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EMANUELE CONTE
Ordinario di Storia del Diritto Medievale e Moderno Università di Roma Tre Parere pro veritate circa la natura giuridica dei cc.dd. “beni estimati”, vale a dire le cave degli agri marmiferi di Carrara che alla data del 1° febbraio 1751 erano iscritte negli Estimi dei particolari da oltre venti anni (reso alla Regione Toscana, in relazione alle esigenze di adeguamento della L.R.T.
78/1998)
I termini della questione. – La Regione Toscana-Giunta regionale chiede un parere pro veritate circa la natura giuridica dei cc.dd. “beni estimati”.
Con il sintagma “beni estimati” si identificano le cave intestate a soggetti privati che insistono negli agri marmiferi del Comune di Carrara, quelle in particolare che il 1° febbraio 1751 erano iscritte da oltre vent’anni negli Estimi dei particolari. In questa data Maria Teresa Cybo Malaspina, duchessa di Massa e principessa di Carrara, emanò un Editto per disciplinare il regime giuridico delle concessioni degli agri marmiferi posti nei beni delle Vicinanze carraresi, accordando speciale tutela ai soggetti privati «possessori» ultraventennali delle cave vicinali (delle Vicinanze). A partire da questo Editto teresiano del 1751, i sovrani del principato di Carrara (in séguito passato per unione personale sotto il dominio degli Este) dettarono con successivi provvedimenti una normativa sull’escavazione negli agri marmiferi, limitata dapprima ai soli agri vicinali, poi estesa a tutto il territorio statale. L’art. 64 ult. comma del r.d. n. 1443 del 1927 – la “legge” di unificazione mineraria – mantenne in vigore per i comuni di Massa e di Carrara il c.d. regime minerario estense, riconoscendone in via transitoria la specialità.
La legge rinviò all’emanazione di un apposito regolamento comunale – da adottare entro un anno – la definitiva disciplina delle concessioni dei rispettivi agri marmiferi.
A distanza di molti anni, nel 1994, il Comune di Carrara – investito dal ricordato
art. 64 di poteri regolamentari autonomi – ha adottato un regolamento (delibera
Cons. com. n. 88, del 29 dicembre 1994), approvato l’anno successivo dalla
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Regione Toscana (L.R. n. 104 del 28 febbraio 1995, recante “Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara”).
Il regolamento comunale ha abrogato la disciplina estense (benché sussistano in dottrina isolate voce dissenzienti) e ha improntato a profili pubblicistici il regime minerario degli agri marmiferi comunali, terreni che il testo identifica con «tutte le zone montane del Comune di Carrara intestate a quest’ultimo come piena proprietà, o come dominio diretto, nel Catasto Estense approvato con editto sovrano del 27 novembre 1824» (art. 1 del reg. com.le, modificato nel 1999, riaffermato con delibera Cons. com. n. 61 del 21 luglio 2005). Gli agri comunali, come identificati, sono classificati come beni del patrimonio indisponibile del Comune (art. 2).
Questo regolamento, superato il vaglio del giudizio di legittimità della Corte Costituzionale (sentenza n. 488 del 1995), ha lasciato tuttavia insoluto il problema della natura giuridica dei “beni estimati”, ossia – come sopra riferito – di quelle cave aperte sui terreni appartenenti alle antiche Vicinanze che alla data del 1° febbraio 1751 erano allibrate (iscritte agli estimi, appunto) da più di venti anni1. Dette cave, infatti, sono intestate al catasto in piena proprietà di soggetti privati, e appaiono quindi estranee stricto sensu agli agri marmiferi comunali ai quali la legge mineraria del 1927 limita la riserva di regolamento in favore del Comune di Carrara. E pertanto allo stato non soggiacciono al regime concessorio pubblicistico, che prevede l’acquisto a titolo oneroso del diritto di escavazione.
La quaestio iuris da sciogliere riguarda appunto il significato da attribuire
all’Editto teresiano del 1751. Come ricorda il Piccioli, nel corso del tempo hanno
assunto denominazione di “beni estimati” altri fondi della zona marmifera non
appartenenti agli agri comunali (PICCIOLI 1956, 98) dispone che per le cave
aperte negli agri vicinali da almeno venti anni «niun diritto pretender mai più
possa sopra di esse, o sopra i loro possessori, la Vicinanza ne’ di cui agri sono
situate, non altrimenti che se a favore dei possessori medesimi militasse
l'immemorabile, o la centenaria, o concorresse a pro loro un titolo il più
legittimo che immaginare si possa». Inoltre, per una corretta intellezione
dell’Editto, la Regione Toscana-Giunta regionale chiede di chiarire nel parere,
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attraverso un’indagine sul diritto vigente al tempo dell’editto in questione, la natura e il limite dei poteri regalistici in capo alla Sovrana quando emanava il provvedimento, in ragione della peculiare tipologia dei beni interessati dall’atto.
L’Editto teresiano del 1751 e i «beni estimati»: due distinte posizioni in dottrina.
