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I Martinitt, le Stelline e noi

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Academic year: 2022

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I Martinitt, le Stelline e noi

Racconti scritti dagli studenti: Jack Abate, Ottavia Barra Caracciolo, Paolo Dell’Anna, Manuel Ferrari, Cecilia Gatti, Mattia La Ragione, Vittoria Mancini, Matilde Masetti, Allegra Mioccio, Nicolò Molinari, Niccolò Plateroti, Simone Resmini, Silvia Sanguinazzi, Carlotta Tartufoli, Emanuele Tassinari, Manuel Vita della classe V A del Liceo Francesco Severi di Milano, e liberamente tratti dalla lettura di documenti storici su bambini e ragazzi, ospitati presso l’Istituto Martinitt Stelline di Milano, conservati presso l’Archivio Storico dell’Istituto, e consultati dagli studenti con la preziosa guida della dott.ssa Marandrea Montecchiari, nel quadro di un laboratorio storico.Abbiamo studiato i saggi: Franco della Perruta “Le classi più numerose e le più povere” I ceti popolari a Milano dalla Restaurazione all’Unità e Edoardo Bressan,

Povertà e disagio fra Ottocento e Novecento. Gli istituti di assistenza a Milano, in La Vita fragile, dipinti, ambienti, immagini di Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio nella Milano del lungo Ottocento, 1815-1915, a cura di Maria Cannella e Cristina

Cenedella, direttrice del Museo.

Giovanni Pascoli, Orfano, in Myricae (1891)

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca:

senti: una zana dondola pian piano.

Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;

canta una vecchia, il mento su la mano.

La vecchia canta: Intorno al tuo lettino c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.

Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.

La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

Giovanni Segantini: Gli orfani, Kunsthaus, Zurigo.

I testi degli studenti sono stati corretti dalla prof.ssa Cecilia Maria Di Bona. Anno Scolastico 2020

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2 I Martinitt, le Stelline e noi

Siamo i ragazzi e le ragazze di una classe del Liceo Scientifico Severi di Milano che hanno consultato i documenti d’archivio dell’Istituto Martinitt-Stelline, nel corso di un’esperienza di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento). Le porte del Museo e dell’Archivio si sono aperte per noi. La visita al Museo è stata affascinante e la consultazione dei documenti ci ha interessato molto. Da questa esperienza, nel corso della quale ci siamo immersi in un mondo che, qui da noi, non esiste più abbiamo compreso quali fossero le condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza, non solo degli orfani, nell’Ottocento e nella prima metà e oltre del Novecento. Tornati in classe abbiamo studiato i saggi: Franco della Perruta “Le classi più numerose e le più povere” I ceti popolari a Milano dalla Restaurazione all’Unità e Edoardo Bressan, Povertà e disagio fra Ottocento e Novecento. Gli istituti di assistenza a Milano, in La Vita fragile, dipinti, ambienti, immagini di Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio nella Milano del lungo Ottocento, 1815-1915, a cura di Maria Cannella e Cristina Cenedella.

Certo i fanciulli e i ragazzi ricoverati in questi istituti per gli orfani soffrivano per la mancanza dei loro genitori e dei fratelli e sorelle, e la vita in Istituto era scandita da orari precisi, pure, anche se lavoravano, non erano obbligati a lavorare così duramente come i loro coetanei della stessa classe sociale, che vivevano fuori dell’Istituto. L’educazione era severa, ma lo era in ogni contesto in quel tempo, forse essi rimpiangevano la libertà dei loro coetanei fuori dell’Istituto, ma molti di quest’ultimi non potevano mai goderne, né giocare che in pochi momenti, essendo costretti, per la povertà delle loro famiglie, a lavorare fin da molto piccoli.

Quella della prima metà del Novecento e prima dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, era una Milano ancora sotto molti aspetti, ottocentesca, con piazzette con l’acciottolato, case e chiese antiche, spesso in cotto lombardo, disposte in un dedalo inestricabile di viuzze strette e storte, e molto più piccola della città attuale. La povertà regnava incontrastata nei quartieri popolari e nelle case di ringhiera, ma anche tra gli artigiani e la piccola borghesia, nella vita quotidiana, si dovevano accettare molte ristrettezze. Sono molte le famiglie che persero il padre di famiglia nella Grande Guerra, mentre molti uomini e donne morirono successivamente di febbre spagnola.

Mosè Bianchi, (Monza 1840 - 1904) Vecchia Milano

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3 Moisé Bianchi, Vecchia Milano

Abbiamo immaginato e scritto per voi, per farveli leggere e nella speranza che susciti il vostro interesse, dei dialoghi, delle descrizioni di momenti, dei sentimenti che pensiamo qualcuno di loro possa aver provato e confidato a qualche compagno di camera, di lavoro, di gioco, nell’Istituto, concentrandoci sul Novecento, più vicino ai nostri tempi, anche se ormai, per certi aspetti per noi, ragazzi del XXI secolo, lontanissimo.

Bambini e adolescenti poveri erano esposti a rischi e a sofferenze, che solo grazie alla benevolenza dei benefattori e alla serietà delle istituzioni dello Stato poterono essere loro risparmiati. Oggi, nel mondo, milioni di bambini e ragazzi sono esposti a mali che ricordano quelli dei secoli passati qui da noi, anche a Milano. La nostra ricerca e il nostro

approfondimento prosegue dunque con una riflessione sulle condizioni di vita oggi di molti adolescenti.

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4 Sono un Martinitt

Luigi si svegliò nel cuore della notte, non riusciva a riaddormentarsi, così si alzò dal letto e infilate le vecchie scarpe, da poco rabberciate alla bell'e meglio nel laboratorio del calzolaio, percorse pian piano, cercando di non far rumore, il lungo corridoio che correva diritto tra i letti metallici del dormitorio. Il grande stanzone era avvolto nel buio e nel freddo della notte, si sentivano i suoi compagni respirare sommessamente nel sonno, e qualcuno di loro tossire. Tutti dormivano e sembravano essere assorti nei loro sogni, solo lui non riusciva a chiuder occhio. Dalle piccole, alte finestre, entrava poca luce, solo qualche raggio obliquo di luce lunare che osava spingersi fino ad illuminare qualche grata dei letti.

Entrato nei grandi e gelidi bagni, con il pavimento ancora umido per le pulizie della sera, si diresse verso la grande finestra, che si ergeva sovrana, in fondo alla fila dei lavandini. La luna doveva essere nel cono d’ombra della terra perché pur riuscendo a vedere una moltitudine di stelle, silenziose e misteriose, della luna non v’era traccia. Forse era lui a non riuscire a scorger il pur flebile chiarore della luna, ma gli pareva che l’argentea luce di Selene mancasse nel cielo, che gli appariva troppo scuro e impenetrabile, come nel suo cuore mancava sua madre.

Ne ricordava il viso dolce, le forme arrotondate, il calore dell’abbraccio, l’espressione del viso quando i loro due sguardi si incrociavano e senza parlare lei gli faceva intendere di andare incontro al padre, che rientrava stanchissimo e arrabbiato dai suoi massacranti turni di lavoro, per farsi dare da lui la vecchia, logora giacca da appendere su un chiodo piantato nel muro vicino alla porta. La mamma, ora lo avvertiva con un dolore acuto che non voleva essere curato, era stata tutto per lui: la sua voce, i suoi gesti mentre preparava la polenta nel tegame sulle piastre roventi, la sua presenza aveva riscaldato e dato senso alla sua vita.

