo, vi dico.

- No, Popaul, ora mi ascolti. Ti sto per dire qualcosa di molto importante. Dopo dopo che si mette quel che si vuole. Capito? QUEL CHE SI VUOLE! E poi chi sei tu, vecchia cariatide, per decidere cosa si mette dopo le parole?

- Ma, ma, non sono io che decido. È così da sempre. In fondo è vero, io non ho fatto niente. È la grammatica che è così.

- Ascoltami bene, Popaul. Se c’è una cosa che proprio mi fa schifo sono i cagasotto che cercano di passarla liscia. Quando dici una frase, quando la tiri fuori dal tuo vecchio cranio e la fai scorrere sulla lingua per poi spingerla via a colpi di polmoni attraverso le corde vocali, sei tu il padrone di te stesso. Non c’è nessun altro lì a guardarti e giudicarti.

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Sei tu il capo a bordo. Capisci? È vero che non devi essere molto abituato alla libertà. Ti hanno insegnato da sempre a rispettare i regolamenti, a salutare le bandiere, accordare i participi passati e riconoscere i gradi. Nessuno ti ha mai detto che quello che pensi tu nella tua testa non ha nulla da invidiare a quello che c’è scritto nei libri. Né che quello che la gente dice intorno a te, ogni giorno quando va a fare la spesa al supermercato, pesa più di tutte le grammatiche una sopra l’altra. Vaglielo a dire alla cassiera che si sbaglia quando ti dice che sei grande abbastanza per impacchettarti da solo la tua bottiglia di

pinard! Ho l’impressione che durante la tua troppa lunga educazione si

siano dimenticati di dirti che ogni azione che compi ha più forza di tutti i regolamenti del mondo. Se decidi di piazzare un bel condizionale proprio dopo il se, è tuo diritto. Puoi farlo. E se è uno strazio per le orecchie, vuol dire che le tue orecchie non sono abbastanza flessibili. La colpa, non dimenticarlo mai, è nell’occhio di chi guarda, mai nell’atto di chi agisce. Mi segui?

Il vecchio detesta che gli facciano la lezione. Eppure adora imparare. È da più di settanta anni che studia e sempre con più passione, ma i poppanti che non rispettano nulla, quelli proprio non li tollera. Tanto meno se parlano con l’accento belga, mangiandosi la metà delle parole. Articolare bene quando si parla è la prima norma della buona educazione, lo dice sempre ai suoi nipotini: la dizione è la buona creanza delle lingue. Ma questo giovane imbecille, constata il vecchio, lui la buona creanza non sa neanche dove stia di casa.

- Allora, Popaul, non rispondi? Perfetto. Chi tace acconsente. Continuiamo col programma. Manuel, passami il cutter!

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Mentre mi lavavo le mani, Pierre ha letto al vecchio il comunicato che avevamo appena inviato alla stampa, insieme alla dentiera. Là dentro c’erano le nostre prime tre rivendicazioni. Si vedeva che Pierre ci godeva particolarmente a leggerle davanti a Raymond Boileau, socio dell’Académie française. Restava da vedere se le autorità belghe si sarebbero piegate alle nostre esigenze:

1. Annunciare pubblicamente, almeno una volta alla settimana, alla televisione, per radio e sui giornali che “la lingua francese è proprietà di ciascuno dei suoi parlanti e che tutti noi abbiamo il dovere di renderla il più viva possibile”.

2. Incollare su dizionari, grammatiche e altri manuali di ortografia un’etichetta che metta in guardia il consumatore in questi termini, o in modo analogo: “Il contenuto di quest’opera è puramente descrittivo e ha come unico obiettivo quello di aiutarvi a conoscere meglio la vostra lingua. Sarebbe pericoloso pensare che questo libro detenga la verità o costituisca un regolamento che siete tenuti a seguire. Siete liberi, non dimenticatelo mai.”

