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Un Progetto di Riforma per un processo civile unitario nel diritto di famiglia. - Judicium

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Sibilla De Paolis

Un Progetto di Riforma per un processo civile unitario nel diritto di famiglia

. La proposta dell’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia

SOMMARIO: 1. Un’esigenza di razionalizzazione. - 2. Il Progetto di riforma: l’ambito di applicazione. -

3. La competenza. - 4. Il procedimento di primo grado. – 4.1. Brevi osservazioni sulla separazione e divorzio. – 5. I mezzi di impugnazione e la fase di attuazione.

1.Un’esigenza di razionalizzazione.

Il diritto di famiglia, è noto, disciplina situazioni giuridiche eterogenee e molteplici.

E’ proprio la peculiarità della materia ad influenzare da sempre la scelta dei modelli processuali ritenuti più idonei a tutelare le situazioni giuridiche dedotte in giudizio, diversificandosi, di volta in volta, a seconda della natura dei diritti e degli interessi di cui si chiede protezione.

All’esercizio di una funzione giurisdizionale piena in tema di tutela di diritti soggettivi e status si contrappone quello di una giurisdizione volontaria necessaria per la cura degli interessi dei figli minori, che, per la eventualità di interventi urgenti e non ulteriormente procrastinabili a salvaguardia dell’oggetto protetto, è affidata al giudice d’ufficio. L’esercizio delle diverse funzioni giurisdizionali si proietta a sua volta in una disarmonica sovrapposizione di modelli processuali differenziati, dal camerale per le procedure minorili, a quello ordinario per le azioni di status filiationis, nonché, infine, al rito speciale per l’adozione dei minori, separazione e divorzio. Così, in una materia il cui procedimento dovrebbe rispondere a esigenze di unitarietà, certezza e rapidità, ci si imbatte in una serie di processi disciplinati, in corrispondenza della diversa natura dell’oggetto tutelato, da regole eterogenee, destinate talvolta a mutare persino all’interno dello stesso procedimento a seconda della fase in cui il medesimo si trova1.

Alla varietà di procedimenti si aggiunge una frammentata distribuzione di interventi che coinvolge, in un discutibile scenario, tribunale ordinario, tribunale per i minorenni e giudice tutelare e tanto basta per scorgere l’artificiosità dell’impalcatura che regge il sistema della tutela giurisdizionale nel diritto di famiglia.

1 Valga l’esempio del procedimento di separazione e divorzio, ove alla scelta del processo ordinario in primo grado a seguito dell’udienza presidenziale, si contrappone in appello quella del rito camerale.

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La delicatezza e la peculiarità della materia hanno indotto il legislatore del 2009, al momento di indicare al Governo i principi per l’esercizio della delega in materia di riduzione e semplificazione dei riti, a estromettere le cause relative al diritto di famiglia dall’operazione di riassetto dei riti, recentemente attuata con il d. lgs n.

150/2011.

Tuttavia, l’esigenza di operare un ripensamento sistematico e razionale del sistema processuale del diritto di famiglia è ormai da anni fortemente sentita dagli operatori di diritto, intimamente consapevoli, nello spirito del “festina lente”, della difficoltà di conciliare l’urgenza dell’intervento con l’accuratezza e completezza della sua predisposizione.

La tensione verso la semplificazione del processo di famiglia, nell’affannoso tentativo di armonizzare regole più flessibili e snelle con le garanzie del giusto processo civile, ha portato l’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia a formulare un “Progetto di riforma per un processo civile unitario nel diritto di famiglia” non più ulteriormente ed utilmente rimandabile.

Il progetto prevede l’introduzione di alcune disposizioni atte a modificare l’ordinamento giudiziario in un’ottica di razionalità di distribuzione delle competenze, nonché l’abrogazione delle disposizioni processuali contenute del capo I del titolo II del libro IV del c.p.c., sostituite dalle nuove di cui agli artt. 706 – 706/15. L’animo della riforma è quello di ricostruire un unico sistema processuale valevole per la quasi totalità delle cause di diritto di famiglia e di quelle concernenti i minori, che si ispiri al rito ordinario di cognizione, seppur modellato in forma più snella.