Se ne era andata, ancora giovane e rosea, con la nascita dell’ultimo bambino, che si era salvato, anche se piccolissimo e che piangeva tutto il tempo nel fagotto di stracci, messo nel cassetto aperto del comò che gli faceva da culla.

Medardo Rosso, Aetas Aurea, 1886

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5 Era stata chiamata subito la balia, una donna giovane dai seni grandi, che se lo era portato in

campagna per nutrirlo insieme al suo bambino e non sarebbero andati a riprenderlo che due anni dopo.

Auguste Renoir, Maternità.

Gli altri suoi due fratellini erano troppo piccoli per andare a lavorare, avrebbero dovuto andare alle elementari e il loro padre non sapeva come fare poiché era fuori casa tutto il giorno.

Poi si trovò una vicina anziana che se li prese in casa, al ritorno da scuola, nel pomeriggio, per un modesto compenso e lui fu accolto nell’Istituto dei Martinitt, grandissima fortuna gli ripetevano tutti, poiché lì, gli dissero che avrebbe mangiato bene, avrebbe studiato e imparato un mestiere!

Certo Luigi era consapevole delle possibilità che gli erano state offerte, dopo che era stato ammesso all’orfanotrofio, pure gli mancava irrimediabilmente e struggentemente quel calore, quasi da stalla, della loro unica camera di casa, dove dormivano tutti insieme, i genitori da una parte nel loro grande letto con la testata d’ottone brunito e dipinto, loro tre insieme in un altro letto, lasciando la porta del focolare aperta perché entrasse quanto rimaneva del calore del fuoco che si era acceso per far cuocere la polenta. Con il tempo, prese ad impegnarsi molto seriamente negli studi e nel lavoro, e soprattutto si appassionò al laboratorio di tipografia perché voleva diventare un bravo stampatore:

un giorno avrebbe stampato i libri, quei libri che leggeva avidamente, accarezzandone le poche figure, perlopiù disegni in bianco e nero, e che ora poteva solo prendere in prestito alla biblioteca.

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6 Jack ABATE Un martinitt nel laboratorio del calzolaio

Era uno degli ultimi giorni del semestre ed ero molto stanco e affaticato dalla mole di studio ed impegno che avevo messo per prendere dei bei voti sulla mia pagella.

Ero uno degli undici ragazzi ad esser stato destinato al laboratorio del calzolaio, avevo chiesto io di esservi ammesso e lo avevo fatto soltanto perché anche Giacomo, il ragazzo che aveva il letto di fianco al mio, con il quale avevo fatto amicizia, si era iscritto. Dopo vari mesi di lezioni, ho capito perché eravamo così in pochi ad aver chiesto di essere iscritti nel laboratorio del calzolaio.

Questo laboratorio innanzitutto consisteva nel riparare scarpe o accessori di cuoio che poi sarebbero andate nel magazzino dell'orfanotrofio e che erano destinati ai nuovi arrivati. Come si può ben immaginare, o avevi la mano, o non l’avevi...io purtroppo ero tra quest'ultimi, avrei dovuto applicarmi parecchio per acquisire un po’ di quella manualità richiesta.

Il maestro, un calzolaio del quartiere che veniva due volte alla settimana, più che a spiegarci come fare, a farci lavorare, aveva un aspetto rustico, con un carattere un po' scontroso. Non amava parlare, non amava gli allievi che parlavano o che gli chiedevano qualcosa. Io avevo una grande paura per la prova finale che mi avrebbe sottoposto oggi, perché l'esito delle mie prestazioni come calzolaio sarebbe andato a comporre il mio quadro finale come futuro lavoratore.

Negli scorsi mesi di lezione, sulle cinque paia di scarpe che mi aveva chiesto di riparare, ero riuscito a malapena ad aggiustarne come si deve una, le altre le avevo riassestate in qualche modo, ma si vedeva, perché saltava subito all’occhio, che non era stato fatto un lavoro a regola d’arte!

Per questo, sapevo già che non avrei fatto bella figura durante la prova di questo pomeriggio:

dovevo riparare un paio di scarpe, di solito una delle due era più malconcia dell’altra, in meno di un'ora, nel caso non ce l'avessi fatta, il giudizio sulle mie abilità lavorative sarebbe stato negativo.

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7 L'amico Giacomo, con cui mi esercitavo, era molto bravo, probabilmente perché, da più piccolo prima aveva osservato, poi aveva iniziato ad aiutare suo padre, che era proprio un calzolaio, nella sua vecchia, piccolissima e buia bottega. Lui era molto tranquillo per la prova di abilità alla quale saremmo stati sottoposti, e si era generosamente offerto di aiutarmi, durante la pausa dopo pranzo, a ripassare le tecniche per aggiustare una scarpa.

Quindi, dopo l'ora di pranzo, durante la quale non ero riuscito a mangiare molto, anche se nell’Istituto nessuno lasciava nulla nei piatti con la fame che avevamo, a causa della tensione, ci trovammo nel laboratorio dove eravamo soliti fare lezione. Dopo un lungo tempo in cui mi dedicai a osservarlo al lavoro e ad ascoltare le sue indicazioni, mi sentivo molto meglio ...

Però, mentre ci stavamo incamminando verso l'uscita dell'aula, inciampai su uno dei chiodi che erano disordinatamente sparsi in un angolo della stanza per terra. La suola di una delle mie scarpe era stata trapassata dal chiodo e nel tentativo di estrarlo, si rischiava di dividerla completamente a metà! Adesso come farò a presentarmi all'esame cosi? Ho pensato...

Arrivò, prima del previsto, il maestro calzolaio e con lui l'ora della mia prova e avevo perso tutta la mia confidenza. Dopo essermi presentato davanti al maestro senza una scarpa, egli mi chiese che cosa fosse successo.

Gli spiegai l'accaduto ed egli, con mio grandissimo stupore, non perse la pazienza, e forse perché gli scappava da ridere, fu molto comprensivo, tanto che mi disse di andare a prendere la scarpa

mancante.

Pensai che avrebbe chiesto a qualche compagno, capace, di ripararmela lui, ma mi sbagliavo...

Quando ritornai nel laboratorio con la scarpa, mi disse che sarei stato proprio io quello che avrebbe dovuto ripararla, e che inoltre, se non avessi avuto successo nel farlo, me la sarei dovuta tenere così com'era per i seguenti mesi...

Allora, ho compreso che dovevo impegnarmi il doppio, e dopo essermi ricordato tutti i vari passaggi che in precedenza avevo ripassato insieme al mio compagno, riuscì ad aggiustarla se non perfettamente, diciamo abbastanza bene in meno di un'ora, guadagnando una buona valutazione delle mie capacità lavorative, e fortunatamente una scarpa utilizzabile per il semestre seguente!

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8 Paolo Dell’Anna L’inaugurazione della nuova sede

22 maggio 1910: Quella mattina dovevamo presentarci all'inaugurazione della nuova sede dell’Istituto. La sera prima, ci diedero dei vestiti che avremmo dovuto indossare per quel giorno, dato che dovevamo presentarci in “tenuta da festa”. I vestiti erano stati cuciti per l’occasione, giacca e pantaloni bianchi lunghi, fu al contempo strano ed emozionante indossarli. Ricordo che quella mattina fu molto caotica per tutti noi, la sveglia fu un’ora prima del solito, però ci diedero una razione di pane

più grande per colazione e per le dieci in punto dovevamo essere tutti alla nuova sede.

