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Capitolo III

Il reato religiosamente orientato: il porto del kirpān.

Sommario: Introduzione. 3.1. I sikh e il kirpān. 3.2. La giurisprudenza italiana. 3.3. La giurisprudenza canadese: analogie e differenze con la giurisprudenza italiana. 3.4. Le possibili vie di composizione del conflitto.

Introduzione.

Nell’analisi dei reati religiosamente orientati è opportuno focalizzare l’attenzione sul porto del kirpān.

Questo perché, ad oggi, risulta essere l’unico reato propriamente dettato dalla religione, prescindendo da influenze strettamente culturali.

Se, ad esempio, il reato delle mutilazioni genitali assume oggi una connotazione che appare più legata alla cultura, il porto del kirpān muove da ideali prettamente religiosi.

3.1 I sikh e il kirpān.

Il termine sikh deriva dal sanscrito śiṣya, che significa “allievo”, o, letteralmente, “colui che deve essere istruito”.

Dall’inizio del ventesimo secolo si usa la parola “sikhismo” per indicare la religione e l’insieme di dottrine professate dai Sikh1. Essi rappresentano una comunità religiosa e politico-militare dell’India.

1 Cfr. M. Delahoutre, Les Sikhs, Brepols, Paris, 1989, trad. it. a cura di S. Manicardi, I sikh, Interlogos, Città del Vaticano, 1995, p. 13.

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Fu fondata nel Punjab da Nānak (1469-1538) nell’intento di unire indù e musulmani nella fede in un Dio unico e nel rifiuto di ogni distinzione castale.

Dall’originaria forma di setta religiosa, divenne un’organizzazione politica e militare consolidata, ad opera del decimo e ultimo guru, Govind Singh (1675-1708)2.

Una tra le disposizioni più importanti per i fedeli Sikh è quella di portare i cinque K, cinque emblemi il cui nome nella lingua panjābī inizia con la lettera k. “Nella comunità Sikh, coloro che non ostentano questi simboli sono considerati apostati”3.

Il primo K è rappresentato dal keś, che consiste nel non tagliare i capelli (e la barba). La ragione di questa condotta è spesso individuata nella volontà di Akal Purakh di creare l’uomo con i capelli, volontà divina con cui quest’ultimo non deve interferire.

Un altro K è dato da un pettine portato tra i capelli (kaṅghā). Il motivo è essenzialmente pratico: tenere i capelli puliti e in ordine; tuttavia talvolta ad esso viene associato il simbolo della purezza del corpo e della mente.

Il terzo K è invece il kāra, un bracciale in acciaio indossato al polso destro. Per alcuni rappresenta un monito per chi lo indossa, affinché esso si astenga dal comportarsi male; per altri, invece, sarebbe uno scudo per difendersi da possibili attacchi.

Il quarto emblema sono dei calzoni corti (kach), simboleggianti il contenimento sessuale. Sono usati per dissuadere da relazioni extra maritali e rappresentano altresì la purezza morale.

2 Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2008.

3 E. Mazzanti, Porto non autorizzato di kirpan e conformazione ai valori occidentali: un caso di diritto penale “dalla parte del manico”. Osservazioni a Cass. Pen., Sez. I, data udienza ud. 31 marzo 2017, data deposito (dep. 15 maggio 2017), n. 24084, in Cassazione Penale, n. 12/2017, p. 4479.

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L’ultimo K è il kirpān, pugnale che raffigura la difesa di tutto ciò che è giusto. Esso non nasce come arma offensiva, non potendo essere sfoderato se non in difesa di deboli o indifesi4.

La nostra analisi si concentrerà su questo ultimo simbolo, dal momento che ha creato problemi in India ed in Italia5.

Il kirpān, in effetti, costituisce il simbolo della lotta tra il bene e il male, e deve essere sempre indossato dai fedeli, ma, essendo tecnicamente un’arma, può provocare allarmi6.

Nel paese d’origine oggi, a differenza di quello che accadeva anni fa, i Sikh si vedono garantiti a livello costituzionale il diritto a portare, ben in vista sulla propria persona, il kirpān.

L’articolo 25 dell’attuale costituzione indiana, rubricato “Right to

freedom of religion”, recita:

“(1) Subject to public order, morality and health and to the other provisions of this Part, all persons are equally entitled to freedom of conscience and the right freely to profess, practise and propagate religion.

(2) Nothing in this article shall affect the operation of any existing law or prevent the State from making any law-

(a) regulating or restricting any economic, financial, political or other secular activity which may be associated with religious practice; (b) providing for social welfare and reform or the throwing open of Hindu religious institutions of a public character to all classes and sections of Hindus.

Explanation I. The wearing and carrying of kirpans shall be deemed to be included in the profession of the Sikh religion.

Explanation II. In sub-clause (b) of clause (2), the reference to Hindus shall be construed as including a reference to persons professing the

4 Cfr. H. McLeod, Sikhism, Penguins Book, London, 1997, pp. 207-210. 5 Cfr. M. Delahoutre, op. cit., p. 162.

6 C. Cardia, Il simbolo religioso e culturale, in Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale, rivista online, n. 23/2012, p. 20.

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Sikh, Jaina or Buddhist religion, and the reference to Hindu religious institutions shall be construed accordingly”7.

In particolare, la prima delle due explanations di tale articolo sancisce che il porto del kirpān è da considerarsi espressione della professione della religione Sikh, per la quale si prevede un diritto di libertà. In Italia invece il problema sussiste in quanto il kirpān è qualificabile come un’arma bianca, o almeno come oggetto atto ad offendere8, il cui porto risulta vietato rispettivamente dall’articolo 699, secondo comma del codice penale italiano e dall’articolo 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110.

3.2. La giurisprudenza italiana.

In Italia il legislatore, prima del caso del kirpān, non si era mai dovuto confrontare con precetti religiosi che imponessero il porto di armi od oggetti ad esse equiparabili.

