• Non ci sono risultati.

Problematiche costituzionali del finanziamento privato della politica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Problematiche costituzionali del finanziamento privato della politica"

Copied!
208
0
0

Testo completo

(1)

Corso di PhD in Diritto

Anno Accademico

2019/2020

Problematiche costituzionali del

finanziamento privato della politica

Autore

Dott. Edoardo Caterina

Relatore

(2)

INDICE

INDICE ... 2

Premessa ... 5

I. Interessi privati nella sfera pubblica: una indagine di diritto costituzionale . 10 1. Premessa: dalla costituzione delle idee alla costituzione degli interessi ... 10

2. Aporie costituzionali del pluralismo... 13

3. Il valore della separazione tra Stato e società civile... 19

3.1. Difendere la società dallo Stato ... 20

3.2. Difendere lo Stato dalla società ... 21

3.3. Stato e società come sistemi differenziati ... 23

3.4. L’attuale valore della distinzione tra Stato e società ... 25

4. Democrazia partecipativa? ... 26

4.1. L’impossibile “democrazia degli stakeholders” ... 26

4.2. Partecipazione e sussidiarietà orizzontale ... 30

5. Alcuni possibili itinerari di ricerca ... 31

6. La disciplina del finanziamento privato come spartiacque tra influenze lecite e influenze illecite sulla sfera pubblica ... 40

7. Pecunia nervus rerum: per una “teologia negativa” dell’interesse generale .... 42

II. Il finanziamento privato della politica e la sua regolazione come necessità costituzionali ... 45

1. La nozione di finanziamento della politica... 45

2. Finanziamento pubblico e finanziamento privato ... 47

3. Brevissima storia del finanziamento pubblico della politica ... 49

4. Problematiche del finanziamento pubblico ... 56

5. Necessità costituzionale del finanziamento privato della politica e della sua regolazione ... 61

6. Principii costituzionali in materia di finanziamento privato della politica: quadro generale ... 63

7. (segue) Finanziamento privato e pari opportunità dei partiti politici ... 64

8. (segue) Il diritto soggettivo a finanziare la politica: un approccio differente al problema del finanziamento privato ... 68

9. Sulla libertà di manifestazione del pensiero da parte di entità collettive ... 71

10. Alcune delimitazioni concettuali: finanziamento privato, lobbying e conflitti di interessi. ... 76

10.1. Lobbying e finanziamento privato della politica ... 76

(3)

III. Problematiche di diritto costituzionale in materia di finanziamento privato

della politica ... 82

1. Problemi caratteristici della regolazione del finanziamento privato della politica ... 82

2. Problematiche nella definizione legislativa delle fonti di finanziamento ... 84

3. Trasparenza: promesse e limiti ... 85

3.1. Lo speciale valore della trasparenza nella regolazione del finanziamento privato ... 85

3.2. Trasparenza e privacy ... 88

3.3. Trasparenza e libertà del mandato parlamentare ... 93

3.4. Limiti generali della trasparenza ... 94

4. Divieto di intrecci ... 95

5. Ricadute sulla disciplina del finanziamento privato: la disciplina delle donazioni ... 98

5.1. Sulla ammissibilità soggettiva delle donazioni ... 99

5.1.1. Divieto di donazioni anonime ... 99

5.2. Divieti di donazioni da parte di determinati soggetti ... 100

5.2.1. Altri soggetti politici ed enti pubblici ... 100

5.2.2. Le persone giuridiche possono donare? ... 101

5.2.3. Donazioni estere ... 104

5.2.4. Particolari categorie di persone fisiche e giuridiche ... 106

6. Sull’ammissibilità oggettiva delle donazioni: le donazioni sinallagmatiche ... 114

7. Sulle differenziazioni settoriali nella disciplina delle donazioni ... 116

7.1. Il caso delle donazioni ai singoli eletti (in particolare: le donazioni ai parlamentari). ... 117

8. Sui limiti alle donazioni ammissibili ... 120

9. Il problema delle “azioni parallele” ... 127

10. Le forme “non classiche” di contribuzione: sponsorizzazioni, mutui, crowdfunding ... 129

11. I munera post officium (c.d. pantouflage) ... 132

12. La vigilanza sulla finanza politica: profili generali ... 136

13. Il problema delle sanzioni ... 140

14. Excursus: problematiche del finanziamento pubblico indiretto ... 143

IV. Problemi speciali dell’ordinamento italiano ... 145

1. Un quadro realistico del finanziamento della politica in Italia dopo il d.l. 149 del 2013 ... 145

2. La frammentaria legislazione sul finanziamento privato vigente in Italia: quadro complessivo ... 149

(4)

