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ERRORE, COMPLICANZA E FATALITÀ: GLI INCERTI CONFINI DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE IN OSTETRICIA E GINECOLOGIA

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ERRORE, COMPLICANZA E FATALITÀ: GLI INCERTI CONFINI DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE IN OSTETRICIA E GINECOLOGIA

Marco Rossetti*

SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. Tipologie di eventi dannosi ed accertamento del nesso causale. - 3. L’accertamento della colpa. - 4. I danni risarcibili: (a) il cerebroleso dalla nascita. - 4.1. (b) Perdita della capacità di procreare. - 4.2. (c) Procurato aborto. - 4.3. (d) Nascita indesiderata.

1. INTRODUZIONE

L’illecito extracontrattuale commesso dal medico nell’esercizio della professione, ad un osservatore distratto, potrebbe sembrare soggetto alle stesse regole che disciplinano l’illecito aquiliano in generale, e cioè in primo luogo agli artt. 2043 e seguenti c.c.. Il nostro distratto osservatore potrebbe infatti essere indotto a ritenere che, sub spaecie iuris, il danno aquiliano causato da un medico non è diverso da quello causato dall’avvocato, dall’ingegnere, come pure dall’elettricista o dall’idraulico: in tutti i casi si tratterebbe pur sempre di accertare l’esistenza d’una condotta colposa, d’un danno e d’un nesso causale tra quella e questo.

Nondimeno, qualunque conoscitore anche superficiale della materia della responsabilità civile sa che non è così. Le peculiarità che contraddistinguono la professione medica; i rilevanti rischi ad essa connessi; la frequente difficoltà di accertare con ragionevole certezza l’effettiva esistenza d’un valido nesso causale tra condotta e danno; il crescente numero di domande risarcitorie formulate nei confronti di medici, sono soltanto alcune delle cause che hanno indotto la giurisprudenza ad elaborare dei principi ad hoc per l’attività medico chirurgica.

In altri termini, l’accertamento giudiziale della responsabilità del medico, sotto diversi profili, deroga parzialmente ai principi generali in tema di illecito aquiliano. Si consideri, al riguardo, che:

* Magistrato, Presidente del Centro Studi G. Giannini, Assistente di Studio presso la Corte Costituzionale, Roma.

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(a) per il principio generale risultante dal combinato disposto degli artt. 2043 e 2697 c.c., l’onere di provare la colpa del danneggiante incombe sul danneggiato; tuttavia nel caso di responsabilità medica la giurisprudenza ritiene che la prova della colpa possa essere anche desunta (ex art. 2727 c.c.) dalla circostanza che l’intervento fosse rutinario o di facile esecuzione;

(b) in base alla prevalente interpretazione degli artt. 40 e 41 c.p., disciplinanti il nesso di causalità materiale tra la condotta illecita e l'evento di danno, quest’ultimo si può ritenere

“causato” dal danneggiante quando vi sia la prova positiva che, senza la condotta del responsabile, il danno non si sarebbe prodotto; nel caso di responsabilità medica, invece, la giurisprudenza ritiene configurabile l’esistenza del nesso causale anche quando vi sia incertezza circa l’effettiva causa del danno, a condizione che il medico abbia posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno (Cass. 12.9.2000 n. 12103, in corso di pubblicazione su Dir. & giust., 2000; Cass. 16.11.1988 n. 6220, in Foro it. Rep.

1988, voce Professioni intellettuali, n. 94);

(c) è altresì principio generale, in tema di responsabilità civile, che il danneggiate non possa rispondere dei danni quando nella sua condotta non siano ravvisabili profili di colpa;

in tema di responsabilità medica, tuttavia, la giurisprudenza ha spostato a monte la valutazione in termini di colpa della condotta del medico, esigendo non soltanto che sia diligente l’esecuzione dell’intervento, ma anche che il paziente sia diligentemente informato della natura e dei rischi della prestazione medica; con la conseguenza che, in difetto di informazione, il medico potrà essere chiamato a rispondere delle conseguenze sfavorevoli dell’intervento, anche se questo sia stato eseguito in modo diligente e conforme alle leges artis (Cass. 24.9.1997 n. 9374, in Resp. civ. prev. 1998, 78, con nota di Martorana, Brevi osservazioni su responsabilità professionale ed obbligo di informazione, nonché in Riv. it. med. leg. 1998, IV, 821, con nota di Introna, Consenso informato e rifiuto ragionato. L'informazione deve essere dettagliata o sommaria?; nello stesso senso, Trib. Napoli 30.1.1998, in Tagete, 1998, fasc. 4, 62);

(d) un quarto, apprezzabile, scostamento del “sistema” della responsabilità medica rispetto ai princìpi della responsabilità civile è rappresentato dall’estensione della colpa per omissione. In ambito extracontrattuale, ognuno ha l’obbligo di astenersi dal violare l’altrui sfera giuridica (neminem laedere), ma nessuno può essere costretto ad attivarsi per

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preservare gli altrui beni. Il medico invece, anche quando opera al di fuori di un rapporto contrattuale, è tenuto a conformare la propria condotta agli stessi princìpi di correttezza e buona fede che presiedono all’adempimento delle obbligazioni contrattuali (Cass., sez. III, 22-01-1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294, con nota di Carbone), ed ha l’obbligo di attivarsi, anche ben oltre il limite dell’apprezzabile sacrificio, per accertare e curare non solo le patologie per le quali il paziente sia stato ricoverato, ma anche qualsiasi altra patologia dalla quale il paziente sia affetto, ove obiettivamente riscontrabile (Cass.

12.9.2000 n. 12103, cit.).

Le particolarità ora rilevate possono essere “organizzate” nel seguente quadro sinottico:

Responsabilità civile

(generale) Responsabilità medica

Prova della colpa incombe sull’attore la colpa del medico si presume, quando l’intervento non è complesso Prova del nesso

causale incombe sull’attore, secondo le regole della “causalità umana”, ex artt. 40 e 41 c.p.

il nesso causale tra condotta del medico e danno si presume, quando il sanitario abbia tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno, anche in assenza di certezze circa l’effettiva eziogenesi dell’evento dannoso

Accertamento della

colpa E’ necessario dimostrare che la condotta negligente, imperita o imprudente sia stata causa del danno

Basta a radicare un giudizio di colpa l’omissione di informazione al paziente, a nulla rilevando che l’intervento sia stato eseguito diligentemente

Contenuto del

neminem laedere Astenersi dal violare l’altrui

sfera giuridica Attivarsi per diagnosticare e curare anche i mali diversi da quelli per cui ha avuto inizio la terapia, secondo le regole della responsabilità contrattuale

Queste (ed altre) peculiarità della responsabilità medica hanno indotto alcuni autori a definire quest’ultima come un vero e proprio “sottosistema” della responsabilità civile (Alpa, La responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 316; Liguori, La responsabilità civile medica, in Sub iudice, Atti del convegno tenuto a Rimini l’8-11 ottobre 1997, Pisa, 1998, 63; De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995).