2. Il progetto di riforma: l’ ambito di applicazione

Prioritario è circoscrivere lo spazio entro cui è applicabile il sistema processuale previsto dal progetto.

Coerentemente con la ratio ispiratrice della proposta di riforma di pervenire ad una semplificazione del processo di famiglia, tale da eliminare, o quantomeno notevolmente ridurre, la molteplicità dei riti serventi le cause di famiglia, il nuovo modello processuale è applicabile a tutti i procedimenti civili nelle materie previste dal primo libro del codice civile, nonché dalla legge sul divorzio ( l. n. 898/1970).

Fanno eccezione le materie caratterizzate da una normativa molto articolata, da cui continueranno ad essere regolate, ovvero quelle riguardanti la tutela,

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l’emancipazione e l’amministrazione di sostegno, nonché quelle relative ai procedimenti di interdizione, inabilitazione, assenza e dichiarazione di morte presunta, agli interdetti e inabilitati, ai rapporti patrimoniali tra coniugi, agli ordini di protezione contro gli abusi familiari ed infine quelle regolate dalla legge n.

184/1983 sull’adozione dei minori.

Un unico modello procedimentale, dunque, per la trattazione di (quasi) tutte le cause attinenti al diritto di famiglia, ora sottoposte alla varietà disarmonica dei riti di volta in volta applicabili. Eliminata la differenziazione degli interventi giudiziari sulla famiglia in ragione della natura delle questioni sottoposte all’esame del giudice, lo sforzo del progetto è quello di unificare tali interventi in un unico modello processuale, atto a regolamentare le procedure di affidamento tanto dei figli legittimi come di quelli nati fuori dal matrimonio, le separazioni e i divorzi (nei quali scompare la struttura bifasica del primo grado), i procedimenti de potestate, nonché quelli di adozione dei maggiorenni.

3. La competenza.

La tensione verso un sistema processuale snello e unitario per le materie di diritto di famiglia e minori emerge con manifesta evidenza negli artt. 2 e 3 delle disposizioni ordinamentali del progetto di riforma, ove è contemplata l’attribuzione di una competenza esclusiva in materia alle sezioni specializzate istituite presso ciascun Tribunale ordinario e Corte d’Appello competenti ai sensi degli artt. 18 e 20 c.p.c.

Superato altresì il dogma della collegialità, che permane solo per la fase di impugnazione, si opta per il modello del giudice monocratico in primo grado.

La costituzione di sezioni specializzate unicamente presso i citati organi giudiziari esautora il giudice tutelare, le cui funzioni saranno esercitate da magistrati della medesima sezione, nonché il Tribunale dei minorenni, che manterrà la competenza per i soli reati commessi del minore.

La scelta dell’unificazione delle competenze in un’unica autorità giudiziaria è destata dalla convinzione che non è certo la composizione dell’organo giudicante che rende un processo giusto, quanto, invece, la corretta funzione al medesimo attribuita che lo deve guidare verso una decisione fondata su quanto emerso dal contraddittorio delle parti.