Negli ultimi anni varie comunità Sikh si sono insediate anche in Italia e questo ha portato la giurisprudenza italiana a confrontarsi con la problematicità del porto del kirpān.

L’ordinamento giuridico italiano, alla pari degli altri che si sono trovati in precedenza ad affrontare la questione, poteva assumere varie posizioni.

Poteva in primo luogo assumere un atteggiamento tollerante, salvaguardando “a tutti i costi la specificità culturale di un gruppo, anche se questa tutela si scontra con la cultura del Paese di accoglienza”9.

7 Government of India- Ministry of Law and Justice, The Constitution of India (As modified up to the 1st December, 2007), p. 13.

8 Cfr. S. Carmignani Caridi, Ostentazione di simboli religiosi e porto d’armi od oggetti atti ad offendere. Il problema del kirpān dei fedeli Sikh, in Diritto ecclesiastico, luglio-dicembre 2009, pp. 739-740.

9 C. De Maglie, Multiculturalismo (diritto penale), voce in (a cura di) S. Patti, Il Diritto- Enciclopedia giuridica, Il Sole 24 ore, Milano, 2007, IX, p. 737.

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In questo primo modello di risposta si colloca l’istituto della cultural

defense come causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità

penale, che può essere invocata da un soggetto appartenente ad una minoranza etnica con cultura diversa, o persino in contrasto, con quella del sistema che lo ospita10.

Dal lato opposto, l’ordinamento italiano avrebbe potuto mostrare una cecità di fronte alla specifica identità culturale delle minoranze etniche.

Le prime due pronunce italiane in materia si caratterizzano per la comune intenzione di “evitare la criminalizzazione di culture altre” 11. Tuttavia, allo stesso tempo, mostrano alcuni punti deboli nel loro impianto.

Il primo provvedimento dei due in questione è il Decreto del 28 gennaio 2009 del GIP presso il Tribunale di Vicenza.

Il GIP con tale pronuncia dispone l’archiviazione del procedimento penale a carico di un cittadino indiano per la contravvenzione prevista dal suddetto articolo 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110; l’indagato era stato trovato in possesso del kirpān all’interno degli uffici comunali.

Il PM, che avanza la richiesta di archiviazione, fonda la sua istanza sul significato simbolico del kirpān e sull’obbligatorietà religiosa del suo porto.

Contrariamente alle intenzioni della difesa, il PM non vuole affrontare invece il problema del rapporto con l’articolo 51, ossia della sussistenza dell’esercizio di un diritto.

Il PM ha quindi mostrato un atteggiamento di prudenza nella trattazione del tema, eludendo la trattazione del rapporto fra libertà religiosa e sicurezza dei cittadini e preferendo focalizzare la sua

10 Cfr. C. De Maglie, op. cit., pp. 736-737. 11 S. Carmignani Caridi, op. cit., p. 760.

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richiesta sulla qualificazione del kirpān come strumento atto ad offendere e l’obbligatorietà religiosa del suo porto.

In primo luogo, il PM sottolinea che per le sue ridotte dimensioni (lama di 10 cm) il kirpān non può considerarsi come arma bianca, il cui porto pubblico non è consentito dal secondo comma dell’articolo 699 del codice penale.

La sua configurazione invece permette, secondo il PM, di inquadrare il kirpān fra gli strumenti atti ad offendere, così da potere far riferimento alla relativa disciplina.

La legge 110 del 18 aprile 1975, al secondo comma dell’articolo 4, subordina la punibilità del porto in luogo pubblico degli strumenti atti ad offendere all’insussistenza di un giustificato motivo.

Secondo il PM, il giustificato motivo è da rintracciarsi nell’obbedienza ad un precetto religioso.

Tale argomentazione, che nonostante il suo carattere parzialmente elusivo, risulta plausibile, non è ripresa dal GIP.

Il GIP lascia cadere qualsiasi riferimento al giustificato motivo, limitandosi a sostenere che il kirpān in questione non sia da considerarsi né un’arma da taglio per l’assenza di filo, né un’arma da punta (anche se dalla descrizione degli atti risulta dotato di “punta ricurva”12)13.

La seconda tra le pronunce più risalenti è la sentenza del Tribunale di Cremona in composizione monocratica del 19 febbraio 2009.

Il caso concreto riguarda un Sikh fermato dai Carabinieri all’interno di un centro commerciale per il porto del kirpān.

Anche in questo caso la questione viene analizzata ricorrendo al giustificato motivo: il giudice, evitando la questione relativa all’articolo 51, individua il giustificato motivo ancora una volta nella

12 Tribunale Vicenza, Ufficio del giudice per le indagini preliminari, ordinanza di archiviazione, 28/01/2009, n.140.

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norma religiosa che impone al Sikh l’obbligo di portare sempre il

kirpān.

Quello che potrebbe destare perplessità è la volontà del giudice di inserire nella sentenza le diverse conseguenze derivanti dall’eventuale differente qualificazione del kirpān come arma bianca14.

In questo caso, a differenza del caso di Vicenza, neanche la difesa aveva prospettato tale ipotesi.

Tale atteggiamento sembra riflettere una diffidenza verso un’acritica accoglienza di strumenti elaborati da diverse tradizioni giuridiche come la cultural defense.

Tale accoglienza non è priva di rischi di forte impatto sociale.

Di fronte a tale potenziale pregiudizialità la giurisprudenza alla base di tale pronunce sembra porsi in un’ottica di difesa delle contrapposte prerogative costituzionali come la libertà e la salute.

Queste pronunce rappresentano la fase iniziale di approccio alla questione, dalla quale emergono alcuni scivoloni argomentativi15. Nonostante tali imprecisioni, queste pronunce sembrano comunque concedere alla pratica di portare il kirpān la copertura di disposizioni di livello costituzionale.

