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metafisica del male è quella che lo considera come un contrasto

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Appendice

Per rendere completa l'analisi del male come semplice privazione è

opportuno fermarsi brevemente anche sulla dottrina che per prima si

pose in contrasto con essa: la controparte di questa prima concezione

metafisica del male è quella che lo considera come un contrasto

interno dell'essere, cioè come la lotta tra due princìpi. Si tratta in

questo caso di una concezione per la quale il dominio dell'essere è

diviso in due campi opposti, dominati da due princìpi antagonisti. Il

prototipo di questa concezione è la religione di Zoroastro (o

Zarathustra), che contrapponeva a una divinità (Ahura Mazda o

Ormazd) un'antidivinità (Ahriman), la quale fungeva anche da principio

del male. E non è un caso che Leibniz le dedichi attenzione anche

nella Teodicea: questo culto prevede una soluzione estremamente

semplice del problema del male, una soluzione che, se da un lato limita

per forza di cose la potenza delle divinità, dall'altro rispetta i precetti del

monoteismo, in quanto la potenza limitante viene vista come

un'antidivinità. Secondo questa teoria il male ha lo stesso grado di

realtà del bene, ma viene evitata la dottrina della riduzione del male a

nulla e viene fatto appello allo stesso tipo di giustificazione cui ricorre la

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negazione metafisica della realtà del male. Questo dualismo di origine persiana ritornerà più avanti nel culto di Mitra, in alcune sette gnostiche e nella setta dei Manichei, la quale dà il nome, non a caso, a un importante capitolo del Dizionario storico-critico di Bayle che Leibniz riprenderà e criticherà. Bisogna però fare un'ulteriore precisazione riguardo a questa scuola di pensiero: la filosofia in quanto tale non ha mai accettato questa soluzione del problema del male nella forma semplificata nella quale l'aveva originariamente formulata la religione persiana: quando la filosofia speculativa ha accettato questo sistema l'ha modificato nel senso di far coincidere entrambi i princìpi in Dio: sia il principio del bene che quello del male devono essere uniti in Dio proprio in virtù del loro contrasto.

Dal canto suo Leibniz, nella Teodicea, esamina attentamente la

questione dello zoroastrismo, prima proponendone un'interpretazione

storico-filologica decisamente originale (sulla scorta di quanto

affermato da Erodoto nelle Storie), poi passando direttamente alla

confutazione delle teorie bayliane che riguardano i dettami di questa

antica religione. La fantasiosa ipotesi storico-filologica del filosofo

tedesco tenta di accomunare varie religioni dell'antichità partendo dalla

divinità oscura, Arimane, identificata persino con il capostipite dei

germani (il quale, secondo le congetture leibniziane, mosse guerra ad

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alcuni stati orientali): «Quando ho osservato che grandi prìncipi dell'alta Asia hanno portato il nome di H o r m i s d a s , e che Irmin, o Hermin, è stato il nome di un dio o di un antico eroe dei celti-sciti, cioè dei germani, mi è venuto in mente che questo Arimane, o Irmin, potesse esser stato un gran conquistatore dell'antichità, proveniente dall'Occidente, come successivamente, provenienti dall'Oriente, furono grandi conquistatori Gengis Khan e Tamerlano. Arimane sarebbe dunque venuto dall'Occidente boreale, cioè dalla Germania e dalla Sarmazia, attraverso gli Alani e i Massageti, a fare irruzione negli Stati di un certo Hormisdas, grande re dell'alta Asia; come altri sciti fecero in seguito, ai tempi di Cisarre, re dei medi, secondo quanto racconta Erodoto.»

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. Da qui Il monarca chiamato Hormisdas, che si era preoccupato di civilizzare i popoli sotto il suo dominio e di proteggerli dalle invasioni straniere, sarebbe stato mitizzato dai posteri come il dio buono, mentre il capo degli invasori provenienti da ovest sarebbe ben presto diventato il simbolo del princìpio malvagio. Sempre seguendo il percorso dettato da questa sorta di mitologia pare che i due prìncipi (trasformati solo successivamente in princìpi) abbiano combattuto per molto tempo, senza che nessuno dei due prevalesse sull'altro: in questo modo ognuno di loro ha mantenuto intatti il proprio potere e la propria forza allo stesso modo in cui, secondo la dottrina di Zoroastro, i

1 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, pp. 281-282.

