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Paese che vai, tutto il mondo è paese

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33-34 | 2012

Coloniale e Postcoloniale nella letteratura italiana degli anni 2000

Paese che vai, tutto il mondo è paese

Giulio Angioni

Edizione digitale

URL: https://journals.openedition.org/narrativa/1353 DOI: 10.4000/narrativa.1353

ISSN: 2804-1224 Editore

Presses universitaires de Paris Nanterre Edizione cartacea

Data di pubblicazione: 1 janvier 2012 Paginazione: 145-154

ISBN: 978-2-84016-128-8 ISSN: 1166-3243

Notizia bibliografica digitale

Giulio Angioni, «Paese che vai, tutto il mondo è paese», Narrativa [Online], 33-34 | 2012, online dal 01 mai 2022, consultato il 12 juin 2022. URL: http://journals.openedition.org/narrativa/1353 ; DOI: https://

doi.org/10.4000/narrativa.1353

Narrativa est mise à disposition selon les termes de la Licence Creative Commons Attribution 4.0 International.

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er quanto sappiamo del processo ininterrotto di ominazione, che dura da diversi milioni di anni, tutti i modi di vita ci appaiono risultato non solo di un’evoluzione bio-culturale più o meno rapida, ma anche di una commistione per contatti culturali di vario genere, dall’incontro arricchente allo scontro cruento. Il mescolamento e il sincretismo sono “regola” di sterminati millenni di modi umani di vita, delle cui eccezioni qualcuno va etnografica- mente ancora in cerca senza fortuna, come accadeva tra Settecento e Ottocento per i “fanciulli selvaggi” alla maniera di Tarzan. Ci sono oggi come nel passato luoghi dove la mescolanza di genti e di culture è particolarmente evidente, caratterizzante, come le Americhe dalla scoperta in poi, in particolare le Antille o Caraibi o Indie Occidentali; o come anche le Indie Orientali, che non sono da meno, per esempio nella loro creazione millenaria di una società, plurale anche per origini e invasioni e mescolanze, in una società di caste. Ma oggi la varietà culturale del mondo si riproduce in ogni sua parte, forse soprattutto in Occi- dente, meta di migrazioni planetarie, dove chiunque può constatare che, come scrive oggi qualcuno su Facebook, se il tuo Cristo è ebreo la tua democrazia è greca, se la tua scrittura è latina i tuoi numeri sono arabi. Se mai ci sono, i frutti puri impazziscono.

Non sempre l’antropologia ha saputo distinguersi dalle logiche classificatorie dominanti nel pensiero occidentale che hanno costruito e costruiscono confini culturali, fino a quasi naturalizzarli, attraverso approcci riduzionisti o deconte- stualizzanti. Lo stesso concetto di cultura non di rado è stato oggetto di pro- cessi di reificazione, da parte degli antropologi stessi, per poi sfuggire loro di mano e diventare strumento di distinzione o di affermazione nell’interazione fra le forze in campo. La “ragione etnologica” – come definisce Jean-Loup

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Amselle in Logiche meticce1 la prospettiva discontinuista che estrae, isola, sele- ziona e classifica individuando tipi, società, culture, etnie – ha contribuito, in particolare durante il colonialismo (ma non solo), a generare nuove forme di identità. Le monografie etnografiche che estraevano il gruppo umano oggetto di studio dal suo contesto di relazioni spazio-temporali per descrivere i suoi modi di vivere, la sua struttura socio-economica e le pratiche di culto, traccia- vano di fatto confini culturali trascurando i continua socioculturali. A questa ragione etnologica Amselle oppone una “logica meticcia”, cioè un approccio continuista che accentua l’indistinzione o il sincretismo originario o in fondo ciò che Jean-Loup Amselle più di recente chiama connessioni, cioè “l’universa- lità delle culture”.

