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“Principi, clausole generali e nomofilachia” Roma, 10 ottobre 2013

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“Principi, clausole generali e nomofilachia”

Roma, 10 ottobre 2013

Report a cura di Stefano G. Guizzi

Pres. ROVELLI

Nel suo intervento introduttivo, il Presidente Rovelli si è proposto essenzialmente di definire i confini concettuali (o meglio, epistemologici) dell’istituto delle clausole generali.

In tale prospettiva, egli ha preso le mosse dalla constatazione – citando, sul punto, uno scritto di Irti – che nei sistemi di “civil law”, tradizionalmente, il legislatore ha ritenuto di governare la dinamica delle relazioni tra i privati (e degli interessi, confliggenti, di cui essi sono portatori) per lo più attraverso l’individuazione di fattispecie, confidando nella capacità dell’interprete di colmare eventuali lacune attraverso gli ordinari strumenti dell’ermeneutica legislativa, in particolare quello dell’interpretazione sistematica. Sotto questo profilo, dunque, lo sviluppo conosciuto dalle clausole generali (secondo taluno una vera e propria “fuga” verso di esse) costituirebbe il sintomo di una “non intelligenza” del legislatore.

Tuttavia, più che di un “deficit” nell’attività di normazione primaria, il sempre più frequente ricorso alle clausole generali costituisce manifestazione soprattutto della crescente complessità della realtà contemporanea, che ha reso più difficile che in passato, se non impossibile, il ricorso alla fattispecie. Tre tendenze – egli ha proseguito – sembrano confermare tale assunto, ed il conseguente “declino” della stessa interpretazione “sistematica” (se non, addirittura, dell’idea stessa di “sistema giuridico”). In primo luogo, il maggior tecnicismo dell’attività normativa, legato al particolarismo di certe materie di settore, tendenza che si manifesta specialmente nelle fonti sovranazionali. In secondo luogo, l’impossibilità di determinazione di “regulae iuris” di carattere “prescrittivo” e il conseguente affidamento, invece, e regole di giudizio di tipo essenzialmente descrittivo (da taluno definite anche come apofantiche), costruite intorno all’individuazione di uno scopo normativo da assicurare (emblematiche, in tal senso, le numerose disposizioni del diritto di famiglia che fanno riferimento alla nozione, finalistica, di “interesse del minore”). In terzo luogo, appunto, il ricorso alla “tecnica” delle clausole generali (danno ingiusto, giusta causa, buona fede e correttezza, etc.), con la conseguenza di affidare al giudice l’elaborazione di un giudizio di valore in sede di applicazione della norma (ovvero, non di rado, un’operazione di bilanciamento dei diversi interessi da essa sottesi), in base ad una delega che non è certamente, “politica”, o “di potere” (come ha osservato Merusi), bensì l’espressione del riconoscimento della specifica professionalità del giudice, ciò che implica, peraltro, non solo il possesso di nozioni giuridiche, ma anche la capacità di farsi “conoscitore di realtà” (secondo la definizione di Rordorf).

Si è, dunque, al cospetto di un fenomeno che se rischia di insidiare il principio della certezza del diritto, risulta, nondimeno, imposto – come già sottolineato in premessa – dalla necessità di consentire

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l’adeguamento dell’ordinamento giuridico al mutare della realtà e della coscienza sociale, collocandosi, pertanto, pur sempre nella fisiologia del sistema. Anche, infatti, aderendo alla prospettiva di un rigoroso normativismo giuridico, deve riconoscersi – come osservava, del resto, lo stesso Kelsen – che l’attività giuridica presuppone, fatalmente, una certa indeterminatezza, quella “non intenzionale” essendo certamente la più insidiosa.

D’altra parte, ad attenuare in parte il rischio del “soggettivismo” (ove non dell’arbitrio) del giudice, soccorre la circostanza che l’opera di “concretizzazione” della clausola generale è dal medesimo svolta, non di rado, sulla base di elementi eteronomi, come ad esempio le regole deontologiche. Emblematica, in tal senso, è l’applicazione che dell’art. 2598, numero 3), cod. civ. è stata effettuata in materia di pubblicità commerciale, atteso il rilievo riconosciuto – dalla stessa giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez. I, n.

1259 del 1999) – al codice di autodisciplina di settore.