Il riconoscimento del giustificato motivo nell’adempimento ad un obbligo religioso trova le sue ragioni nell’esigenza di tutela della libertà di fede religiosa, espressa dall’articolo 19 della Costituzione16. “Ma se tali sono le coordinate motivazionali che ebbero a guidare la condotta dell’imputato, si deve allora inevitabilmente riconoscere come esse intercettino un valido supporto normativo, siccome obiettivamente collocabili all’interno della tutela della libertà di fede religiosa.

È questa una protezione giuridica di assoluta rilevanza, una volta che risulta assicurata, in tutte le sue possibili esplicazioni, sia dall’art. 18

14 Tribunale Cremona, Sez. penale, 19/02/2009, n.15. 15 Cfr. S. Carmignani Caridi, op. cit., pp. 762-764. 16 Cfr. I. Ruggiu, op. cit., p. 74.

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della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948, sia dall’art. 9 della legge 4 agosto 1955, n° 848, di ratifica della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, sia dall’art. 19 della nostra Costituzione”17.

Due successive sentenze della prima sezione della Cassazione penale del 2016 si pongono in una diversa prospettiva.

La prima sentenza che si analizza è la sentenza del 16 giugno 2016. L’imputato era accusato del porto del kirpān all’interno di un ufficio pubblico.

La Cassazione rigetta il ricorso del fedele Sikh basato sul mancato riconoscimento del giustificato motivo del possesso del kirpān, individuabile in uno specifico dovere religioso.

Il rigetto della Cassazione si fonda sull’esigenza che le manifestazioni delle pratiche religiose debbano “necessariamente adeguarsi ai valori fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano, coi quali non possono entrare in contrasto (così come riconosciuto dall'art. 8 Cost., comma 2), nel cui ambito assume rango primario la tutela della sicurezza pubblica e dell'incolumità delle persone assicurata dalla disciplina delle armi e degli altri oggetti atti ad offendere, che non può certamente legittimare - in relazione ai parametri di luogo, di persona, di natura e funzione dell'oggetto, che sono stati sopra indicati - la condotta del ricorrente” 18.

Parimenti la precedente pronuncia della Cassazione penale ribadisce che “la libertà di culto o di fede trova pur sempre un limite invalicabile – si veda art. 8 Cost., comma 2, che esclude che gli statuti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica possano contrastare con l’ordinamento giuridico italiano – nella pacifica convivenza e nel rispetto delle norme a tutela della sicurezza pubblica”19.

17 Tribunale Cremona, Sez. penale, 19/02/2009, n.15. 18 Cassazione penale, Sez. I, 16/06/2016, n. 25163. 19 Cassazione penale, Sez. I, 14/06/2016, n. 24739.

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La Cassazione con queste due sentenze interviene per la prima volta sulla questione della liceità del porto in pubblico del kirpān, “censurando l’indirizzo liberal” che si era affermato nelle precedenti decisioni della giurisprudenza di merito.

In tali pronunce si evidenzia la necessità di un’interpretazione “contestualizzata”20: il giustificato motivo non può essere dedotto genericamente e in astratto.

In particolare, il porto del kirpān è da ritenersi giustificato quando è determinato da “particolari esigenze dell’agente che siano perfettamente corrispondenti a regole comportamentali lecite relazionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento, alla normale funzione dell’oggetto”21.

Con tale lettura la Cassazione parrebbe affermare che la destinazione simbolica che solo eccezionalmente viene conferita al kirpān non ne giustifica un utilizzo in pubblico.

Tale simbolismo non è sufficiente a differenziare il kirpān da un’arma a tutti gli effetti, il cui porto è vietato dall’ordinamento italiano22. In queste sentenze inoltre la Cassazione individua nella “pacifica convivenza e nel rispetto delle norme a tutela della sicurezza pubblica” un limite invalicabile per la libertà di culto o di fede.

Non è ipotizzabile l’esistenza di un diritto di professare liberamente la propria fede religiosa totalmente incondizionato.

L’insieme dei valori costituzionali, primo fra tutti quello della tutela della sicurezza pubblica, rappresenta un limite esterno alla libertà di culto o di fede.

20 A. Licastro, Il motivo religioso non giustifica il porto fuori dall’abitazione del kirpān da parte del fedele sikh (considerazioni in margine alle sentenze n. 24739 e n. 25163 del 2016 della Cassazione penale), in Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale, rivista online, 2017, pp. 1-3.

21 Cassazione penale, Sez. I, 14/02/2013, n. 7331. 22 Cfr. A. Licastro, op. cit., p. 11.

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La necessaria salvaguardia della totalità dei suddetti valori costituzionali impone il rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità nel modulare la tutela della libertà di culto.

“Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto – nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra – sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza” 23.

È necessario tutelare entrambi gli interessi in contrasto, evitando il totale sacrificio di uno dei due.

La salvaguardia della tavola dei beni e valori costituzionali non dovrebbe determinare una totale compressione della libertà di fede ma una “rimodulazione in funzione della tutela del bene o dell’interesse concorrente”.

Si dovrebbero ricercare “concrete forme di integrazione” fra le esigenze di pubblica sicurezza e la libertà di porto del kirpān: creare una sintesi dei valori in gioco24.

A queste due sentenze ne è seguita un’ultima: la sentenza 24084 della Cassazione del 15 maggio del 2017.

Alla base di tale pronuncia si colloca il ricorso da parte dell’imputato Sikh, condannato dal Tribunale di Mantova per il porto del kirpān in strada, come accertato dal controllo della polizia.

La Cassazione rigetta tale ricorso basando le proprie considerazioni in diritto sostanzialmente sulla suddetta sentenza numero 63 della Corte Costituzionale.

Nel testo della sentenza si legge: “La libertà religiosa, garantita dall'articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell'“ordine

23 Corte Costituzionale, 24/03/2016, n. 63. 24 A. Licastro, op.cit., pp. 17-21.

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pubblico”; e la stessa Corte Costituzionale ha affermato la necessità di contemperare i diritti di libertà con le citate esigenze”.

Nella sentenza si evidenzia anche la necessità dell’individuazione di un nucleo comune nel quale sia gli immigrati che il paese di accoglienza si possano riconoscere.