Quel giorno, dovevamo ‘incontrare’ molte persone importanti, i benefattori e le autorità della città;

i nostri educatori ci avevano fatto tante raccomandazioni e una grande predica sul fatto che avremmo dovuto partecipare all'evento facendo bella figura e senza farci riconoscere. Per i nostri tutori qualsiasi momento era buono per richiamarci in modo che non ci presentassimo come ragazzi maleducati e sfrontati. Quella mattina, bisogna essere sinceri, tutti noi Martinitt eravamo agitati, io in particolare non tanto per le persone importanti che avremmo visto, ma perché quello era uno dei pochi momenti in cui potevamo incontrare le Stelline: tra loro c’era anche la mia sorellina Martina, più piccola di me di tre anni, che non vedevo da tanto tempo. Ricordo che il mio più grande rimpianto, quando entrai nell'Istituto fu il fatto di non essere stato in grado di aiutare, lavorando anch’io (o almeno occupandomi io della sorellina), mia madre che, dopo la morte di nostro padre, aveva dovuto lavorare duramente per poterci sfamare, tanto che si ammalò gravemente di tubercolosi e noi fummo costretti ad entrare nell'Istituto. È ancora oggi molto mortificante per me pensare che l'infanzia di mia sorella sia stata segnata per una mia mancanza; forse ero già abbastanza grande per mettermi a lavorare, almeno così pensavo, o almeno per potermi assumere le responsabilità di aiutare mia mamma occupandomi io di mia sorella, ma non ne ero stato in grado.

Quel giorno, ci spostammo a piedi, tutti insieme e tutti infila, non ricordo altri momenti in cui, dopo che era caduta in disuso l’incombenza per i Martinitt di accompagnare i funerali, ci fecero uscire tutti insieme dall'Istituto, era la prima volta. Arrivati alla nuova sede, fummo accolti dal Sindaco della nostra città con un caloroso benvenuto, era una persona per bene, ci salutò uno ad uno, metteva un grande ottimismo in tutto ciò che faceva o diceva, nei suoi gesti, negli sguardi. Prima della festa, ci raccontò che anche lui era stato da piccolo un orfano, orfano di madre non di entrambi i genitori, fin dalla nascita, la madre era morta subito dopo il parto, mentre il padre aveva avuto il tempo di crescerlo, fargli frequentare ottime scuole, avviarlo alla sua stessa professione e infine lasciargli uno studio ben avviato, nel quale lui stesso aveva dovuto fare da giovane un serio apprendistato. Egli fu d’esempio per tutti noi: una persona come noi diventato sindaco della città.

Questa cosa mi fece riflettere, capii che forse stavo perdendo tempo, avrei già dovuto sapere che cosa fare, una volta uscito dall'Istituto, permettere alla mia sorellina di aspirare ad una vita migliore, invece, anche se in fondo ero un bravo ragazzo, al presente, non ero certo un buon esempio; passavo le mie giornate a litigare con i compagni o rinchiuso in isolamento. Ma perché? Non sapevo rispondermi, era forse un po’ la mia natura, ma ora, ne ero certo, era venuto il momento di tirare fuori tutte le mie risorse per aiutare mia mamma e la mia sorellina.

Martina, l’avevo intravista tra le altre bambine, così dolci, pulitissime e ordinate, nei loro abitini azzurri, color del cielo. Si era girata un momento e mi aveva fatto un cenno di saluto, toccandosi anche con le dita la lieve paglietta che aveva in capo. Ecco per me, quel suo affettuoso e dolce sorriso sciolse ogni resistenza. Martina era la mia sorellina, aveva bisogno di me, ormai ero io l’uomo di famiglia e dovevo proteggerla!

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9 L’inaugurazione fu una grande festa, piena di musica e di buoni dolci; per un giorno, il nostro palato avrebbe assaporato qualcosa di buono, sempre che ne fosse stato in grado dopo tanti anni di pasti dell’Istituto, con quella dieta nutriente, ma poco variata.

La nuova sede era molto bella e spaziosa, ma non ci fu permesso di entrare, l’inaugurazione si svolse nel giardino molto ben curato dell’ingresso principale, mi chiedevo a chi sarebbe toccata la fortuna di ottenere un trasferimento in questa sede. Dopo il pranzo, arrivò il momento di tornare nel nostro Istituto. Riuscii solo a intravedere mia sorella, ci scambiammo un sorriso affettuoso, poi gli educatori ci misero in fila e ci incamminammo per la strada di ritorno. Dopo qualche ora, in cui iniziai a fantasticare sul nostro futuro, tornammo alle nostre monotone vite.

Mattia La Ragione, Io e Lui

Era un martedì sera come tanti. Io, Francesco, ero intento a studiare quella matematica che tanto mi faceva tribolare ma che tanto amavo, quando sentì la campanella che informava noi ragazzi che di lì a poco si sarebbero spente le luci. Sì, perché io non ero un ragazzo qualsiasi: ero un Martinitt e, come tanti dei miei pari, ero orfano di entrambi i genitori. A dir la verità mi ricordo molto poco di loro, essendo morti quando io avevo poco più di 3 anni: ricordo solo l'odore acre del dopobarba di mio padre ed il candido abbraccio di mia madre, nel quale ero solito addormentarmi. Dopo aver chiuso il quaderno, corsi verso il mio letto, poiché mi ricordai di non averlo sistemato quella mattina; appena giunsi lì, però, capii di non aver abbastanza tempo per sistemare completamente il letto, così decisi di nascondere coperte e lenzuola sotto il copriletto, sperando che Lui non se ne accorgesse. Lui era un uomo di mezza età, di un carisma sfiorito forse dal passare degli anni, forse dal vizio dell'alcol, o forse da entrambi. Era sorvegliante notturno nell’Istituto, lavoro che aveva dovuto accettare per vivere, anche se, ad un uomo che, come lui, povero di famiglia, senza

particolari talenti e che non era mai stato considerato, non dispiaceva di essere rispettato e persino temuto almeno dai ragazzi dell’Istituto. Io possedevo un enorme rispetto per Lui; non so se fosse un rispetto sincero, dovuto alla sua figura, oppure un rispetto timoroso, dovuto unicamente alla sua grande severità. Mentre pensavo a queste cose, Lui, passando di letto in letto, si avvicinava a me.

Quando lo ebbi davanti, il cuore dapprima batté all'impazzata, poi di colpo si fermò, facendomi assaggiare l'oblio che avevo potuto indagare solo con la forza della mia mente in certe notti più buie di altre. Solo dopo essere passato al letto successivo, il mio cuore riprese a battere, ed io mi sentì come rinato. Dopo aver terminato di controllare ogni letto, però, Lui si fermò e, dopo essersi tolto gli occhiali, chiamò il mio nome e mi chiese di seguirlo nella stanza adiacente. Nonostante sapessi già cosa mi aspettasse, la solita durissima reprimenda cercai di non pensare a ciò che avrei dovuto ascoltare di lì a poco, ma le immagini nella mia testa si facevano via via sempre più preoccupanti.

Nonostante questo, però, presi coraggio ed entrai nella stanza umida. Lui mi stava aspettando e, con fare distaccato, mi disse che avevo tre possibilità per pagare l'errore commesso. Ahimè sapevo già quali sarebbero state le possibilità che mi avrebbe dato, avendole già provate tutte, e non mi soffermerò qui a descriverle: un giorno in punizione a pane e acqua, con quel freddo invernale,

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10 doppio lavoro e non retribuito al laboratorio, un giorno in punizione e niente ricreazione.

Era un martedì sera come tanti, ed io sognavo un giorno di diventare come Lui.

Niccolò Molinari, Anche se mi sentivo solo, ero tutto sommato un ragazzo fortunato!