La decostruzione dei concetti di etnia, cultura e identità, o meglio lo svela- mento dei processi di costruzione, oggettivazione ed essenzializzazione di tali concetti, è premessa obbligata a un approccio antropologico adeguato, oltre che per promuovere una riflessione critica sulla corrente del culturalismo, di cui è figlia la nozione di società multiculturale. Il rischio è che si affermi e si avvalori una sorta di razzismo culturale altrettanto esclusivista e pericoloso quanto il razzismo biologico. Quanto sta avvenendo attualmente in Francia, con la poli- tica di Sarkozy di espulsione in massa degli zingari, comprensiva della raccolta delle impronte digitali degli espulsi, per non parlare di similari pratiche più o meno istituzionali in Italia, fa condividere la riflessione di Amselle:

Isolare una comunità sulla base di un certo numero di “differenze”, conduce al suo possibile confinamento territoriale se non all’espulsione. L’attribuzione di differenze o l’etichettamento etnico – profezie autorealizzatrici – non tra- ducono solo il riconoscimento di specificità culturali, sono anche correlativi dell’affermazione dissennata di una identità, quella dell’etnia francese. In tal modo la problematica della società multiculturale, se non si presta attenzione, conduce ad uno sviluppo separato analogo all’apartheid sudafricano, il quale a sua volta deriva in parte dall’applicazione deviata della nozione di cultura2. È necessario esaminare forza e ambiguità delle operazioni di classificazione e le relazioni qui spesso accennate tra potere e sapere. I processi di legittimazione di politiche e pratiche gerarchizzanti si avvalgono di logiche non meticce per affermare e rafforzare unicamente logiche di dominio politico ed economico.

Logiche che ritroviamo spesso anche nei gruppi assoggettati o minoritari quali

1. Amselle, Jean-Loup, Logiche meticce, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

2. Ibid., p. 69.

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forme di autodifesa collettiva, per cui si accetta e si introietta lo sguardo esterno essenzialista per rivendicare la propria diversità etnica o culturale, le cui origini vengono fatte sconfinare nei secoli e nei millenni della storia, quando non anche della preistoria, fino a presentarle come connaturate da tempo immemorabile al proprio gruppo.

L’irrigidimento delle identità e il rafforzamento dei confini culturali possono essere armi di offesa e di difesa che possono arrivare a uccidere, secondo una nota espressione di Amartya Sen. Ma l’operazione di fissare differenze culturali, celando intenzionalmente somiglianze e continuità, mira alla costruzione di un rapporto contrastivo di relazioni fra due o più gruppi, deviando di fatto l’og- getto del contendere dall’ambito dei rapporti di potere, di dominio e dipen- denza/subalternità a quello più genericamente culturale o addirittura di carattere unicamente religioso. Come è stato più volte ipotizzato in diverse analisi dei Cultural Studies, a partire da Stuart Hall, l’accentuazione e la proliferazione delle differenze culturali nel mondo globalizzato attuale è funzionale all’occulta- mento del controllo economico di poche grandi multinazionali, un modo, fra le altre cose, per naturalizzare e stabilizzare i rapporti di potere attuali, riversando sulle diversità etniche o culturali il malessere di coloro che vengono schiacciati dall’egemonia del capitale internazionale.

Non mancano analisi di studiosi specialisti di estetica che si confrontino con prospettive di tipo antropologico, per esempio con le prospettive estetico-cul- turali dei Cultural Studies, di origine e sviluppo soprattutto britannici, o carai- bico-britannici, ma imparentati, anche a loro insaputa, con preoccupazioni e vedute di altri, quali gli antillani di cultura francese della créolité. Si ritiene spesso che gli Studi Culturali siano nel complesso un avanzamento rispetto ai modi ormai più che secolari di usare l’ampia nozione antropologica di cultura, in quanto aprirebbero gli orizzonti rispetto alle “vecchie” nozioni antropologiche di cultura. In antropologia culturale si usa una nozione di cultura di lontana origine tyloriana ottocentesca, intesa come insieme complesso e complessivo, socialmente appreso per necessità biologica della nostra specie bisognosa di compimento attraverso la costruzione e l’apprendimento degli artefatti mate- riali e simbolici della cultura, nella forma mutevole di un particolare modo di vivere storicamente determinato.

Nel senso comune e nel linguaggio comune colto e non colto il termine “cul- tura” si usa per indicare restrittivamente, sebbene vagamente, cose dello “spi- rito” o attività o professioni intellettuali come le arti, la letteratura, meno le varie scienze e tecnologie; mentre nelle scienze umane ormai “cultura” si usa normal- mente per indicare tutto ciò che viene trasmesso e appreso socialmente e non

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sia geneticamente innato; ma con almeno una grossa difficoltà residua: che anche in questa accezione la “cultura”, in quanto ambito sociale in cui si produ- cono si scambiano e si trasmettono “significati” condivisi, resta concepita come una sfera di attività separata della vita (come le arti appunto), specie in quanto attività simbolica variamente intesa.