Al fine di garantire una convivenza tra soggetti di etnia diversa si sottolinea che “se l'integrazione non impone l'abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell'art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”.

In tal senso nasce in capo all’immigrato l’obbligo di conformarsi ai “valori occidentali”, e di “verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina”25.

La Cassazione ritiene di non porre alcun ostacolo in tal modo alla libertà di religione, essendo essa per sua natura sottoposta all’osservanza di limiti esterni individuabili negli altri valori costituzionali.

Oltre alla suddetta pronuncia della Corte Costituzionale, la Cassazione fonda la propria sentenza anche su fonti sovranazionali.

Nel testo si menziona infatti il comma secondo dell’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Esso stabilisce che “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell'ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”.

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A tal proposito si sottolinea come anche la giurisprudenza europea26 ha sancito la possibilità di limitare la libertà di manifestazione della propria fede qualora questa ostacoli il perseguimento della tutela dei diritti e libertà altrui, la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico. Nonostante le argomentazioni si basino su vari livelli di fonti, non può non notarsi che tale pronuncia presenta alcune criticità.

In primo luogo la Cassazione si limita ad accennare il tema del giustificato motivo, spostando il focus immediatamente sul rapporto fra libertà religiosa e sicurezza pubblica.

Al contrario delle pronunce precedenti della giurisprudenza di merito, la Cassazione non esaurisce l’analisi di tale clausola, limitandosi a ricordare che il reato contestato è escluso al ricorrere di un giustificato motivo.

Anche in riferimento all’analisi del rapporto fra libertà di fede ed esigenze di sicurezza pubblica si possono sviluppare alcune perplessità.

Tali dubbi sorgono in ragione del metodo seguito dalla Cassazione, che sembra fondarsi sull’automaticità.

Nell’asserire la prevalenza del bisogno di tutela della sicurezza pubblica, non si tiene conto di elementi di segno opposto: la sintonia della condotta dell’agente con le regole del gruppo religioso di appartenenza, il suo effettivo grado di integrazione nel tessuto sociale di accoglienza ed il basso livello di carica offensiva del reato in questione27.

La libertà di professione di fede costituisce un diritto fondamentale della persona e in quanto tale necessita di un tentativo di bilanciamento con gli altri interessi in gioco.

26 European Court of Human Rights, 10/11/2005, n. 44774/98. 27 Cfr. E. Mazzanti, op. cit., p. 4481.

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Il rango costituzionale della tutela della sicurezza pubblica non dovrebbe determinare un’aprioristica prevalenza su qualsiasi interesse contrapposto.

Infine si deve porre l’attenzione sul riferimento ai “valori occidentali”. Innanzitutto la vaghezza di tale categoria non sembra idonea a fungere da parametro di riferimento per valutare una corretta integrazione o meno.

Inoltre la Cassazione sembra introdurre una categoria più morale che giuridica, non facendo riferimento ai principi dell’ordinamento, bensì ai “valori”. Non è possibile immaginare l’attribuzione di una responsabilità penale sulla base di valori morali28.

Complessivamente si può ritenere che questa sentenza presenti lacune sul profilo del giustificato motivo e non sviluppi correttamente l’iter logico che prende le mosse dal rapporto fra la libertà di professione del credo e l’esigenza di tutela della pubblica sicurezza.

3.3. La giurisprudenza canadese: analogie e differenze con la giurisprudenza italiana.

La questione del porto del kirpān è stata affrontata dalla Suprema Corte canadese nel 2006.

Nel caso di specie si discuteva della possibilità di portare a scuola il

kirpān.

Il caso prende avvio quando un giovane sikh ortodosso, Gurbaj Singh Multani, allora dodicenne, lascia accidentalmente cadere nel cortile della scuola il suo kirpān.

In seguito a tale avvenimento, nel novembre 2001 la Commissione scolastica ‘Marguerite-Bourgeoys’ (della provincia canadese del Quebéc) vieta al giovane studente di portare a scuola il proprio kirpān.

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Inizialmente la scuola invia una lettera alla famiglia dello studente in cui invita, al fine di evitare il ripetersi di episodi simili, a far portare il coltello all’interno di una custodia saldamente cucita al di sotto i vestiti.

Nonostante l’accettazione da parte dei genitori di tale proposta, il Consiglio d’istituto della stessa Commissione scolastica cambia il proprio orientamento.

La scuola comunica ai genitori che portare il kirpān a scuola contravviene ai codici di condotta della scuola in quanto arma e pertanto oggetto pericoloso per la sicurezza all’interno dell’ambiente. Si propone allora di portare un kirpān simbolico, realizzato in materiale inoffensivo, come legno o plastica.

Il padre del giovane, in qualità di tutore del figlio minore contesta la decisione della scuola e presenta ricorso alla Corte Superiore del Quebéc.

A questa corte chiede di convalidare la prima misura proposta e già accettata e di annullare la seconda.

Nel maggio del 2002 la Corte Superiore accoglie tale richiesta. Afferma il diritto di portare il kirpān a scuola a determinate condizioni: l’obbligo di tenere l’oggetto all’interno di una custodia in legno cucita negli indumenti, il divieto assoluto di estrarlo, la possibilità per il personale scolastico di sorvegliare il rispetto di tali condizioni, pena la perdita di tale diritto29.

La scuola presenta ricorso alla Corte d’Appello del Quebéc. Questa corte ribalta la sentenza di primo grado.

Alla base di tale decisione sono i rischi associati al fatto che il kirpān fosse sostanzialmente un pugnale.

Tali rischi rendono ragionevole la decisione della Commissione scolastica di vietare la possibilità di indossare il kirpān30.

29 Cour supérieure du Québec, 17/05/2002, n. 500-05-071462-020. 30 Cour d’appel du Québec, 04/03/2004, n. 1904.

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Nell’aprile 2005 la famiglia Multani presenta ricorso alla Corte Suprema del Quebéc, chiedendo di annullare la decisione della Corte d’Appello.