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Viene in questo modo finalmente meno la disparità di trattamento insita nell’attuale disciplina dell’affidamento dei figli minori, che differenzia, a dispetto di quanto disposto dall’art. 30 Cost., la tutela accordata ai diritti dei figli minori nati fuori dal matrimonio, attribuita al Tribunale dei minorenni, da quella contemplata per i figli legittimi in sede di separazione o divorzio dei genitori, di spettanza del Tribunale ordinario. Solo in quest’ultimo caso, infatti, il giudice dispone di poteri ufficiosi in merito all’affidamento o al mantenimento dei figli nati in costanza di matrimonio, potendo pronunciarsi al riguardo anche in assenza di specifica domanda, così garantendo loro effettiva assistenza. Nel caso in cui a separarsi sia, invece, una coppia di fatto, il legislatore sembra indifferente alle sorti dei figli minori, mancando di prevedere espressamente all’art. 317 bis c.c., che regola l’esercizio della potestà genitoriale dei figli naturali, il potere ufficioso del giudice di disporne l’affidamento. Il progetto di riforma coglie e supera questa discrasia che non tutela i figli minori in quanto tali, operando, di converso, nonostante un’identità di situazione presupposta (cessazione della convivenza dei genitori), un ingiustificato distinguo a seconda che giudichi il Tribunale dei minorenni o quello ordinario.

L’abolizione del Tribunale dei minorenni e la conseguente attribuzione del contenzioso concernente l’affidamento dei figli, legittimi e non, al Tribunale ordinario, quale unico ed esclusivo giudice della famiglia, elimina una disparità di trattamento da ormai troppo tempo patita e non più tollerabile, contribuendo, è ovvio, ad un riassetto organico della distribuzione di competenza.

4. Lo svolgimento del processo in primo grado

Il modello processuale concepito dal progetto di riforma ricalca, seppur con forme più fluide, quello del giudizio ordinario di cognizione, disciplinando similmente le due distinte fasi del primo e secondo grado. Preme anzitutto agli operatori del diritto il rispetto della garanzia alla difesa tecnica, così stabilendo che, nei giudizi di famiglia, le parti, tra cui figura espressamente anche il minore se titolare di un diritto o interesse autonomo all’interno della dinamica processuale, devono essere necessariamente assistite da un difensore, sia esso di fiducia o nominato d’ufficio dal giudice qualora la parte ne sia sprovvista.

Ad eccezione delle ipotesi in cui si proceda per ottenere l’omologa della separazione consensuale o la pronuncia di divorzio congiunto, la domanda, che può

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contenere anche richieste per l’emissione di provvedimenti provvisori e urgenti, si propone, secondo quanto disposto dall’art. 706/1 del progetto, in forma di ricorso presso il Tribunale competente ai sensi degli art. 18 e 20 c.p.c. o, nel caso di procedimenti de potestate, presso quello del luogo di residenza del minore.

I promotori della riforma, rispondendo ad un’esigenza di certezza, si sono inoltre preoccupati di definire compiutamente i requisiti di forma e sostanza del ricorso stesso, là dove hanno previsto che il medesimo, sottoscritto a norma dell’art. 125 c.p.c., deve avere il contenuto della citazione, così onerando il ricorrente dell’

individuazione dei soggetti coinvolti, nonché della causa petendi e del petitum.

Come qualsiasi altro atto introduttivo del giudizio che riveste la forma del ricorso, anche quello proposto per le cause di famiglia manca della vocatio in ius, dovendo il giudice designato fissare l’udienza di comparizione delle parti entro un termine non superiore a novanta giorni dal deposito del ricorso e assegnando al convenuto, a cui sarà notificato ricorso e pedissequo decreto, un termine per la costituzione che dovrà avvenire non oltre venti giorni prima della data dell’udienza. Il convenuto si costituisce con comparsa di risposta ove, sulla base di un modello che riproduce quasi integralmente quello di cui all’art. 167 c.p.c., deve articolare le sue difese, richiedere provvedimenti provvisori, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi, formulare le conclusioni, nonché, parallelamente a quanto previsto nel rito ordinario di cognizione, a pena di decadenza, proporre domande riconvenzionali ed eccezioni – processuali e di merito – non rilevabili d’ufficio.