Ero un martinitt, come tutti gli altri, durante la giornata ero solito svolgere tutte le attività

dell’Istituto e ogni due settimane avevo la possibilità di uscire da quel luogo, attraversare il centro della mia città e vedere per strada tutte le persone che erano sì libere, ma che conducevano un vita molto faticosa e precaria. Camminavo in fretta per raggiungere la via di casa, in quella casa ormai mi aspettava solo mia madre che lavorava come lavandaia fino a giorno inoltrato e a tarda notte per poter comperare un po’ di pane la sera.

Ogni volta che uscivo dall’Istituto, mi venivano in mente tutti i momenti duri passati durante l’infanzia, momenti quasi sempre di grandi fatiche, ma anche di libertà e spensieratezza, a giocare in cortile, nella casa di ringhiera, con i miei fratelli e con i ragazzini figli dei vicini.

Ora, quando vedevo per strada ragazzini della mia stessa età che lavoravano da muratori per 14 ore al giorno, faticando molto per spostare la carriola carica di laterizi, oppure quando vedevo ragazzi ancora più piccoli che venivano sfruttati come spazzacamini solo per la loro esile corporatura, in quei momenti mi rendevo conto della grande possibilità che mi era stata data di studiare e di imparare un mestiere, nonostante il fatto che fossi molto triste perché non avevo più il papà.

Niccolò Plateroti, Nella stamperia dell'Istituto Martinitt

Per noi ragazzi, la stamperia rappresentò un’attività interessante; personalmente, decisi di chiedere di poter partecipare a questo corso perché pensavo fosse semplice e non richiedesse sforzi elevati, ma una volta cominciato mi accorsi della sua complessità. Dal primo momento in cui entrai nell’aula, rimasi affascinato dalla particolarità degli strumenti, poi cercai un posto dove sedermi e l’unico posto libero fu vicino a Giovanni, un ragazzo simpatico e molto educato, riuscimmo a parlare per cinque minuti, prima di cominciare la lezione, si presentò e mi chiese qualche informazione sul corso, ma gli risposi di non essere molto preparato al riguardo, così parlammo d’altro e aspettammo che il professore cominciasse a dirci che cosa avremmo dovuto fare.

Nel primo periodo, feci fatica ad imparare bene come si facesse, chiesi dei consigli a Giovanni, ma non mi fu di aiuto, così mi rivolsi spesso al nostro insegnante, il quale mi diede poche ma precise indicazioni, così una volta presa la mano, non riscontrai più difficoltà. Da allora, mi sentii sempre più bravo e spinto a migliorare; spiegai anche a Giovanni come fare e ci divertivamo a farlo insieme.

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11 Planche de l’Encyclopédie

Un giorno, mentre mangiavamo a pranzo, mi confidai con Giovanni, gli dissi che molto spesso mi tornava in mente mio padre e quanto mi mancasse, ricordo che a volte quando andavamo al

laboratorio di stamperia, se il nostro insegnante ci chiedeva, in ipotesi, per fare esercizio, di scrivere tre righe da spedire a qualcuno, io scrivevo a mio padre anche se ero consapevole che egli fosse scomparso sui campi di battaglia della Grande Guerra.

Mia mamma se la portò via l'epidemia di febbre spagnola che fece milioni di vittime dopo la guerra.

Le ero così affezionato che non riuscivo a pensare ad altro.

Il laboratorio rappresentò un'occasione per fare amicizia anche con altri due miei coetanei, in particolare Filippo e Francesco, con i quali, insieme a Giovanni, nel tempo libero, mi fermavo sempre a chiacchierare.

Ricordo come i momenti più divertenti fossero quelli in cui, quantunque il professore ci rimproverasse, alcuni di noi scherzavano durante la lezione.

Ero contento di aver stretto un’amicizia con loro per pensare meno a mia madre e a mio padre, ma la distrazione migliore fu la stamperia, dove potevo impegnarmi in qualcosa che mi piaceva e allo stesso modo mi divertivo con la mia nuova famiglia.

Mi trovai sempre bene in questo posto, nonostante il grande dolore di aver perso i genitori che mi turbò in tutto quel periodo: riuscì a passare gli esami a pieni voti come speravo accadesse anche se con una condotta non sempre irreprensibile.

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“Riflessioni di un affamato” di Longoni

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14 Simone Resmini Al risveglio

Col sorgere del sole, iniziarono a delinearsi i contorni degli antichi palazzi, dietro i quali, i numerosi edifici acquistavano la loro bellezza venendo irradiati dalla luce di questo sole primaverile.

Il calore portato dal sole scioglieva la rugiada che si era formata sulle finestre dell'Istituto, i primi lavoratori iniziavano ad incamminarsi, avvolti nei loro cappotti, per una città ancora avvolta nel sonno, ma che si stava destando perché si sa che a Milano "Fà e desfà l'è tut un laurà".

Sentii in lontananza riecheggiare il suono della campana di un’altra chiesa non lontana dall’Istituto, San Faustino, a cui si stavano recando i primi fedeli per assistere alla messa.

L'ora del risveglio dell’intera città si avvicinava sempre più e anche i primi mercanti di frutta, verdura, uova, formaggi, appena arrivati dalla campagna, avevano iniziato a prender posto, con i loro carretti, nella piazza dove quotidianamente vendevano le loro merci.

Io ero un orfanello, come tutti gli altri, e di alzarmi dal letto non avevo la minima voglia, ma dovevo sbrigarmi se volevo arrivare ai bagni per lavarmi con l’acqua gelida, prima dei soliti ritardatari.

La sera precedente io e il mio amico Giovanni avevamo conversato a lungo, su come potesse essere meravigliosa la vita al di fuori dell'Istituto, difatti noi eravamo giunti in questo luogo in tenera età e non ricordavamo molto della vita esterna e nemmeno di coloro che tra i nostri cari erano morti prima che fossimo ammessi in Istituto.

Tuttavia, ci ritenevamo comunque ragazzi estremamente fortunati poiché dopo la morte dei nostri genitori, ci avevano accolto a braccia aperte, senza fare distinzioni di classe sociale, e ci avevano dato la possibilità di costruirci un futuro. Eravamo tutti di famiglie povere e in difficoltà

economiche, anche se chi più e chi meno.

Il nostro desiderio era di poter un giorno abbandonare quella regolarità di orari e norme che scandiva, durante il giorno, un insieme di azioni svolte ripetutamente da ormai dodici anni che per quel senso di costrizione che non potevamo fare a meno di provare, ci rendeva in alcuni momenti tristi.

Avevamo solo quindici anni, e molti di noi non avevano mai assaporato la dolcezza di un abbraccio materno, di un incoraggiamento paterno, oppure la soddisfazione di render fieri di noi i propri cari per qualche opera ben portata a termine.

Difatti, mio padre era morto in guerra battendosi valorosamente, dopo la disfatta di Caporetto, per la nostra patria, mentre mia madre, una tessitrice dalla quale andavano le signore e specialmente le future sposine a farsi fare l’abito, a causa delle ristrettezze e degli stenti della vedovanza, si era ammalata per il freddo ed era morta, dopo alcuni mesi, per tubercolosi.

Avevo passato quasi mezz’ora dell’alba a rimuginare su questa conversazione, in un momento di sogno, trasportato in un’infanzia passata, quando c’erano ancora i genitori, che non sarebbe tornata mai più, tuttavia questo momento fu interrotto dal consueto suono della campana del nostro

amatissimo tutore.