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due princìpi del bene e del male si sono spartiti il dominio terreno.

A questo punto l'unico altro sforzo da compiere è tentare di dimostrare che un eroe o un condottiero delle antiche tradizioni dei germani avesse un nome simile a Herman, Arimane o Irmin. Niente di più facile per Leibniz, che spiega come Tacito, nel suo scritto De origine et situ Germanorum, affermi che «i tre popoli che compongono la Germania, gli ingevoni, gli istevoni e gli herminoni o hermioni, sono stati chiamati così dai tre figli di Manno. Che sia vero o no, rimane il fatto che c'è un eroe chiamato Hermin, dal quale gli herminoni avrebbero preso il loro nome. Herminoni, hermenner, hermunduri, sono la stessa cosa, e significano soldati»

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. Da qui non è difficile sostenere che, nel corso degli anni, il nome di una sola delle popolazioni dell'odierna Germania fu esteso a tutto il paese, riunendo tutti i popoli teutonici sotto il nome di Hermanni o Germani. Proseguendo con lo studio dei nomi Leibniz tenta di spingersi ancora oltre, non contento di quanto già affermato, sostenendo che il culto del dio greco Hermes, conosciuto dai romani col nome di Mercurio, derivasse da quello di Hermin o Arimane. Continuando su questa strada l'autore della Teodicea passa per la religione egiziana e chiude il cerchio ritornando alle divinità nordiche, in particolare scandinave e celtiche: «T h e u t, M e n e s e H e r m e s furono famosi e onorati in Egitto. Essi

2 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 282.

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potrebbero venire identificati, secondo la genealogia di Tacito, con T u i s c o n e, suo figlio M a n n o e H e r m a n, figlio di Manno. Menes è considerato il più antico re degli egiziani, T h e u t era uno dei nomi di Mercurio presso quel popolo. Quanto meno, Theut o Tuiscone, da cui Tacito fa discendere i germani, e da cui ancora oggi i Teutoni – T u i t s h e, cioè germani – traggono il nome, si identifica con quel T e u t a t e s che Lucano dice essere adorato dai Galli […] Otto Sperling

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, noto per parecchi scritti eruditi, ma che ne ha ancora molti altri pronti per la pubblicazione, ha discusso in un'apposita dissertazione di Teutates, dio dei celti. Alcune osservazioni da me trasmessegli su questo argomento, sono state inserite nelle Nouvelle literaires de la Mer Baltique, insieme alla sua risposta. Egli interpreta in modo leggermente diverso da me questo passo di Lucano:

Teutates, pollensque feris altaribus Hesus, Et Taramis Scythicae non mitior ara Dianae

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.

Hesus era senza dubbio il dio della guerra, l'A r e s dei greci e l'E r i c h degli antichi germani, da dove ancor oggi Erichtag, martedì. […] Per quel che riguarda T a r a m i s o forse T a r a n i s, sappiamo che T a r

3 Otto Sperling (1634-1715), erudito e storico delle antichità scandinave. La sua dissertazione De

origine veterum Gallorum, è apparsa nel giugno del 1699 sulle «Nova literaria maris Balthici et

Septentrionis».

4 «Teutate ed Eso terribile sui macabri altari, e Tarami dal rito non più mite di quello di Diana Scizia »

Lucano, Bellum civile, I, 445-446.

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a n era il tuono, o il dio del tuono, presso gli antichi celti, chiamato T h o r dai popoli germanici del Nord, donde gli inglesi hanno derivato thurs-day, giovedì, diem Jovis»

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. Quindi per Leibniz non risulta impossibile (anche se è abbastanza difficile credere a questo complicato schema storico-mitologico) che, tempo prima della diffusione dello zoroastrismo in Asia, alcuni sovrani occidentali abbiano conquistato larghe porzioni della Grecia, dell'Egitto e di buona parte dell'Asia stessa, e che il loro culto e la loro esaltazione a divinità siano sopravvissuti presso quelle popolazioni come monito per i propri discendenti. «Quando si consideri con quale rapidità gli unni, i saraceni e i tartari si sono impadroniti di gran parte del nostro continente, tutto ciò ci meraviglierà molto di meno; e il gran numero di parole della lingua greca e di quella tedesca che concordano così bene tra loro, lo conferma»

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.