All’udienza di comparizione delle parti il procedimento, in parte discostandosi dalla sequenza temporale scandita per quello ordinario di cognizione, può seguire due differenti esiti: se il giudice ritiene matura la causa per la decisione, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, ai sensi dell’art. 706/2, 3 co. del progetto di riforma, accoglie o rigetta le domande con sentenza definitiva; qualora, invece, la causa necessiti di un accertamento più approfondito, il giudice provvede con ordinanza alla prosecuzione del processo nelle forme che ricalcano quelle del rito ordinario.

Meritevole di considerazione è la facoltà per il giudice di decidere già alla prima udienza la causa matura dedotta in giudizio, qui iniziando ed esaurendosi l’accertamento, non essendovi null’altro da approfondire, perché è ad essa visibilmente sottesa la tensione a tagliare le inutili lungaggini di un processo che,

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per la delicatezza della materia trattata, merita di pervenire ad una risposta che garantisca certezza in tempi rapidi.

La garanzia di ottenere, ove possibile, una risposta rapida ed efficace è salvaguardata, tuttavia, anche quando il giudice non decide la causa alla prima udienza. Come sopra accennato, in tale ipotesi viene emessa un’ordinanza che può limitarsi a dichiarare la prosecuzione del giudizio in altra udienza concedendo i termini di cui all’art. 183, VI co. c.p.c., oppure avere un contenuto complesso. In questo secondo caso, il giudice, oltre all’eventuale concessione dei termini di legge per il deposito delle memorie, se richiesto, o d’ufficio se nell’interesse dei figli minori, adotta provvedimenti provvisori e urgenti. La peculiarità di tale previsione, chiaro indice del bisogno di apprestare un’effettiva forma di tutela in nei non infrequenti casi di urgenza, sta nell’aderire alla necessità che il giudice, indipendentemente da un’apposita domanda, pronunci in favore della prole provvedimenti che non tollerano di essere ulteriormente procrastinati e, conseguentemente, subordinati ad un’iniziativa di parte.

Data l’intrinseca tendenza al mutamento dei rapporti di natura familiare, il regime di stabilità previsto per questa ordinanza è costruito per adattarsi ai cambiamenti eventualmente intervenuti nella vita delle persone. Ed invero, analogamente a quanto contemplato per i provvedimenti cautelari, l’art. 706/4 della riforma prevede che l’ordinanza contenente decisioni provvisorie ed urgenti, provvisoriamente esecutiva, è revocabile e modificabile con successiva ordinanza dal medesimo giudice che l’ha pronunciata ogniqualvolta si verificano “mutamenti delle circostanze”.

Contro l’ordinanza che dispone provvedimenti provvisori e urgenti, nonché contro le successive volte a modificarle, a garanzia del principio di impugnabilità, è inoltre ammesso reclamo. La disciplina per questo prevista è plasmata su quella di cui all’art. 669 terdecies c.p.c., potendosi tale rimedio qualificare come un mezzo a carattere impugnatorio con il quale la parte può far valere, di fronte a un giudice diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza reclamata, designato in tal caso nella sezione specializzata della Corte d’Appello, anche le doglianze nel merito.

Specularmente al reclamo cautelare, anch’esso deve essere proposto nel termine di quindici giorni dall’udienza nella quale è stata emessa l’ordinanza o, se pronunciata

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fuori udienza, entro quindici giorni dalla comunicazione del testo integrale da parte della cancelleria o ancora, se anteriore, dalla sua notificazione a cura di parte.

Qualora il giudice abbia concesso alle parti i termini di cui all’art. 183, VI co. c.p.c., conformemente al modello processuale del rito ordinario di cognizione, egli ammette le prove richieste, o ne dispone altre d’ufficio, e fissa l’udienza per la loro assunzione, che dovrà tenersi entro trenta giorni dalla scadenza del termine previsto per il deposito della terza memoria. Il bisogno di un accertamento rapido e completo giustifica un’ampiezza dei poteri ufficiosi tale da ricomprendervi, come previsto dall’art. 706/8 del Progetto, la facoltà di richiedere informazioni relative all’oggetto del procedimento alla Pubblica Amministrazione, ai servizi sociali e sanitari, nonché, qualora la controversia verta su elementi patrimoniali o sia necessario adottare provvedimenti di natura economica, di disporre accertamenti tributari sui redditi e patrimonio delle parti, ferme restando le garanzie di cui all’art.