3. Pretendere che qualunque pubblicazione scritta o presa di parola in pubblico sia preceduta dalla seguente avvertenza: “Attenzione! È probabile che il testo che segue contenga errori di ortografia, strappi alla grammatica, parole inventate, anglicismi, volgarità e libertà di ogni genere e specie. Sappiate che lo facciamo apposta e in piena consapevolezza, per rendere la nostra lingua più divertente per tutti. Vi ringraziamo per la collaborazione.”

Mi sono avvicinato al vecchio.

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- Allora, Popaul, gli ho detto, ora ti è più chiaro dove vogliamo andare a parare? Capisci un po’ meglio perché ti abbiamo invitato oggi, eh? Devi pensare che siamo proprio degli idioti e dei pazzi mica da ridere. Non hai torto. Non è falso. Ma ciò non toglie che siamo molto più divertenti dei tuoi amici della cupola, eh, Popaul?

Mi sono fermato lì, perché vedevo chiaramente che il vecchio non era dell’umore giusto per ascoltarmi. Sbavava, agitava la testa a destra e a manca, ancora poco e sveniva. Bisogna dire che ci eravamo divertiti mica poco con lui. E ci eravamo fermati solo per lasciarlo digerire. Chi

va piano va sano e va lontano, aveva sentenziato Pierre, secondo la sua

abitudine, proponendomi di dare un po’ di tregua al nostro ronzino in vista della corsa finale. Così era andato a consegnare il pacco con la dentiera all’agenzia di stampa e a faxare il nostro bel comunicato ai giornalisti del Regno.

Eravamo certi che la nostra letteratura avrebbe avuto successo. Bazzicavamo nel popolare. Era da tempo che il paese stagnava nel sordido con quei delitti a scopo di lucro, i ragazzini triturati e le donne fatte a pezzi. Noi sì che portavamo qualcosa di veramente mediatico, un capolavoro tagliato su misura da diffondere a qualsiasi ora, con o senza immagini, qualcosa di cui discutere al bancone del bar, davanti a una birra, o vicino al fuoco, con i calzini incollati al termoconvettore a gas. Nessuna cattiveria o vigliaccheria. In fondo, a ben guardare, eravamo puliti. Quello che facevamo era un terrorismo da bar che poteva piacere a tutti.

Tranne che a Popaul: era chiaro che lui la pensava diversamente. Non ce la faceva più. Forse ci eravamo andati giù un po’ pesante con il nostro gioco del vocabolario, ma le regole erano semplici. Leggevamo le parole, una per una, a cominciare dalla lettera A.

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E ad ogni parola che non conosceva, su, su, niente discussioni, gli facevamo leccare la pagina intera. E quando era tutta bella umida, si passava alla seguente. La carognata, a dire il vero, era di usare il Grand

Larousse. Una bella versione rilegata del 1971. Abbiamo saltato tutte le

introduzioni, le coniugazioni, le tavole di frequenza e la bibliografia, e via, siamo partiti. Con la prima pagina se l’era cavata bene, c’era solo la parola “a”. Facile. La a come lettera dell’alfabeto e poi come preposizione, con tutti i dettagli, il tutto per tre pagine. Ma poi, avendo incominciato bene, ecco che alla pagina 4 ha perso la concentrazione. Ha riconosciuto che abaissant significa “che fa perdere la dignità, il valore morale”, ed era chiaro che questo lo toccava da vicino, ma si è sbagliato di grosso su abaca e abadir. Si è preso le prime due stazioni nelle gengive, come un cristo che si è scolato otto calici prima di iniziare l’ascesa al suo Calvario. Non è riuscito a ricollocare né il banano né la pietra sacra dei Fenici. Che delusione, questo Paul. Ha leccato la pagina. Ed è stata dura, perché il Grand Larousse non è carta da giornale. È carta satinata di un certo spessore, tagliente sui bordi e difficile da umidificare. Gli dava la nausea, me ne sono reso conto, ma non era certo questo che ci avrebbe fermati. Si fanno forse degli scrupoli, lui e i suoi amici, a considerare come un errore e una prova di stupidità se uno si dimentica la “l” alla fine di fusil o scrive femme con la “a” e una sola “m”? No, nessuno scrupolo. Che si astenga dallo scrivere, chi non è in grado di leccare per bene i piedi del Petit Robert e della sua amica

Larousse. Questa gente è indegna della propria lingua. Ebbene, che

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Si sarebbe presto reso conto di come si soffre quando gli altri ti considerano un ignorante.