Nel frattempo comunque il figlio prosegue gli studi in un istituto privato dove gli viene consentito di portare il kirpān come espressione della propria libertà religiosa.

La Corte Suprema è stata chiamata a rispondere a due questioni: in primo luogo, se il divieto assoluto di portare il kirpān in una scuola pubblica leda il principio della libertà di religione, garantito dall’articolo 2, lettera a, della Costituzione canadese. In secondo luogo, in caso di risposta positiva, se il divieto imposto allo studente dalla scuola fosse giustificabile in ragione di esigenze di sicurezza. La sentenza della Corte Suprema viene pronunciata il 2 marzo del 2006.

La Corte accoglie il ricorso affermando che “La prohibition totale de porter le kirpān à l’école dévalorise ce symbole religieux et envoie aux élèves le message que certaines pratiques religieuses ne méritent pas la même protection que d’autres. Prendre une mesure d’accommodement en faveur de G et lui permettre de porter son kirpān sous réserve de certaines conditions démontre l’importance que notre société accorde à la protection de la liberté de religion et au respect des minorités qui la composent. Les effets préjudiciables de l’interdiction totale surpassent donc ses effets bénéfiques”31.

La Corte ritiene che la decisione di proibire il kirpān persegua un obiettivo urgente e reale: assicurare uno standard di sicurezza nella scuola.

Tuttavia per poter limitare un diritto protetto dalla Costituzione occorre che la minaccia sia presente e reale.

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Tale limitazione non si dovrebbe fondare su una mera avversione o preoccupazione e i mezzi scelti per realizzarla dovrebbero essere proporzionati all’obiettivo perseguito32.

Inoltre la proibizione del porto del kirpān, oltre a sminuire il suo valore simbolico, trasmetterebbe il messaggio che alcune pratiche religiose sono meno degne di tutela di altre.

Al contrario la Corte sottolinea che nella società canadese assume rilievo la tutela della libertà di religione e il rispetto delle varie minoranze.

La Corte ritiene di poter individuare nel kirpān un'espressione del multiculturalismo, valore che le scuole devono far conoscere ai propri alunni.

La Corte argomenta anche che “De plus, les écoles contiennent une foule d’objets susceptibles de servir à commettre des actes de violence et beaucoup plus faciles d’accès aux élèves, par exemple des ciseaux, des crayons, des bâtons de baseball”33.

La presenza nelle scuole di numerosi oggetti comuni potenzialmente offensivi rende impossibile un’applicazione assoluta delle norme di sicurezza.

Diversamente si dovrebbero predisporre dei metal detector all’entrata della scuola.

Questo, tuttavia, comprometterebbe “l’objectif qui consiste à fournir le droit universel à un système scolaire public”.

L’esigenza di portare il kirpān inoltre potrebbe ben essere paragonata all’abitudine di uno scolaro di indossare un crocifisso di metallo. Anche quel crocifisso potrebbe essere utilizzato come arma.

“Ai fini della sicurezza, la sua pericolosità è funzionalmente equivalente a quella di un’arma”.

32 F. Astengo, La Corte Suprema del Canada afferma il diritto di portare a scuola il coltello dei sikh, in Associazione Italiana dei Costituzionalisti- cronache, aprile 2006, p. 4.

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La concezione del crocifisso come simbolo religioso e non come arma dipende solo da una questione culturale.

“Il carattere molare, letterale, delle definizioni, in opposizione a quello fraseologico, è solo un prodotto di saperi e prassi culturalmente accreditati” 34.

A questa riflessione si deve aggiungere che l’argomento proposto dalla scuola a sostegno del divieto del porto del kirpān non è sufficiente a decretarne l’assoluta proibizione.

Il rischio che l’alunno usi il kirpān per scopi violenti o che esso gli sia sottratto da parte di un altro alunno è infatti molto basso.

Tale pericolo è ancora minore se il kirpān è portato alle condizioni inizialmente poste dalla scuola, che la famiglia si era dimostrata da subito propensa ad accettare.

Ritiene infine che l’obbligo di sostituire il proprio kirpān con uno composto di materiale innocuo, come il legno o la plastica, sia effettivamente vissuto dallo studente come non corrispondente ai doveri prescritti dalla sua religione.

A tal proposito sostiene che “L’entrave à la liberté de religion de G est plus que négligeable ou insignifiante, puisqu’elle prive celui‑ci de son droit de fréquenter l’école publique”.

L’imposizione di un kirpān non pienamente rispettoso dei doveri religiosi propri dei Sikh priverebbe lo studente del suo diritto di usufruire dell’istruzione pubblica.

La Corte pone dunque l’accento sulla centralità dell’elemento soggettivo del problema, e cioè la percezione che il fedele ha del proprio simbolo religioso35.

34 M. Ricca, Il tradimento delle immagini tra kirpan e transazioni interculturali. Cultura vs competenza culturale nel mondo del diritto, in E/C, Rivista online dell’Associazione italiana degli studi semiotici, n. 2/2005, p. 10.

35 Cfr. S. Mancini, Il potere dei simboli, i simboli del potere. Laicità e religione alla prova del pluralismo, Cedam, Padova, 2008, pp. 231 e ss.

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“Bien que le kirpān présente incontestablement les caractéristiques d’une arme blanche, capable de blesser ou de tuer une personne, cette prétention ignore d’emblée le fait que, pour les Sikhs orthodoxes, le

kirpān est avant tout un symbole religieux” 36.

Nonostante le caratteristiche fisiche del kirpān, per un Sikh è in primo luogo un simbolo religioso.

Tali considerazioni tendono a spostare l'attenzione dal dato di fatto del porto del kirpān a quello soggettivo, “con il quale si stempera, fino a scomparire, l'elemento della pericolosità”37.

In base a tale lettura, si può asserire che ciascun individuo ha il diritto di vivere secondo il suo personale senso di essere uomo, la sua “misura”, se non è fedele alla quale perde la ragione d’essere della propria vita stessa38.