La tradizione di studi antropologici, con momenti chiarificatori importanti, intende ormai la cultura, sebbene con numerose differenziazioni, come sino- nimo di forma o modo di vita proprio, quantunque non esclusivo, degli esseri umani, cioè come una caratteristica umana che qualifica l’umanità in tutte le sue forme di vita e in tutti gli ambiti di vita che variamente si individuano, come quando si dice struttura e sovrastruttura, mente e corpo, fabrilità e semiosi, intellettuale e manuale, natura e cultura, oppure, non contenutisticamente ma metodologicamente, universale e particolare, sincronico e diacronico, nomote- tico e idiografico, individualizzante e generalizzante e così via. Si tratta di speci- ficazioni e focalizzazioni da intendere come epistemologicamente utili mediante l’individuazione e la separazione provvisoria di aspetti del vivere la vita umana nel suo complesso multiforme ma unica, che è vita olisticamente culturale, pena il non essere vita umana. Le necessarie focalizzazioni non possono essere quindi escludenti e devono servire anche a ricondurre alla totalità complessa del vivere.

In questo senso anche la grande distinzione tra natura e cultura, così cara alle nostre tradizioni colte occidentali non meno che al senso comune anche odierno occidentale, è utile solo come distinzione provvisoria a fini epistemologici e di focalizzazione di aspetti particolari, dato che nell’uomo il vivere e ogni forma di vita sono sempre inscindibilmente naturali e culturali, strutturali e sovrastruttu- rali, mentali e corporali, intellettuali e manuali, sacri e profani e artistici e pratici, economici e sociali, e in ultima istanza anche collettivi e individuali, e così via riunificando ciò che provvisoriamente si separa per meglio intenderlo. Infatti le definizioni più utili e meno ambigue di cultura, lungi dal considerare la cultura come una dimensione a parte e separata della vita umana, sono quelle che con- siderano la cultura come il necessario compimento o completamento dell’uomo – da Aristotele a Paolo di Tarso a Herder a Marx a Gramsci a Gehlen, indicando a caso – prima di tutto biologicamente necessario alla vita umana, per cui la cultura è il modo umano di vivere e il solo possibile per la nostra specie, e la natura umana è sempre culturalmente condizionata o, secondo una formula di Marshall Sahlins, la natura dell’uomo è la cultura, cioè la necessaria costruzione e trasmissione continue di vari e mutevoli modi di vivere.

Nelle nozioni di cultura proposte dagli studi culturali, spesso di piglio mili- tante, la cultura è un insieme più o meno coerente di principi di vita condivisi,

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propri di particolari gruppi o classi sociali. La cultura è prodotta via via da un gruppo sociale, perché ciò che si dice cultura è l’elaborazione del senso della propria esperienza di ogni giorno, del mondo delle azioni pratiche. Il mondo però è complicato, anzi gramscianamente grande e terribile, perciò la cultura assume spesso forme complesse ed eterogenee che possono contenere anche gravi contraddizioni e conflitti. È partendo da tali orizzonti che gli studi cultu- rali hanno un piglio interdisciplinare, e irridono all’idea della oggettività o neu- tralità della scienza e agli specialismi disciplinari. E riflettono sui modi in cui la cultura e il potere operano nelle nostre società.

Se la fondazione nel 1964 del Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Uni- versità di Birmingham è considerato come l’atto istituzionale di nascita dei Cul- tural Studies, è già precedentemente nelle opere di Raymond Williams, Edward Palmer Thompson e Richard Hoggart che troviamo osservazioni e analisi sui processi culturali, e in particolare sulla cultura popolare e la moderna cultura di massa, in relazione alle pratiche socio-politiche. Questi nuovi studi incentrati sulle grandi trasformazioni culturali connesse alla rivoluzione industriale3 por- tarono a focalizzare l’attenzione sulle culture della “gente comune”, che gramscianamente diremmo subalterne, escluse fino ad allora dall’ambito cultu- rale stesso, dato che metro, canone della formazione umanistica inglese dell’élite imperiale e coloniale era la sola letteratura “alta”. L’estensione del concetto di cultura comportò la sua ridefinizione e insieme il superamento dell’idea che la cultura potesse essere un complesso autonomo e separato di un particolare gruppo di attività umane, cioè delle attività intellettuali e morali. Non è da sot- tovalutare il contesto in cui si elaborarono queste aperture: Williams, Thomp- son e Hoggard erano impegnati in attività pedagogiche rivolte agli adulti, in particolare ai lavoratori e in generale alle classi subalterne, organizzate nel secondo dopoguerra in vari stati europei, e in Inghilterra anche da istituti di alta formazione come le accademie, raccogliendo l’eredità di associazioni e di pre- cedenti sistemi di istruzione autogestiti dagli operai. Nello stesso periodo anche in Italia si organizzavano corsi di formazione per adulti per la lotta contro l’a- nalfabetismo, che contribuirono alla formazione culturale di tanti giovani inse- gnanti dell’epoca, con impegno sociale e politico oltre che pedagogico.