3. Lacune delle legislazione. ... 152

3.1. I comitati promotori di referendum. ... 152

3.2. Gruppi parlamentari ... 153

4. Il problema degli intrecci ... 155

5. I munera post officium ... 156

6. Disciplina delle donazioni. ... 157

6.1. Obblighi di trasparenza. ... 157

6.2. Donazioni estere ... 159

6.3. Limiti oggettivi alle donazioni ... 161

6.4. Limiti soggettivi alle donazioni ... 161

6.5. Il dilemma delle “tasse di partito” ... 163

6.6. Le donazioni ai singoli eletti ... 164

6.7. Forme di contribuzione “non classiche” ... 169

7. Le “fondazioni politiche” ... 170

7.1. “Fondazioni politiche” e “azioni parallele” ... 170

7.2. “Fondazioni politiche” e benefici pubblici ... 175

7.3. Due casi di studio: Open e Rousseau ... 176

8. Problematiche della disciplina delle campagne elettorali ... 180

9. Problematiche italiane del finanziamento pubblico indiretto (cenni) ... 185

10. La rendicontazione del finanziamento privato della politica (cenni) ... 187

Conclusioni ... 189

(5)

Premessa

Il modo con cui gli attori politici si finanziano rappresenta un elemento essenziale della “costituzione materiale” di un ordinamento. Esso definisce infatti un risvolto decisivo nei rapporti tra Stato e società, tra istituzioni politiche e cittadini. Spesso a diversi sistemi di finanziamento vengono associate addirittura diverse forme di Stato1. Il finanziamento della politica rappresenta quindi una realtà da esaminare con grande attenzione all’interno del quadro costituzionale. Il compito non è semplice, dal momento che la Costituzione nulla dice espressamente al riguardo, ed è tuttavia quantomai necessario. In Italia il tema non è stato finora affrontato in modo del tutto soddisfacente, essendo stato oggetto più di pubblicazioni giornalistiche miranti al clamore scandalistico che di riflessioni scientifiche svolte sine ira et studio. Queste certo non sono mancate, ma non sembrano finora aver coperto sistematicamente tutto lo spettro delle problematiche presenti. In particolare sono gli studiosi della scienza politica quelli che sembrano aver dedicato maggiori cure a questo ambito della scienza sociale; si può invece dubitare che i giuristi abbiano approfondito a sufficienza la materia. Prova ne sono i pochi volumi e le sparute monografie di carattere giuridico integralmente dedicati a questo tema. In aggiunta si nota una scarsa propensione a una compiuta sistemazione teorica del soggetto che ne definisca, per così dire, la “dogmatica”, ossia i principii fondamentali e le categorie generali. La tendenza finora prevalentemente perseguita (ovviamente con eccezioni lodevoli) è stata quella di “pedinare” le mosse del legislatore, concentrandosi sul dato di diritto positivo delle varie discipline che si sono vorticosamente susseguite nel tempo. In tal modo un legislatore asistematico e rapsodico ha recato dietro di sé commenti estemporanei più che riflessioni di ampio respiro, e nel particolare si è perso il generale. Ha contribuito decisivamente a questa tendenza una Corte costituzionale silenziosissima, che non ha mai fornito una giurisprudenza in tema di finanziamento della politica, ma solo pochi obiter

dicta. A fronte di una legislazione magmatica, una delle ambizioni principali di questo

lavoro sarebbe proprio quella di svolgere un discorso che vada oltre al transeunte dato legislativo e cerchi di delineare uno statuto costituzionale del finanziamento privato della politica.