211 c.p.c.

Attenti all’esigenza di garantire un’idonea ed effettiva tutela ai minori coinvolti in un procedimento familiare, i promotori della riforma hanno dedicato un apposito articolo diretto a regolare la loro audizione, disponendo che il giudice vi proceda necessariamente, con idonee modalità, ove debba adottare provvedimenti che incidono sui loro diritti2. La norma sembra solo apparentemente richiamare quella di cui all’art. 155 sexies c.c. che, in caso di emanazione di provvedimenti provvisori e urgenti di separazione, prevede per il giudice la facoltà di disporre l’audizione del minore. Invero, la disposizione da ultimo menzionata, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità3 , oltre a trovare applicazione unicamente nei procedimenti di cui all’art. 155 c.c., non ha finalità probatorie, così che, ove l’audizione non sia necessaria, il giudice potrà ometterla senza produrre alcun effetto sulla validità del procedimento. Sembra, invece, avere un’altra valenza l’audizione del minore contemplata dal progetto di riforma, nel momento in cui si fa carico al giudice di dare atto, nella motivazione della decisione, delle ragioni del provvedimento con particolare riferimento alle dichiarazioni del minore. Se, infatti, le dichiarazioni del minore devono fondare e giustificare, quali elementi imprescindibili, la motivazione di una decisione incidente sui suoi diritti, dovrà alle

2 Così dispone l’art. 706/9 del Progetto, precisando altresì che il minore di cui viene disposta l’audizione deve aver compiuto dodici anni o, se di età inferiore, deve essere capace di discernimento.

3 Si veda ex plurimis Cass. Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7282.

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stesse riconoscersi finalità probatoria e conseguentemente considerare l’audizione un atto istruttorio, la cui omissione, nei casi indicati, potrebbe inficiare la validità del procedimento).

L’esigenza di semplificazione della trattazione delle controversie attraverso un adeguato modello processuale giustifica ancora la facoltà delle parti, che in corso di giudizio ne ravvisino la necessità, di avviare un procedimento di mediazione che porti il giudice a rinviare, per un tempo non superiore a quattro mesi (rinnovabili una sola volta) la trattazione della causa. La mediazione familiare a cui si è appena accennato, per essere pienamente compresa, deve essere calata nelle peculiarità che caratterizzano la conflittualità familiare. Solo nel momento in cui ci si accorge che non tutte le controversie interpersonali dedotte in giudizio appaiono mediabili, si comprende come la mediazione familiare può essere solo frutto di un percorso di coscienza e volontà mosso esclusivamente da motivazioni di natura personale, che non tollera alcuna imposizione legislativa, in ciò distinguendosi nettamente dalla mediazione civile e commerciale regolata dal d.lgs n. 28/2010 che, nei casi elencati dall’art. 5 del medesimo decreto, è addirittura prevista come obbligatoria.

In assenza dell’esperimento del tentativo di mediazione, o in caso di suo esito infruttuoso, espletata l’istruttoria, il giudice fissa l’udienza di discussione, che avviene in forma orale, indicando altresì alle parti i termini entro cui depositare note conclusive e repliche. La causa è decisa con sentenza, provvisoriamente esecutiva, da depositarsi entro trenta giorni dalla discussione.

4.1. Brevi osservazioni sulla separazione e divorzio

Il modello processuale appena descritto è, come visto, applicabile anche ai procedimenti di separazione e divorzio. Per questi si prospettano, così, non ininfluenti cambiamenti procedurali che meritano separata menzione.