Secondo una prima tesi avanzata da parte della dottrina e confermata da taluna giurisprudenza, l’Editto teresiano del 1751, escludendo perennemente le Vicinanze da ogni diritto sulle cave allibrate da più di un ventennio, avrebbe riconosciuto in favore dei soggetti possessori un pieno dominio, che li escludeva dalla normativa di ius proprium della Sovrana, normativa che disciplinava le forme di utilizzazione e godimento degli agri marmiferi delle Vicinanze. La tesi del riconoscimento di un vero e proprio diritto di proprietà, attraverso l’emanazione di una norma eccezionale, fu avanzata nel 1954 da una Commissione composta da illustri giuristi, chiamati dall’amministrazione carrarese a un ampio esame della condizione giuridica degli agri marmiferi comunali, esame peraltro finalizzato essenzialmente all’elaborazione dell’atteso regolamento comunale (RELAZIONE COMMISSIONE PIGA, 1954, cap. 1.2).
Questa impostazione è accolta anche da una parte della più recente dottrina: ad esempio, nell’ampio paragrafo dedicato al regime delle cave di marmo di Massa e Carrara contenuto nel volume di Maria Vaccarella La disciplina delle attività estrattive, l’Autrice distingue tra “beni estimati” «in privata proprietà» e fondi degli agri marmiferi appartenenti alla «proprietà vicinale» (VACCARELLA, 2010, 192-193). La Commissione era composta dal presidente Emanuele Piga, dai professori Filippo Vassalli e Massimo Severo Giannini.. Sulla stessa linea, sebbene più sfumata, la posizione espressa dal Landi nell’accurato saggio storico-giuridico sul diritto minerario negli Stati di Massa e Carrara: l’Autore constata come dal 1751 per le cave poste in fondi privati si parli comunemente
«di “beni stimati” che rimangono nella libera disponibilità del proprietario del
suolo» (LANDI, 2007, 48). Un secondo orientamento ritiene viceversa che il
provvedimento teresiano del 1751 non abbia trasferito nei soggetti privati un
pieno dominio degli agri vicinali, né tantomeno che l’iscrizione agli estimi delle
Vicinanze costituisca una prova di piena proprietà del bene immobile, giacché
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questa iscrizione dei particolari aveva valore esclusivamente ai fini della imposizione prediale. Secondo il Piccioli, operatore del diritto e studioso che si è a lungo interessato alla materia, la formula dell’Editto della Sovrana «è alquanto dubbia» e i «beni estimati del 1751 potrebbero configurarsi, lato sensu, come concessioni irrevocabili». Inoltre, il richiamo della Sovrana «all’immemorabile e alla prescrizione centenaria», prosegue il Piccioli «è stato erroneamente interpretato come una prova della usucapibilità degli agri», mentre al contrario
«fu necessario un atto sovrano di carattere eccezionale per disporre di parte degli agri vicinali, soggetti ad inalienabilità e imprescrittibilità» (PICCIOLI, 1956, 97-98). Più di recente lo stesso Autore, richiesto dal Comune di Carrara di uno specifico parere sulla natura giuridica dei “beni estimati” di cui all’Editto del 1751, ha considerato la disposizione teresiana alla stregua di una «sanatoria» con cui «la Duchessa tacitava le potenti famiglie che si erano accaparrate le migliori cave». Il regime introdotto dalla Sovrana per questi fondi rientrerebbe nello schema della «concessione di escavazione, che non incide sulla proprietà del fondo»; mentre «la legittimazione dei beni estimati» troverebbe «fondamento sul diritto di regalia sovrana», per il quale il sottosuolo minerario – degli agri vicinali come dei fondi non vicinali – apparterrebbe al principe. Né peraltro la Sovrana, osserva il Piccioli, «avrebbe potuto spogliare la Vicinanza (Comunità riconosciuta dallo Ius Commune) di beni di sua proprietà».
Da questa interpretazione lo studioso traeva la necessaria conseguenza che per i
“beni estimati” del 1751 non fosse possibile applicare l’art. 45 della legge mineraria del 1927 (articolo in forza del quale le cave e le torbiere aperte in terreni privati dovevano essere lasciate nella disponibilità del proprietario del suolo), ma questi rientrassero a pieno titolo negli agri marmiferi comunali per i quali il regolamento comunale ha competenza a disporre (ai sensi del citato art.
64, stessa legge) (Parere PICCIOLI, 1999, 4-5). Aderisce a questo secondo orientamento anche il parere reso al Comune di Carrara il 9 aprile 1999 dal prof.
Paolo Barile, il quale ritiene che Maria Teresa «si è necessariamente limitata a
concedere ai possessori di beni estimati da oltre un ventennio il diritto di
sfruttare il sottosuolo minerario», un’attribuzione che «trova fondamento nel
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diritto di regalia sovrana e rientra tipicamente nelle c.d. “investiture minerarie”
attuate negli stati aventi il sistema minerario di tipo regalistico. Il diritto del titolare del bene estimato ha dunque la stessa natura del diritto che apparteneva al sovrano, e che… era limitato allo sfruttamento del sottosuolo dell’agro vicinale». Il Barile fa discendere dall’appartenenza dei beni estimati agli agri marmiferi delle Vicinanze, e poi al Comune, «la loro piena assoggettabilità al nuovo regolamento comunale [scil. del 1995]» (PARERE BARILE, 1999, 4-5).
Nel 2002 anche il Batistoni Ferrara, richiesto di un parere dal Comune di Carrara circa la modifica del regolamento comunale sulla disciplina concessoria, dichiara di condividere senza riserve i pareri espressi dal Piccioli e dal Barile «in ordine all’impossibilità di riconoscere nei beni estimati beni in proprietà privata», ritenendo insuperabile l’argomento che la Sovrana non avrebbe potuto disporre della proprietà dei fondi «che apparteneva agli enti territoriali autonomi destinati ad essere soppressi, nel 1812, con conseguente devoluzione di tale”. Il Barile ribadì questa sua posizione nel parere, di poco successivo, richiestogli sempre dal Comune di Carrara, in ordine alla possibilità di applicare in via retroattiva (ossia dalla sua entrata in vigore) la disciplina regolamentare «per la concessione degli agri marmiferi alle «investiture perpetue a sanatoria dei così detti “beni stimati”», PARERE BARILE, 2000, proprietà al Comune di Carrara» (PARERE BATISTONI FERRARA, 2002, 1).