(6)

Per avvicinarsi all’argomento e apprezzarne a pieno l’interesse occorre partire da una affermazione netta: il decreto-legge n. 149 del 2013 non solo ha modificato la disciplina del finanziamento dei partiti, ma si è pure proposto di mutare una parte rilevante della “costituzione materiale” del Paese. Non si pensi quindi che quello del “danaro della politica” sia un tema utile solo ai demagoghi o, in ogni caso, di secondo piano nel diritto costituzionale, avulso dalle grandi e impegnative questioni teoriche che accendono gli animi, quasi limitato a pedestri ricognizioni, tuttalpiù critiche per via delle lacune e delle contraddizioni rilevate, ma pur sempre ricognizioni. Non si crede certo che questo lavoro sarà da solo sufficiente a rimediare alle mancanze messe in luce; il lettore benevolo dovrà però apprezzare lo sforzo messo in campo.

Né si deve nascondere che l’approccio seguito davvero poco ha di rivoluzionario, sol che si guardi al di fuori dell’Italia, e che se vi sono dei pregi, ciò sarà dovuto anche all’importazione di uno strumentario e di riflessioni nate all’estero, dove si è potuto beneficiare di una dottrina e di una giurisprudenza costituzionale non di rado più attive. E volgendo lo sguardo fuori dai confini nazionali si apprezzano certe problematiche sotto punti di vista diversi ed è possibile vedere “in controluce” le medesime questioni. Da quanto detto si può comprendere come mai la m e t o d o l o g i a qui prescelta proceda per la ricostruzione di “categorie generali” facendo uso della comparazione tra ordinamenti diversi. Quello del finanziamento privato della politica è infatti un problema comune a ogni ordinamento democratico e ogni Stato è chiamato ad affrontare sfide analoghe. La comparazione è perciò estremamente utile, in quanto consente di attingere a un più vasto patrimonio di esperienze. E una situazione che si è presentata ieri in un paese ben potrà ripresentarsi domani in un altro, ove ve ne siano le condizioni. La costruzione di “categorie generali” è infatti una operazione empirica, e non di astrazione pura, che deve partire dalla prassi concreta. E tanto più ampia è la casistica, tanto più rispondenti al vero sono le categorie che si costruiscono. Un modo di procedere non dissimile è quello utlizzato da diverse organizzazioni internazionali (in primo luogo il GRECO) nel redigere rapporti tematici; solo che quei rapporti hanno uno scopo prettamente pratico e si limitano a evidenziare le “migliori pratiche”2, senza spingersi in un discorso normativo o di diritto costituzionale. Il proposito qui è quello di mantenere la stessa tensione policy-oriented,

2 Su questo genere di comparazione si veda: R. HIRSCHL, Comparative Methodologies, in R. MASTERMAN, R. SCHÜTZE (a cura di), The Cambridge Companion to Comparative Constitutional Law, Cambridge 2019, 21.

(7)

senza però rinunciare a un livello di consapevolezza del contesto politico-costituzionale in cui maturano certe scelte. Si tenterà quindi, di volta in volta, di segnalare la genesi delle diverse disposizioni prese in esame e i motivi che in un determinato ordinamento hanno prodotto determinate soluzioni. Scopo ultimo è quello di giungere a un continuo e serrato confronto tra diverse concezioni su singole questioni ben circoscritte, giovandosi delle varie riflessioni e soluzioni proposte in diversi contesti nazionali. Una comparazione quindi “diffusa”, e non suddivisa per diversi ordinamenti3, secondo un approccio che può anche definirsi “funzionalistico”4. Gli ordinamenti presi principalmente in considerazione saranno in particolare la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti. Si tratta di ordinamenti prescelti per la loro appartenenza alle “democrazie consolidate” occidentali. Ci si soffermerà soprattutto sulla Germania, che presenta una democrazia parlamentare vicina alla nostra e dove la Corte costituzionale ha sviluppato una giurisprudenza ben strutturata sui temi del finanziamento della politica – giurisprudenza che si è accompaganata a una dottrina costituzionalistica molto attenta. Questa dimensione per così dire “corale” potrà forse risultare a tratti spiazzante e quasi disordinata – né potrà forse sottrarsi all’eterna critica mossa alla comparazione giuridica, ossia che si selezionino a posteriori i casi modello per avvalorare tesi preconcette

(cherry-picking)5. Si tratta tuttavia di una dimensione necessitata dalla novità dell’argomento che

non può giovarsi di numerose indagini già svolte in Italia, cosicché è giocoforza andare a trovare appigli fuori dai confini patri. E però si va all’estero solo per tornare in Italia più consapevoli, ed è l’ordinamento italiano il vero oggetto che interessa in ultima analisi la presente tesi. Quella adeguata contestualizzazione, anche storica, che ci si è sopra proposti dovrebbe riuscire a superare l’obiezione del cherry-picking6.