Sempre vestito con la sua divisa blu e pettinato perfettamente con la riga centrale, era la persona che più odiavamo poiché ogni mattina ci portava via dal nostro mondo di sogni e ci obbligava ad alzarci di corsa, a vestirci in fretta, a rifare il nostro letto di prima mattina.

Come ogni mattina, da quando il nostro lato ribelle adolescenziale era venuto allo scoperto, tutto ciò non fu affatto piacevole poiché i nostri sogni erano una sorta di mondo parallelo in cui potevamo essere chiunque volessimo e andare nei posti più lontani, dovunque volessimo.

Quella mattina, il tutore ispezionò molto accuratamente come ci fossimo vestiti, come fossero stati fatti i letti e come al solito ne disfò alcuni perché erano stati fatti male. Per fortuna, quella mattina il Padre eterno ascoltò le mie preghiere.

Dopo questa sorta di appello, raggiungemmo la grande sala adibita alla colazione, unica nota allegra di queste mattinate. Oggi, ci stava però attendendo anche un sole splendente, come non si vedeva da

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15 mesi. A colazione quella mattina, alcuni raggi di sole illuminarono la tavola, alcuni di noi bevvero la loro tazza di latte con il sole negli occhi: eravamo contenti.

Finimmo la colazione il più velocemente possibile e ci dirigemmo ai bagni, dove ci sciacquammo le mani e ci pulimmo i denti con l’angolo del tovagliolo.

Quella fu una bella mattina e mi portavo nel cuore l'auspicio che la mia intera esistenza sarebbe migliorata. Mi diressi nelle classi, marciando, in fila per due, con il mio amico Giovanni.

Alcuni anni più tardi, saremmo entrambi stati ammessi a far parte della banda dei Martinitt.

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16 Emanuele Tassinari Martinitt in Refettorio

Il refettorio era uno dei luoghi preferiti di noi ragazzi poiché rappresentava un agognato momento di pausa dal lavoro e dalla scuola. Quasi correvamo per arrivare alla sala, sperando di evitare la fila che si formava davanti al pentolone del cuoco, fila che mi sembrava interminabile quando ero affamato. Le porzioni erano piccole e il minestrone poco invitante, ma di certo tutto era meglio di niente.

Fuori dell’Istituto, bambini e ragazzi delle classi sociali povere mangiavano poco e male.

L’ampia sala era ben illuminata dalle grandi finestre poste sul lato destro del refettorio ed era cosparsa da lunghi banconi affiancati dalle panche su cui ci stringevamo noi ragazzi. Nella sala erano presenti anche i nostri educatori e i sorveglianti, che avevano il compito di sorvegliarci e di mantenere la calma, mentre noi desideravamo solamente sfogarci dopo ore di tedio in classe e in laboratorio. Insieme alla zuppa, ci veniva dato un pezzo di pane raffermo che usavamo per raschiare il fondo del piatto. Teoricamente, secondo il regolamento, ad ogni ragazzo era assegnato un posto preciso su un bancone dove stare ma riuscivamo sempre a stare seduti con i nostri amici. Come mio solito, quel giorno decisi di sedermi vicino a Gianluca, un ragazzo di quindici anni con cui avevo legato nell'officina del calzolaio, con cui parlavo a bassa voce per non farci richiamare dagli educatori che chiedevano il silenzio. Lo vidi stranamente irrequieto e glielo feci notare. Mi rispose che “Non ne posso più di stare in orfanotrofio, mi sento rinchiuso, prigioniero di tutte le regole che sono qui in vigore, non sopporto di essere continuamente sgridato e comandato da tutti, insegnanti, sorveglianti, alle volte pure da altri ragazzi. Desidero scoprire che cosa il mondo di fuori abbia in serbo per me, voglio rivedere mia madre ed i miei fratelli che ormai da tempo non vengono a trovarmi e voglio trovarmi un lavoro, qualcosa di più interessante che riparare scarpe tutto il giorno”. “Non capisco che cosa intendi dire, come pensi di fare tutto ciò?” gli chiesi. “Voglio scappare, ecco cosa voglio fare!” mi rispose, con un sorriso malizioso “E vorrei che tu venissi con me!”. Allarmato, gli replicai: “Ma sei impazzito? Che ti passa per la testa, non possiamo scappare!”.

“Abbassa la voce, dannazione, vuoi che ti senta tutto il refettorio?!” fu la risposta di Gianluca, che si guardò attorno per controllare se qualcuno avesse dato segni di aver sentito, ma sembrava che tutti fossero troppo indaffarati con le proprie faccende per pensare a noi. Abbassai quindi la voce:

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“Ma non ti sembra di star esagerando i tuoi problemi? Certo, non siamo esattamente liberi di fare quello che vogliamo, però di certo non siamo nella stessa condizione dei carcerati. Che fretta hai di andartene, tanto tra tre anni sarai comunque costretto a farlo; anzi, ci conviene per il momento approfittare di avere un tetto sopra la nostra testa e del cibo sulla tavola. Se davvero sei così scontento di fare il calzolaio, chiedi di farti cambiare mestiere, ma non vorrai mica dirmi che preferiresti stare con la testa sempre piegata sui libri. Mi spiace però che tu non riesca a vedere la tua famiglia, in questo non so proprio come aiutarti, magari puoi chiedere al rettore di mandar loro una lettera, forse è in grado di aiutarti. Non scappare, ti prego, senza di te mi sentirei molto più solo”. Gianluca stette in silenzio per un po', senza sapere che cosa dire, con gli occhi fissi per terra, finché tornò a guardarmi negli occhi e mi disse: “Hai ragione, scusami, sono stato troppo avventato, ma lo sai come sono, quando sono giù di corda reagisco istintivamente. Cercherò di fare come mi hai consigliato. Sono contento di poter sempre fare affidamento su di te quando c’è bisogno”.

“Tranquillo, è normale sentirsi cosi, pure io a volte sento che vorrei fuggire non so dove, ma l'importante è sapersi fermare in tempo. Godiamoci questi anni di gioventù, finché possiamo”.

Manuel Vita Rissa nell’ora di ginnastica

Era l’ora di ginnastica quel giorno, e le fredde pareti della palestra fischiavano a causa del forte vento che soffiava nutrito dalle gocce di pioggia dell’inverno. I ragazzi, come di consueto, non ascoltavano molto i fischi dell’allenatore, perché quell’ora costituiva per loro un momento di oblio dal quotidiano turbamento, che provavano stando rinchiusi nell’Istituto. Certo, nell’Istituto

mangiavano, avevano letti puliti, si lavavano regolarmente, studiavano e imparavano un mestiere, pure, a volte, avrebbero voluto essere liberi. Due ragazzi, Lorenzo e Franco erano nell’angolo del grande cortile dell’Istituto che si trovava vicino agli spogliatoi e stavano giocando a pallone, con una specie di sfera composta da strati di tessuto. Lorenzo era un ragazzo non molto alto di statura, ma a modo suo slanciato perché esile di corporatura, una chioma di capelli ricci, biondo scuro gli incorniciava il volto. Era tranquillo e solitario, laborioso e studioso, anche se a volte molto triste, pur continuando ad essere gentile con i compagni e con tutti. Sua madre era morta partorendo il fratellino più piccolo e il padre aveva dovuto lasciarlo poiché non poteva provvedere alla sua

sussistenza, era emigrato oltralpe in cerca di un lavoro e ora, dopo più di due anni, non si sapeva più dove potesse essere. Di sua mamma si ricordava molto poco, perché era piccolo quando era morta.