In conclusione si può osservare che la soluzione raggiunta nel caso Multani ha richiesto il “previo bilanciamento di valori costituzionali, costruito sulla base di riflessioni di ordine politico e sociale, nonché il convinto richiamo ai princìpi del multiculturalismo, della tolleranza e della ragionevolezza”39.

A questo punto risulta interessante osservare come in Canada venga data una lettura completamente diversa sulla questione del kirpān rispetto all’Italia.

Si deve innanzitutto però evidenziare come le due pronunce abbiano ambiti applicativi diversi.

36 Cour Suprême du Canada, 02/03/2016, n. 30322.

37 G. Bassetti, Interculturalità, libertà religiosa, abbigliamento. La questione del burqa, in Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale, rivista online, n. 25/2012, p. 7. 38 Cfr. C. Taylor, Multiculturalism and “The Politics of Recognition, Princeton University Press, Princeton, 1992, trad. it. a cura di G. Rigamonti, Multiculturalismo: la politica del riconoscimento, Anabasi, Milano, 1993, pp. 47-48.

39 N. Olivetti Rason, La giurisprudenza della Corte Suprema del Canada nel biennio 2004-2005, in Giurisprudenza costituzionale, n. 5/2006, p. 3643.

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La Cassazione riflette sulla liceità del porto del kirpān in pubblico, mentre la Corte canadese esamina il tema solo con riferimento all’ambiente pubblico della scuola.

“Va osservato che i suoi effetti coprono un campo relativamente ristretto, limitato, cioè, al solo contesto scolastico: la Corte precisa infatti che la decisione non ha per effetto di permettere di portare il

kirpān in altri ambienti”40.

Quanto alle massime, si deve notare come nell’operazione di bilanciamento tra gli interessi in gioco la Corte di Cassazione “sminuisce il motivo religioso, per favorire, invece, la tutela della sicurezza pubblica e il principio della pacifica convivenza, come principio di ordine pubblico e limite invalicabile per l’esercizio della libertà di culto nel nostro ordinamento”41.

Se in Canada assume un ruolo centrale la percezione del simbolo religioso da parte del fedele Sikh, in Italia questa soccombe alla tutela della sicurezza pubblica.

Da questo raffronto emerge anche un diverso approccio al fenomeno della multiculturalità.

“L'ordinamento canadese si caratterizza per la fierezza con la quale accetta la diversità culturale ed etnica nel rispetto del principio di uguaglianza; … i giudici (tedeschi e) italiani hanno invece preferito percorrere una via più prudente non prendendo una posizione netta, ma rimettendo ai Parlamenti, quali rappresentanti del popolo, ogni determinazione in merito”42.

Nonostante questa divergenza di posizioni, la pronuncia più recente della Cassazione penale italiana e la sentenza della Corte Suprema canadese presentano un punto di contatto.

40 F. Astengo, op. cit., p.4.

41 C. M. Pettinato, La libertà dell’educazione religiosa davanti ai giudici canadesi (prendendo spunto dalla sentenza Loyola High School vs. Québec), in Stato, Chiese e Pluralismo Confessionale, rivista online, n. 22/2017, p. 31, nota 110.

42 G. Passaniti, La Corte suprema canadese ed i simboli religiosi: una scelta multiculturale. Nota a Corte suprema 2 marzo 2006 (Canada), in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 2/2006, pp. 737-741.

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Entrambe infatti non affrontano la questione del giustificato motivo. La sentenza canadese, al pari della pronuncia della Cassazione del 2017, incentra la problematica del porto del kirpān sul rapporto fra libertà di professione di fede e l’esigenza di pubblica sicurezza. Non si ragiona circa la presenza del giustificato motivo e della sua rilevanza circa l’esistenza del reato in questione.

Si preferisce invece riflettere su un possibile bilanciamento fra gli interessi religiosi e l’interesse ad un determinato standard di sicurezza pubblica.

Sia che si ritenga soccombere la libertà di professare la propria fede, sia che si consideri prevalente l’esigenza di sicurezza, non si analizza la sussistenza o meno della scriminante religiosa.

3.4. Le possibili vie di composizione del conflitto.

Tendenzialmente quando si ha a che fare con una situazione conflittuale si prende come punto di riferimento il diritto, insieme di regole in grado di comporre tale scontro.

Individuare un parametro di riferimento comune non risulta solitamente problematico quando le parti in causa condividono lo stesso ordinamento.

La situazione invece si complica quando le due parti in conflitto fanno capo a due sistemi giuridici diversi; a maggior ragione se una delle parti pretende il riconoscimento di comportamenti leciti nella cultura di origine ma vietati nel Paese di accoglienza.

In questo caso il diritto può offrire soluzioni diametralmente opposte: escludere tale pretesa, oppure accoglierla.

Entrambi gli esiti, sebbene potenzialmente corretti a livello giuridico, non entrerebbero nel merito del conflitto: il diritto svolgerebbe una funzione meramente istituzionale.

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Questo fenomeno è dovuto essenzialmente alla lontananza dell’apparato normativo dalla vita sociale; le leggi si limitano a rappresentare il potere da cui derivano, lasciando ai giudici l’onere di interpretarle per rispondere alle domande che emergono dalla società multiculturale contemporanea.

Ogni gruppo sociale regola la propria esistenza su norme a sostegno delle relazioni fra i vari membri.

L’ordinamento giuridico però deve proporre regole capaci di rispondere ad una pluralità di istanze; tuttavia queste regole spesso si adattano male alle esigenze dei vari gruppi sociali.

La legge, dovendo essere uguale per tutti, spesso non è in grado di tutelare le diversità.

Il giurista attraverso il mezzo del diritto non riesce a risolvere i conflitti culturali che su tali diversità si fondano.

Se pensiamo al conflitto come ad un iceberg, potremmo affermare che egli riesce a vederne solo la punta: le regole astratte e generali di cui dispone non sono sufficienti per osservarne la parte sommersa43. E il conflitto resta.