Tuttavia, a ben vedere, anche il “sistema” della responsabilità medica può essere a sua volta visto come un macrocosmo, all’interno del quale convivono tanti altri “microsistemi”, quante sono le specializzazioni dell’arte medica. I rischi professionali – ad esempio –

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dell’anestesista e dello psichiatra differiscono radicalmente, per quanto concerne le leges artis da seguire, i criteri di accertamento del nesso causale tra malpractice e danno, gli stessi tipi di danni risarcibili. Allo stesso modo, ben difficilmente nell’esercizio della propria professione lo psichiatra potrà causare un danno fisiognomico; così come è impossibile che un ortopedico causi un danno da nascita non voluta (o wrongful birth, come preferiscono dire gli amanti dei solecismi). Ed ancora, accertare la sussistenza del nesso causale tra condotta imperita e danno, nel caso di danno psichico, è operazione notoriamente più complessa ed articolata (a causa delle sempre possibili preesistenze), rispetto all’accertamento del nesso causale tra l’omessa diagnosi di una frattura e l’accorciamento dell’arto.

Tra i “sottosistemi” della responsabilità medica una attenzione particolare merita quello relativo alla responsabilità del ginecologo e dell’ostetrico, relativamente alle condotte colpose legate alla gestazione ed al parto. L’attenzione dell’interprete deriva da due fattori:

da un lato, l’indubbia crescita quantitativa del contenzioso avente ad oggetto casi di malpractice di ginecologi od ostetrici; dall’altro, alcune perduranti difficoltà (innanzitutto dogmatiche) in materia di accertamento del nesso causale (si pensi alla paralisi cerebrale da ipossia perinatale, che la scienza medica attribuisce solo in minima parte a fattori intra partum; oppure al danno da nascita indesiderata, che pone delicati problemi in tema di individuazione dei soggetti legittimati ad agire per il risarcimento e alla definizione stessa dei danni risarcibili; od ancora al danno da omessa rilevazione di malformazioni del feto).

Di queste perduranti difficoltà si darà conto nel prosieguo del presente scritto; a questo punto, tuttavia, è opportuno spendere qualche parola sul primo dei due fattori di interesse sopra indicati, e cioè sull’incremento quantitativo delle controversie aventi ad oggetto la responsabilità del ginecologo.

Deve osservarsi a questo riguardo che, nonostante la crescita del contenzioso legato alla responsabilità medica sia proclamata praticamente da tutti, e talora con toni ingiustificatamente allarmistici, mancano attualmente dati precisi (anzi, mancano dati tout court) su questa tendenza. Né l’ISTAT, né altri enti hanno sinora effettuato un monitoraggio sul numero di nuove controversie che ogni anno vengono introdotte nei confronti di medici, ed aventi ad oggetto il risarcimento di danni causati nell’esercizio della professione.

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Pur in assenza di dati ufficiali e, soprattutto, scientificamente raccolti, utili indicazioni possono però ottenersi attraverso un metodo empirico, fondato sull’analisi sistematica delle massime di tutte le sentenze pronunciate dalla Corte di cassazione dal 1948 ad oggi.

Tali massime, infatti, sono archiviate nel Centro Elaborazione Dati (CED) della S.C., e possono essere consultate attraverso il sistema di ricerca Italgiure-Find, che consente di ottenere analisi spettrali (cioè per dati aggregati). Da tali analisi spettrali è stato ricavato lo specchietto che segue:

Anni 1948-1990 Anni 1991-2000 (a) Massime archiviate dal CED 224.789 167.981

(b) Casi di responsabilità medica

28 39

Rapporto a/b 0,01% 0,02%

Massime in tema di

responsabilità del ginecologo

*** 15

Come si noterà, nei 41 anni intercorsi tra il 1950 ed il 1990, sono state archiviate 224.789 massime. Di queste, soltanto 28 hanno ad oggetto casi di colpa medica (pari allo 0,01%, con una media di 0,67 casi per anno).

Al contrario, nei 10 anni successivi (1991-2000), i casi di responsabilità medica ascendono a 39 su un totale di 167.981 massime, pari allo 0,2%, con una media di 3,9 casi per anno. Ma ciò che si rileva ancora di più è non tanto il numero, quanto il trend dei casi di colpa medica portati all’esame della S.C., che appare in progressiva accelerazione, come si rileva dallo schema che segue:

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Anno Casi di colpa medica decisi dalla S.C.

1991 2

1992 0

1993 2

1994 2

1995 4

1996 1

1997 7

1998 9

1999 7

2000 (*) 5

[(*) i dati del 2000 sono aggiornati sino al 15.10.2000].

Dalle tabelle che precedono risulta non soltanto che, negli ultimi 10 anni, il contenzioso dipendente da malpractice sanitaria, in sede di legittimità, è aumentato del 100% rispetto ai 40 anni precedenti; ma risulta altresì che in meno di quattro anni (dal 1997 al 2000) la corte ha deciso un numero di casi di responsabilità medica (28) pari a tutti quelli decisi dal 1948 al 1989. Ed essendo notorio che non tutte le controversie percorrono i vari gradi di giudizio fino a quello di legittimità, è agevole inferire che nelle sedi di merito l’aumento del contenzioso sia stato ancora più rimarchevole.

Dei 39 casi di malpractice giunti all’esame della S.C. tra il 1991 ed il 2000, ben 15 (pari al 38,5%) avevano ad oggetto ipotesi di responsabilità del ginecologo per fatti connessi all’assistenza durante la gestazione od al momento del parto. Ora, poiché l’arco di dieci anni può ritenersi uno spazio temporale sufficientemente rappresentativo, deve concludersi che, in sede di legittimità, più di un terzo delle cause in tema di responsabilità medica hanno ad oggetto la responsabilità del ginecologo. Questa, pertanto, almeno quantitativamente, ben può essere considerata un “sottosistema” della responsabilità medica.

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2. TIPOLOGIE DI EVENTI DANNOSI ED ACCERTAMENTO DEL NESSO CAUSALE Sottolineata l’importanza quantitativa del fenomeno, è tempo di passare ad esaminare più da vicino le forme e le peculiarità della responsabilità del ginecologo.

In prima approssimazione, è agevole rilevare che i rischi professionali tipici (ovvero maggiormente ricorrenti) del ginecologo possono essere raggruppati in tre aree:

(a) il rischio di arrecare danno alla salute della gestante, a causa di terapie o manovre inidonee od errate, sia durante la gestazione che durante il parto; in tale gruppo rientra anche il danno da procurata incapacità di procreare.