L’Editto del 1751, le Vicinanze di Carrara e gli agri marmiferi.
Per interpretare correttamente il passo dell’Editto è opportuno calarsi nel
contesto storico del tardo diritto comune, nei fondamenti costituzionali e nel
sistema di regole e princìpi generali che presiedevano, con mentalità assai
diversa dall’attuale, alla vita degli ordinamenti. Erano regole e princìpi ai quali si
conformavano – come è ovvio – anche i detentori della sovranità o dell’arbitrium
(se si utilizza il termine tecnico che designa la giurisdizione superiore che le
comunità riconoscevano al signore, in cambio della tutela dei diritti e dei
privilegi di cui esse godevano), a maggior ragione quando questi si
riproponevano di derogarvi. Al centro del nostro interesse è in particolare
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l’ordinamento delle Vicinanze, quelle peculiari organizzazioni comunicative entro i cui confini insisteva la maggior parte degli agri marmiferi della montagna carrarese e dunque anche i “beni estimati” di cui tratta l’Editto teresiano del 1751. Le 14 Vicinanze della valle del fiume Carrione sono attestate fin dall’età medievale4, quando le condizioni economiche e sociali indussero alla creazione di comunità dotate di una propria organizzazione, sorte in primo luogo per regolare lo sfruttamento di beni goduti collettivamente.
Con il rinascere della cultura giuridica e l’acquisto di una nuova consapevolezza istituzionale, queste comunità si diedero strutture rappresentative atte ad esprimerne la volontà normativa e dispositiva, senza per questo che i beni goduti in comune perdessero il loro carattere di proprietà collettiva. Sicché, al proprio interno, ogni Vicinanza era dotata di organi di autogoverno, deputati dai comunisti a gestire il patrimonio collettivo degli agri. In età comunale, le vicinanze della valle si riunirono per formare la più ampia comunità che dai pochi documenti medievali sulle origini di Carrara, trasmessi dal Codice Pelavicino del vescovo di Luni, si può ragionevolmente ritenere che la «francatio rusticorum», ossia l'emancipazione delle comunità e la loro autonomia istituzionale, risalga alla prima metà del XIII secolo comprendeva anche il centro cittadino di Carrara, dove si riuniva il Consiglio, l’organo rappresentativo di tutte le comunità vicinali. I membri del Consiglio erano eletti autonomamente dalle distinte unità organizzative in cui si suddivideva il territorio, che si trovavano tutte in posizione paritaria. In atti pubblici del XVI secolo il Comune di Carrara è ancóra designato come Universitas et Communitas totius vallis Carrariae (PICCIOLI, 1967, 166).
Non è questa la sede per stabilire se, proprio a partire dal XVI secolo, entrasse in
crisi la forma comunitaria delle Vicinanze, sotto la spinta di ceti imprenditoriali
che ne facevano lo strumento di controllo della coltivazione del marmo (il
dibattito storiografico sintetizzato in LANDI, 2007, 52-54). Rileva qui constatare
che gli statuti di Carrara (in specie quelli signorili del 1574) riconoscevano
l’ordinamento interno e la competenza esclusiva delle Vicinanze a gestire i loro
beni, comprese la concessione delle terre per l’escavazione del marmo. Non vi
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sono dubbi, dunque, che la proprietà degli agri marmiferi fosse attribuita alla Vicinanze nel Medio Evo e nell’Età Moderna, come dimostra il fatto che gli statuti del Comune di Carrara presentano solo rari riferimenti alla coltivazione del marmo, perché le modalità di concessione degli agri – sia ai membri della vicinia sia eventualmente a soggetti ad essa esterni – erano lasciate alla consuetudine di ciascuna Vicinanza.
A lungo si sono ricercate, senza successo, norme scritte in materia. Gli statuti comunali duecenteschi e i Capitula viscontei della fine del Trecento, non presentano disposizioni relative all’escavazione dei marmi. Le aggiunte cinquecentesche, ossia i Capitula nova approvati nel 1519 dalla signora di Carrara Ricciarda Malaspina e dal consorte, si limitano ad assicurare ai carraresi una riserva di scavo e di lavorazione, salvo la facoltà conservata dai Domini di concedere una speciale autorizzazione a soggetti stranieri. Si coglie bene, in questi atti normativi, la mutata situazione politica dell’età moderna, quando l’antica autonomia statutaria riconosciuta agli enti corporativi medievali (Comuni, corporazioni, comunità di villaggio, università, eccetera) viene accolta dai nuovi poteri statuali, che intervengono per “proteggere” le autonomie a affermano nello stesso tempo il proprio potere di intervento negli ordinamenti locali. Tali interventi sono però assai controllati e discreti, poiché il tessuto normativo degli stati signorili è costituito della giustapposizione delle norme di ius proprium radicate della soggettività pubblicistica dei corpora che compongono lo Stato. Nel caso che qui interessa, le norme scritte di diritto proprio che per secoli hanno regolato le concessioni degli agri marmiferi vicinali sono contenute nel capitolo De bonis et agris viciniarum vallis Carrariae degli Statuta Carrariae del 1574 (L. II, cap. 40).