***

Questa tesi nasce da un progetto di ricerca intitolato “verso un modello costituzionale di regolazione dei gruppi di pressione”. L’intento originario era quello di ricostruire un

3 Approccio per “giustapposizione” peraltro ampliamente criticato: cfr. G. FRANKENBERG, Critical Comparisons: Re-thinking Comparative Law, in Harvard International Law Journal, 1985 (26), 429 ss.

4 Cfr. G. DE VERGOTTINI, Diritto costituzionale comparato, Padova 2004, 38 ss.; K. ZWEIGERT, H. KÖTZ,

Introduzione al diritto comparato, vol. 1, I principi fondamentali, Milano 1992, 37.

5 È questa la nota critica di Antonin Scalia: cfr. A. SCALIA, Outsourcing American Law: Foreign Law in

Constitutional Interpretation, in American Enterprise Institute, Working Paper 2009 (152).

6 Ci si riporta qui anche alle posizioni metodologiche di G. DELLEDONNE, Costituzione e legge elettorale. Un percorso comparatistico nello Stato costituzionale europeo, Napoli 2020, 22 ss. (in part. 26 s. in cui si

prospetta una comparazione non tanto classificatoria, quanto volta a cogliere “assonanze e divergenze all’interno dello spazio giuridico europeo”).

(8)

quadro di diritto costituzionale in cui collocare l’operato di quei soggetti, i gruppi di pressione, che oggi sembrano assumere un peso crescente nella vita costituzionale del nostro ordinamento, in concomitanza con “l’alleggerimento” dei partiti politici. Nel corso delle ricerche, come sovente avviene, le idee di partenza, che sembravano così promettenti, si sono dimostrate in parte fallaci. Chi scrive si è reso conto che è ben ingenuo pensare di poter regolare veramente l’operato dei “gruppi di pressione” semplicemente con una legge quadro sui “gruppi di pressione” (o sulle “lobbies”) – misura che pure viene oggi a più riprese invocata.

Nel p r i m o c a p i t o l o si tenta di dare conto di queste impressioni con una breve pars

destruens in cui si chiarisce come, in realtà, il fenomeno del lobbying non può essere

veramente “regolato”, almeno non in un quadro di democrazia pluralistica. Il rapporto tra “portatori di interessi” e “decisore pubblico” è destinato per la sua stessa natura a rimanere nella penombra. Le proposte di “regolazione” del lobbying talora avanzate non sono che delle misure volte a garantire una trasparenza simbolica, più formale che sostanziale, e non di rado mirano soprattutto a legittimare il ruolo dei lobbisti presso le istituzioni, ruolo visto, a torto o a ragione, con sospetto dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Ciò non significa tuttavia che lo Stato e il legislatore debbano rimanere inerti. Il problema va però inquadrato come parte di un problema più ampio, quello del rapporto tra interessi particolari e interesse generale, tra società civile e Stato. La domanda di partenza, altamente controversa, riguarda i limiti dell’azione dei gruppi costituiti in seno alla società civile nei confronti dello Stato. Quand’è che si può parlare di interferenze inammissibili e cosa dovrebbe fare il diritto costituzionale di fronte a tale problema? Sempre nel primo capitolo si prendereanno in considerazione diversi possibili “itinerari di ricerca” e si concluderà che pecunia nervus rerum: è l’impiego del danaro a costituire il risvolto più problematico e il fattore in grado di trasformare un rapporto, quello tra Stato e società civile, da fisiologico a patologico. Il discorso, sul piano del diritto costituzionale, si incentra sugli articoli 3, 48 e 49 Cost.: da queste disposizioni emerge come sia compito dello Stato e del diritto “isolare”, per quanto possibile, il processo decisionale democratico, onde metterlo al riparo dalle ineguaglianze e disparità presenti nella società civile. La ricaduta pratica più immediata di questi principii si ritrova nella disciplina del finanziamento privato della politica, vero e proprio spartiacque tra Stato e società.