(b) il rischio di arrecare danno alla salute del nascituro, anche in questo caso a causa di imperizia, imprudenza o negligenza durante la gestazione od al momento del parto;

(c) il rischio (assimilabile a quello sub (a) solo quoad effectum) di causare direttamente (attraverso la negligente esecuzione di un intervento di interruzione della gravidanza), ovvero indirettamente (non rilevando, e quindi non segnalando alla madre, le malformazioni del feto, sì da impedirle di esercitare il diritto all’aborto) una nascita indesiderata.

L’accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno, nelle ipotesi indicate sub (a) e (b), presenta problemi diversi rispetto all’ipotesi sub (c).

Cominciamo dall’ipotesi in cui si ascriva all’operato del ginecologo di avere causato un danno alla salute della madre o del bambino (per l’ipotesi sub (c) si veda infra, § 4.3).

In questi casi, la Corte di legittimità applica in modo molto rigoroso per il medico le regole sulla causalità materiale, dettate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Nelle motivazioni delle sentenze, infatti, è ricorrente l’affermazione secondo cui “un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della condicio sine qua non)”, e che quindi “non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiono del tutto inverosimili (cd. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale)”.

In merito alla formula della causalità adeguata, quale criterio per accertare la sussistenza del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno, deve in primo luogo

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ricordarsi che essa, cui la Corte fa sovente ricorso nelle ipotesi di malpractice, non è affatto pacifica in seno ai giudici di legittimità (Cass 23.2.2000 n. 2037, in Assicurazioni, 2000, II, 2, 144, ad esempio, ha espressamente affermato di volere “prendere le distanze”

da tale teoria, abbracciando quella della c.d. “causalità umana”, elaborata da Francesco Antolisei).

In secondo luogo, ove si passi ad analizzare il modo in cui la teoria della causalità adeguata è concretamente applicata al campo della responsabilità medica, ci si avvede di come, molto spesso, la Corte di legittimità ritiene sussistente il nesso causale, per così dire, automaticamente, sol che si dimostri che il medico abbia posto in essere un probabile antecedente causale del danno.

Così, ad esempio, Cass. 16.11.1988 n. 6220, in Foro it. Rep. 1988, voce Professioni intellettuali, n. 94, dinanzi ad un caso di atrofia testicolare insorta immediatamente dopo un intervento di erniotomia, ha presunto l’esistenza del nesso causale tra intervento e patologia, addossando al medico l’onere di provare che l’insorgenza indesiderata era dovuta a fattori estranei od eccezionali.

In modo molto simile, Cass. 12.9.2000 n. 12103, cit., ha addossato al medico le conseguenze sfavorevoli dell’impossibilità di accertamento in concreto della causa del danno, quando tale impossibilità derivi da omissioni imputabili agli stessi medici, e sempre che vi siano state colpose omissioni “dei medici in relazione alla patologia accertata e (…) risulti provata la idoneità di tale condotta” a causare il danno.

Le regulae iuris affermate nelle due sentenze da ultimo citate possono essere così riassunte:

(a) è accertato che il medico ha posto in essere un antecedente causale astrattamente idoneo a produrre il danno;

(b) non è accertato se, nella specie, il danno sia stato effettivamente causato dalla condotta del medico;

(c) in simili evenienze, incombe sul medico l’onere di provare concretamente, se vuole andare esente da responsabilità, che il danno è dipeso da un fattore eccezionale ed imprevedibile.

La Corte, dunque, sembra muoversi solo formalmente nell’alveo della causalità adeguata: si richiede, sì, che la condotta del medico sia idonea a causare il danno; ma tale

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idoneità è sufficiente che sia “astratta”, cioè potenziale, plausibile, magari verosimile, ma non concretamente accertata. Si direbbe perciò che anche in questo caso, magari inconsapevolmente, la Corte agisce sulla leva delle presunzioni semplici per modificare sostanzialmente il riparto dell’onere della prova. I giudici di legittimità, in altri termini, dal fatto noto che la condotta del medico era astrattamente idonea a produrre l’evento dannoso, risalgono (ex art. 2727 c.c.) al fatto ignorato che quella condotta ha effettivamente e concretamente causato il danno, ritenendo per tale via raggiunta la prova del nesso causale, ed onerando il preteso responsabile dell’onere di dimostrare che in realtà il danno va ascritto a fattori imprevedibili ed eccezionali.

Questa conclusione, in sé riguardata, non deve ovviamente scandalizzare. E’ infatti compito eminente della giurisprudenza (ed in particolar modo delle giurisdizioni superiori)

“modellare” le fattispecie di responsabilità, addossando l’onere della prova al soggetto ritenuto, secondo valutazioni non solo giuridiche, ma anche economiche e sociali, meglio attrezzato per sostenerlo.

Ferma, dunque, la legittimità e la validità in astratto del criterio adottato dalla Corte di cassazione, resta da chiedersi se, nel caso particolare di danno alla salute del neonato, ed in particolare di parto distocico (per tale intendendosi quello in cui si sia verificata una qualsiasi deviazione dall’andamento normale), il criterio di causalità sopra indicato sia effettivamente utilizzabile.

Infatti, nella maggior parte dei casi di parto distocico (dovuto ad esempio a ipocinesia dell’utero; brevità del cordone; sproporzione feto-pelvica), sia i giudici di merito, sia quello di legittimità, ritengono – per lo più avallando, in verità, le conclusioni dei consulenti tecnici di ufficio – che, dinanzi a sintomi di sofferenza fetale, il ritardo nell’esecuzione del parto cesareo costituisca causa idonea e sufficiente alla produzione del danno cerebrale nel neonato. Questa è la più frequente (anzi, come si vedrà meglio in seguito, quasi unanime) motivazione circa l’esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno cerebrale del neonato. E tuttavia, almeno stando alle più recenti acquisizioni della letteratura clinica e medico legale, parrebbe che la maggior parte delle paralisi sia dovuta a cause insorte ben prima dell’inizio del parto. Addirittura, secondo uno studio epidemiologico condotto da varie organizzazioni scientifiche statunitensi, canadesi, australiane e neozelandesi, risulterebbe che in quasi il 90% dei casi l’ipossia intrapartum

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non può essere la causa della paralisi cerebrale, e che nel rimanente 10% dei casi i sintomi intrapartum compatibili con un danno da ipossia possono avere avuto origini anche ante partum (AA.VV., Un modello per definire una relazione causale fra eventi acuti intrapartum e paralisi cerebrale, da Ghirardini, Il danno cerebrale feto-natale, in www.aogoi.it/Programmi/RivistaAbstract.asp?ID=330, il quale fornisce la traduzione italiana di una importante “dichiarazione di consenso” pubblicata nel 1999 sul British Medical Journal).

E’ ovvio che un solo studio non può ritenersi risolutore, se non ancora adeguatamente dibattuto nella comunità scientifica, ma è altrettanto evidente che proprio l’esistenza di studi di questo tipo dovrebbero indurre a rivedere l’assunto secondo cui il ritardo del medico nel praticare il parto cesareo sia, sempre e comunque, causa sufficiente del danno cerebrale, salvo che il medico stesso non provi la sussistenza di altre cause.