Infine, nella parte conclusiva del proprio intervento il Presidente Rovelli ha posto in luce i riflessi esercitati dal ricorso alle clausole generali sulla logica stessa del giudizio civile.

In tale prospettiva, egli ha sottolineato, si assiste ad un superamento – come posto in luce dai fautori dell’ermeneutica giuridica, Esser in particolare – del modello storico del “sillogismo giudiziale” (che implica il passaggio, secondo un processo inferenziale, dalla norma generale ed astratta, enunciata dal legislatore, alla regola del caso concreto individuata dal giudice), in favore di un differente schema. In base ad esso, il giudice è chiamato ad un’attività di concretizzazione di un concetto indeterminato, e dunque alla formulazione di un giudizio – come già detto – di valore, che non deriva interamente dalla norma, ma che essa autorizza il giudice a compiere.

Pres. BERRUTI

Il Presidente Berruti ha posto al centro della propria riflessione quello che ha definito come il problema della perdurante “effettività” dell’ordinamento civilistico.

Muovendo anch’egli dalla constatazione della difficoltà di configurare tuttora un “sistema” (dicendosi, anzi, scettico persino sull’esistenza di singoli “sottosistemi”), ha posto in evidenza – con voluto paradosso – come il discorre, oggi, di applicazione dei principi generali, di clausole generali, di nomofilachia, rischi di trasformarsi in “epitaffio su questioni morte”, quasi una sorta di giuridica “Antologia di Spoon River”. Ciò non solo a causa delle molte disfunzioni che investono l’operato del giudice, anche quello di legittimità (carenze di risorse umane e materiali, crescita della domanda di giustizia, insufficienza dei rimedi fin qui individuati dal legislatore per farvi fronte), ma anche del carattere obiettivamente anacronistico di talune parti della disciplina codicistica.

Emblematico, fra tanti, l’esempio delle norme sulla formazione del contratto, non più in linea con la realtà della società contemporanea, che – tra globalizzazione delle relazioni commerciali e sviluppo delle

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nuove tecnologie – ha finito col porre in discussione l’idea (o meglio, il fatto stesso) dell’esistenza di limiti spazio-temporali all’agire negoziale.

Altrettanto significativa, del resto, è l’insufficienza degli ordinari strumenti – azione di adempimento, responsabilità contrattuale, invalidità del contratto, risoluzione e rescissione dello stesso – a reprimere i comportamenti non conformi ai doveri di correttezza e diligenza e quindi, in definitiva, ad assicurare l’effettività della regola sancita dall’art. 1372 cod. civ., secondo cui il contratto “ha forza di legge tra le parti”. In tale prospettiva, pertanto, vanno valutati con favore – egli ha proseguito – quegli interventi del legislatore (in via esemplificativa, il d.lgs. n. 231 del 2002) volti a consentire un controllo giudiziale delle circostanze sopravvenute (anche estrinseche) che si delineano nello sviluppo del rapporto contrattuale, idoneo a consentire al giudice una verifica – d’ufficio – dell’iniquità del contratto, elevando così al rango di

“clausola generale inespressa” la tutela del contraente debole.

Tuttavia, egli ha proseguito, è proprio sul terreno dell’applicazione delle clausole generali – per effetto dell’ampio margine di discrezionalità che tale attività postula in capo all’interprete – che si evidenzia il rischio del passaggio di un sistema “a legge” ad uno “a giudice”.

A causa, infatti, degli elementi di criticità delineati nella premessa del proprio ragionamento, il Presidente Berruti ha espresso il timore che non sussistano più sufficienti garanzie in ordine alla effettiva

“attendibilità” dell’applicazione delle clausole generali (o meglio, alla correttezza giuridica dei risultati di tale operazione); ciò che pone – a ben guardare – un problema che non è solo di incertezza del diritto, ma di carenza di effettività della tutela civile e quindi, in definitiva, di impoverimento della democrazia.

Un problema, pertanto, la cui dimensione “politica” è dovere degli operatori giuridici non sottacere, nonché responsabilità della Suprema Corte tentare di contrastare, attraverso un rinnovato slancio nell’esercizio della propria funzione nomofilattica.