(9)

Nel s e c o n d o c a p i t o l o ci si sforza di dimostrare come il finanziamento privato della politica ponga problemi del tutto peculiari e vada a costituire uno spazio autonomo in cui i principii costituzionali trovano una loro particolare declinazione. La tensione di fondo è data dalla necessità che sussistano forme di finanziamento privato che si contrappone all’esigenza di garantire l’eguaglianza politica dei cittadini. Particolarmente preziose a tal proposito saranno le riflessioni svolte dal Tribunale costituzionale tedesco e dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Nel t e r z o c a p i t o l o si proseguirà la trattazione ponendo su di un piano più concreto e analitico le problematiche generali della materia. Anche qui si tenterà di prescindere dal dato di diritto positivo vigente in Italia e ci si avvantaggerà molto della comparazione con altri ordinamenti e con le numerose linee-guida che sono state elaborate da istituzioni sovranazionali. Il punto di vista assunto è quello del legislatore, cosicché si passeranno in rassegna le varie possibili soluzioni che possono essere astrattamente adottate onde rispondere a delle sfide che, in realtà, sono comuni a ogni ordinamento democratico. Il q u a r t o c a p i t o l o volge infine lo sguardo più da vicino sull’ordinamento italiano e si cimenterà nella non semplice impresa di descriverne i contorni e le scelte di fondo valutandone le relative implicazioni costituzionali. Il dato di partenza è il profondo cambiamento occorso negli anni 2012-2013 che hanno visto – almeno nelle intenzioni – il repentino passaggio da un sistema di finanziamento della politica prevalentemente pubblico e uno prevalentemente privato. Di qui la ormai ineludibile esigenza pratica di riportare ai principii costituzionali un settore, quello del finanziamento privato della politica, che non ha finora suscitato abbastanza interesse negli studi costituzionalistici. Anche se si è ancora ben lontani da un assetto definitivo e stabile della legislazione non ci si tirerà indietro dall’analizzare, anche nel dettaglio, un tessuto normativo talora enigmatico e contraddittorio. Nondimeno si è anche consapevoli che quello attuale è un momento di passaggio e che l’ordinamento settoriale è quanto mai malfermo e in evoluzione, per cui si rinuncerà a una trattazione “sistematica”, ma ci si limiterà ad affrontare i nodi più problematici alla luce di quanto emerso nei capitoli precedenti.

(10)

I. Interessi privati nella sfera pubblica: una indagine di diritto costituzionale

1. Premessa: dalla costituzione delle idee alla costituzione degli interessi

I temi legati al lobbying, ai gruppi di pressione e alla rappresentanza di interessi sono oggetto, ormai da alcuni anni, di una crescente attenzione da parte degli studiosi del diritto pubblico7. Si tratta di una semplice moda? O forse questo “interesse per gli interessi” rispecchia un effettivo mutamento in corso delle strutture sociali e politiche? Probabilmente vi è del vero in entrambe le ipotesi. Qui ovviamente ci domanderemo quali tendenze profonde attraversino il nostro ordinamento, e come queste possano essere interpretate dal punto di vista del diritto costituzionale.

“La crisi dei partiti politici”, “la crisi della rappresentanza”: ecco le conclusioni più frequenti di chi finora ha già posto la questione. Purtroppo, dire che i “vecchi partiti” non ci sono più e che la “rappresentanza” è in crisi sembra essere più un modo per riformulare la domanda, piuttosto che uno per rispondere. Di “crisi dei partiti” si parla ormai da 50 anni, e i partiti sono sempre lì, seppure in forme diverse. Cosa sia poi la “rappresentanza” pare un sublime mistero, tanto che Gerhard Leibholz, uno dei teorici più illustri di questo concetto, ha dovuto scomodare perfino figure teologiche nei propri ragionamenti8. I filosofi politici, i sociologi, gli economisti e, in genere, gli studiosi delle scienze sociali sono tenuti a prendere posizione, esplicitamente o implicitamente, onde poter costruire i propri modelli teorici, su una fondamentale e difficilissima questione. “In base a cosa l’uomo prende le proprie decisioni?”. Lungi da noi rispondere a tale arduo, forse impossibile, quesito. Basti sottolineare due opposte tendenze tra gli innumerevoli studi che hanno affrontato il problema9. Da un lato, il modello economicistico della rational

choice che postula un comportamento umano fondato su una valutazione di costi e

benefici e, quindi, sulla realizzazione di interessi individuali o di gruppo. Dall’altro,