3. L’ACCERTAMENTO DELLA COLPA

L’accertamento della colpa è probabilmente l’aspetto più delicato nell’ambito di quello che si è convenuto chiamare il “sistema” della responsabilità del ginecologo. E’ infatti pacifico che la nozione di colpa ha un carattere relativistico, nel senso che in essa è implicita l’idea del venir meno ad un obbligo, del mancare a qualcosa che era lecito attendersi, del deviare rispetto ad una regola prestabilita (per tutti, si veda Forchielli, Colpa – I) Diritto civile, in Enc. giur., Roma 1988, VI, 3-4, ed ivi gli ulteriori riferimenti bibliografici). Tuttavia non è sempre agevole individuare quale sarebbe dovuta essere, nel caso di specie, la condotta alternativa che il preteso responsabile avrebbe dovuto seguire.

E’ in questo campo, in particolare, che si rivela poco utile l’analisi delle sole massime, mentre sommamente proficuo è lo studio delle singole fattispecie sottoposte al vaglio del giudice di legittimità. Dall’esame di queste ultime, infatti, si apprende che sono molto diverse le condotte ritenute colpose ascritte al ginecologo: la condotta più frequentemente ritenuta colposa è senz’altro il ritardo nell’esecuzione del parto cesareo, ma è stata sanzionata anche la condotta di chi non ha assistito personalmente la partoriente; di chi in assenza di cardiotocografo non ha eseguito altri tipi di esami, o l’auscultazione meccanica durante il travaglio; di chi ha atteso oltre mezz’ora prima di recarsi in ospedale dopo la chiamata d’urgenza; di chi ha compilato in modo incompleto e trascurato la cartella clinica.

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Per chiarezza espositiva, si è provato a riassumere nella tabella che segue le singole fattispecie, con l’indicazione sommaria degli elementi di fatto più salienti, della condotta tenuta dal medico - per quanto era stato dimostrato in giudizio - e del giudizio che su tale condotta hanno dato i giudici di merito e quelli di legittimità.

Analisi comparativa delle fattispecie decise dalla S.C. in tema di responsabilità del ginecologo

Elementi del fatto Condotta del medico Giudizio di

merito Giudizio di legittimità Cass.

6318/00 Parto prematuro;

eccessivo protrarsi del periodo dilatante (19 ore); indisponibilità (perché guasto) del cardiotocografo); bimbo con danni cerebrali

(primario): ha omesso di visitare personalmente la paziente; di informarla dell’indisponibilità del cardiotocografo; di informarsi dagli altri medici circa l’andamento del travaglio, dando le necessarie direttive

responsabile conferma

Cass.

5881/00 arresto della progressione in uscita del feto, in ospedale privo di reparto

attrezzato per

interventi; bimbo con danni cerebrali

dopo 75 min. dall’arresto della progressione applicazione della ventosa senza successo; dopo tre ore esecuzione del parto cesareo

responsabile conferma

Cass.

3928/00 prolasso del funicolo uterino; sintomi di sofferenza del battito cardiaco fetale; bimbo con danni cerebrali

(medico): giunge in ospedale 40 minuti dopo la chiamata; dà corso al cesareo 25 minuti dopo il suo arrivo

(anestesista):avvertito dell’urgenza, non accorre in ospedale, ma chiede al portiere di essere avvisato, quando ivi sarebbe giunto il collega ginecologo

responsabili conferma

Cass.

12819/99 ritardo nella progressione in uscita del feto (travaglio di 11 ore), in gestante primipara; bimbo con danni cerebrali

ordina per telefono la somministrazione di ossitocina; omette di visitare personalmente la paziente, in assenza di cardiotocografo

responsabile conferma

Cass.

10695/99 neonato microcefalico uso del forcipe non

responsabile conferma Cass. arresto della fase effettua le perfusioni responsabile conferma

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4852/99 espulsiva del feto (travaglio di 11 ore);

bimbo con danni cerebrali

ossitociche dopo 9 ore di travaglio; attende 11 ore prima di decidere di applicare la ventosa, in una struttura nella quale non era prontamente disponibile un altro ginecologo ed un anestesista

Cass.

8875/98 arresto della progressione di espulsione; distocia fetale di spalla; frattura dell’omero e lesioni del plesso brachiale del neonato; cartella clinica incompleta

sceglie di non eseguire il parto cesareo, ma di proseguire nel parto naturale

responsabile (contra, le conclusioni del c.t.u.)

conferma

Cass.

2750/98 travaglio iniziato normalmente, con somministrazione di farmaci ossitocici;

distacco del

cardiotocografo per 25 minuti durante il travaglio, in quanto utilizzato per altra partoriente ritenuta maggiormente a rischio;

bimbo con danni cerebrali

si allontana dalla sala parto durante il travaglio, perché inviato dal primario a svolgere altre funzioni

responsabile conferma

Cass.

12505/95

nullipara di bassa statura (m 1,55);

macrosomia del feto;

posizione occipito- sacrale del feto; bimbo con danni cerebrali

decide di ricorrere al forcipe e non al parto cesareo, omettendo la ricognizione degli elementi obiettivi descritti a lato

responsabile conferma

Cass.

5224/95 arresto della progressione di espulsione; macrosomia del feto;

dopo due ore dall’inizio del travaglio, non esegue direttamente il taglio cesareo, ma si limita ad avvertire il primario

responsabile conferma

Dall’esame della giurisprudenza, sopra sommariamente e comparativamente richiamata, emergono elementi piuttosto interessanti per quanto concerne l’accertamento della colpa del ginecologo, che è opportuno esaminare partitamente.

(A) In primo luogo v’è da rilevare – ma è una notazione puramente statistica, non giuridica – che la colpa del ginecologo, in tutte le fattispecie decise, è stata sempre ritenuta sussistente (anche contro il parere del c.t.u.), salvo un caso: quello di un bimbo

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affetto da microcefalia, preesistente al parto (ma in questa ipotesi l’assenza di nesso causale è talmente evidente che v’è da meravigliarsi, piuttosto, della pervicacia delle parti, che ha protratto la lite sino in cassazione). Dunque, su dieci casi decisi dalla S.C. in quasi sei anni, si registrano nove condanne ed un rigetto della domanda nelle fasi di merito, tutte confermate dalla S.C.

(B) In secondo luogo, va sottolineato che nella quasi totalità dei casi l’ubi consistam della colpa viene ravvisato dai giudici di merito (con decisioni confermate in sede di legittimità) nel ritardo con il quale il ginecologo ha eseguito il parto cesareo (ex plurimis Cass.