L’ampio corpus statutario carrarese che contiene il citato capitolo sugli agri fu
approvato da Alberico I, principe di Massa e marchese di Carrara, capostipite
della linea dinastica dei Cybo Malaspina. Il capitolo 40 non fa riferimento
esplicito all’attività di sfruttamento delle risorse lapidee, ma le modalità di
concessione livellaria (genericamente riferite a bonis et agris, quindi anche a
terreni non marmiferi, pascoli, etc.) si applicavano anche alle cave che
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insistevano sugli agri. D’altro canto ancóra oggi si parla di “coltivazione del marmo”. Fin dall’incipit del lungo capitolo statutario è chiara la volontà di Alberico di porre un freno agli abusi commessi sugli agri appartenenti alle collettività vicinali. Il sovrano desiderava regolare in particolare le modalità di concessione delle terre, offrendo una tutela statutaria ai diritti delle Vicinanze. Lo Stato territoriale carrarese è dunque un ottimo esempio di ordinamento a base organizzativa comunale, costituito da una trama di universitates, dotata ciascuna di personalità giuridica e di facoltà di autogoverno.
La legittimazione dell’autorità del dominus territoriale era tutta giocata in questi casi sulla sua capacità di assicurare un’ordinata convivenza ai corpi comunitari. I meritori studi che il Mannori ha dedicato al complesso tema della potestas principis nell’universo di antico regime, hanno ampiamente dimostrato che al sovrano spettava il compito «di dichiarare il diritto e di costringere i sudditi al suo rispetto», con una distinzione tra la sfera di administratio – che restava in capo alle singole comunità – e la sfera di iurisdictio in capo al sovrano,
«erogatore della giustizia e... garante della pace territoriale» Il testo del capitolo 40 va dunque interpretato alla luce dei compiti propri del sovrano: dichiarare il diritto preesistente, rafforzare gli enti comunitari e al contempo procedere a un parziale adeguamento degli obblighi alle mutate condizioni del momento.
Con questi intenti Alberico disponeva (rectius, dichiarava) che tutti coloro che detenevano (tenent, possident) anche a titolo oneroso i beni (bona stabilia) di proprietà di una delle Vicinanze («aliquam viciniam dictae vallis Carrariae») erano tenuti a versare un canone annuale «pro liuello seu censu» .
Al pagamento erano assoggettati in perpetuum anche eredi e successori. Inoltre,
il capitolo statutario albericiano prescriveva ai diversi detentori dei fondi delle
Vicinanze (tutti coloro che, si specificava, «tenent, possident aut occupant de
praedictis bonis seu agris») di notificare ai consoli vicinali entro trenta giorni
dalla pubblicazione dello statuto l’estensione, la qualità e l’esatta ubicazione dei
fondi, al fine di definire l’ammontare del canone (ibid. 107). Col successivo capo
il marchese di Carrara vietava l’alienazione dei beni vicinali in assenza di
un’espressa autorizzazione della Vicinanza («non interveniente expressa licentia
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aut consensu expresso non accedente»), così come vietava anche l’occupazione degli agri (inuadere) sotto ogni forma e per qualsivoglia ragione («laborare seu colere, et laborari facere per se vel per alium») senza il consenso del Consiglio dei Venti o della Vicinanza proprietaria (ibid., 108). Dal pagamento del censo erano esentati esclusivamente quei soggetti privati che avevano acquistato i fondi a titolo oneroso dalle Vicinanze («ab aliqua vicinia»), purché in grado di esibire il titolo di acquisto entro cinquanta giorni dalla pubblicazione dello statuto («de dicto titulo docuerit infra quinquaginta dies currentes», ibid., 109).
Per il futuro, Alberico disponeva l’interdizione di qualsiasi trasferimento degli agri che non prevedesse almeno il pagamento di un canone annuo, e che non fosse destinato a un membro della Vicinanza stessa, o ad essa aggregato, pena la nullità dell’atto («sit nullum irritum quoque et inane»). L’articolo 40 dello statuto 1574 fornisce dunque elementi sufficienti per stabilire quale fosse la configurazione giuridica degli agri marmiferi carraresi sulla quale intervenne poi l’Editto di Maria Teresa del 1751. Sebbene infatti la norma preveda il consolidamento della situazione soggettiva di alcune concessioni irritualmente effettuate in perpetuo e dietro corresponsione di un prezzo una tantum o di un censo annuale, essa afferma anche il principio generale che esclude ogni concessione per la quale non sia previsto il versamento di un canone, e proibisce la circolazione delle concessioni se non previa autorizzazione e trasferimento dell’onere costituito dal canone in capo al nuovo concessionario. La disposizione prospetta dunque chiaramente un assetto che riconosce in capo alla vicinia il dominio diretto degli agri marmiferi.