Non vale la pena entrare nei dettagli, per farla breve le ha leccate tutte, o quasi. Bisogna ammettere che era piuttosto ferrato, soprattutto per le figure di stile, le qualità fisiche e morali o il vocabolario della pittura. Ma in biologia e in fisica, scusate tanto, era una vera schiappa. C’era da chiedersi se per lui le parole non servissero che a scrivere poesie e trattati di linguistica. Insomma, la sua lingua le pagine le ha percorse una dopo l’altra fino alla 207, quando è arrivato a “appétit”. Ha avuto un blocco e si è fatto viola. Dopo due o tre risalite di succhi gastrici, le labbra gli si sono coperte di saliva, così abbiamo fatto la pausa. Per distrarlo, abbiamo messo su delle diapo con le parole crociate di Perec e quelle del professor Stas, poi gli abbiamo fatto ascoltare una buona mezz’ora di un vecchio quarantacinque giri della

quinzaine du bon langage. Con una sfilza di “dite, non dite” che

ricordano a che punto la grammatica, l’ortografia e l’esercito sono sempre andati d’amore e d’accordo.

Pierre è tornato dal suo giro, e io l’ho messo al corrente della nausea del vecchio. Ci siamo detti che era meglio finirla lì con il leccaggio, non siamo mica degli stronzi. E dire che avevamo già edulcorato la prova, perché nell’originale, in The cook, the thief, his wife and her lover di Greenaway, quelli non si fanno mica scrupoli a fargli mangiare i suoi libri, al tizio, e gli farciscono lo stomaco e tutti gli altri orifizi di vecchia cartaccia polverosa. Fino al sopraggiungere della morte… Ma noi no, non avevamo mai avuto l’intenzione di farlo crepare. Non siamo mica dei sadici, e in fondo neanche delle canaglie. Preferiamo restare didattici.

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È per questo che dopo il ritorno di Pierre ci siamo messi a fare due chiacchere con il nostro Popaul. Ho incominciato io.

- Senti, Popaul –gli ho fatto– non ce l’abbiamo con te personalmente, se è per questo non sappiamo neanche di preciso cos’hai fatto nella vita. Se hai venduto pastiglie collaborazioniste sotto Vichy o se hai lavorato nella Resistenza, come tostapane o che so io. Di tutto questo noi ce ne sbattiamo. Ma hai avuto la sfortuna di farti insciabolare tra gli Immortali e sedere sotto la cupola, e per noi questo basta e avanza. Sei solo un’immagine, vecchio mio, una funzione, una vetrina, una medaglia. È per questo che ti abbiamo scelto. Contiamo sul fatto che tornerai sulle rive della Senna in vita, sì, ma a pezzi. Del genere ritorno dalla guerra del prigioniero scomparso, il tizio che Rambo va a ripescare nelle prigioni afghane e che non vede la luce del sole dall’inizio delle riprese.

- Avrai tutta la stampa ai tuoi piedi, ha proseguito Pierre, la TV, la radio, i giornali. Allora potrai spiegare. Potrai dire che sei finito nelle mani di due pazzi fuori di testa, potrai insultarci, maledirci. L’unica cosa che ti chiediamo, qui, ora, Paul, guardandoti dritto negli occhi, è di avere l’onestà di dire per quale motivo ti abbiamo fatto questo. Ai tuoi amici di Parigi gli dirai che ne abbiamo le palle piene della loro condiscendenza e del loro paternalismo. Sarebbe ora che si rendessero conto, nella loro torre d’avorio da cui non vedono proprio un bel niente, che a noi è il loro di accento a farci sbellicare e la loro letteratura di nicchia che ci fa ronfare ad ogni pagina. Potrai dirgli che sono finiti i tempi tranquilli in cui la Ville Lumière poteva atteggiarsi a fare il monarca con un popolo sottomesso. Gli anarchici della francofonia preparano la loro rivoluzione. Niente armi, niente spari, solo un gigantesco gesto dell’ombrello da parte di tutte le colonie che ne hanno le palle strapiene.