Le varie identità culturali nel tempo mutano e si rinnovano.

Esse sono il frutto di incontri e scontri che ridefiniscono continuamente l’essenza dei popoli.

Per questo motivo la staticità della legge (e di quella penale in primis) non è in grado di regolare situazioni dinamiche come la vita delle identità culturali.

Si dovrebbe piuttosto gestire le esigenze di convivenza di tali diverse identità culturali gestendo i conflitti senza ricorrere alla legge.

Si dovrebbe preferire in questi casi un atteggiamento di comprensione di ciascuna delle parti in causa: perseguire una gestione del conflitto, piuttosto che una sua soluzione.

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Il conflitto, in quanto elemento fisiologico della vita, appartiene alla naturalità delle cose; in quanto tale, l’esito di esso non deve essere necessariamente l’individuazione di una ragione e di un torto.

Non necessariamente si deve combattere contro una posizione diversa da quella in cui affondano le proprie radici; appare più proficuo invece mettere in relazione le posizioni contrastanti, aprendo la strada alla comunicazione reciproca.

“Uscire dalla logica del torto e della ragione per accedere alla logica della comunicazione”44.

Si sarà così in grado di scoprire la parte sommersa dell’iceberg. Con particolare riferimento ai conflitti religiosi quali il porto del

kirpān, questi non potranno mai essere eliminati.

Si potrà però mettere in comunicazione le convinzioni proprie del fedele Sikh con i principi espressi dall’ordinamento italiano.

In questo modo l’originario conflitto potrà trasformarsi in un’occasione di dialogo, in cui entrambi cercheranno di comprendere le ragioni altrui.

Si dovrebbe in conclusione avviare un processo di decentramento rispetto ai propri stereotipi, per agevolare l’incontro delle differenze verso un comune orizzonte45.

Per cercare una via di gestione del conflitto circa il porto del kirpān ho preso come riferimento il “modello equivalenza”, elaborato dall’antropologa belga Pat Patfoort.

La situazione di partenza di ogni conflitto è costituita dalla presenza di due diverse posizioni.

Seguendo l’impostazione giuridica di soluzione dei conflitti, si procederebbe sulla base del “modello Maggiore-minore”.

Secondo questo modello ognuno cercherebbe di presentare il proprio punto di vista come il migliore.

44 A. Cozzo, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, Mimesis, Milano, 2004, p. 78.

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Questo lo si può realizzare proponendo solo argomenti negativi e distruttivi contro il punto di vista contrapposto, e, allo stesso tempo, esaltando gli aspetti positivi della propria posizione.

L’istinto di autoprotezione spinge l’essere umano a confinare il soggetto a lui contrapposto nella posizione minore, così da uscirne a sua volta.

Tuttavia questo è solo una delle possibili vie per tutelare e proteggere se stessi.

Una via meno violenta si basa sul “modello equivalenza”.

Esso si basa sui fondamenti, ossia sulle ragioni su cui entrambe le parti in causa sviluppano i propri punti di vista.

Si riesce così a comprendere e rispettare la posizione altrui, senza affondarla, e, al contempo, capire anche il conflitto stesso46.

Si deve tentare di applicare il “metodo equivalenza” alla problematica del porto del kirpān.

Ho deciso di calarmi nei panni dell’altra parte in gioco, ossia quelli di un fedele Sikh.

A questo scopo ho contattato la Sikhi Sewa Society.

Questa è un’organizzazione non lucrativa nata e registrata nel 2011 a Novellara (Reggio Emilia) “con l’intento e la volontà di costruire un ponte tra i valori della cultura Sikh, di quella italiana e di tutte le altre presenti in Europa”47.

Ho cercato di cogliere dallo scambio di email con Jaspreet Singh (il referente a cui è stata assegnata la mia conversazione) due aspetti. In primo luogo che cosa rappresenti per i fedeli Sikh il kirpān; successivamente eventuali loro proposte per trovare un punto di incontro tra la prescrizione religiosa che ne impone il porto e l’ordinamento italiano.

46 Cfr. P. Patfoort, Il modello equivalenza, in P. Consorti, Conflitti cit., pp. 111-118. 47 http://www.sikhisewasociety.org/chi-siamo.html.

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Quanto al primo aspetto, Jaspreet mi ha sottolineato da subito come per capire l’importanza che il kirpān riveste per loro bisogna guardare indietro nel tempo.

Il kirpān nasce per difendere se stessi, i deboli e i bisognosi dai tiranni. Per lungo tempo i tiranni Moghul regnarono sull’India, tentando in più occasioni di imporre conversioni forzate a quella che doveva essere l’unica religione dell’India, l’Islam.

Il nono Maestro Sikh (così come il quinto) decise di contrastare questa imposizione togliendosi la vita per proteggere gli Indù e i Sikh, che altrimenti si sarebbero dovuti necessariamente convertire insieme al loro Guru.

Il decimo Guru, per porre fine a tali atrocità, decise di dare agli stessi Sikh la forza di combattere e di difendersi.

Il giorno dei Vaisakhi del 1699 battezzò l’intera comunità Sikh, ordinando loro di portare con sé degli emblemi, le cinque K48.

Il kirpān da allora serve al fedele Sikh per essere sempre pronto a fronteggiare il male e la tirannia.

Questo veloce excursus storico serve a capire a fondo come il kirpān per i fedeli Sikh non sia assolutamente un’arma, bensì un oggetto sacro e un simbolo.

Il valore di tale simbolo risulta ancora più chiaro se si pensa, come mi ha spiegato Jaspreet, che il kirpān può essere indossato dai Sikh battezzati.

Tale sacramento non avviene alla nascita, è invece frutto di una decisione consapevole del battezzando.

Tale scelta inoltre non è priva di conseguenze: una volta battezzati si devono seguire una serie di rigide regole, che richiedono una vera volontà; tra queste, a titolo di esempio, si può citare il divieto di mangiare carne, quello di bere alcolici o fumare e infine quello di tagliarsi barba e capelli.