Di questo dominio diretto è dichiarata la indisponibilità, poiché le terre collettive
della vicinia erano ab origine la causa stessa dell’esistenza della comunità e ne
costituiscono il patrimonio, inalienabile perché detenuto a titolo di proprietà
comune. Gli organi di governo delle vicinie potevano disporre soltanto del
dominio utile, che poteva essere dato in concessione. L’obbligo della previsione
del canone aveva appunto la funzione di rappresentare tangibilmente il carattere
della concessione, che non poteva in alcun caso configurarsi come proprietà
perfetta. Nello stendere nel 1751 il suo Editto, Maria Teresa aveva ben presenti
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le disposizioni di questo capitolo statutario albericiano, della cui vigenza all’epoca non è dato dubitare. L’evolversi della funzione amministrativa aveva condotto alla diffusione delle scritture catastali, che nel Settecento cominciavano a costituire la base conoscitiva dell’imposizione fiscale. In tale quadro si deve interpretare la funzione dell’estimo, che ha una certa importanza per il problema che qui ci impegna. D’altra parte, la funzione del sovrano-tutore, arbitro delle controversie e amministratore attento delle risorse dello Stato prosegue la sua evoluzione sulle basi pubblicistiche che si sono viste operare già nel XVI secolo.
Con l’emanazione dell’Editto del 1751, la principessa di Carrara ricorse ai suoi poteri equitativi per fornire, sulla base del principio di effettività, una garanzia di stabilità alle situazioni di fatto nel frattempo maturatesi negli agri marmiferi con l’apertura di nuove cave. Il suo intervento si rendeva necessario perché i soggetti possessori iscritti all’estimo da oltre un ventennio erano carenti del richiesto titolo di acquisto dei beni (acquisto che la norma dello statuto, peraltro, escludeva dopo il 1574 per soggetti esterni alla Vicinanza), e sarebbero stati comunque tenuti – secondo la lettera dello statuto, come si è potuto evidenziare – al pagamento del canone annuale.
Nel disporre dunque che per le «cave già descritte negli Estimi dei particolari»
da più di venti anni «niun diritto pretender mai più possa sopra di esse, o sopra i
lor possessori, la Vicinanza ne’ di cui Agri sono situate», la sovrana introduceva
degli spazi di eccezione entro la rigidità della norma statutaria, realizzando una
selezione degli interessi da tutelare. Era questa una facoltà riservata in antico
regime solo al sovrano, giustificata da iusta causa o anche semplicemente da
valutazioni di opportunità, che la dottrina del diritto comune non faceva difficoltà
a riconoscere come legittima. Il beneficio giuridico dispensato dalla principessa
ai soggetti possessori di “beni estimati” consisteva dunque nel sollevarli
perpetuamente dal versamento di qualsiasi corrispettivo pecuniario alle
Vicinanze come controprestazione per l’utilizzo degli agri. Escludendo a chiare
lettere qualsiasi successiva pretesa di queste ultime, la sovrana precludeva a
queste universitates (dotate come erano di personalità giuridica) la strada di
futuri ricorsi in giudizio. Valutava infatti Maria Teresa che il pagamento della
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colletta per i terreni descritti all’estimo compensasse l’obbligo statutario di pagamento del canone o livello. Fin dalle parole d’avvio dell’Editto è evidente che questo atto del principe, steso nella forma del rescritto, attinge al potere giurisdizionale che appartiene al sovrano e si declina tipicamente nell’intervento di carattere giurisdizionale-amministrativo.
Maria Teresa riferisce infatti che era stata portata alla sua attenzione una controversia «insorta fra certi ufficiali della Vicinanza di Torano [una delle 14 Vicinanze di Carrara], e alcuni particolari sopra il diritto di aprire negli agri di quella cave di marmo», e di essere venuta, a séguito di ciò, «nella deliberazione di fissare un Regolamento, il quale decida essa controversia, e dia insieme norma a tutte le altre, che in rapporto degli agri delle altre Vicinanze di Carrara, eccitare si potessero in qualsivoglia tempo avvenire su consimile soggetto». L’actum principis è dunque una conseguenza della proposizione di una domanda di giustizia, attivata dalle parti su un caso concreto, che investiva il potere – dovere del sovrano di pronunciarsi. L’azione regolatrice (la «volontà di fissare un Regolamento») nasceva nella principessa dall’esigenza di evitare che in futuro si eccitassero sulla materia ulteriori azioni a tutela dei diritti, sia da parte delle Vicinanze, sia dei particolari. L’Editto era dunque espressione di iurisdictio, una forma di potere che in altri più estesi ordinamenti della penisola era esercitata, da almeno un secolo, da speciali organi giudiziari su delega del sovrano, secondo le tipiche modalità – come è stato detto efficacemente – dell’
“amministrar giudicando” (MANNORI, SORDI, 2001). Un esercizio di potere
che a Carrara competeva ancóra al principe, autore esclusivo dell’atto, senza
necessità di ricorrere ad alcuna presunzione di paternità. Pur adottando le forme
imposte dal mutato quadro storico, l’atto di Maria Teresa si confronta con un
problema non troppo diverso da quello che lo statuto del 1574 avrebbe dovuto
risolvere: le vicinie non controllavano il sistema delle concessioni con la
necessaria attenzione, sicché si erano realizzate usurpazioni che si potevano
confondere con situazioni possessorie esercitate legittimamente. L’autorità
giurisdizionale della sovrana interviene per sanare le ambiguità prodotte nel
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passato, non diversamente da quanto aveva fatto lo statuto approvato dal principe Alberico I nel 1574.
L’allibrazione nei libri dell’estimo può a questo punto servire da elemento di presunzione della legittimità della concessione, e giustificare l’intervento sovrano a composizione delle controversie sorte a livello locale. La natura e l’intento dell’Editto teresiano, nonché il nesso di questo con le norme statutarie albericiane, appaiono ancóra più evidenti dalla lettura combinata del ricordato passo sui “beni estimati” ultraventennali, con i successivi capi del testo teresiano.