7 Per tutti, si vedano di recente in Italia: U. RONGA, La legislazione negoziata, Napoli 2018; E. CARLONI,

Regolazione del “lobbying” e politiche anticorruzione, Riv.trim.dir.pub. 2017 (2), p 371 ss.; R. DE CARIA,

Le mani sulla legge: il lobbying fra free speech e democrazia, Milano 2017; A. DI GREGORIO, L. MUSELLA (a cura di), Democrazia, lobbying e processo decisionale, Milano 2015; R. DI MARIA, Rappresentanza politica e lobbying: teoria e normativa. Tipicità ed interferenza del modello statunitense, Milano 2013;

PETRILLO, Democrazie sotto pressione. Parlamenti e lobby nel diritto pubblico comparato, Milano 2011.

8 Cfr. G. LEIBHOLZ, La rappresentazione nella democrazia, Milano 1989. Per una recente riflessione ampia

e documentatissima sul concetto di rappresentanza politica: O. CHESSA, Dentro il Leviatano. Stato, sovranità e rappresentanza, Milano 2019.

(11)

l’etica del discorso di stampo habermasiano che individua nelle rappresentazioni normative, sarebbe a dire nelle idee, nella loro libera circolazione e scambio all’interno di un discorso, il fattore che dovrebbe guidare l’agire umano. Si tratta della eterna contrapposizione tra homo œconomicus e homo politicus. Sia l’universo meccanicistico degli interessi, sia l’utopia di una ragione discorsiva onnipotente rappresentano versioni semplificate di una realtà molto più complessa dove idee e interessi si intrecciano in modo indissolubile.

La tensione tra idee e interessi emerge chiaramente e sotto varie forme nel diritto costituzionale. La tanto lamentata “crisi della rappresentanza” altro non sembra che una crisi delle idee maturata all’interno della società civile10. Di qui le attuali difficoltà di un modello costituzionale che privilegia un certo tipo di rappresentanza, la rappresentanza

politica, sulla rappresentanza di interessi.

La premessa fondamentale è, infatti, che vi sia una diversità ontologica tra questi due tipi di rappresentanza. La lingua tedesca esprime i due distinti concetti con due termini diversi: Vertretung (rappresentanza di tipo privatistico, il mandato) e Repräsentation (la rappresentanza politica del diritto pubblico). La bipartizione era ben nota anche ai Costituenti. Costantino Mortati, nel suo discorso all’Assemblea Costituente sul progetto di Costituzione (18 settembre 1947), difendeva l’idea di una camera espressiva delle categorie professionali ricorrendo a una interessante metafora: “si dovrebbe pensare alle due Camere come a due cavalli attaccati [al carro] nello stesso verso, forniti di capacità e attitudini diverse, l’uno più adatto alla corsa, l’altro più idoneo alle salite faticose, e quindi ad un insieme di attitudini complementari capaci di dare al carro dello Stato un ritmo regolare ed ordinato”11. L’immagine (che ricorda quasi quella del mito platonico nel

Fedro) evoca con chiarezza la compresenza, nello Stato moderno, di una costituzione

delle idee e di una costituzione degli interessi. Mortati, come altri, riteneva che la contrapposizione potesse essere in qualche modo superata e ricomposta armonicamente tramite un certo disegno delle istituzioni rappresentative.

10 Cfr. M. LUCIANI, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in N. ZANON, F. BIONDI (a cura di), Percorsi e vicende attuali della rappresentanza politica, Milano 2001, p 109 ss. 11 C. MORTATI, Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato, in Raccolta di scritti,

(12)