16.5.2000 n. 6318, inedita; Cass. 9.5.2000 n. 5881, inedita; Cass. 31.3.2000 n. 3928, inedita), od anche nel non avere affatto eseguito il parto cesareo (Cass., sez. I, 05-12- 1995, n. 12505, in Foro it., 1996, I, 2494, con nota di LENOCI, Diritto a nascere sani e responsabilità del medico per l'attività di assistenza al parto, nonché in Danno e resp., 1996, 195, con nota di LAZARI, La responsabilità del medico in occasione del parto: brevi profili di comparazione).

Tuttavia, come si è già visto nel § precedente, la letteratura medica è piuttosto dubbiosa circa la possibilità di stabilire un nesso causale certo tra la paralisi cerebrale ed il travaglio intra partum; anzi, esistono studi dai quali risulterebbe che in una percentuale rilevantissima di casi la paralisi cerebrale trae origine da cause verificatesi ante partum, già durante la fase della gestazione. Se così è – ma, ovviamente, il mondo dei giuristi attende al riguardo dettagliati studi epidemiologici, vagliati da un adeguato dibattito nella comunità scientifica – il mero fatto di avere ritardato l’esecuzione del parto cesareo non può ritenersi da solo ed automaticamente una condotta che è stata causa del danno cerebrale al neonato. Pertanto, là dove non possa affermarsi che il ritardo nell’esecuzione del parto cesareo sia stato causa del danno cerebrale, a fortiori non potrà formularsi un giudizio di colpa nella condotta del medico, in quanto la carenza di nesso causale rende superfluo l’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito.

Considerazioni parzialmente diverse devono svolgersi per l’ipotesi in cui il medico non ritardi l’esecuzione del cesareo, ma deliberatamente scelga di eseguire il parto per via naturale. Ovviamente, anche in questi casi ben può ipotizzarsi una responsabilità del ginecologo, allorché l’anamnesi ed i dati obiettivi disponibili sul momento sconsigliassero od, addirittura, precludessero il parto naturale. Tuttavia deve anche riconoscersi che la

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scelta tra parto per via vaginale e parto cesareo è rimessa alla sensibilità del medico, il quale è l’unico che, nel momento topico del travaglio, può stabilire quale sia il metodo preferibile rispetto al caso concreto. Pertanto, dal punto di vista giuridico, la colpa del medico per omessa esecuzione del parto cesareo andrebbe valutata non ex post, in base agli elementi disponibili al momento del giudizio, ma ex ante, e cioè con prognosi postuma, valutando tutti i dati e le informazioni di cui il medico disponeva al momento della scelta.

Anche nel caso di valutazione della condotta del ginecologo col criterio della prognosi postuma, tuttavia, resta ferma la responsabilità del medico ove la scelta di non eseguire il cesareo sia stata dettata dall’assenza di informazioni e di dati che era preciso dovere del medico acquisire. E questo infatti è stato il decisum di Cass., sez. I, 05-12-1995, n. 12505, cit., la quale ha ritenuto adeguatamente motivata la decisione di merito che, muovendo dal fatto noto della mancata compilazione di alcune parti della cartella clinica, è risalita al fatto ignorato dell’omissione dell’indagine diretta alla raccolta dei dati mancanti, e da questa alla colpa del medico che, in un caso di macrosomia del feto in donna nullipara dalla struttura corporea minuta (soltanto 1,55 m di altezza), ha utilizzato il forcipe e non il parto cesareo.

Indubbiamente, v’è da considerare che il timore di dovere subire una condanna, nel caso di omessa esecuzione del parto cesareo, potrebbe esercitare una coazione indiretta sul medico, inducendolo a ricorrere a tale tipo di intervento anche quando non ve ne sia bisogno. Tuttavia, il medico che dovesse optare per questa condotta non si libererebbe di un giudizio di colpevolezza, anche nei casi in cui il bimbo nasca sano e l’intervento sia correttamente eseguito.

Infatti, il taglio cesareo costituisce un intervento invasivo, ritenuto da ampia parte della medicina clinica produttivo di effetti sfavorevoli per la donna e per il bambino: ed infatti l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sin dal 1985, ha raccomandato che il tasso di parti cesarei per distocia non superi il 10-15% del totale dei parti, mentre in Italia il tasso medio è del 25%, con punte del 35,3 registrate nel 1998 nel Lazio (Di Lallo, L’epidemiologia conferma, in www.tempomedico.it/cale00/653cale3.htm). Il taglio cesareo, dunque, secondo le leges artis, deve ritenersi una pratica da evitare ogni volta che sia possibile. Sul versante giuridico è dunque agevole concludere che la condotta del medico il quale

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pratichi un cesareo inutilmente, discostandosi dalle leges artis, è una condotta colposa, la quale espone il medico all’obbligo del risarcimento. Ovviamente, resta salva la possibilità che il medico abbia ottenuto il consenso della partoriente all’effettuazione del cesareo, ma attenzione: per essere valido, tale consenso deve essere stato prestato nella consapevolezza della superfluità, o comunque della non necessità, del parto cesareo.

(C) In terzo luogo, la giurisprudenza di legittimità appare orientata a valutare con rigore le eventuali cause di giustificazione addotte dai pretesi responsabili. In particolare sono state ritenute insufficienti, al fine di escludere l’elemento della colpa, sia la circostanza che il medico non abbia potuto presenziare al travaglio, perché chiamato dal primario ad assolvere altri impegni; sia la circostanza che l’ospedale non disponesse di strutture adeguate e personale numericamente adeguato, e pronto ad intervenire.

La prima delle due circostanze ora indicate è stata presa in esame da Cass., sez. III, 13- 03-1998, n. 2750, in Foro it., 1998, I, 3521, nonché in Arch. civ., 1998, 659. In quel caso, durante il travaglio, la partoriente era stata staccata dal cardiotocografo (unico disponibile), perché ritenuto maggiormente utile per un’altra donna considerata “a rischio”.

Proprio durante i 25 minuti in cui non erano state effettuate rilevazioni cardiotocografiche, il medico si era allontanato dalla sala parto, perché inviato dal primario a svolgere altre funzioni. La Corte ha ritenuto che tale circostanza non potesse valere ad escludere la colpa del ginecologo, in quanto in una situazione di potenziale conflitto tra gli ordini del primario e gli obblighi di assistenza verso la partoriente, debbono prevalere questi ultimi, in quanto il medico “avrebbe dovuto avere cura di rendere compatibili i due suoi diversi doveri, non solo rappresentando al primario, prima ancora del ricovero, la necessità in cui si sarebbe potuto venire a trovare, di prestare assistenza alla partoriente, ma anche esponendogli, dopo il ricovero, la necessità di non allontanarsi dal reparto per incombenze che gli impedissero di seguire l'evolversi del parto a lui affidato” (Cass., sez. III, 13-03-1998, n.

2750, cit.).