Il ricordo del padre era anch’esso divenuto sempre più vago e offuscato col passare degli anni, pure Lorenzo ne conservava, quasi con ostinazione, un frammento di ricordo al quale era affezionato come alla sua stessa vita.

Franco, invece, carnagione, occhi e capelli scuri, era cresciuto molto, per la sua età, di statura in pochi anni, era ormai di corporatura robusta e si sentiva sicuro di se; mostrava un senso di fierezza ed esprimeva un senso di contentezza. Quest’ultimo era un sentimento non estraneo tra i suoi compagni, dopotutto erano giovani, ma raro tra i ragazzi dell’orfanotrofio: ognuno di loro aveva sofferto e soffriva ancora per la mancanza dei genitori, anche se esser tutti raccolti insieme, con storie tutte diverse ma con elementi in comune aveva alimentato una grande solidarietà e, in molti casi, amicizie che sarebbero durate anche negli anni a venire. Franco aveva imparato fin da piccolo a stringere i denti per lottare per sopravvivere. Dopo la morte della nonna, che aveva in qualche modo badato ai nipoti rimasti orfani, non c’era più nessuno che avrebbe potuto consolarlo se si fosse sbucciato un ginocchio correndo, prima di entrare in Istituto era già stato mandato a lavorare.

Questa ‘sicumera’ che Franco ostentava era solo una maschera, per coprire e nascondere anche a se stesso il suo vero stato d’animo. Anche lui aveva perso la madre, e del padre si ricordava

pochissimo, si potrebbe forse dire che non lo aveva conosciuto perché era partito quando lui era molto piccolo. Era stato cresciuto, insieme al fratellino più piccolo, dalla nonna, che pero mori dopo

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18 pochi anni, così lui fu portato all’Istituto, poco dopo, all’ età di soli 9 anni, ne aveva 13 quel giorno, mentre Lorenzo era più piccolo di lui di 1 anno e pochi mesi.

Franco e Lorenzo non erano amici, anzi diciamo pure che non si ‘stavano per nulla simpatici’, ma l’orfanotrofio, pur accogliendo molti ragazzi orfani, era relativamente piccolo ed era inevitabile, una tantum, l’incontro tra i due, pur cercando entrambi, istintivamente, di mantenere le distanze.

Quel giorno, Lorenzo era spensierato, come se stesse vivendo una vita serena, senza dolore o pena, senza tristezza né malinconia. Ogni tanto gli accadeva, dimenticava per qualche ora la sua

condizione di orfano, dimenticava le mura e le stesse regole austere dell’Istituto che, in altri momenti, avvertiva come quelle di un carcere minorile.

Quel giorno, Franco era, invece e fin dal primo mattino, scontroso, burbero, con scatti d’ira e

prepotenza nei confronti dei compagni più giovani. Così, proprio quel giorno, si ritrovarono faccia a faccia, all’improvviso, giocando ciascuno dei due nella squadra di calcio rivale.

Ad un certo momento, si senti un “goal” urlato da Lorenzo, con un sorriso ed una voce gaia ch’egli non si ricordava neanche più di poter avere, mentre Franco che, con un’espressione scura in volto e con uno sguardo torvo, lo seguiva già da quando era entrato nell’area di rigore, rispose con tono brusco “finalmente ha segnato pure il nano”, soprannome dato a Lorenzo dai sui compagni, con riferimento alla sua statura. Lorenzo era abituato a queste ‘frecciatine’ e rispose scherzosamente

“aspetta qualche anno, e mi arriverai all’ombelico, così forse riuscirai a passarmi sotto le gambe senza perdere la palla!”. Il resto dei compagni, divertiti, risero.

Franco, vedendo qui ghigni ironici diretti a lui, urlò “così, magari, potrai abbracciare il padre che ti ha lasciato qui dentro!” Lorenzo aveva conservato intatti nel suo cuore stima e affetto per il padre, nonostante il poco tempo che avevano passato insieme; si ripeteva, tutte le sere, prima di andare a dormire, la solita frase che si ricorda tale e quale a come era uscita dalla bocca del padre: “la vita separa gli uomini (dunque lo aveva riconosciuto come un uomo, lui che era ancora poco più di un bambino) per renderli più forti, e quando saranno forti abbastanza potranno stare assieme”.

Lorenzo, allora, era piccolo non poteva comprendere il senso della frase, anche se aveva ben compreso che il padre gli stava facendo una promessa solenne, quella che si sarebbero rivisti un giorno. Quella frase era l’unica cosa che gli rimaneva di lui. Sentita la perfida frase pronunciata da Franco, si girò di scatto e corse verso di lui, a testa bassa, come un cervo ferito, sbraitando “tu non sai niente di papà, un giorno lui mi verrà a prendere” con le lacrime agli occhi i pugni stretti e il diaframma compresso si scagliò su di lui, Franco, più alto e robusto, lo respinse indietro e lo colpì allo stomaco con un pugno che lo scagliò a terra. Il sorvegliante prese Franco per le braccia, un altro sorvegliante prese Lorenzo per i capelli e li trascinarono a forza dal direttore dell’Istituto, il più temuto dai ragazzi, per le punizioni severe che assegnava. Lorenzo, mentre veniva trascinato per i capelli, e poi chiese, quasi implorò il sorvegliante di lasciarlo che avrebbe camminato con le sue gambe, non sentiva più il dolore del pugno, né l’odore dell’umido terriccio, ma solo quello della mancanza di suo padre, versando calde lacrime, di un dolore a lungo rappreso, sulle terse e gelide piastrelle del corridoio, ripeteva con voce sempre più flebile, ormai forse solo più per sé per persuadersi del suo valore di profezia, quella frase, che era l’unica speranza alla quale ormai si aggrappava, anche nei momenti più difficili. Lorenzo fu messo in castigo, spinto a forza in una stanzetta piccola e poco luminosa, lo sgabuzzino dei rastrelli di ferro per raccogliere le foglie dal cortile in autunno, a pane e acqua.

Anche Franco fu messo in castigo perché, a detta dei compagni quei due non facevano altro che litigare, rovinando a tutti il piacere del gioco.

Franco fu spinto nello sgabuzzino delle ramazze, dei secchi di metallo, dei grossi saponi di

Marsiglia, a pane e acqua, a schiarirsi anche lui le idee. Fu così che, qualche ora più tardi, sbollita la rabbia, iniziarono a bussare sulla biacca sgretolata della parete divisoria delle due parti dello

sgabuzzino del custode, e a parlarsi attraverso il muro. Il primo a raccontare fu Franco perché aveva

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19 un grande timore di essere espulso dall’Istituto e di dover tornare a casa, dove non c’era da

mangiare per tutti.

Ettore Ximenes, Ragazzi in rissa, 1878

Manuel Ferrari, Biagio il sorvegliante

Appena vide i ragazzi che si stavano picchiando usci dal suo ufficio per andare a separarli.

L’educatore si chiamava Biagio Ambrosi, era un uomo di mezza età non molto alto e paffuto.

Quel giorno, indossava sotto la divisa il suo abito migliore, poiché più tardi avrebbe dovuto andare al funerale dell'anziano padre, scomparso la mattina precedente.

L'uomo, preoccupato per le grida dei compagni, si precipitò sul luogo del la lite; i due ragazzi si stavano malamente malmenando, assestandosi reciprocamente pugni e ceffoni e tirandosi i capelli.

Li prese entrambi per un braccio, minacciandoli anche di farli espellere dall'Istituto, ma gli ci volle molta forza per dividerli.