Da questo punto di vista, il passaggio dal Parteienstaat (o, per usare un termine critico, dalla “partitocrazia”) al Verbändestaat12, lo stato pluralistico degli interessi, può essere inteso come il passaggio da una costituzione materiale delle idee a una costituzione materiale degli interessi. Ovviamente, idee e interessi sempre sono esistiti, e sempre continueranno a esistere, confusi in un groviglio inestricabile, e la stessa distinzione tra rappresentanza di interessi e rappresentanza politica è soprattutto una categoria teorica. Una categoria teorica che tuttavia può aiutare a interpretare una realtà ambigua e complessa. Bobbio notava come il depotenziamento del divieto di mandato imperativo e lo sfumare della distinzione tra interesse generale e interessi particolari avesse reso evanescente e anacronistica la differenza tra la rappresentanza degli interessi particolari e la rappresentanza politica13. Forse, in questo progressivo scolorimento si possono intravvedere dei mutati rapporti di forza tra idee/politica e interessi/economia. Luigi Ferrajoli ha ben inquadrato il problema identificando nel “rapporto perverso” che si è stabilito tra danaro e politica una delle maggiori cause della crisi della rappresentanza politica14. Analogamente, per Colin Crouch la “postdemocrazia” è caratterizzata soprattutto da una “confusione di funzioni tra governo ed impresa”15.

Sul piano del diritto costituzionale, la problematicità è data dalla frizione tra costituzione e realtà costituzionale, sarebbe a dire tra una costituzione formale delle idee e una costituzione materiale degli interessi. Lo studioso del diritto costituzionale deve prendere atto di questa trasformazione e tentare, per quanto possibile, di ricucire lo strappo tra costituzione e realtà costituzionale. Non interessa qui la prospettiva politologica/ economica: lasciamo da parte l’impegnativa questione circa l’azione dei gruppi di interesse, se sia essa un bene o un male, se con essa il benessere generale aumenti ovvero diminuisca. L’unica domanda che ci guiderà sarà: “cosa ci dice la Costituzione circa gli interessi particolari e le loro influenze nella sfera pubblica?”.

12 Si tratta di un termine con accezione negativa impiegato in Germania a partire dagli anni Cinquanta per riferirsi alla organicità dell’azione dei gruppi di interesse e al potenziale pregiudizio arrecato da questo sistema al benessere generale. Cfr. T. ESCHENBURG, „Herrschaft der Verbände?“, Stuttgart: Deutsche Verlags-Anstalt 1955. Per una rassegna dettagliata sull’approccio negativo della Staatsrechtslehre nei confronti dell’azione dei gruppi di interesse: O. PIECHACZEK, Lobbyismus im Deutschen Bundestag, Mohr

Siebeck, Tübingen, 2014, 48 ss.

13 N. BOBBIO, Teoria generale della politica, Torino 2009 [1988], 428

14 L. FERRAJOLI, Principia iuris, vol. 2, Bari-Roma 2009, p 177.

(13)

2. Aporie costituzionali del pluralismo

È stato giustamente notato che le lobbies “sono un male o un rimedio, o verosimilmente entrambe le cose, a seconda della concezione della libertà e della democrazia che si sottoscrive”16. Si pone quindi la domanda di quale sia la concezione di libertà e democrazia abbracciata dalla nostra Costituzione in questo ambito. A tale proposito, il “concetto chiave”17 interpellabile nel nostro ordinamento costituzionale sembra essere quello di “pluralismo”.

Il termine “pluralismo” da solo, tuttavia, dice poco. Nel suo significato minimo esso si contrappone a “totalitarismo” e vuole semplicemente indicare la presenza di una differenziazione politica e di una pluralità di centri decisionali 18. Per questo è sempre sentito il bisogno di specificare: pluralismo istituzionale, pluralismo informativo, pluralismo degli ordinamenti giuridici, pluralismo economico, ecc19… Va da sé che il pluralismo cui si intende fare qui riferimento è il “pluralismo sociale” espresso dall’art 2 Cost. a tutela delle “formazioni sociali”. Tale principio, sebbene posto quasi in capo alla nostra Costituzione e caratterizzante la stessa forma di Stato20, è stato solo di recente riconosciuto espressamente dalla Corte costituzionale come fondativo della Repubblica21.

Ciò che rileva in questa sede è che non sono poche le voci in dottrina che invocano il principio pluralistico espresso dall’art. 2 Cost. come riconoscimento costituzionale della azione di lobbying dei gruppi di interesse22. In questo paragrafo si chiarirà innanzitutto

16 L. GRAZIANO, Lobbying, pluralismo, democrazia, Roma 1995, 141.

17 Prendo in prestito questa categoria da Erhard Denninger, che definisce come “concetto chiave del diritto costituzionale” ogni principio non espressamente previsto dal testo della Costituzione, ma che agisce da “formante” nell’ordinamento costituzionale (caso classico: la proporzionalità). Cfr. E. DENNINGER,

Verfassungsrechtliche Schlüsselbegriffe, in ID., Der gebändigte Leviathan, Baden Baden 1990, 158 ss.