Questa analisi linguistica non sembra propriamente corretta, anche se Leibniz non lo poteva ancora sapere perché circa centocinquant'anni dopo la redazione della Teodicea, precisamente nel 1857, Lewis Henry Morgan, antropologo ed etnologo statunitense, pubblicò un importante studio intitolato Leggi di discendenza tra gli Irochesi (una tribù indiana che Morgan frequentava e studiava con assiduità). Ciò che ci interessa a proposito di questo studio riguarda il

5 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, pp. 284-285.

6 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 285.

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linguaggio e la sua evoluzione nel tempo e nello spazio: secondo le accurate ricerche di Morgan non si può prendere come prova sufficiente delle migrazioni umane la somiglianza dei linguaggi tra loro:

le lingue, aleatorie per natura, sono destinate a cambiare e ad evolversi di continuo, perciò non si possono utilizzare per corroborare un'ipotesi storico-antropologica come quella tentata da Leibniz. Inoltre non ci si può basare su di esse perché sono formazioni storiche in cui si sedimentano, trasformandosi in patrimonio collettivo, il pensare e il sentire individuale delle generazioni. Come spiega molto chiaramente Lia Formigari riprendendo I Discorsi alla Nazione tedesca di Fichte, bisogna «considerare la lingua come formazione oggettiva rispetto agli individui che la parlano, capace in quanto tale di formare gli individui stessi. Non è l'uomo che parla, scrive Fichte, ma la natura umana che parla in lui; non è il popolo che esprime nella lingua le proprie conoscenze, quanto piuttosto le conoscenze che si esprimono per mezzo suo; non sono gli uomini che formano la lingua, quanto la lingua che forma gli uomini. Una lingua è viva se originaria, autoctona.

Sgorga come una forza spontanea dall'esistenza del popolo, le sue parole sono vita e promuovono la vita. Produce una cultura che non è semplice erudizione»

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, non è quindi qualcosa che si può portare con sé con facilità da un luogo all'altro del pianeta senza che subisca pesanti

7 L. Formigari, Il linguaggio: storia delle teorie, Roma, Laterza, 2001, pp. 185-186.

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modifiche. Per contro però, Formigari ci informa anche della teoria di Renan, secondo il quale la forma della lingua non può mai essere veramente alterata nel processo storico: le famiglie linguistiche sono tanto incomunicabili e separate tra loro quanto invece all'interno di ogni famiglia tutto è fluttuante.

Spostandoci verso il problema della novità di un linguaggio, fondamentale è l'apporto di Wilhelm von Humboldt il quale, ponendosi in continuità con quanto già aveva affermato Leibniz, sostiene che la creazione di un nuovo linguaggio non è mai una creazione ex nihilo, in quanto l'uomo tende sempre a ricollegarsi con qualcosa che già esiste.

E, proprio per l'originarietà del linguaggio, che presenta «un'infinità senza inizio né fine»

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, non è possibile immaginare quella creazione se non all'interno del corso storico in cui esso viene manifestandosi, nella ininterrotta serie delle lingue. Quindi la formazione delle lingue in realtà è una trasformazione, e ciò gioca a favore della teoria di Leibniz. Ma qual'è, nel processo di una trasformazione di una lingua, il punto in cui si può dire che essa sia diventata un'altra? Innanzitutto bisogna precisare che, per quante deviazioni possano determinarsi dal percorso abituale, pure la forma originaria si conserva finché, anche se non sempre riconoscibile, resti quella prevalente. La trasformazione non deve pertanto spingersi fino a ledere l'unità individuale della lingua,

8 W. v. Humboldt, La diversità delle lingue, tr. it. a c. di D. Di Cesare, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 49.