3. WilliAms, Raymond, Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968; HoG-

GArd, Richard, Proletariato e industria culturale. Aspetti di vita operaia inglese con particolare rife- rimento al mondo della stampa e dello spettacolo, Roma, Officina, 1970; THompson, Edward Palmer, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Milano, Il Saggiatore, 1969.

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I Cultural Studies si sono confrontati con diversi temi del marxismo europeo:

i rapporti struttura-sovrastruttura, i concetti di egemonia, potere e ideologia, avvicinandosi molto al pensiero antidogmatico di Gramsci e di Althusser. Lo stesso Williams, contro riduzioni della cultura a cultura alta e a mero prodotto dell’intelletto e della fantasia, ha criticato lo spostamento della cultura tra i soli aspetti sovrastrutturali del vivere. La cultura è per Williams a whole way of life, un intero modo di vita, materiale e intellettuale, con le sue forme organizzative e di comunicazione, dunque “un processo sociale generale”.

Un altro grande esponente dei British Cultural Studies è Stuart Hall, di origine giamaicana, che diresse il Centre for Contemporary Cultural Studies negli anni fecondi della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta (1968-1979) e successiva- mente insegnò sociologia alla Open University fino al 1997. Gramsci, Foucault, Althusser, Deleuze, Derrida, Barthes, De Certeau sono alcuni dei suoi punti di riferimento. Negli interessi di Hall è centrale il rapporto tra cultura e questioni egemoniche. Le forme e le attività culturali, osserva Hall, sono in continuo mutamento, e il terreno culturale è continuamente strutturato da rapporti di forza antagonistici e instabili, da relazioni egemoniche o di dominio e di subal- ternità, per cui “ciò che importa non sono gli intrinseci o storicamente determi- nati oggetti culturali, ma l’andamento del gioco nelle relazioni culturali… Il rischio è quello di tendere a pensare alle forme culturali come a un tutto dotato di coerenza: o totalmente corrotto o totalmente autentico. Invece, queste forme sono profondamente contraddittorie, e giocano proprio sulle contraddizioni, soprattutto quando operano nell’ambito del “popolare”. La complessità e dina- micità dei processi culturali, insieme alla centralità della lotta di classe nella con- tinua ridefinizione del terreno culturale, è la chiave di lettura gramsciana adottata da Hall nella sua decostruzione e ridefinizione del concetto di cultura popolare, che “prende in considerazione quelle forme e attività che, in qualunque epoca, sono radicate nelle condizioni sociali e materiali di determinate classi e sono state incorporate nelle tradizioni e pratiche popolari”4.

In Italia Ernesto De Martino, Alberto Mario Cirese e altri demo-etno-antro- pologi, ispirati dalle riflessioni gramsciane sul folklore, sull’egemonia e sulle classi subalterne, hanno percorso sentieri simili a quelli dei Cultural Studies.

Cirese, in Cultura egemonica e culture subalterne5, analizzava i concetti di popolarità e popolo, di popolare e popolareggiante, di circolazione sociale dei fatti culturali

4. HAll, Stuart, Politiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, Milano, Il Sag- giatore, 2006.

5. Cirese, Alberto Mario, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1973.

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e di folklorizzazione, sostenendo fra l’altro che la “popolarità” di un fenomeno qualsiasi va concepita “come uso e non come origine, come fatto e non come essenza, come posizione relazionale e non come sostanza”, che la popolarità quindi si definisce “per differenza”. I dislivelli di cultura sono tali in quanto legati a dislivelli sociali, ma senza vedervi i determinismi di alcuni marxismi e senza legare in modo permanente un’idea a una particolare classe. Anche in Stuart Hall l’antideterminismo e l’antiriduzionismo economicistico nell’investigare idee, concezioni e pratiche culturali è un aspetto importante, che gli consente di cogliere i fenomeni culturali nella loro complessità e articolazione, nella loro varietà e mobilità.