Prof. PATTI

Nell’incipit del proprio intervento il Professor Patti ha posto in luce l’esistenza di una certa ambiguità terminologica (forse, ancora prima, concettuale), nell’uso delle espressioni “clausola generale” e “principio generale”, segnalando, tuttavia, l’assenza di conclusioni unanimemente condivise – nonostante gli sforzi compiuti dalla dottrina – quanto all’individuazione dei caratteri distintivi delle due nozioni.

Del resto, neanche nella dottrina tedesca – cui comunemente è fatta risalire la paternità del termine clausola generale (Generalklauseln) – si rinvengono posizioni univoche al riguardo. Esemplare, in tal senso, è l’assenza nell’opera di Larenz (che pure largo interesse ebbe a dedicare all’uso, fatto dal BGB, dei concetti di “buona fede” e “buon costume”) di una riflessione sulla “categoria” costituita dalle clausole generali.

Nondimeno, il Professor Patti ha sottolineato l’opportunità di individuare il tratto caratteristico (e unificante) delle clausole generali nel loro riferimento a valori, giacché è proprio sotto questo profilo che

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sarebbe dato cogliere la differenza esistente tra esse e i “concetti giuridici indeterminati”. Questi ultimi, infatti, si connoterebbero proprio per il mancato riferimento ad un valore, sicché l’operazione del loro

“riempimento” sarebbe, per così dire, “neutra” dal punto di vista assiologico. Ai concetti giuridici indeterminati, in particolare, egli ha ricondotto – oltre alla “giusta causa”, alla “colpa grave” e all’“interesse del minore” – anche il “danno ingiusto”, ex art. 2043 cod. civ. Ne costituirebbe, tra l’altro, implicita conferma l’interpretazione che di tale disposizione ha proposto quel noto arresto della giurisprudenza di legittimità (la sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 1999) che pure ha dilatato la nozione di danno ingiusto, fino a ricomprendervi il pregiudizio recato all’interesse legittimo, nella misura in cui tale decisione ha comunque ritenuto di dover “oggettivizzare” – attraverso il riferimento ad una norma giuridica, che dia rilievo all’interesse – la tutela risarcitoria allo stesso riconosciuta.

Riportando la propria riflessione nuovamente su un piano generale, il Professor Patti ha proseguito evidenziando come un ulteriore elemento di distinzione tra clausole generali e concetti giuridici indeterminati vada ricercato nel fatto che l’applicazione delle prime è spesso utilizzata dal giudice in funzione “correttiva” dei risultati che deriverebbero dall’applicazione di una norma giuridica specifica.

Pertanto, il dato comune ad entrambe andrebbe individuato nella loro potenziale “frizione” con il principio della certezza del diritto e nella funzione – che condividono, sebbene svolta su piani differenti, in relazione alle loro diverse caratteristiche intrinseche – di assicurare l’ammodernamento dell’ordinamento giuridico, il suo adeguamento al mutare della realtà e della coscienza sociale. Con specifico riferimento, poi, alle clausole generali, egli ha evidenziato che, comportando la loro applicazione un giudizio di tipo assiologico, allorché il giudice – nella sua formulazione – faccia riferimento a valori extragiuridici si pone come interprete del prevalente sentire sociale, non essendo, pero, necessariamente vincolato ad esso, potendo motivatamente discostarsene in funzione “correttiva” (secondo l’insegnamento di Carbonnier), proprio in ragione di quell’esigenza – che costituisce la “ratio” della clausola generale – di tenere l’ordinamento giuridico al passo con i tempi.

A nessuna delle categorie concettuali sopra delineate – clausole generali e concetti giuridici indeterminati – sarebbe possibile ricondurre, invece, il principio di ragionevolezza, ponendosi esso, piuttosto, come uno “standard di valutazione” (come del resto confermerebbe l’uso fattone dalla giurisprudenza costituzionale).

Spostando, nuovamente, il fulcro della propria riflessione sul tema delle clausole generali, il Professor Patti ha poi ribadito come il legislatore, attraverso la loro previsione, detti una disciplina solo “parziale” del rapporto giuridico, destinata a completarsi – come già evidenziato – per effetto di un giudizio di valore, al cui compimento il giudice è demandato (per dirla con il linguaggio della sociologia giuridica) in base ad una

“autorizzazione giuridica”. Che non si tratti, infatti, di una “delega in bianco” – egli ha proseguito – è confermato dal fatto che la “credibilità” di tale operazione è sindacabile da parte del giudice di legittimità, sotto forma di errore di diritto; infatti, sebbene la norma regolatrice del rapporto sia in questo caso,

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almeno in parte, frutto dell’opera “creativa” del giudice, la sua applicazione non porrebbe problemi differenti da quelli propri di ogni altra norma giuridica.