Quanto all’altra delle due possibili cause di giustificazione sopra indicate, e cioè l’inadeguatezza di mezzi e personale della struttura sanitaria (causa di giustificazione ricorrente con grande frequenza, nelle difese dei medici convenuti), anch’essa è stata ritenuta dalla S.C. non idonea ad escludere la colpa del ginecologo. In particolare, se le strutture dell’ospedale non consentono l’esecuzione di interventi adeguati, è preciso

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dovere del medico quello di dirottare il paziente verso strutture attrezzate. La violazione di questo dovere costituisce una forma di negligenza colposa, idonea a radicare un giudizio di condanna. Secondo la S.C., infatti, “il grado di diligenza [del ginecologo] (…) deve essere apprezzato in relazione alle circostanze concrete e tra queste (…) rientrano anche le dotazioni della struttura ospedaliera in cui lo stesso opera. In relazione a dette strutture tecniche va valutata la diligenza e quindi la perizia che al medico devono richiedersi, delle quali è anche espressione la scelta di effettuare in sede solo gli interventi che possono essere ivi eseguiti, disponendo per il resto il trasferimento del paziente in altra sede, ove ciò sia tecnicamente possibile e non esponga il paziente stesso a più gravi inconvenienti”.

Pertanto è stato ritenuto in colpa il medico che faccia ricoverare la paziente per il parto, sapendo che l’ospedale non dispone di una sala rianimatoria postnatale (Cass. 19.5.1999 n. 4852, in Danno e resp., 1999, 1104).

(D) In quarto luogo, nella più recente giurisprudenza, la responsabilità nel caso di errori od omissioni durante il parto non è stata limitata al medico che concretamente vi assiste, ma è stata estesa anche al primario, sebbene questi non abbia partecipato alle cure. Anzi, proprio la circostanza che il primario non si sia interessato al caso, non presenziando al parto né, in sostituzione, assumendo informazioni e diramando direttive, è stata ritenuta fondamentale per attribuire natura negligente e, quindi, colposa, alla condotta del primario. Ha osservato, a questo proposito, la Corte di legittimità “se non può certo affermarsi che il primario sia responsabile di tutto quanto accade nel suo reparto, non essendo esigibile un controllo continuo e analitico di tutte le attività terapeutiche che vi si compiono, egli ha tuttavia il dovere di informarsi dello stato di ogni paziente ricoverato, di seguirne il decorso anche quando non provveda direttamente alla visita, di dare le istruzioni del caso o comunque di controllare che quelle impartite dagli altri medici siano corrette e adeguate. E ciò quand'anche abbia affidato l'ammalato ad un medico in sottordine (…), volta che l'affidamento determina la responsabilità del medico affidatario per gli eventi a lui imputabili che colpiscano l'ammalato, ma non esime il primario dall'obbligo di assumere, sulla base delle notizie acquisite o che aveva il dovere di acquisire, le iniziative necessarie per provocare in ambito decisionale i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche” (Cass. 16.5.2000 n. 6318, inedita).

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Provando ora a ricomporre un quadro sintetico le indicazioni fornite dalla giurisprudenza, ne emerge che, in caso di parto distocico, secondo la giurisprudenza di legittimità il medico, per andare esente da affermazione di responsabilità, deve:

(a) seguire personalmente il travaglio, quando questo si presenti anomalo;

(b) anteporre l’assistenza al parto alle altre attività, anche se ordinate dai superiori;

(c) compilare debitamente ed in ogni parte la cartella clinica (scontando, in difetto, il rischio dell’insufficienza di prova circa il nesso causale);

(d) eseguire costantemente il monitoraggio attraverso il cardiotocografo;

(e) non esitare ad effettuare perfusioni ossitociche ed eseguire il parto cesareo, ai primi sintomi di sofferenza cardiaca del feto.

4. I DANNI RISARCIBILI: (A) IL CEREBROLESO DALLA NASCITA.

Come si è visto sopra, § 2, i danni astrattamente derivabili dall’imperizia o dalla negligenza dimostrata dal ginecologo durante la gestazione od al momento del parto sono distinguibili in tre tipologie: danni alla salute della madre; danni alla salute del bambino;

danni da nascita indesiderata.

Si badi che si è parlato di “tipologie”, e non di “categorie” di danno, in quanto le categorie di danno risarcibile sono quelle previste dall’ordinamento (nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza) per tutte le ipotesi di danno aquiliano, e cioè danno biologico, danno morale, danno patrimoniale. Qui, invece, essendo ultroneo ripercorrere i criteri di accertamento e di liquidazione dei tria nomina tradizionali del danno, si vuole semplicemente distinguere in fenotipi le potenziali conseguenze dannose della colpa del ginecologo, al fine di individuare gli aspetti della responsabilità di quest’ultimo.

Il risarcimento del danno biologico, di quello morale e di quello patrimoniale, derivanti da una lesione della salute causata dal ginecologo nell’esercizio della propria attività professionale, presentano diverse particolarità.

In questa sede non è purtroppo possibile esaminare analiticamente tutti i problemi che si pongono, sia in sede di accertamento che di liquidazione del danno, nelle ipotesi di danni da parto o da nascita indesiderata (ché ben altro spazio sarebbe necessario), ma è tuttavia possibile almeno dare conto dei principali problemi emersi nella pratica: la liquidazione dei danni al cerebroleso dalla nascita; la liquidazione del danno da perdita della capacità di procreare; da aborto forzoso e da nascita indesiderata.

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Per quanto concerne la liquidazione del danno subìto dal bimbo nato cerebroleso, per effetto di una imperita condotta del medico, sono sorte nella prassi due questioni: (a) se nella liquidazione del danno biologico e di quello patrimoniale da perdita del reddito debba tenersi conto della speranza di vita futura media, ovvero della ridotta durata della presumibile vita futura del danneggiato; (b) se possa essere liquidato il danno morale anche al bimbo che sia in nato con un deficit cerebrale assoluto (come nel caso di tetraparesi), che gli impedisca di stabilire qualsiasi contatto col mondo e, quindi, di provare alcuna sensazione o sentimento.

Con riferimento al primo dei due problemi indicati, è stato da qualche parte sostenuto che la liquidazione del risarcimento dovrebbe avvenire tenendo conto non della durata presumibile della vita del danneggiato, ma della durata prevedibile in conseguenza delle lesioni.