Nuovi orizzonti, secondo Giuseppe Patella6, sono stati aperti specie agli studi di estetica dal pensiero post-moderno intorno a società e cultura contempora- nee. In particolare anche dagli studi postcoloniali, “legati alle nuove relazioni e disposizioni di potere che emergono dal nostro mondo frammentato e decolo- nizzato” e appunto ai Cultural Studies, “concentrati sulle pratiche culturali e sulla loro relazione con ogni aspetto della vita individuale e collettiva”. Dal postmo- derno ereditiamo la capacità di diffidare delle certezze indubitabili: l’antidogma- tismo, l’avversione alle “visioni essenzialiste e totalizzanti”, così come la resistenza al semplicismo e alla banalizzazione a vantaggio di una visione com- plessa del mondo, dove si lascia spazio all’indeterminato, all’informe, e dove emergono le molteplici forme di diversità. Questo lascito ha favorito la reale apertura verso “l’altro”, verso le minoranze, verso le differenze culturali, sociali, religiose, sessuali, razziali, accogliendole nella loro differenza e resistendo alla tentazione di omologazioni forzate. La tematizzazione della nozione di “diffe- renza” appare l’apporto più rilevante lasciato alla riflessione contemporanea e, nello specifico, alla teoria postcoloniale.

Il postmoderno ha anche influito sul modo contemporaneo di concepire l’estetica, contribuendo al superamento del modo tradizionale di pensarla come legata ai mondi della bellezza e dell’arte, e all’abbandono delle categorie esteti- che di piacere, gusto, espressione, sentimento, non più in grado di comprendere

“fenomeni insoliti delle esperienze contemporanee”. Gli studiosi di estetica sono indotti a elaborare nuovi approcci che consentano, secondo Patella, “di abbracciare una visione dei fenomeni estetici più ampia e articolata”. Sollecitato dalle riflessioni di Mario Perniola, Patella nota che “il sentire perturbante e stra- niante che giunge dal nostro presente si è fatto ormai troppo estraneo, troppo differente per essere compreso da una mera filosofia dell’arte o dalla quieta

6. pATellA, Giuseppe, Estetica culturale. Oltre il multiculturalismo, Roma, Meltemi, 2005.

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armonia di un’estetica del bello”, e dunque è necessario un “nuovo approccio disciplinare, in grado di farsi teoricamente carico degli spostamenti di senso, degli slittamenti di significato, dell’intreccio, delle connessioni e delle ibridazioni dei segni”. Nel postmoderno l’estetica deve aprirsi a orizzonti più vasti e plurali.

E quindi anche a un confronto decisivo con la prospettiva dei Cultural Studies.

Oltre al ruolo del postmodernismo nell’allargamento degli orizzonti dell’e- stetica, Patella e altri ricordano i portati del postmodernismo nel campo delle teorie postcoloniali, parte dell’ambito più ampio degli studi culturali, quali lo spirito critico e anti-essenzialista che si ritrova in studiosi quali Iain Chambers e Gayatri Spivak. Minimo comune denominatore degli studi postcoloniali è il nesso sapere e potere, cultura e società, analizzato attraverso le pratiche cultu- rali, i dispositivi di potere e gli apparati del sapere. La conoscenza, negli studi postcoloniali, è infatti considerata un fenomeno mai neutrale, obiettivo: tutti, osservatori-osservati, soggetti-oggetti, siamo collocati nel tempo e nello spazio, siamo sempre situati, per cui sapere chi parla o ancora meglio chi può parlare è una questione cruciale.