Scompare, infatti, nella prospettiva della riforma orientata alla trattazione della causa in un processo unitario regolato dalle norme del giudizio ordinario, la natura bifasica dei procedimenti de quibus, articolata in una prima fase introduttiva speciale a cognizione sommaria governata dal tentativo di conciliazione e in una fase successiva all’ordinanza presidenziale a cognizione ordinaria. Scompare, conseguentemente, il tentativo di conciliazione, sull’utilità del quale, peraltro, non è difficile nutrire dubbi nel caso di separazione consensuale o divorzio congiunto,

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ove la volontà di entrambi i coniugi si muove inequivocabilmente nella direzione opposta rispetto a quella di comporre due assetti di vita ormai inconciliabili.

La riforma, conservando la disciplina prevista dall’art. 709 bis c.p.c. per la separazione e dall’art. 4 della l. n. 898/1970 per il divorzio, prevede che il giudice, precisate dalle parti le conclusioni, possa pronunciare, qualora vi sia un cumulo fra più oggetti processuali, sentenza (impropriamente definita) “non definitiva” ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., impugnabile solo con appello immediato deciso in camera di consiglio. L’esclusività dell’impugnazione immediata mantiene così il principio dell’inammissibilità della riserva di appello, per cui la parte che intende contestare la sentenza dovrà necessariamente impugnarla nei termini per evitare che passi in giudicato.

Un’ultima menzione è doverosa, infine, per quanto attiene ai procedimenti per separazione consensuale e divorzio a domanda congiunta, a cui è dedicato l’art.

706/13 del progetto di riforma. Non si ravvisano molti cambiamenti rispetto all’attuale disciplina processuale, se non quello in forza del quale alla competenza del Tribunale del luogo dell’ultima residenza in comune dei coniugi ex art. 706 c.p.c., è preferita quella del Tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’uno o dell’altro coniuge o, nel caso di residenza all’estero di entrambi, conformemente invece a quanto previsto attualmente, quella di qualsiasi Tribunale presente nel territorio nazionale.

Spetta sempre al Tribunale, con provvedimento avente forma di sentenza, in caso di separazione il potere di omologare l’accordo dei coniugi e, in caso di divorzio, quello di procedere alla sua dichiarazione previa una prima verifica necessaria circa l’esistenza dei presupposti di legge previsti dall’art. 3 della l. n. 898/1970 e una successiva verifica eventuale sulla rispondenza delle condizioni pattuite dai coniugi all’interesse dei figli. Qualora il giudice ravvisi che le condizioni relative ai figli sono in contrasto con i loro interessi, rimette le parti all’udienza di prima comparizione.

5. I mezzi di impugnazione e la fase di attuazione dei provvedimenti.

Il progetto di riforma, in conformità al principio costituzionale della garanzia del doppio grado di giudizio previsto dall’art.24 Cost., disciplina, discostandosi in parte

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da quanto previsto in sede di appello ordinario, il procedimento di impugnazione avverso le sentenze emesse a termine dell’istruttoria ora esaminata.

Riprendendo il modello del giudice collegiale in secondo grado, la sentenza è impugnabile, nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione del testo integrale da parte della cancelleria o, se anteriore, dalla sua notificazione, con ricorso innanzi alla sezione specializzata in persone, famiglia e minori della Corte di Appello territorialmente competente, che deciderà in camera di consiglio. Ancora una volta è palpabile l’attenzione prestata dagli operatori di diritto alla peculiarità della materia del diritto di famiglia, che impedisce il passaggio in giudicato della sentenza per il mero trascorrere del tempo, non essendo previsto alcun termine lungo per l’impugnazione decorrente dalla pubblicazione, richiedendo, al contrario, ai fini di un’efficacia ex art. 2909 c.c., una conoscenza effettiva del contenuto della decisione da parte del soggetto interessato ad impugnare.