Infine, il Professor Patti si è soffermato sull’uso delle clausole generali negli atti normativi dell’Unione europea, soprattutto per dare conto di quell’orientamento della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo – a suo giudizio condivisibile, specie alla luce della funzione ad essa demandata di assicurare la conformità al diritto dell’Unione dell’interpretazione delle norme degli Stati membri – favorevole ad ammettere un proprio controllo sulla corretta applicazione di tali clausole.

Pres. ROSELLI

Anche il Presidente Roselli ha sviluppato il suo intervento ponendo, preliminarmente, l’accento sull’assenza di una definizione unanimemente condivisa di clausola generale.

A suo giudizio, essa si identificherebbe con la disposizione operante in un certo ordinamento giuridico e formulata attraverso espressioni linguistiche indeterminate, sì da contenere implicito il richiamo a valori della morale o del costume, generalmente recepiti in norme o principi dello stesso ordinamento (o comunque sicuramente condivisi), oppure espressi da altri ordinamenti giuridici.

Nel sottolineare, al pari degli altri relatori, l’innegabile rilievo che la discrezionalità del giudice assume nell’operazione che ha qualificato come “interpretazione-applicazione” delle clausole generali, egli ha richiamato l’attenzione dell’uditorio soprattutto sulla necessità che tale attività corrisponda a criteri oggettivi e comunemente accettati, sì da permetterne il controllo, soprattutto in sede di impugnazione, non potendosi dubitare che tale attività, a dispetto di talune sporadiche oscillazioni giurisprudenziali, dà luogo ad una questione di diritto, potendo così essere sottoposta al sindacato del giudice di legittimità ai sensi dell'art. 360, primo comma, numero 3), cod. proc. civ.

A suo avviso, infatti, soltanto un’argomentazione giustificativa – dell’uso delle clausole generali – svolta in modo ragionevole e controllabile, ossia basata sul rinvio a sistemi normativi statali e non statali (ad es., della contrattazione collettiva nazionale, dei codici deontologici professionali, dell’ordinamento comunitario, o della giurisprudenza della Corte EDU), consente al giudice di mantenersi entro il sistema di giuspositivismo voluto dall’art. 101, primo, Cost., allontanandolo da un modello di responsabilità politica, estraneo al nostro ordinamento costituzionale.

In questa prospettiva, pertanto, il Presidente Roselli ha posto al centro della propria riflessione l’individuazione di quelli che ha definito come gli argomenti idonei a ridurre l’area di libero giudizio del giudice-interprete.

Al riguardo, viene in rilievo – in primo luogo – il ricorso all’interpretazione sistematica, nell’ambito della quale un ruolo preminente è da assegnare all’interpretazione costituzionalmente orientata, ciò che fa delle norme costituzionali – e delle pronunce del Giudice delle leggi – il più importante strumento di riduzione

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dell’area semantica propria delle clausole generali. Su di un piano contiguo – anche in virtù del richiamo ad esse, contenuto nell’art. 117, primo comma, Cost. – operano anche le norme proprie dell’ordinamento dell’Unione europea e quelle della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A livello infracostituzionale si pongono, invece, i principi generali dell’ordinamento di cui all’art. 11 delle “preleggi”.

In secondo luogo, idoneo a delimitare ulteriormente l’ambito del potere del giudice è il cosiddetto

“diritto vivente”, essendo innegabile che l’interpretazione delle clausole generali si giovi del cosiddetto

“argumentum ab exemplo” e in particolare del richiamo ai precedenti giudiziari.