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Jaspreet ritiene che in virtù di tali prescrizioni un Sikh che porta il

kirpān dovrebbe avere la saggezza e la mentalità per farlo senza usarlo

impropriamente.

Con riferimento alla seconda questione ha affermato più volte la volontà della comunità Sikh di trovare un compromesso con l’ordinamento italiano.

Il raggiungimento di questo obiettivo potrebbe aprire la strada ad un riconoscimento giuridico della religione Sikh e permetterebbe ai Sikh battezzati di portare liberamente il simbolo della loro religione. A questo punto ci siamo confrontati sulle possibili forme di compromesso.

In primo luogo si potrebbe smussare la punta del kirpān.

Tuttavia Jaspreet mi ha informato che questa via è già stata perseguita ma non ha superato i test del Banco Nazionale di prova delle armi: il

kirpān, nonostante la punta smussata, è risultato comunque in grado di

perforare la pelle umana se lanciato da una determinata altezza. Un’altra opzione potrebbe essere quella di saldare il kirpān all’interno di un fodero.

Questa proposta è stata tuttavia scartata a priori dalla stessa comunità Sikh per una questione di praticità.

Nei Gurdwara (tempio Sikh) i sacerdoti, terminata la preghiera di ardaas, utilizzano il kirpān per tagliare quello che è una sorta di budino sacro per poi poterlo distribuire ai fedeli 49. Una saldatura del kirpān in un fodero renderebbe impossibile tale funzione.

Una terza ipotesi potrebbe essere quella di cambiare il materiale del

kirpān, sostituendo il legno o la plastica al ferro.

Questa soluzione peraltro è stata già seguita da un ex poliziotto di Cremona, Roberto Rossi.

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Egli, racconta in un’intervista al Corriere della Sera50 quanto segue: “Ricordo che un giorno abbiamo ricevuto una chiamata dall’ospedale di Cremona. Era un medico preoccupato che avvisava della presenza in corsia di una famiglia di indiani, tutti con il pugnale alla vita. Arrivato sul posto con il mio collega, mi sono reso conto che non era uno strumento d’attacco ma un segno di fede”.

Questa invenzione ha superato i test previsti dal Banco Nazionale di prova delle armi ed ha ottenuto inoltre l’approvazione di parte della comunità Sikh.

Questa si è recata in India all’Akal Takhat Sahib (Amritsar), sede di autorità dei Sikh di tutto il mondo, per presentare il prototipo.

Tuttavia tale prototipo non è stato accolto.

Alla base di questo rifiuto, mi spiega ancora una volta Jaspreet, potrebbe esserci nuovamente una motivazione pratica.

Ad oggi in tutto il mondo il kirpān è di ferro: si faticherebbe molto, a suo avviso, per poter completare la distribuzione di un nuovo kirpān in materiale alternativo a tutti i fedeli Sikh già battezzati.

Si potrebbe allora perseguire un’altra via: cambiare la lunghezza del

kirpān in modo da ridurne l’offensività.

Nei confronti di questa opzione i Sikh si mostrano ad oggi favorevoli. Jaspreet mi chiarisce che anche tale soluzione altererebbe comunque la simbolicità del kirpān.

Tuttavia i Sikh si mostrano comprensivi delle ragioni dell’ordinamento italiano. In questa ottica ritengono che diminuire la misura potrebbe rappresentare un buon compromesso.

Resterebbe da verificare se con tale modifica la sua offensività si ridurrebbe a tal punto da superare i test del Banco Nazionale di prova delle armi.

50 Corriere della Sera, Milano, 07/06/2017- 17.42 (articolo online al link: http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_giugno_07/kirpan-legale-coltello- indiano-sikh-sentenza-cassazione-permesso-inoffensivo-e27b9006-4b95-11e7-bcad-6e8de384d9e7.shtml).

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Si deve sottolineare, in conclusione, come l’approccio dell'organizzazione Sikh italiana si conformi pienamente al “modello equivalenza”.

Essi non propongono le proprie ragioni come le migliori in assoluto, comprendendo anzi l’esigenza di sicurezza pubblica di cui si fa portatore l'ordinamento italiano.

Se anche l’altra parte in causa, lo Stato italiano, riuscirà ad allinearsi a tale metodologia, probabilmente con il tempo si potrà riuscire a mediare tale conflitto e a giungere ad un esito comunemente condiviso.

In tal senso si deve segnalare un’ipotesi di accordo, elaborata congiuntamente dai rappresentanti dei Sikh e dal Consiglio scientifico incaricato di attuare la Carta dei valori della cittadinanza e dell’immigrazione.

Il compromesso elaborato prevedeva appunto una riduzione delle dimensioni del pugnale, in modo da attenuarne il carattere di arma. Tuttavia si rifletteva anche di arrotondare la punta, ridurre al minimo l’impugnatura, fino a divenire quasi simbolica.

Infine, si prevedeva una chiusura ermetica del pugnale, con una chiavetta in possesso dell’interessato.

Queste ultime caratteristiche, per i motivi già esaminati, non hanno permesso la formalizzazione di tale accordo.

Tale tentativo, tuttavia, “ha una valenza che va al di là dello specifico problema, e sta a significare che anche un'usanza per sé incompatibile con specifiche norme può essere rivista e adattata in modo tale da eliminarne l'incompatibilità e poterla annoverare nell'ambito delle differenze possibili”.

Questo sforzo è emblematico della forza del “metodo equivalenza”. La volontà di mediare questo conflitto può portare ad equilibri apprezzabili sia per le esigenze della confessione che per quelle della sicurezza dei cittadini.

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La ricerca di un incontro, piuttosto che di uno scontro, potrebbe portare all’individuazione di un compromesso “tra le esigenze di sicurezza e le libertà individuali da una parte, e dall'altra tra pluralismo culturale e difesa delle identità”51.

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