La principessa graduò in modo discendente i diritti da riconoscere a coloro che erano in possesso delle cave delle Vicinanze, a seconda delle situazioni di fatto:
la casistica fu modulata sulla base del tempo di iscrizione all’estimo e/o dell’esistenza (o meno) di un titolo di acquisto. Per le cave degli agri marmiferi descritte in estimo da meno di venti anni, l’Editto assegnava alla Vicinanza nelle cui terre erano situate le cave allibrate la facoltà di richiedere ai possessori il titolo di acquisto, entro un mese dalla pubblicazione dell’Editto («abbia il diritto di interpellare i possessori ad allegare, e procurare il titolo del di loro acquisto»). In assenza del titolo i possessori assumevano l’obbligo (con
«pubblico istrumento») al pagamento di «un’annua prestazione» in favore delle Vicinanze, nella forma del contratto di livello.
L’entità della prestazione era concordata dai possessori con gli ufficiali delle
Vicinanze e in caso di disaccordo tra le parti la principessa riservava a sé una
funzione di natura arbitrale, per determinarne l’ammontare. Il pagamento del
canone alla Vicinanza per il godimento del fondo comportava la cancellazione
dei soggetti dagli estimi dei particolari. Per le cave aperte negli agri e non
allibrate, ugualmente le Vicinanze potevano intimare il termine di trenta giorni
per la presentazione del titolo d’acquisto eventualmente posseduto, con facoltà di
costringere i possessori in caso di assenza di questo titolo al pagamento della
prestazione annuale. Infine, per le cave da «aprirsi per l’avvenire» l’Editto
consentiva a chiunque, negli agri della sua Vicinanza, la ricerca «all’azzardo
delle Cave», con l’obbligo – dopo un biennio iniziale di esenzione – di versare il
solito corrispettivo annuo alle Vicinanze. Letto il testo dell’Editto, del quale
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abbiamo sintetizzato i contenuti – senza trascurare alcuna parte relativa alle cave di marmo, alle concessioni degli agri e all’esercizio delle relative facoltà di godimento – occorre ora valutarne la portata giuridica, e in particolare se l’intervento sovrano abbia avuto l’effetto di trasferire ai concessionari dei beni estimati non soltanto il dominio utile degli agri marmiferi detenuti, ma anche il dominio diretto che – come abbiamo visto – era indiscutibilmente attribuito alle Vicinanze da un assetto costituito nel Medio Evo, consolidato dagli Statuti del XVI secolo e ben conosciuto dalla sovrana nel XVIII.
Ora, non pare che dal testo dell’Editto si possa evincere una volontà, né esplicita né implicita, della principessa di Carrara di trasferire nel patrimonio dei soggetti privati la proprietà perfetta degli agri. Sembra invece che la preoccupazione principale della sovrana sia quella di agire sul profilo procedurale, per mettere fine al contenzioso senza investire la questione ardua e complessa del diritto sostanziale di proprietà. Quando Maria Teresa afferma che le Vicinanze non potranno più «niun diritto pretendere», la sovrana sta stabilizzando in una situazione di diritto, assimilabile al dominio utile, la situazione di fatto protrattasi nel tempo nella quale si trovavano i particolari iscritti da oltre venti anni all’Estimo. In base al disposto dello statuto albericiano del 1574, allora ancora vigente, tali soggetti particolari erano detentori di concessioni illegittime giacché, come si è visto, non si potevano concedere agri marmiferi se non dietro versamento di un canone, il quale aveva la funzione di rappresentare tangibilmente il dominio diretto di cui la vicinanza era titolare. Grazie all’Editto questi soggetti particolari erano sottratti alle pretese – legittime, stando alla lettera dello statuto alberi ciano – degli organi vicinali, con decisione equitativa che preveniva il possibile insorgere di future azioni di rivendica.
Per le differenti situazioni di fatto in cui si trovavano i possessori degli agri marmiferi, l’Editto asseverò inoltre il principio secondo cui era vietata la duplicazione del prelievo, disponendo che i particolari non pagassero per lo stesso fondo sia la colletta sulla base dell’estimo, sia il canone alla Vicinanza.
Questo profilo va tenuto nella debita considerazione. L’estimo dei beni indicava i
soggetti cui incombeva l’obbligo fiscale, dovuto nei confronti del fisco estense.
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Ora, se nell’estimo era iscritto come possessore del fondo il concessionario, l’imposizione fiscale gravava direttamente su di lui, mentre ne era sollevata la Vicinanza concedente; se invece era la Vicinanza a essere indicata nel libro fiscale, era evidentemente la Vicinanza a dover corrispondere al fisco l’importo dell’imposizione. Il canone di concessione dovuto dal concessionario alla Vicinanza doveva presentarsi, agli occhi dei cavatori, come una specie di doppia imposizione. Ed è su questo punto particolare che incide il disposto dell’Editto.
Se avesse voluto privare le Vicinanze del dominio diretto su agri facenti parte dei territori che costituivano la base reale della loro stessa esistenza, l’atto sovrano avrebbe dovuto rispondere del resto ad altri requisiti, pacificamente osservati per diritto comune in materia di espropriazione.
Considerata manifestazione della plenitudo potestatis (pienezza del potere) del sovrano di uno stato assoluto, l’espropriazione doveva in ogni caso realizzare una volontà sovrana qualificata dai requisiti della certa scientia e della publica utilitas.