Questa tesi però non è assolutamente condivisibile, perché per effetto di essa la gravità del danno (e quindi dell’illecito) sarebbe premio a se stessa, nel senso che il danneggiante sarebbe obbligato a versare un risarcimento tanto minore, quanto maggiore è il danno arrecato. Ed infatti la tesi in esame è stata seccamente rifiutata dalla Corte di cassazione, in un caso in cui, per un errore dell’ostetrico, un bimbo era venuto alla luce con un grave deficit cerebrale, che riduceva le speranze di vita del bimbo a circa trent’anni. In quel caso la Corte, confermando sul punto la decisione di merito (la quale non aveva applicato alcuna riduzione nella aestimatio del danno biologico), ha ritenuto che la ridotta speranza di vita del bimbo cerebroleso fosse dovuta non al destino, ma al fatto colposo del medico, e pertanto era proprio tale riduzione a costituire il danno biologico risarcibile, onde la liquidazione di quest’ultimo doveva avvenire sulla base di un valore del punto d’invalidità determinato come se il bimbo avesse avuto una vita di durata normale (Cass. 9.5.2000 n.

5881, inedita).

In merito al secondo dei problemi sopra accennati, e cioè se possa essere liquidato il danno morale al cerebroleso privo della capacità di provare sensazioni di sorta, si registra invece qualche incertezza giurisprudenziale.

In una decisione del 1994, sia pure obiter dictum la Corte di cassazione aveva osservato che “il danno non patrimoniale è ipotizzabile anche nel caso di sofferenze fisiche e morali sopportate in stato di incoscienza” (Cass. 6-10-1994 n. 8177, in Foro it., 1995, I, 1852;

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nonché in Riv. giur. circolaz. trasp., 1995, 169; nello stesso senso, Trib. Como 24-7-1991, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1992, 134).

Soltanto un anno dopo, però, la stessa sezione della S.C. ha ritenuto correttamente motivata la sentenza di merito la quale aveva negato la risarcibilità del danno morale ad un bimbo nato cerebroleso per colpa del ginecologo, sul presupposto che le gravissime menomazioni psico-motorie subite dal neonato avevano annullato la sua personalità psichica, rendendolo conseguentemente del tutto dipendente dai suoi familiari, soltanto ai quali poteva pertanto riconoscersi il danno morale per le sofferenze direttamente patite (Cass., sez. I, 05-12-1995, n. 12505, in Foro it., 1996, I, 2494, ma si badi che lo specifico punto qui in discussione, trattato nel § 7 dei “motivi della decisione”, non ha formato oggetto di massimazione).

4.1. (b) PERDITA DELLA CAPACITÀ DI PROCREARE

Nessun dubbio sussiste sul fatto che la perdita della capacità di procreare, causato dall’illecito altrui, costituisca un danno biologico, anche se non vi sia stata una contemporanea riduzione della capacità sessuale. Ci si è chiesti invece se la perdita della capacità di procreare possa essere considerata “danno biologico” non solo per chi l’ha subita, ma anche per il coniuge di questi.

Appare preferibile la soluzione negativa, in quanto manca nel caso di specie uno dei presupposti indefettibili del danno alla salute, cioè la lesione in corpore. Naturalmente, l’impossibilità di avere figli dalla persona che si è scelta come compagna di vita può produrre un danno psichico anche nel partner, danno che deve essere integralmente risarcito. In questo caso però non la perdita della capacità di procreare nel coniuge costituisce il danno risarcibile, ma il danno psichico che da quella è derivato.

Anche il giudice di legittimità ha escluso l’esistenza, in capo al marito, di un danno risarcibile derivante dalla perdita della capacità di procreare della moglie, ma per escludere l’esistenza di tale tipo di danno la S.C. non ha fatto leva sulla inesistenza d’una lesione in corpore per il marito, bensì sulla inesistenza, per quest’ultimo, di un diritto soggettivo perfetto alla procreazione (Cass. 11.2.1998 n. 1421, in Danno e resp., 1998, 895).

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4.2. (c) PROCURATO ABORTO

Se l’atto illecito compiuto dal medico cagiona ad un donna incinta lesioni tali, da determinare l’interruzione forzosa della gravidanza, alla madre spetterà il risarcimento del danno biologico per le lesioni alla persona subìte, ma non per la perdita del frutto del concepimento. Tale perdita potrà dar luogo soltanto, ricorrendone gli estremi, al risarcimento del danno morale. Questa soluzione, affermata da alcuni giudici di merito (Trib. Roma 24.1.1995, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1995, 543), sembra condivisa, sia pure in modo implicito, dal giudice di legittimità, il quale ha ritenuto che la gestante la quale, a causa della colpa dei sanitari, abbia non solo perduto il proprio feto, ma abbia dovuto altresì subire l'asportazione dell'utero, ha diritto al risarcimento di un duplice danno morale: sia per quello causato dalle lesioni personali subite, sia per quello causato dalla perdita del frutto del concepimento (Cass. 11-3-1998 n. 2677, in Giur. it., 1998, 735): con il che la Corte ha mostrato di ritenere che la perdita del frutto del concepimento è fonte di danno morale, ma non di danno biologico.

4.3. (d) NASCITA INDESIDERATA

Una fattispecie peculiare di danno, che taluni giudici di merito ritengono costituisca una ipotesi di danno alla salute, è rappresentata dal c.d. danno da nascita indesiderata. Ricorre questo tipo di danno quando la nascita di un figlio avviene contro la volontà del genitore (come nell’ipotesi di insuccesso di un intervento abortivo, ovvero nel caso di insuccesso di un intervento di sterilizzazione); od anche oltre la volontà del genitore (come nell’ipotesi di omessa informazione circa le malformazioni del feto, con conseguente perdita della possibilità di interrompere la gravidanza).

In queste ipotesi, la S.C. ha innanzitutto escluso che il concepito, una volta venuto ad esistenza, possa accampare pretese risarcitorie. Il fatto di venire ad esistenza non può infatti essere considerato un danno in sé, quale che sia la qualità dell’esistenza. Di conseguenza, è stato negato che i genitori del bimbo venuto alla luce con gravi malformazioni congenite, la cui esistenza non era stata rilevata per imperizia dei medici, possano agire in giudizio, in rappresentanza di lui, per chiedere il risarcimento del danno alla salute subìto dal proprio figlio (Trib. Roma 13.12.1994, in Dir. famiglia, 1995, 662).

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La conclusione muta nel caso in cui il concepito abbia riportato un danno alla salute, durante la vita prenatale, per imperizia del medico: ma in questo caso il danno che si risarcisce è la lesione della salute, non già la nascita indesiderata.

Escluso dunque che l’evento “nascita” in quanto tale possa rappresentare un danno per il nato, occorre esaminare se tale evento possa costituire un danno per i genitori. Al riguardo la giurisprudenza è divisa tra due orientamenti: quello di chi ritiene che la nascita indesiderata per i genitori non sia un danno in sé, ma ben possa costituire causa di danno alla salute (specie psichica); e quello di chi ritiene che la nascita indesiderata costituisca un danno in sé, diverso dalla lesione della salute, e consistente nella lesione del diritto alla procreazione libera e cosciente.