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E che non si abbasseranno più né davanti al campione del dettato di Pivot né di fronte al vincitore del Goncourt. La nostra lingua e la nostra letteratura, le nostre lingue e le nostre letterature, noi le condivideremo, le faremo circolare su tutto il pianeta senza passare per Parigi.

- Puoi dirgli, Popaul, anzi DEVI dirgli che nei quartieri c’è movimento da vendere.

- Puoi dirgli che, volente o nolente, l’impero sta per crollare. I barbari non sono alle porte, quelli sono già sul posto. Sulle panchine della metro, al bancone dei bar, nelle case popolari, alle serate di poetry-slam e nei cortili delle scuole, in tutti quei posti dove si chiacchera a tutto spiano e c’è un fiume di parole nell’aria.

- Puoi anche spiegargli che possono tenerseli i loro libri di propaganda, tutti i dizionari di letteratura franco-francese e benpensante, i manuali scolastici e la loro Bibliothèque de la Pléiade. Ci siamo rotti le palle delle hit-parade, dei menù già masticati e delle classifiche. Ognuno è libero di decidere quali testi sono i migliori e quali gli parlano veramente. Così come spetta a ciascuno scegliere quali parole vuole usare e con quale significato.

- Ma voi siete pazzi!

- Sei tu il pazzo, vecchio imbecille, con la tua banda di dinosauri e la tua tradizione letteraria ricalcata sulle lezioni di religione. Con che diritto, in nome di quale potere un pugno di bifolchi dovrebbe decidere per me di cosa è sbagliato nella mia lingua e cosa è giusto nella mia letteratura? Non siamo mica più sotto l’Ancien Régime, Popaul, devi fartene una ragione.

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Pierre cominciava a innervosirsi sul serio. Si è messo a infilare la rilegatura del Grand Larousse nella bocca del vecchio. Il cuoio sfregava contro i denti che restavano, quelli in fondo, poi è finito tutto in gola. Allora, com’era inevitabile, Paul ha avuto un conato di vomito e ha raccato dritto dritto sulla t-shirt di Pierre, dandogli una lavata anche alle scarpe da tennis. Come se l’accademico avesse voluto immerdare tutti gli anglicismi di cui Pierre era vestito.

Fuori era già notte. Sul viale, il traffico si faceva meno denso. La maggior parte degli orologi di Bruxelles segnavano già le diciannove e le saracinesche dei negozi si abbassavano una dopo l’altra, il tutto in un grazioso concerto. Era l’ora di chiusura dei librai. I libri si preparavano per mettersi a letto. Le pagine cominciavano a spianarsi, le parole si ritiravano. Domani sarebbe stato un altro giorno.

Bruxelles ne ha visti passare di eserciti e di invasori, e anche di ribellioni. Ce ne sono state, e ce ne saranno ancora. La città le ha sempre subite, mai prese in mano, e non è certo oggi che questo cambierà. È vero che Bruxelles è un po’ come l’elefante nel negozio di porcellane, capitale di un Paese minuscolo che si lacera di soppiatto, punto di scontro di tre regioni, di due comunità, e poi, soprattutto, punto di raduno di tutti i manifestanti un po’ ambiziosi d’Europa. Se hai un po’ di levatura, allora bisogna che sali a scaricare il tuo letame e la tua petizione fino alla porte del Parlamento. Che bella porcata che ci esce per noi, tra gli Eurocrati che consumano solo import di lusso

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e le masse infuriate che strillano e immerdano le strade. Bruxelles è fatta a immagine e misura dell’Europa: si muove solo quando sono gli altri a scuoterla.