L’atto relativo doveva quindi recare la manifestazione esplicita della conoscenza certa e dettagliata dei diritti che la volontà sovrana trasferiva o modificava con il suo atto di disposizione, nonché l’obbiettivo di pubblica utilità che si voleva perseguire. Elementi che sono assenti dal dettato dell’Editto, e che fanno ritenere che un trasferimento del dominio diretto dalle vicinanze ai particolari non fosse obiettivo della norma.
D’altro canto, che l’intento dell’Editto ducale e in particolare del passo relativo ai
“beni estimati” qui in questione fosse di acquietare le discordie e i contenziosi
che minavano la pace sociale e l’ordinato sfruttamento delle risorse del territorio
appare confermato dai riferimenti a meccanismi giuridici che per l’appunto si
distinguono per la loro dimensione “effettuale”, tendente cioè non a incidere
sugli assetti dei diritti sostanziali, ma soltanto sull’azionabilità delle pretese e sul
profilo della presunzione. E’ rivelatrice, in questo senso, l’assimilazione della
posizione giuridica dei possessori di agri iscritti a proprio nome nell’estimo alla
condizione di colui che vanti un possesso confortato dalla vetustas, legittimata
dall’immemorabile e della centenaria. Erano, questi ultimi, istituti che davano
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luogo ad alcuni effetti, previsti nell’ordinamento. Si afferma infatti nell’Editto che la Vicinanza non potrà «mai più» pretendere ad alcun diritto sugli agri marmiferi, ricorrendo ad un’equiparazione particolarmente significativa, che non è stata finora abbastanza sottolineata. La posizione dei possessori dei “beni estimati” da più di un ventennio è infatti equiparata esplicitamente al possesso di lunga data – ab immemorabili, appunto – e alla centenaria, istituti cui si ricorreva largamente nel maturo diritto comune per determinare la presunzione di un possesso («non altrimenti che se a favore dei possessori militasse l’immemorabile, o la centenaria, o concorresse a pro loro un titolo il più legittimo che immaginare si possa», reca l’Editto teresiano). Erano istituti che servivano a garantire forme di godimento esclusivo delle cose e a fornire tutela processuale di situazioni possessorie; nelle fonti dottrinali e ancor più spesso giudiziarie, chi si appoggiava all’immemorabile – si legge – era assistito dal
“miglior titolo” che si potesse produrre per tutelare i propri godimenti.
Quello che la duchessa, nel passo appena citato, definisce «il titolo più legittimo». Nell’ambito della dottrina del diritto civile attuale e della giurisprudenza è cosa pacifica che l’immemorabile (e la centenaria, cui l’istituto è storicamente affiancato per gli effetti che produce, benché dotato di minore forza) non dia luogo – a differenza dell’usucapione – all’effetto acquisitivo del diritto. Le ragioni di “sistema” di questa esclusione sono state efficacemente sintetizzate dal Vecchi (VECCHI, 1999, 203-208). In assenza del titolo, l’immemorabile dà fondamento a una presunzione semplice, ossia alla corrispondenza di una situazione di fatto con una situazione di diritto, in ragione del decorso di un tempo talmente lungo che – come chiarisce la Cassazione – «si è perduta memoria dell’inizio di una determinata situazione di fatto, senza che ci sia memoria del contrario» (Cass. Civ., sez. I, sent. 4051/83).
Abrogato per i rapporti privatistici dal codice civile del 1865 (Disposizioni
transitorie per l’attuazione del Codice civile, r.d. 30 novembre 1865, n. 2606),
l’immemorabile è tuttora operante per quei soli rapporti di diritto pubblico che
hanno per oggetto beni demaniali indisponibili e imprescrittibili, e può essere
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provato con ogni mezzo, purché la fattispecie si sia perfezionata prima che l'ordinamento cessasse di riconoscerne la rilevanza giuridica.
E’ comprensibile, del resto, che proprio per quei beni di cui a rigore non si potrebbe configurare l’appartenenza a privati sia necessario ricorrere a un istituto ambiguo, che non determina alcuna vera e propria titolarità, ma garantisce il godimento impedendo le rivendicazioni attraverso lo strumento della presunzione e la conseguente inversione dell’onere della prova. Che nel caso della proprietà dei beni di questo genere è davvero, come si diceva nel Medio Evo, diabolica.
Se dunque l’effetto previsto dalla legislatrice per il proprio Editto è esplicitamente equiparato a quello prodotto dall’immemorabile, occorre chiarire brevemente alcuni ulteriori profili di questo istituto. Nel secolo scorso il dibattito sul requisito del tempo – lungo o immemorabile che sia – come requisito sufficiente all’acquisto di diritti soggettivi, è stato terreno di confronto tra diversi orientamenti nella storiografia giuridica italiana, e non solo.
La voce enciclopedica «Ab immemorabili», redatta (secondo categorie dogmatiche un po’ preconcette) da Francesco Schupfer nel 1937 distingueva schematicamente tra un’idea romana, che vedeva nell’immemorabile un modo di legittimo acquisto assimilato alla prescrizione acquisitiva; e una idea attribuita al mondo germanico che era allora molto in voga – che avrebbe pervaso il mondo medievale e l’età del diritto comune – secondo la quale il tempo immemorabile fonderebbe solo la presunzione di un giusto titolo. Come si è appena evidenziato, il contrasto dei due orientamenti ha visto prevalere nella dottrina e nella giurisprudenza attuali l’idea che l’immemorabile si distingue dalla prescrizione.