Agli Studi Postcoloniali e agli Studi Culturali si riconosce anche il merito di essere andati oltre le barriere disciplinari dei saperi moderni, attraverso un’i- dea di cultura differente, sempre più estesa, che guarda alle pratiche culturali o sociali e alle identità e ai valori dei gruppi. Sì, oggi si arriva a considerare cultura ogni artefatto materiale e simbolico caricato di significati culturali, intorno al quale si articolano le ideologie sociali, i valori e le rappresentazioni di genere, razze e classe. È quindi sul terreno conteso degli artefatti culturali – oggi nella predominante forma “mediale” delle immagini, dei discorsi, dei miti, degli spettacoli – che gruppi sociali e ideologie politiche lottano per il riconoscimento e il predominio. La cultura non è più, come nel senso comune occidentale, qualcosa di esclusivo, di stabile e definito una volta per tutte, ma è al contrario luogo di storicità costruite e contestate, di conflitti e ibridazioni, di qualcosa in continuo mutamento, come del resto le identità culturali, cioè l’auto-riconoscimento dei membri di un gruppo che la condividono e/o la contestano. È questo concetto di cultura, secondo Patella, a mettere in crisi anche “l’ideale estetico di cultura erede della religione romantica dell’arte”, così come la classica concezione antropologica di cultura quando è intesa come sistema stabile e integrato che racchiude l’insieme dei modelli di pen- siero e di azione condiviso dall’organismo sociale e che si trasmette di gene- razione in generazione. L’arte è un fenomeno culturale e in quanto tale mutevole e composto da molteplici fattori, nient’affatto astorico ed espres- sione della verità assoluta attraverso l’opera d’arte e il genio di pochi eletti, gli

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artisti. Esemplificativo, al riguardo, è il noto diagramma del sistema arte-cul- tura presentato da James Clifford in The Predicament of Culture.

Il tallone d’Achille della filosofia dell’arte appare l’assolutizzazione dell’espe- rienza artistica separata dal quotidiano, dalla società, dalla vita, il non aver

“situato” storicamente, socialmente o, per meglio dire, culturalmente l’affer- marsi delle stesse categorie del bello o del piacere o del gusto, quali misura o canone di ogni fatto estetico del passato, del presente e del futuro, del qui e dell’altrove. Sfida, invece, lanciata dagli studi culturali, il cui intento non è di distruggere l’estetica, ma solo di mettere da parte quell’estetica che si fa discorso elitario, eurocentrico, autonomo, per proporne l’ampliamento dei confini in nome di una visione integrata, inclusiva, contestuale di cultura e di estetica.

La svolta culturale dell’estetica pare dunque anche per la cultura estetico- filosofica italiana già una realtà, sebbene continui a predominare ancora fra gli studiosi di estetica e delle storie delle varie arti, e non solo, l’idea di una cultura maggiore e di altre culture o artefatti o arti minori, specialmente quando si fa riferimento alla cultura quotidiana e di massa, ai prodotti standardizzati, all’arti- gianato artistico, alla musica pop e così via. È comprensibile però, afferma Patella, che ci si preoccupi che la produzione di massa e l’acquiescenza alle logiche commerciali possa abbassare la soglia critica delle nostre abitudini per- cettive e valutative, favorendo una ricezione passiva. Il rischio è di “cadere nella trappola dell’apologia del consumo di massa”. A questo proposito Giuseppe Patella ricorda che già Gramsci, “benché invitasse a considerare sempre con attenzione le espressioni della cultura popolare e a guardare con interesse i fenomeni culturali di massa, avvertiva nondimeno ancor più lucidamente con- tro i pericoli di degrado culturale, di populismo e di oscurantismo a essi stretta- mente connessi”. Gli studi culturali spingono l’estetica accademica ad abbracciare un punto di vista “interessato”, relazionale, aperto alla dimensione politica e sociale, critico: spingono a finirla col disinteresse estetico o con la

“tradizionale (kantiana) indipendenza del giudizio estetico da qualsiasi forma di interesse”, contrapponendo magari una specie di “sovrainteressamento”.

Si rilancia la sfida dei Cultural Studies, orientandosi verso una “teoria dei beni simbolici” o “scienza degli artefatti culturali”, e riesaminando concetti di valore, di gusto e questioni dell’interesse/disinteresse estetico. In consonanza con l’ap- proccio di Pierre Bourdieu alla sfera delle produzioni culturali contemporanee attraverso una teoria della pratica, si ripensa finalmente l’estetica mediante le scienze sociali, individuando nell’estetico (inteso come dimensione socio-antro- pologica più ampia della disciplina estetica, tanto più se intesa solo come sfera del gusto) un orizzonte più ampio che travalica la sfera stessa dell’estetica e che

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pone al centro la cultura nella sua accezione, pare, più olistica, che non è solo dei più recenti Cultural Studies, ma della più duratura e feconda tradizione degli studi antropologici.

Giulio AnGioni Università degli Studi di Cagliari

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