Allora quella sera, un po’ prima delle ventuno, quando abbiamo riportato giù in strada il nostro vecchio - di nuovo imbavagliato, di nuovo legato - e ce la siamo svignata, Bruxelles non ha battuto ciglio. Eppure deve averci visti, mentre cacciavamo nel furgone bianco quel pacco che continuava a dimenarsi. Ci ha visti mentre ci sedevamo davanti, facevamo scaldare il Diesel e partivamo. Di sicuro ha notato che accendevamo l’autoradio e, se ha delle buone orecchie, ha sentito anche che il presentatore interrogava l’altro burattino della nostra accademia locale, l’Accademia reale come si chiama. Parlava un francese bello pulito, sicuro che all’indomani lo avrebbero potuto ritrasmettere su France Culture senza scioccare nessuno. “Sono particolarmente preoccupato per questa sparizione, dal momento che il nostro eminente accademico stava effettuando una trasferta da Parigi espressamente per partecipare alla nostra giornata di dibattiti sul surrealismo in Francia e in Belgio…” Surrealismo ‘sto cazzo. Non è certo a Bruxelles, a meno di cinquecento metri dalla Fleur en Papier Doré, che ci faranno bere questa cazzata. Perché i pagliacci del Palazzo delle Caccademie, nei loro completi inamidati, loro il surrealismo non l’hanno mai visto. Forse hanno letto cose dette da altri, niente di più, e rigorosamente dietro a un paio di occhiali e con addosso dei guanti da cucina, per non sporcarsi le dita. Cosa ci diranno? Che si sono appena iscritti al Partito comunista belga, che si sono fatti di mescalina nelle loro camere? No, certo che no, il surrealismo è un movimento, è un’epoca. Allora ci diranno come hanno piegato i loro fogliettini, in questo esercizio sottile che piace tanto ai ragazzini delle medie,

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e come una volta hanno osato lasciare che la loro Mont Blanc deponesse ben due frasi intere senza neanche un secondo fine. Su, sciacalli che non siete altro, continuate pure se vi va a blaterare queste fesserie, noi intanto vi prepariamo un cadavere dei più squisiti. Con questo pensiero in testa, ho tolto la parola una volta per tutte al segretario perpetuo e nel camioncino è tornato il silenzio. Eravamo arrivati in Place Royale, proprio di fronte a rue de la Régence. A venti metri della statua di Goffredo di Buglione, equestre come sempre. Era ora che ragguagliassi il nostro invitato. L’ho sollevato per il colletto della giacca e gli mostrato il paesaggio davanti a noi. Ha spalancato gli occhi, belli e grandi come quelli di un ragazzino che scopre i suoi regali di compleanno, ma si rende conto che nei pacchetti ci sono le braccia e le gambe dei suoi genitori, ancora sanguinanti.

Non era tranquillo, il nostro Paul, cominciava a sentirsi perso. È vero che era così bello, la via in fila e i quattro binari del tram che avanzavano paralleli. La via scende, poi risale, e in fondo, a impedire la vista dell’orizzonte come un muro di caserma, c’è un edificio gigantesco, sproporzionato, pieno di colonne e di scale, di frontoni, finestre cieche e porte massicce. Una cattedrale di pietra, senza religione né ordine, un grosso affare mostruoso che espone le sue deformità sotto il cielo grigio scuro. Infine, al di sopra di tutto questo colosso, una cupola immensa che fa da campanile.

- Cos…cos’è? Ha chiesto il vecchio.

- Cosa può essere, secondo te? Non lo sai? Tanto meglio, lo vedrai da vicino, perché è lì che ti portiamo. In linea diretta.

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La corsa avrà termine tra quattro minuti al massimo. Capolinea: il Palazzo di Giustizia!

Il vecchio si è messo a sudare una volta di più, tutto questo doveva ricordargli delle vecchie storie di quando era ragazzino, delle scene di vendette e di esecuzioni, quelle di Dumas, di Zévaco, o i colpi diabolici di Fantômas e le scene terrificanti dell’Antico Testamento. Aggrappati alla tua religione, vecchio mio, ho pensato, perché stai per finire dritto dritto all’inferno.