In terzo luogo, viene in rilievo il cosiddetto “argomento naturalistico”, nel senso che le stesse caratteristiche oggettive del fatto possono concorrere a ridurre o eliminare l’arbitrio del giudice-interprete;

sul punto appare sufficiente notare che se i “nudi fatti” certamente non esprimono valori, essi possono tuttavia condizionare in maniera più o meno cogente la libertà di chi interpreta. In proposito, il Presidente Roselli ha fatto riferimento, a titolo esemplificativo, all’influenza esercitata – sull’interpretazione delle norme giuridiche (e sul bilanciamento di valori addirittura di rilevanza costituzionale di cui esse sono, in certi casi, espressione) – dall’aumento delle conoscenze scientifiche, e in particolare delle tecniche di indagine dei fenomeni naturali, come evidenziato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 179 del 1988, che, intervenuta in materia di tutela previdenziale contro le tecnopatie, ha esteso – ad integrazione del sistema legislativo di presunzione di eziologia professionale – la tutela assicurativa a malattie professionali “non tabellate”.

Infine, non trascurabile sarebbe il cosiddetto “argumentum ab auctoritate”, ovvero il “peso” della dottrina, essendo la “communis opinio doctorum” in grado di influire sull’evoluzione della giurisprudenza, non meno che sulle scelte del legislatore.

Cons. D’ASCOLA

Il Consiglier D’Ascola ha premesso l’intenzione di svolgere il proprio intervento secondo un’ottica squisitamente processualistica e di articolarlo con riferimento a quattro aspetti fondamentali: le caratteristiche contenutistiche proprie del ricorso per cassazione che denunci l’erronea applicazione, da parte del giudice di merito, di una clausola generale; la “tecnica” motivazionale della sentenza della Suprema Corte che si pronunci su di esso; l’attività che è lecito attendersi dal giudice di merito (e, di riflesso, le indicazioni che ragionevolmente possono essergli impartite in sede di rinvio); il ruolo dell’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione nella divulgazione degli indirizzi ermeneutici della Corte anche in tema di clausole generali.

Con riferimento a primo di tali profili, egli ha osservato che se una clausola generale non è altro che “un dispositivo di adattamento della regola generale alla specificità del caso particolare”, la verifica demandata al giudice di legittimità – attraverso la proposizione del ricorso ex art. 360 cod. proc. civ. – in ordine alla

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correttezza di tale operazione, ovvero alla sua conformità a canoni legali, è destinata a compiersi, evidentemente, nei limiti entro cui è ordinariamente consentito alla Suprema Corte di esplicare il proprio sindacato sull’esatta applicazione di norme di legge. Dal momento, infatti, che il vizio denunciabile non è quello del difetto di motivazione, giacché l’iniziativa del ricorrente mira a stigmatizzare l’erronea sussunzione della fattispecie nella cornice della clausola generale, bensì quello di violazione (o meglio, falsa applicazione) di legge, il ricorso per cassazione, in questo caso, incontra i limiti (la “cruna di un ago”, li ha definiti il relatore) stabiliti, in via generale, per l’accertamento del vizio di cui all’art. 360, numero 3), cod.

proc., e cioè – “ratione temporis” – o quelli costituiti dalla formulazione del quesito, ovvero quelli derivanti dall’applicazione dell’art. 360-bis cod. proc. civ.

Sempre in relazione al primo degli aspetti esaminati, il Consiglier D’Ascola ha, poi, osservato che il ricorso diretto a censurare tale vizio non può limitarsi a manifestare la mera “insoddisfazione” del ricorrente per il risultato determinatosi in sede applicativa, ma deve evidenziare la presenza di una serie di indici – soprattutto normativi (sebbene ampiamente intesi) – di cattiva applicazione della clausola, ciò che permetta alla Suprema Corte – egli ha testualmente affermato – di “guardarsi intorno con larghezza”.

Un rilievo, quest’ultimo, che egli ha direttamente collegato all’esame del secondo dei profili indicati in premessa: quello concernente la motivazione della sentenza del giudice di legittimità.