Secondo il primo orientamento, la nascita in quanto tale non può assolutamente essere considerata un evento dannoso, neppure nei casi in cui venga ad esistenza un bimbo malato o malformato. Un danno risarcibile è ipotizzabile soltanto quando la nascita non desiderata, ovvero la nascita di un bimbo malformato senza che i genitori siano stati previamente avvertiti, costituisca un fattore traumatico che provochi nei genitori un danno psichico, cioè una vera e propria malattia (Trib. Roma 13.12.1994, in Dir. famiglia, 1995, 662; Trib. Bergamo 16.11.1995, in Giust. civ., 1996, I, 867; ma va detto che, nella sentenza del tribunale lombardo ora citata, il richiamo alla lesione della salute appare “di stile”, e compiuto al solo fine di giustificare la liquidazione del danno in un caso in cui non era stata dimostrata alcuna lesione anatomo-patologica dei genitori). Questo orientamento, che è quello condiviso dalla Corte di cassazione, si fonda sulla seguente argomentazione:

(a) una nascita indesiderata, dovuta all’imperizia del medico, costituisce una lesione del diritto all’interruzione della gravidanza;

(b) questo diritto, che spetta unicamente alla donna, non è però assoluto, in quanto la legge consente l’interruzione volontaria della gravidanza soltanto nel caso in cui essa sia necessaria per la tutela della salute, anche psichica, della madre;

(c) ergo, la violazione del diritto all’interruzione della gravidanza rileva solo quando da essa derivi la lesione di quel bene che la norma intendeva proteggere, cioè la salute della madre (Cass. 8-7-1994 n. 6464, in Corriere giur., 1995, 91; nonché in Giust. civ., 1995, I, 767; in Giur. it., 1995, I, 1, 790; in Resp. civ. prev., 1994, 1029).

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Le condizioni di risarcibilità del danno alla salute psichica, derivato da una nascita indesiderata, mutano nel caso in cui quest’ultima sia ricollegabile non ad un errore medico nell’esecuzione dell’intervento di interruzione della gravidanza, ma ad una omessa informazione, da parte del medico, circa l’esistenza di malformazioni del feto, con conseguente violazione del diritto della madre a praticare l’interruzione della gravidanza.

In questo caso la condotta del medico è stata ritenuta fonte di danno risarcibile soltanto ove sia dimostrato che, se la madre fosse stata tempestivamente informata, ella avrebbe potuto legittimamente esercitare il diritto all’aborto, in quanto ricorrevano tutte le condizioni previste dalla l. 194/78. Queste condizioni sono, come noto, diverse a seconda che l’interruzione della gravidanza avvenga nei primo 90 giorni, ovvero successivamente.

Nel primo caso (art. 4 l. 22.5.1978 n. 194), per praticare l’aborto è sufficiente che sussista il “serio pericolo” per la salute fisica o psichica della madre. Pertanto in caso di nascita indesiderata, per ottenere il risarcimento del danno alla salute psichica, la madre dovrà dimostrare soltanto che, se fosse stata informata delle malformazioni, questa informazione avrebbe causato un “serio pericolo” per la sua salute.

Nel secondo caso (art. 6 l. 22.5.1978 n. 194), e cioè dopo il 90° giorno di gravidanza, la gestante può esercitare il diritto all'aborto solo in presenza di due condizioni positive e di una negativa, e cioè:

(a) sussista un processo patologico (fisico o psichico, anche indotto da accertate malformazioni del feto) in atto per la madre;

(b) sussista il pericolo (da accertare con valutazione ex ante) che tale processo patologico degeneri, recando un danno grave alla salute della madre;

(c) non sussista possibilità di vita autonoma per il feto (così, ad litteram, Cass. 1-12-1998 n. 12195, in Danno e resp., 1999, 522).

In questi casi, pertanto, per ottenere la condanna del medico al risarcimento del danno biologico (psichico) causato dalla nascita indesiderata, la donna ha l’onere di dimostrare che la tempestiva conoscenza delle malformazioni del feto avrebbe ingenerato in lei un processo patologico fisico o psichico, dal quale poteva derivare un pericolo grave per la salute della donna (Cass. 24.3.99 n. 2793, in Danno e resp., 1999, 766).

Ove sussistano tutti i requisiti sopra indicati, l’omessa informazione da parte del medico, circa l’esistenza di malformazioni fetali, costituisce una condotta illecita, che legittima la

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domanda di risarcimento del danno alla salute subìto sia dalla madre, in conseguenza della nascita, sia dal padre, in conseguenza del danno alla salute sofferto dal coniuge (Cass.

1.12.1998 n. 12195, cit.).

Vi è invece contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, in merito alla risarcibilità delle spese di mantenimento ed educazione del bimbo la cui nascita era indesiderata.

La soluzione negativa muove dal rilievo che la l. 194/78 è preordinata a tutelare la salute, e non il patrimonio, della donna, e dunque la lesione del diritto all’aborto rileva soltanto quando è violato il bene protetto dalla norma (Cass. 8-7-1994 n. 6464, cit.).

In senso esattamente contrario, invece, si è pronunciata Cass. 1.12.1998 n. 12195, cit., almeno con riferimento all’ipotesi in cui sia configurabile una responsabilità contrattuale del medico (ma, come si è visto in precedenza, dopo il decisum di Cass., sez. III, 22-01- 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294, l’atto illecito del medico è sempre disciplinato dalle norme sulla responsabilità contrattuale, secondo la tesi della “responsabilità da contatto”). Secondo Cass. 12195/98, dunque, poiché nel caso di wrongful birth si versa in tema di inadempimento contrattuale, “il danno, al cui inadempimento il debitore inadempiente è tenuto ex art. 1218 c.c., deve essere valutato secondo i criteri di cui agli artt. 1223, 1225, 1227 c.c. (…). In questo danno rientra non solo il danno alla salute in senso stretto, ma anche il danno biologico in tutte le sue forme ed il danno economico, che sia conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata”.

Come si accennava più sopra, in tema di danno da nascita indesiderata vi è poi un secondo orientamento, sinora registrato soltanto tra i giudici di merito, secondo il quale la wrongful birth costituisce un danno risarcibile di per sé (in base al combinato disposto degli artt. 2 e 13 cost., e 2043 c.c.), a prescindere dall’esistenza d’un danno alla salute.

Questa conclusione viene fondata sul presupposto che il danno da nascita indesiderata costituisce, per entrambi i coniugi, lesione del diritto primario e costituzionalmente all’autodeterminazione ed alla pianificazione familiare, e come tale genera un danno (danno-evento) immediatamente risarcibile (Trib. Milano 20.10.1997, in Danno e resp., 1999, 82).

L’individuazione di un “diritto a non avere figli”, e l’affermazione secondo cui la lesione di tale diritto dà luogo ad un danno risarcibile in numerario, ha indotto parte della dottrina a

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ravvisare, nella pronuncia da ultimo citata, un esempio di liquidazione del c.d. “danno esistenziale”.

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