Naturalmente non avevamo mai pianificato di metterlo a morte. A dire il vero non è che avessimo pianificato granché. Più che altro, ci siamo fatti sedurre dall’improvvisazione. Ma questo ci è costato caro. Se fossimo stati un po’ più organizzati, avremmo potuto reclutare dei colleghi frondisti di Losanna, Lomé, Moncton o Guernesey. I volontari non mancano, quando si tratta di fare piazza pulita di tutti gli status quo e gli ipse dixit parigini. E di rispedirli a Parigi a calci nel culo.

Il semaforo era diventato verde, e noi stavamo attraversando rue de la

Régence. Nell’illuminazione notturna, il Palazzo di Giustizia si faceva più

grande, più grigio e più arancione. La sua massa deforme e terrificante si stagliava tremolante sul cielo quasi nero. Pierre ha parcheggiato il camioncino sul terrapieno, quindi abbiamo messo giù Popaul e gli abbiamo mostrato il paesaggio. Da un lato la massa opprimente del Palazzo di Giustizia, più nera, più cupa di un branco di gesuiti e tutti i loro pensieri messi insieme, dall’altro la distesa sconfinata di Bruxelles che scintillava nella notte. Un panorama da fare venire le vertigini. Alle nostre spalle, in lontananza, i fari delle macchine che spazzavano la notte, allo sbocco dall’avenue Louise. Davanti a noi, lo scintillio di migliaia di finestre illuminate. Su tutta questa distesa piatta di tetti, camini e finestre,

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sporgeva l’immondo blocco verticale della Tour du Midi, la soffitta degli schedari dello Stato. Un edificio enorme e brutto come pochi, piantato lì in mezzo al nulla per imbruttire il tutto. Poi, molto più in là, all’orizzonte, l’Atomium esibiva le sue palle sotto le stelle di ottobre.

Non potevamo certo restare ad ammirare il panorama tutta la notte. Il vento si era rimesso a soffiare, e io avevo una fottuta voglia di azione.

Così ho afferrato il vecchio e l’ho scaraventato al di sopra del parapetto. La schiena era appoggiata alla balaustra di pietra, ma la testa no, quella dava sul vuoto. Doveva farsi venti metri di caduta, prima di valutare i danni. Di nuovo, i suoi occhi erano più grandi degli obiettivi di una Leica. Doveva essere la vista dell’edificio mostruoso alle mie spalle. Poelaert, l’architetto, aveva raggiunto il suo scopo: solo a contemplare l’edificio, l’imputato tremava e si pentiva dei suoi crimini.

- Eccoci arrivati, Popaul, gli ho detto, le nostre strade si dividono qui. Piacere di averti conosciuto. Forse non sarò riuscito a convincerti, ma neppure il tuo indottrinamento e la tua propaganda hanno mai avuto successo con me. Siamo pari. Per quanto riguarda il seguito del programma, è semplicissimo. Ti appendiamo qui, da bravo, senza farti del male - giusto un po’ nudo, per rendere le cose più piccanti – e ti lasciamo gridare finché vuoi. Ma non ti preoccupare, non ci vorrà molto prima che arrivino la stampa e i fotografi, perché li chiamiamo non appena partiamo.

Sono tornato al camioncino per prendere i cavi. Pierre deve avere approfittato della mia assenza per sfogarsi un’ultima volta, perché ho sentito il vecchio urlare mentre chiudevo la portiera. Sono tornato e ho trovato Pierre in piena azione,

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lanciato in un magnifico show, un ultimo combattimento - verbale, ben inteso. Non risparmiava colpi, era una gioia guardarlo. Penso che avesse bisogno di scaricare la tensione, e questo non poteva che fargli bene. Ha afferrato il cavo elettrico che gli porgevo e l’ha sollevato verso il cielo con un gesto vendicatore, gridando:

- Francia di merda, Esagono striminzito che non sei altro, chi ti ha autorizzata a piazzare il tuo grasso culone sul trono della lingua francese? Chi ti ha dato il potere su tutti i francofoni del pianeta, proprio a te, vecchiaccia maledetta che conservi la tua lingua come si imbalsama un morto? Te, che affidi la sorte del tuo strumento più bello a un istituto geriatrico! Questo potere non te l’ha dato nessuno, e allora noi ce lo riprendiamo. I tempi cambiano. Le pecore si ribellano, la rivoluzione è vicina.