Nonostante i due litiganti si scusassero per ciò che avevano fatto, Biagio assegnò loro una punizione.

Furono costretti all'isolamento per ventiquattro ore. Ciò implicava anche il digiuno, sarebbero stati dati loro solo pane ed acqua.

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Le Stelline

Angelo Morbelli, “Meditazione”

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21 Angelo Morbelli, Anima triste

Emilio Longoni, Sola!

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22 Toma Gioacchino (Galatina (LE) 1836 - Napoli 1891) Il viatico dell'orfana

Emilio Longoni, Malinconia, 1895.

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23 Due Stelline: Rosetta e Celestina

Opera di Lucia Guadalupe Guillén

Rosetta, detta Etta e Celestina, per tutti Tina, erano due gemelline tanto carine quanto a volte sotto sotto, tra di loro, senza darlo a vedere, litigiose e capricciose. Certo con quei lindi grembiulini azzurri, col collettino arrotondato bianco, con la stellina di stoffa gialla cucita sul cuore e sfoderando quei loro deliziosi sorrisini, nelle loro espressioni candide, con quei grandi occhi spalancati in atto di ammirazione verso la maestra, nessuno l’avrebbe mai detto!

Ma quando erano da sole, al mattino nei bagni, mentre si lavavano, si schizzavano l’un l’altra; di sera si nascondevano a vicenda le pianelle, mandandole con un calcetto sotto il letto, in un posto difficile da raggiungere senza sporcarsi tutte. Così, appena erano sicure che nessune le vedesse e le ascoltasse, si facevano di continuo piccoli dispetti, aggiungendovi una buona dose di paroline apparentemente gentili, ma in realtà petulanti, nel continuo vicendevole rimbrottarsi: perché hai fatto questo? Non capisci proprio niente! Potresti restituirmi la spazzola, che, con quei quattro capelli che hai, non ti serve a molto? Ti aiuto io a vestirti che, da sola, non sei capace di far nulla!

Era un continuo, piccoli sorrisini, smorfiette, finte riverenze, finti complimenti, finte offerte di soccorso… Era il loro piccolo segreto, non lo sapeva nessuno, o quasi, poiché le loro compagne di letto, le richiamavano alla sera perché volevano dormire mentre loro stavano ancora, sia pur sottovoce e con paroline agrodolci, bisticciando.

Per il resto, erano inseparabili, si volevano un gran bene e l’una sarebbe immediatamente corsa in soccorso dell’altra, in caso di difficoltà o bisogno. In classe, si suggerivano a bassa voce,

controllando la verifica di latino o gli esercizi di matematica.

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24 Avevano anche pensato di sostituirsi l’una all’altra una volta per un compito difficile di matematica, ma desistettero al pensiero delle sanzioni, a quell’epoca assai severe, previste in questi casi. Rosetta scriveva bene in italiano ed era brava nei temi, Celestina preferiva la matematica, anche se nessuna delle due eccelleva nei calcoli, era invece brava nelle applicazioni tecniche e nell’economia

domestica.

Con la morte del padre, avevano molto sofferto, ma le aveva cresciute la madre, lavorando di giorno e di notte come lavandaia. Le bambine si erano affezionate ancora di più alla madre e quando la povera donna rientrava a casa stremata, le due piccole le correvano incontro ad abbracciarla, stringendole con le braccine le gambe, cosicché lei doveva appoggiare la grande cesta della biancheria da rammendare a casa, sul tavolo e sedersi sulla grande seggiola per farle salire tutte e due sulle sue ginocchia, minacciandole di rimetterle immediatamente per terra se non avessero interrotto di contendersi la mamma.

Poi un giorno terribile, la madre era morta, sul suo letto, in preda a una febbre che non accennava ad abbassarsi, stroncata da una bronchite che in quell’inverno gelido l’aveva colpita e che si era

avventata sulla povera donna, la cui tempra era logorata dalle fatiche di tutti quegli anni, dagli sbalzi di temperature tra i miasmi e vapori umidi e caldi della lavanderia e il vento freddo, le nebbie della strada.

Le bambine, che erano rimaste sveglie tutta la notte, nella stanza, insieme a tutte le donne che erano venute e dire il rosario, iniziarono a piangere senza fine; non potevano credere che la loro mamma le avesse lasciate da sole, non volevano alzarsi dalle loro seggioline, si tenevano con le manine attaccate alle sbarre del letto della madre, fino a quando avevano dovuto portarle via con la forza, per fare il funerale.

Le due gemelline non avevano parenti che se ne potessero occupare, così, la settimana successiva, ancora pallide, smunte, con quegli occhi scavati e tristi per il gran pianto, entrarono nell’Istituto delle Stelline e ci vollero dei mesi perché si riprendessero.

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25 Vittoria Mancini, Che cosa facciamo, noi Stelline, nell’Istituto

Mi chiamo Giovanna, ho 10 anni e vivo nell'orfanotrofio femminile Le Stelline di Milano. In questa struttura, insieme alle mie compagne, posso ricevere un’istruzione elementare obbligatoria delle quattro classi, impartitami da quattro maestre che possiedono la patente di grado superiore, ed anche i fondamenti della nostra educazione. Intendo sia i lavori femminili(donneschi), come il cucito, la sartoria, il ricamo, la stiratura, il taglio e la confezione della biancheria; sia le faccende domestiche, come cucina, infermeria e guardaroba.

All’interno dell'orfanotrofio, le mie compagne dotate di maggiore intelligenza e capacità, dopo aver frequentato la c.d. “Scuola normale”, avevano la possibilità di frequentare il successivo Corso Magistrale per ottenere la patente di Maestra. Uno dei miei sogni era proprio questo, ossia diventare una brava insegnante così da poter dare alle orfanelle come me che incontrerò la possibilità di ricevere una buona istruzione.

Le nostre giornate trascorrevano frequentando la scuola, dove i programmi erano conformi a quelli ministeriali, e dalla quarta

elementare in poi anche molti corsi pratici riguardanti le attività

domestiche. Eravamo obbligate a frequentare questi ultimi perché tutte noi Stelline, una volta dimesse dall’Istituto, saremmo diventate per lo più cameriere, governanti, operaie e impiegate nelle varie manifatture.

La mia gioia più grande la provai quando venni ammessa alla Scuola di Canto, grazie alla mia spiccata attitudine musicale. Qui potevo apprendere la conoscenza della musica e l’arte del canto, corale e solista. La mia passione era quella di imparare a suonare il pianoforte, così potei intraprendere il secondo corso della durata di due anni della Scuola Musicale, che comprendeva, oltre allo studio complementare del pianoforte, il canto

propriamente detto, l’educazione vocale e i vocalizzi.

La mia più cara amica Maria

frequentava, invece, il primo corso che era più centrato sull’istruzione corale, ed era molto felice anche lei di questa opportunità che le era stata data.

Ogni anno scolastico terminava con un esame che tutte noi Stelline dovevamo sostenere in presenza di una

commissione, così che potessimo ottenere una valutazione delle nostre competenze.

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26 Matilde Masetti e Carlotta Tartufoli, Due Stelline

L'intero dormitorio giaceva assorto nel sonno e avvolto nel buio della notte, erano le dieci di sera ed entrambi i comprensori, dei Martinitt e delle Stelline, erano avvolti in un impenetrabile silenzio.

L'unico rumore percepibile era il dolce e cadenzato suono dei tacchi della sorvegliante che stava svolgendo il suo ultimo giro di controllo nella camerata femminile.