A suo giudizio, infatti, il sindacato esercitato della Suprema Corte in tale ambito presuppone la capacità della stessa di valorizzare, soprattutto attraverso un’attenta disamina della “catena” dei precedenti esistenti in materia, le peculiarità di ogni singolo caso, operando così un progressivo “affinamento” della propria giurisprudenza (a titolo di esempio, sono richiamati alcuni recenti arresti sul tema di “abuso del diritto”, e in particolare la sentenza n. 17642 del 2012, decisione che confermerebbe l’opzione della Corte in favore di questo metodo di valorizzazione delle peculiarità di ciascuna fattispecie concreta). Invero, come già sottolineato anche da altri relatori nel corso del presente incontro (in particolare, dal Presidente Roselli), il sindacato sull’operazione di interpretazione/applicazione delle clausole generali, più che dimostrare – secondo i modi propri di un giudizio rigorosamente “sillogistico” – la “legittimità” della decisione impugnata, si risolve in un riscontro in ordine alla “plausibilità” della stessa, sulla base di una verifica della ragionevolezza degli argomenti utilizzati, che, cumulandosi, conferiscono persuasività al ragionamento svolto dal giudice di merito; una verifica siffatta, evidentemente, non può che compiersi – in ragione delle sue caratteristiche – proprio alla luce delle peculiarità che connotano la fattispecie concreta e la distinguono da altre, pure sussumibili entro quella stessa “cornice” normativa.

In tale prospettiva, il Consiglier D’Ascola – passando all’esame del terzo profilo posto al centro della propria riflessione – ha sottolineato che dal giudice di merito è, pertanto, doveroso esigere l’adozione di un

“modus operandi” che renda trasparente, alle parti, i presupposti del proprio ragionamento e la sua prevedibile conclusione, chiamando le stesse a contraddire, in particolare, sugli indici utilizzabili ai fini dell’applicazione della clausola generale alla concreta fattispecie.

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Un ruolo decisivo – a concludere quella che egli ha definito la “parabola” dell’applicazione delle clausole generali, vista attraverso la lente del giudizio di legittimità – è destinato, quindi, a svolgere l’ufficio del Massimario della Suprema Corte, la cui capacità di testimoniare la peculiarità dei diversi arresti del giudice di legittimità, anche in relazione alla specificità dei singoli casi, verrà ad assumere un’importanza decisiva per consentire non solo alla Corte l’affinamento della propria giurisprudenza, ma allo stesso giudice di merito un’applicazione sempre più “consapevole” delle clausole generali.

Prof.ssa SALVANESCHI

La Professoressa SALVANESCHI – anche alla luce delle osservazioni già sviluppate dai precedenti relatori, che ha ritenuto, nel complesso, di condividere – ha scelto di circoscrivere l’esame del tema affidatole, sviluppandolo alla luce delle riforme che, negli ultimi anni, hanno interessato il processo civile.

Preliminarmente, tuttavia, ella ha affermato di nutrire qualche dubbio sul fatto che la giurisprudenza di legittimità – come, invece, sostenuto concordemente dagli altri relatori – sia assolutamente univoca nel ritenere come sindacabile sotto il profilo della violazione di legge (e non, invece, del difetto di motivazione) la sentenza che faccia errata applicazione di una clausola generale.

Per contro, la necessità di mantenere, senza incertezze, tale ipotesi nell’alveo della previsione di cui al numero 3) dall’art. 360, cod. proc. civ. rivelerebbe tutta la sua importanza proprio alla luce di alcune recenti modifiche che hanno interessato il processo civile, in particolare quella che ha investito – per effetto del d.lgs n. 40 del 2006 – il testo del numero 5) del medesimo articolo 360.

La Professoressa Salvaneschi, infatti, non senza nascondere le proprie ragioni di perplessità in ordine all’intervento del legislatore (definito come una “capriola all’indietro, al 1940”), ha illustrato le problematiche sollevate, in termini generali, dal nuovo testo dell’art. 360, numero 5), cod. proc. civ.

Nel sottolineare, infatti, come l’attuale formulazione della norma circoscriva, e di molto, la portata del sindacato sulla motivazione, si è chiesta se essa non ponga un profilo di “frizione” con l’art. 111 cost., laddove esso esige che i provvedimenti giurisdizionali siano motivati. Si è, pertanto, interrogata sulla possibilità di assicurare un parziale “recupero”, al controllo del giudice di legittimità sulla motivazione della decisione impugnata, attraverso la riconduzione della sentenza affetta dal vizio di motivazione “illogica” (o almeno, di quella che risulti tale in modo conclamato) alla previsione di cui all’art. 360, numero 4), cod.

proc. civ., in virtù di un’interpretazione che ponga tale norma in correlazione con l’art. 132, numero 4), del medesimo codice, identificando, così, nella motivazione illogica (o quantomeno in quella manifestamente tale), una motivazione addirittura “apparente”.