Ci andava giù pesante, Pierre, tanto più che il vecchio continuava a dimenarsi sul parapetto lanciando dei grugniti da maiale affamato. Era divertente, ed ero deluso che non ci fosse un pubblico per assistere alla scena. Ma questo non ha impedito a Pierre di finire il suo discorso.

- Noi, gli insorti del Regno del Belgio, impicchiamo – anche se per i piedi – uno dei tuoi fedeli lecchini. Se sei così potente, Francia, vieni a liberarlo! E se invece non puoi, trema! Trema e preparati fin da ora a piangere, perché faremo piazza pulita del potere che hai usurpato. Libertà alla lingua!

- Libertà alla lingua!, ho ripreso io.

Mi ero fatto prendere dall’entusiasmo del momento.

Poi, senza né uno né due, abbiamo avvolto il cavo intorno ai piedi del caccademico e l’abbiamo sospinto nel vuoto, a testa in giù. Eravamo fieri di noi.

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Ma abbiamo dovuto ritirarlo su subito, perché ci eravamo dimenticati di spogliarlo. È allora che Pierre ha fermato il nastro del suo registratore. Quell’idiota non mi aveva avvertito, e così mi sono trovato a figurare sul nostro primo “volantino” magnetico.

- È per la radio, ha spiegato Pierre. La TV e i giornali non ci penseranno due volte a mostrare le immagini del nostro impiccato e del Palazzo di Giustizia da ogni angolo. Ma quelli della radio, loro senza di questo non avrebbero nulla di spettacolare da trasmettere.

Abbiamo strappato di dosso i vestiti a Popaul e Pierre ha tirato fuori la cassetta dal registratore per attaccarla alla coscia del vecchio, con un laccio delle sue scarpe. Perché al collo poteva dare fastidio, avrebbe finito per pendergli davanti alla faccia rovinando le foto. Abbiamo stretto entrambi la mano al nostro Paul e l’abbiamo sospeso di nuovo nel vuoto. A tre metri dal parapetto sopra di lui, a quindici metri dal suolo. Ho dato un’occhiata al paesaggio. Bruxelles si estendeva nella notte, un vento leggero saliva dalle Marolles, che profumo di libertà c’era nell’aria…

- Potrei restare delle ore a guardare la citta, così.

- Anch’io, ha risposto Pierre, ma con tutto il baccano che abbiamo fatto, gli sbirri non tarderanno a venire a dare un’occhiata da queste parti. Vieni, ce la battiamo.

Siamo saltati nel furgoncino e ripartiti attraverso la Piccola cintura. Mentre Pierre guidava, io ho avuto una botta di depressione. Non ci restava che da inviare l’ultimo comunicato stampa. Poi sarebbe stato tutto finito. A meno che non decidessimo di tentare un nuovo colpo. Ma in quel caso avremmo dovuto colpire più forte. Il vertice dei paesi francofoni? La sede sociale di Gallimard? La tomba di Francesco I?

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Non valeva la pena di sbattersi troppo. Dopo la trovata pubblicitaria che avevamo appena offerto al nostro movimento, non poteva che scoppiare un casino della madonna. E per tenerci al corrente non avevamo che da restarcene tranquilli a guardare la tele, in mezzo ai nostri libri.

Pierre ha infilato la cassetta nell’autoradio. Erano i Fabulous

Trobadors, con il loro magnifico accento di Tolosa. I nostri pensieri

sembravano sintonizzati, così ho deciso di lasciare a loro l’ultima parola.

“Questa sera ancora, il movimento ha fatto un gran passo avanti. E quando più tardi gli storici celebreranno gli esordi della nostra rivoluzione, anche voi potrete dire, con il cuore pieno di fierezza: io c’ero!”.

Dietro il parabrezza, sotto l’arancio delle luci elettriche, Bruxelles si addormentava tra i mormorii. L’insurrezione era incominciata, ma nessuno se ne era accorto.

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