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ma «è sufficiente che venga introdotto un mutato principio di unità, una nuova prospettiva dello spirito di un popolo, perché sorga appunto una nuova lingua»

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. Humboldt, trattando soprattutto le lingue romanze (suo principale campo di studio), afferma che i generi o i processi del sorgere di nuove lingue sono riducibili a due sole tipologie: la prima va individuata nel passaggio da lingue che possiedono una struttura grammaticale più compiuta e ricca di forme flesse a lingue la cui struttura appare meno completa; la seconda è data dal caso opposto, di cui possono trovarsi degli esempi nel sorgere del sanscrito, del greco e del latino. Invece, i motivi che determinano il sorgere di nuove lingue sono ben quattro: il tempo, le migrazioni dei popoli, il mescolarsi dei ceppi etnici e il mutamento delle condizioni politiche e del costume di un popolo. Per quel che riguarda il tempo Humboldt dubita che esso, da solo, sia in grado di trasformare una lingua. Quanto alle migrazioni dei popoli, possono produrre sicuramente dei mutamenti, ma essi sono limitati solamente al lessico. Anche il terzo motivo, che si può considerare alla stregua dell'odierno melting pot, viene notevolmente ridimensionato a partire dalla considerazione che una lingua può dirsi nuova quando nuova è la sua forma. Infine, dall'esame delle lingue romanze risulta evidente che al quarto motivo, ossia la mutamento delle condizioni politiche, e alla connessa decadenza della cultura, va

9 W. v. Humboldt, La diversità delle lingue, cit., p. 201.

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ascritta quella corruzione del latino da cui esse traggono origine.

Quindi il sorgere di nuove lingue, in quanto evento storico, rinvia a motivi storici che possano spiegarlo.

Va inoltre ricordato che, per von Humboldt, «il linguaggio è l'organo dell'essere interiore, è questo stesso essere, com'esso perviene via via alla conoscenza interiore e all'estrinsecazione.

Pertanto la lingua affonda tutte le più sottili fibre delle sue radici nella forza spirituale della nazione, e quanto più adeguatamente l'azione di questa forza si ripercuote su di essa, tanto più regolare e ricco è il suo sviluppo. Poiché la lingua, nella coesione della sua trama, non è che un effetto del senso linguistico della nazione, ne segue che proprio le questioni concernenti la formazione delle lingue nella loro vita più intima e l'origine da cui scaturiscono al contempo le loro differenze più essenziali, non trovano alcuna fondata risposta se non ci si innalza fino a questo punto di vista»

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. Un'altra precisazione che il linguista di Potsdam si sente di fare riguarda la differenza tra linguaggio e lingue:

se il primo è considerato come un'attività spontanea che nasce unicamente da se stessa, rimanendo comunque libera, le seconde sono indissolubilmente legate e dipendenti ai paesi ai quali appartengono, visto che esse hanno visto la luce all'interno di limiti ben definiti. Infine si può vedere un'apertura di von Humboldt, almeno a

10 W. v. Humboldt, La diversità delle lingue, cit., pp. 9-10.

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livello teorico, verso l'ipotesi avanzata da Leibniz, quando sostiene che

«la lingua, nella sua essenza reale, è qualcosa di continuamente, in ogni attimo, transeunte. Perfino la sua conservazione attraverso la scrittura è sempre soltanto una conservazione incompleta e mummificata, che richiede sempre a sua volta che vi si renda sensibile la viva dizione. La lingua stessa non è un opera (ἔργον), ma un'attività (ἐνέργεια). La sua vera definizione non può essere perciò che genetica»

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. Quindi, se è difficile dimostrare che due popolazioni sono imparentate a partire dal linguaggio utilizzato, è altrettanto complicato provare il contrario.

Tornando all'opera di Leibniz, una volta precisata la propria posizione sulla genealogia dello zoroastrismo, il filosofo di Lipsia passa poi a confrontarsi puntualmente con Bayle: di fronte alla diffidenza del pensatore francese per quanto concerne la spiegazione dei fenomeni naturali secondo l'ipotesi di un unico princìpio, l'autore della Teodicea risponde utilizzando ancora una volta il rapporto tra la parte, che può portare disordine e sofferenza (come l'uomo, esplicitamente criticato da Bayle), e il tutto, il quale può includere singole parti negative a patto che esse siano finalizzate alla perfezione generale. Il problema principale, secondo Bayle, è la presenza, praticamente ovunque, di bene morale e fisico, di virtù, di felicità; se tutta questa positività non