Le difficoltà insiste in tale opzione ermeneutica, peraltro, confermerebbero la necessità di mantenere la fattispecie dell’errata interpretazione/applicazione delle clausola generale entro lo schema della falsa

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applicazione di legge, proprio al fine di non “depotenziare” il sindacato svolto dal giudice di legittimità in tale delicato ambito.

La Professoressa Salvaneschi si è, poi, soffermata sulle (ancor più recenti) riforme che hanno interessato il giudizio di appello, in particolare sull’introduzione degli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ. ad opera del d.l. n. 83 del 2012.

Non senza previamente rilevare – su di un piano generale – come l’adozione di tale norma appaia espressione di una certa sfiducia del legislatore nella possibilità (già contemplata dall’art. 351 cod. proc.

civ., nel testo novellato dalla legge n. 183 del 2011) che la definizione del giudizio d’appello mediante sentenza ex art. 281-sexies cod. proc. civ. possa attingere il medesimo risultato – cui mira, evidentemente, anche l’introduzione del cosiddetto “filtro in appello” – di deflazionare il secondo grado di giudizio, ella si è, poi, chiesta quale significato debba attribuirsi alla previsione secondo cui “l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”.

In particolare, a suo avviso, occorre chiedersi se la “ragionevole probabilità di accoglimento”, alla verifica della cui sussistenza la norma in esame subordina l’ammissibilità dell’appello, costituisca essa stessa una clausola generale, conclusione che ella riconosce, per vero, come problematica, in ragione del mancato riferimento dell’art. 348-bis cod. proc. civ. ad un “valore”, sempre che non si ritenga di identificarlo in quello della durata ragionevole del processo, di cui all’art. 111 Cost. In senso contrario, tuttavia, si può obiettare che la “ragionevole probabilità di accoglimento” sembra più congruamente riconducibile ad uno “standard valutativo”.

La risposta all’interrogativo, tuttavia, non è priva di ripercussioni quanto al tema della impugnabilità dell’ordinanza con cui il giudice d’appello, all’esito della verifica demandata da tale norma, dichiari inammissibile il gravame.

Infatti, ove si opti per la prima soluzione, si dovrebbe ritenere che, ai sensi dell’art. 360, numero 3), cod.

proc. civ. – per le ragioni in precedenza illustrate, in forza delle quali è possibile sindacare, ai sensi di tale norma, l’errata applicazione di una clausola generale – sia possibile l’impugnativa dell’ordinanza “de qua”

(che il testo dell’art. 348-ter cod. proc. civ. esclude). Esito, questo, che dovrebbe ipotizzarsi – ella ha concluso – non solo nei casi in cui sia stata dichiarata l’inammissibilità del gravame fuori delle ipotesi di legge (il ricorso a tale declaratoria è, infatti, vietato per le cause che postulano l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, ovvero per quelle celebrate nelle forme del processo sommario di cognizione), ma anche quando il giudice d’appello abbia operato tale declaratoria condividendo l’erronea valutazione di precedenti giurisprudenziali compiuta dal giudice di prime cure e dallo stesso posta a fondamento della propria decisione.

Interventi

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Nel dibattito sono intervenuti il Consiglier Toffoli (che ha evidenziato come una più articolata dialettica tra giudice di legittimità e giudice di merito, in ordine all’operazione di interpretazione/applicazione delle clausole generali, dovrebbe implicare un più ampio ricorso, da parte del primo, allo strumento dell’annullamento con rinvio), il Presidente Salmè (che ha posto in luce come, nel nuovo contesto del sistema multilivello delle fonti del diritto, l’opera di concretizzazione del contenuto delle clausole generali dovrebbe avvenire in modo sempre più raro attraverso il ricorso a parametri di valutazione extragiuridici, dato appunto l’ampliamento degli indici normativi in base ai quali effettuarla) e il dottor Delli Priscoli (che, relativamente alla funzione delle clausole generali – evocata dal Professor Patti – di “correzione” dei risultati che deriverebbero dall’applicazione di una norma specifica, si è chiesto se la clausola generale della buona fede non sia destinata, in ogni caso, a prevalere su norme specifiche, perché espressione del principio costituzionale di solidarietà sociale, enunciato dall’art. 2 della Carta fondamentale).

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