Angelina continuava a rigirarsi nel letto alla ricerca di una posizione comoda che le permettesse di riuscire a riposarsi per quelle poche ore di sonno che le erano concesse. Passarono una decina di minuti ed improvvisamente lo scricchiolio della porta della stanza che si chiudeva, risuonó in tutto il dormitorio; ora, l'unico rumore udibile era quello dei passi della sorvegliante che, piano piano, si allontanava, giù per le scale.

Così Angelina si arrese all'insonnia e si mise a sedere a gambe incrociate sul proprio lettuccio nella speranza di scorgere qualche sua compagna che, non riuscendo a dormire, le avrebbe potuto fare un po' di compagnia.

Iniziò così a guardarsi intorno, sussurrando in modo concitato i nomi delle sue amiche nella speranza che almeno una di loro fosse sveglia. Nessuna delle sue amiche le rispose, senonché penetrò nell'accecante buio una vocina sonora e squillante, una voce nuova.

Angelina, dopo aver recuperato sul suo comodino i suoi occhiali, si diresse piano piano verso quella nuova figura lasciandosi guidare dal suono della sua dolce voce.

In breve, si ritrovò davanti all’ultimo letto della camerata e per accertarsi di aver trovato quello da cui proveniva la voce chiese sottovoce: “Sei sveglia? Sei tu che mi hai risposto?”

“Si sono io, siediti qui con me, non mi piace stare da sola al buio”

Angelina si sedette su quel letto bianco uguale al suo e cercò di scorgere nel buio la figura che le stava accanto. Non era riuscita a riconoscere la voce e le sembrava, da quel poco che riusciva a

vedere, di non averla mai né incontrata, né vista prima.

Il dubbio di Angelina si chiarì proprio nell’istante in cui faceva queste riflessioni.

La compagna misteriosa le si avvicinò e disse:” Mi chiamo Mariuccia, sono stata ammessa all'Istituto due giorni fa, non ho nessuna amica con cui parlare e mi farebbe molto piacere se tu restassi un po’ qui con me”.

Le due Stelline si misero una di fronte all’altra ed iniziarono a parlare.

Il primo argomento fu la

sorvegliante; concordarono sul fatto che fosse una donna un po’ rigida e severa, ma che, in fondo, avesse un cuore d’oro e volesse bene a tutte le ragazze dell'Istituto.

Dopo aver parlato del cibo della mensa perché all'Istituto si mangiava di più e meglio che a casa, e della difficoltà di alcune lezioni, Angelina chiese a Mariuccia:” Cosa è successo alla tua famiglia?

Perché sei qui?”

Subito si rimproverò per la franchezza con cui aveva posto questa delicata domanda alla nuova compagna.

Mariuccia, dopo un attimo di silenzio, rispose:” In realtà credo di non aver mai avuto una famiglia,

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27 ho visto i miei genitori così poco che non mi ricordo neanche più le loro facce.

Mia madre è morta quando avevo solo due anni a causa di una malattia che nessun medico aveva saputo riconoscere, mio padre si è arruolato nell’esercito quando avevo 6 anni e non è più tornato.

Io sono rimasta a casa con i miei nonni che mi hanno accudita fino ad adesso ma che non possono più occuparsi di me per i gravi problemi economici che li affliggono.

Settimana scorsa è arrivata una lettera a casa.

Era una lettera semplice: sulla carta giallastra erano scritte soltanto poche parole in cui venivano fatte le condoglianze alla famiglia per la morte di Giuseppe Viganò, deceduto in guerra per il suo paese.

Il mondo mi crollò addosso, avevo vissuto quegli ultimi anni aspettando ogni giorno il ritorno di mio padre e quella terribile lettera mi risvegliò bruscamente dal quel sogno.

Anche i miei nonni si disperarono, non potevano più mantenermi e la loro unica speranza era il ritorno del loro unico figlio che era mio padre.

Iniziarono a cercare una soluzione che potesse permettermi un giorno, quando loro non ci sarebbero stati più, di vivere bene e quindi eccomi qui.”

Una lacrima solcò la guancia di Mariuccia, ma Angelina non fu in grado di scorgerla nel buio.

La Stellina che era nell'Istituto da più tempo si sentì in dovere di raccontare anche la sua storia ed iniziò: “Io invece i miei genitori li ho conosciuti bene, ho passato praticamente ogni giorno della mia infanzia con loro e con le mie due sorelle, Anna e Augusta.

Vivevamo in una vecchia casa, all'interno della prima cerchia di Milano e avevamo una piccola panetteria.

Eravamo davvero felici, nonostante il fatto che in casa del panettiere, il padre e la madre lavorino dalle primissime ore dell'alba e la nostra condizione di ristrettezze economiche.

Mi ricordo che tutte le mattine mio padre dava sempre a noi figlie il primo pane che sfornava e noi iniziavamo a litigare per la porzione che spettasse a ciascuna.

Un giorno mio padre ricevette un ordine di pane inconsueto e chiese ad Anna, Augusta e me di fare al più presto la consegna. La casa a cui consegnammo il pane era un po’ più bella della nostra, ma sempre vecchia e decadente.

Quando bussammo alla porta venne ad aprirci una signora ormai anziana che con un grande sorriso che le illuminava il volto ci pagò e ci diede anche un po’ di spicci in più.

Io e le mie due sorelle ringraziammo entusiaste e appena la donna chiuse la porta iniziammo a fantasticare su come avremmo speso quel piccolo gruzzolo che avevamo guadagnato.

Tra chiacchiere e proposte, il tragitto fino alla panetteria di papà sembrò brevissimo, ma appena arrivammo davanti al vecchio edificio capimmo che qualcosa non andava.

La porta era spalancata e una delle due finestre era andata in frantumi.

Corremmo dentro e tre urla infransero il silenzio di quel pomeriggio autunnale.

Mio padre era steso per terra in una chiazza di sangue, provai a scuoterlo e a chiamarlo ma ormai non c’era più nulla da fare, era morto.

La mamma era seduta in un angolo che piangeva in silenzio, con un'espressione di terrore sul viso e appena ci vide corse ad abbracciarci per cercare come poteva di proteggerci da quella vista.

Ci raccontò che erano entrati due uomini armati di coltelli che con fare minaccioso avevano ordinato a mio padre di dare loro tutti i soldi che aveva.

Papà aveva provato ad opporsi e il più grosso dei due uomini lo aveva accoltellato al petto, a quel punto la mamma aveva dato ai due delinquenti i nostri soldi e aveva cercato di salvare mio padre, ma era troppo tardi.

Quella sciagura segnò la fine del nostro periodo di infanzia felice: non avevamo più soldi e neanche un’attività da cui ricavarne.

Ci mancavano infatti i soldi per riparare i danni fatti alla panetteria e per comprare la farina.

Dopo un anno molto difficile, mia madre comprese che tre figlie da mantenere erano troppe e scelse di mandare in questo istituito la più grande delle tre, cioè io”

Mariuccia rimase senza parole dopo aver sentito il racconto della compagna e mossa da un moto di

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28 compassione la abbracciò forte.

Dalla finestra iniziò ad entrare la tiepida luce del primo sole dell'alba e Angelina decise che era arrivato il momento di tornare nel suo letto.

Se la sorvegliante le avesse viste così avrebbe probabilmente mandato entrambe in punizione ed Angelina, con i suoi modi popolari, spesso sgarbati di ragazzina a volte un po' riottosa e solitaria, anche se era di buon cuore, era stata mandata in isolamento già troppe volte.

Salutò Mariuccia e si diresse verso il suo letto, con l'intima, inconfessabile gioia di aver trovato una nuova amica.

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