Nell’età del rinascimento giuridico, e poi nel maturo diritto comune, l’atteggiamento di civilisti e canonisti non fu univoco in materia, diversamente da quanto sostiene lo Schupfer, come ho provato a dimostrare in alcuni miei studi in proposito (CONTE 1999, 85-127). Tuttavia, attingendo alle fonti giudiziarie del Settecento e dell’Ottocento, dell’epoca cioè più vicina all’Editto di Maria Teresa, l’orientamento prevalente è quello di considerare immemorabile e centenaria alla stregua di mere presunzioni di legittimità dei possessori attuali.
Una sentenza della Rota di Pisa del 1822 appare da questo punto di vista
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esemplare, anche per la dottrina eminente e la giurisprudenza allegate dal giudice nelle sue motivazioni ad una causa di preteso possesso (ROTA DI PISA, 1822).
Si legge infatti, oltre all’argomento che «i libri d’estimo non somministrano che una semplice presunzione di possesso», la pregnante affermazione che contro «il padrone diretto non si ammette alcuna specie di prescrizione, benché immemorabile, e di mille anni» (ivi, 352). È «affatto irrilevante», ritiene il giudice, fondare delle pretese «sull’immemorabile, giacché la presunzione del miglior titolo, che emerge dalla Centenaria non è Iuris, et de jure… ma è una semplice presunzione che resta elisa dalle prove, o presunzione in contrario» (ivi, 351-352)14. La sentenza pisana richiama alcuni precedenti rotali e un passo del De Luca, il grande giurista del Seicento.
Nel suo celebre Theatrum Veritatis egli osserva: «Siquidem centenaria possessio ponderanda non est in ratione praescriptionis, ut praesupponit decisio, dum ad ejus presidium recurrere, semper malum, atque imprudens est consilium» (DE LUCA, Theatrum, III, disc. 97, 10 [193-194]). Anche una decisione della
“Ruota” fiorentina del 1805 considera la immemorabile (e del pari la centenaria) soggette «ad essere da altre presunzioni vinte e combattute», chiamando a sostegno il precedente di conformi pronunce rotali. Si poteva insomma sempre ammettere una presunzione o una prova contraria (RUOTA FIORENTINA, 1805). Il punto nodale ai fini della presente trattazione sta nel fatto che sia la immemorabile, sia la centenaria, presupponevano sempre l’esistenza di un dominus diretto, che nel nostro caso era la Vicinanza, della quale la sovrana si guardò sempre dal dichiarare estinto il dominio diretto sui fondi de quibus.
Il passo della sentenza su immemorabile e centenaria è richiamato, a forma di
massima, nell’indice alfabetico delle materie, in fondo al volume (720). È
richiamato in particolare il precedente di una pronuncia di fine Settecento –
quindi coeva al nostro Editto carrarese – tratta dalla raccolta di decisioni rotali
fiorentine, conosciuta come Tesoro ombrosiano: «praesumptio melioris tituli ex
centenaria resultans non est iuris, et de iure ut bene probant, ec. Sed est simplex
praesumptio melioris tituli adversus dominum directum per contrarias
probationes vel praesumptiones elidibilis» (187).
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D’altro canto, come è stato osservato (PICCIOLI, 2004, 248), il cap. 64 del libro II dello statuto del 1574 prevedeva che «praescriptio non currat contra iura communis Carrariae, vel viciniarum eius» (PICCIOLI, 2004, 248).
Conclusioni.
Dal complesso degli elementi presi in esame emerge dunque che i «diritti» sugli agri marmiferi di Carrara, legittimamente attribuiti nel 1751 dalla duchessa Maria Teresa ai soggetti iscritti all’estimo da oltre vent’anni, attenevano esclusivamente alla sfera del godimento del bene. Il dominio diretto delle terre restò in capo alle Vicinanze, giacché l’intento della sovrana era esclusivamente di sottrarre gli antichi possessori dalla regola generale dell’onerosità delle concessioni, garantendo il godimento del bene anche sotto il profilo processuale. Nella permanenza di antiche logiche feudali, l’atto della sovrana assegnando ai soggetti estimati una vestitura/garanzia non mobilitava dunque diritti soggettivi, ma agiva solo sul piano della azionabilità. Era troppo profondamente radicata la convinzione dell’appartenenza collettiva dei territori alla comunità, costituita in persona giuridica dalla Vicinanza, perché un atto sovrano volesse porla in dubbio. Se avesse voluto trasferire il dominio diretto dei fondi in questione, espropriandone le Vicinanze, in ogni caso, l’Editto avrebbe dovuto rendere manifesti i necessari requisiti della certa scientia e della publica utilitas richiesti per ogni atto di espropriazione. Per limitare i contenziosi e garantire il regolare pagamento delle imposte, però, la sovrana garantiva il godimento del bene ai soggetti che si erano stabiliti da tempo sui fondi. In nessun passaggio dell’Editto, però, dispone che le Vicinanze siano espropriate del proprio diritto di dominium directum in favore dei possessori iscritti nell’estimo.
Va escluso dunque che l’Editto del 1751 abbia costituito un diritto di proprietà perfetta in capo ai «possessori» dei beni estimati.
La garanzia offerta dall’Editto ai possessori di agri estimati è stata poi ripresa in
atti pubblici successivi senza cogliere la profonda estraneità della mentalità
giuridica che sovrintendeva a quell’atto, rispetto alla rinnovata disciplina dei
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