E’ un appello aperto quello previsto dalla riforma, prevedendo all’art. 706/12 l’ingresso di nuovi mezzi di prova e nuovi documenti se ritenuti rilevanti ai fini della decisione. A differenza di quanto contemplato per l’appello ordinario, ove sono ammesse nuove prove solo se considerate “indispensabili ai fini della decisione” (art. 343, co. 3 c.p.c), nel preferire quell’interpretazione che ritiene la

“rilevanza” caratteristica meno restrittiva dell’ ”indispensabilità”, sembra doversi ammettere nei procedimenti di famiglia una più ampia valutazione discrezionale dei nuovi mezzi istruttori, tale da favorirne l’ingresso ogniqualvolta potrebbero influire su una diversa configurazione dei fatti. E ciò ancor più si comprende in una siffatta materia, in cui oggetto di cognizione sono diritti, status e situazioni soggettive così delicate da esigere la più effettiva forma di tutela.

E’ fatta salva la ricorribilità per cassazione delle sentenze pronunciate in sede di appello per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c.

Per quanto attiene, infine, l’attuazione dei provvedimenti emessi all’esito del processo unitario, viene ragionevolmente recepito dal progetto di riforma il principio secondo cui è competente il giudice del merito. E’ questo l’organo giudiziario che, avendo già avuto cognizione della causa e di tutte le sue variegate sfaccettature, risulta più idoneo a decidere sulle modalità applicative dei provvedimenti dallo stesso emessi. Si tratta, come si può vedere, di un’applicazione del modello espresso dall’art. 669-duodecies c.p.c., e di un passo avanti nel

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superamento del dogma della separazione stagna fra funzioni del giudice della cognizione e momento dell’esecuzione.4

Difficoltosa si presenta l’attuazione dei provvedimenti personali e di quelli relativi all’affidamento dei figli, la cui disciplina è differenziata da quella prevista per i provvedimenti aventi carattere economico, perché postulano l’esistenza di una prestazione infungibile non suscettibile di esecuzione in forma specifica. L’art.

706/14 del progetto di riforma, nel tentativo di superare l’impasse, al riguardo dispone che, in caso di atti che arrechino pregiudizio al minore, nonché in caso di inottemperanza del soggetto obbligato o di qualsiasi violazione o inosservanza, il giudice può non solo modificare i provvedimenti violati, ma anche ammonire la parte inadempiente o disporre il pagamento di una somma nei confronti della parte il cui diritto a veder attuato il provvedimento sia stato leso.

In tema di attuazione di provvedimento avente contenuto economico, invece, il nuovo modello processuale elaborato dalla riforma, prevede una tutela esecutiva dotata di maggior effettività. Similmente a quanto previsto dall’art. 8 della legge sul divorzio, il giudice, se richiesto dalla parte creditrice o, in caso di figli minori, anche d’ufficio, può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia ovvero disporre il sequestro dei suoi beni, qualora vi sia il pericolo che possa sottrarsi agli obblighi di mantenimento o di qualsiasi altro genere sul medesimo gravanti. Ancora più efficace, tuttavia, risulta la tutela esecutiva prevista per la parte a cui spetta la corresponsione dell’assegno di mantenimento. A quest’ultima è, infatti, concessa la possibilità di esperire, sul presupposto che l’obbligato sia a sua volta creditore di un altro soggetto, un’azione diretta nei confronti del terzo. In altre parole, si consente al creditore, al fine di ottenere la soddisfazione del suo credito, di rivolgersi direttamente al “debitore del debitore”. La parte creditrice, dopo aver costituito in mora a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento l’obbligato rimasto inadempiente per un periodo di almeno trenta giorni, può notificare al terzo debitore il provvedimento in cui è stabilita la somma alla medesima dovuta, con l’invito a corrispondere detta somma direttamente all’avente diritto, essendo altresì legittimata, in caso di inottemperanza del terzo, a perseguire un’azione esecutiva direttamente nei suoi confronti.

4 Una crepa nel muro divisorio è peraltro apparsa nell’art. 714-bis c.p.c.

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