11 W. v. Humboldt, La diversità delle lingue, cit., p. 36.

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esistesse, se ci fossero solo i malvagi e gli sfortunati, non avremmo bisogno di ricorrere all'ipotesi dei due princìpi. A questo punto Leibniz, affrontando il proprio interlocutore allo stesso modo in cui ci si confronta con un bambino capriccioso e testardo, gli concede l'esistenza di due princìpi, i quali però sono assai diversi da quelli esposti per la prima volta da Zoroastro: «È vero che vi sono due princìpi, ma tutt'e due si trovano in Dio, e coincidono con il suo intelletto e la sua volontà. L'intelletto offre il princìpio del male, senza esserne offuscato, senza essere malvagio; rappresenta le nature come esse sono nelle verità eterne; racchiude in sé la ragione grazie alla quale è permesso. La volontà, invece, non mira che al bene.

Aggiungiamo un terzo princìpio, la potenza; essa precede l'intelletto e la volontà, ma agisce come il primo insegna e come l'altra esige»

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. Ancora una volta viene rimarcata l'importanza di intelletto e volontà divini, spalleggiati in questo frangente dalla potenza: la divinità buona e la sua controparte malvagia sembrano aver fatto storia.

Questo excursus sullo zoroastrismo si conclude con la disputa, immaginata da Bayle e ripresa da Leibniz, tra Melisso (difensore dell'unità del principio) e Zoroastro (araldo della dualità). Secondo il profeta persiano (e quindi anche per l'autore del Dizionario storico- critico) la tesi di Melisso è conforme soprattutto alle nozioni dell'ordine

12 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 292.

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e della ragione a priori, ma diventa problematica se si prendono in esame l'esperienza e le ragioni a posteriori: Zoroastro afferma anche di superare Melisso nella spiegazione dei fenomeni, che è il perno centrale attorno al quale ruota la validità di un sistema. Ma Leibniz controbatte a Zoroastro-Bayle asserendo che non si può spiegare un fenomeno semplicemente assegnandogli un princìpio apposito (è un trucchetto fin troppo facile); in questo modo infatti bisognerebbe introdurre, oltre a un princìpio del male, anche uno del freddo, del buio e così via. Invece il male deriva dalla privazione e non è necessario spiegarlo attraverso un princìpio particolare, altrimenti tutte le opposizioni presenti in natura avrebbero bisogno di due princìpi. Il libero arbitrio, pur tendendo al bene, incontra il male solo per accidente, in quanto il male è nascosto sotto il bene, quasi fosse mascherato da esso.

La conclusione di questo argomento è affidata all'ultimo dibattito

tra Melisso e Zoroastro: è possibile imputare Dio della presenza del

male nel mondo? Secondo il filosofo di Samo l'uomo non era malvagio

quando fu creato dal Signore, anzi nacque in uno stato felice, ma lo

divenne a causa della sua natura, che lo fece deviare dal cammino

della virtù preparatogli dall'Onnipotente. Quindi Dio non è imputabile

del male morale, ma solamente del male fisico, che del male morale è

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la punizione: punizione che non può non scaturire da uno degli attributi divini, cioè dalla Sua giustizia. Il profeta persiano non si scompone di fronte a questa arringa e obietta che, se fosse esistito, il princìpio infinitamente buono avrebbe dovuto creare l'uomo senza il male e, soprattutto, senza l'inclinazione a esso; Dio, prevedendo il peccato e le sue conseguenze, avrebbe dovuto impedirlo; avrebbe dovuto obbligare l'uomo al bene morale, senza lasciargli alcuna possibilità di dirigersi sulla via del male, ma così non è stato. Leibniz liquida quest'ultima obiezione utilizzando semplicemente la natura dell'uomo: «L'ignoranza, l'errore e la malizia si susseguono naturalmente negli animali della nostra specie; doveva dunque tale specie mancare dall'universo? Non dubito affatto che essa vi abbia troppa importanza, malgrado tutte le sue debolezze, perché Dio potesse consentire di sopprimerla»

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. Infine gli ortodossi, considerando il diavolo come autore del peccato, sembrano ammettere i due princìpi, ma così non è: il diavolo è da considerarsi l'autore del peccato, ma l'origine di questo peccato è molto più profonda, poiché, come affermato più volte, risiede nell'imperfezione originaria delle creature.

13 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 297, corsivo mio.

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