18 L. GRAZIANO, 146; Nota la vaghezza del termine pluralismo (“un concetto così generico, e affidato solamente a un connotato negativo”) anche P. RESCIGNO, Persona e comunità, Bologna 1966, 11.

19 Cfr. U. DE SIERVO, Il pluralismo sociale dalla Costituzione repubblicana ad oggi: presupposti teorici e

soluzioni nella Costituzione italiana, in AA.VV., Il pluralismo sociale nello Stato democratico: atti del L corso di aggiornamento culturale dell'Università Cattolica: Ferrara, 7-12 settembre 1980, Milano 1980.

20 Così E. ROSSI,Le formazioni sociali…, cit., 60 ss. e U. DE SIERVO, Il pluralismo sociale, cit., 71 ss. Il

termine “pluralismo” compare subito, ad opera di La Pira, all’apertura dei lavori della Prima Sottocommissione in seno all’Assemblea Costituente.

21 Si veda la sent. 118 del 2015 (rel. Cartabia), Considerato in diritto 7.2: “l’ordinamento repubblicano è fondato altresì su principi che includono il pluralismo sociale e istituzionale e l’autonomia territoriale, oltre che l’apertura all’integrazione sovranazionale e all’ordinamento internazionale; ma detti principi debbono svilupparsi nella cornice dell’unica Repubblica: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» (art. 5 Cost.)”.

22 Cfr. P. PETRILLO, Democrazie sotto pressione…, cit., 319 ss.; ID., L’irresistibile (ed impossibile)

regolamentazione delle lobbies in Italia, Analisi giuridica dell’economia 2013 (2), p 465 ss. (471);E. CARLONI, Regolazione del lobbying e politiche anticorruzione, Riv.trim.dir.pub. 2017 (2), 371 ss. (376).

(14)

come la concezione pluralistica della nostra Costituzione non debba essere confusa con il pluralismo della teoria politica americana; si cercherà poi di definire in positivo il rapporto tra art. 2 Cost. e “politica degli interessi”.

In via di prima approssimazione, si può affermare che l’art. 2 Cost. esige il riconoscimento e la garanzia, da parte del diritto pubblico, di una società complessa e variegata. Lo Stato deve rinunziare a ogni pretesa di conformazione delle numerose e diverse istanze presenti nella società e, anzi, garantire le formazioni sociali presenti al proprio interno al pari della autonomia dei cittadini. Naturale conseguenza è che le espressioni politiche della società siano altrettanto diversificate e numerose23. Ciò in quanto la società civile precede lo Stato, e non viceversa, così come la dignità della persona precede ogni riconoscimento e protezione costituzionale.

Come si vede, quello di “pluralismo sociale” risulta un concetto estremamente moderno e intimamente legato ai valori costituzionali dell’immediato dopoguerra24. Fine ultimo del “pluralismo sociale” consiste nello sviluppo della personalità dell’individuo25. Preso in questi termini, il principio pluralistico non pare porre particolari problematiche, anzi risulta un elemento essenziale dell’impianto democratico e personalista della nostra Costituzione. Eppure, dietro questa apparente armonia si celano numerose tensioni. La più evidente difficoltà sta nel fatto che il principio pluralistico, preso nella sua accezione più pura e primigenia, nega la stessa idea di Stato26. Bobbio definiva il

Del tutto inconferenti le sentenze nn. 1 e 290 del 1974 della Corte costituzionale citate da Petrillo (2013); in queste sentenze infatti l’art. 2 Cost. non è neppure menzionato; le decisioni vertono invece sul diritto di sciopero e fanno riferimento agli artt. 3 e 40 Cost.; quanto alla sent. n. 379 del 2004, egualmente citata da Petrillo, essa non riconosce né il lobbying come espressione dell’art. 2 Cost., né come diritto promanante da altre previsioni costituzionali, ma si limita ad affermare la possibilità per il legislatore di prevedere che la formazione di provvedimenti amministrativi e legislativi sia preceduta da un’istruttoria pubblica aperta ai portatori di interessi. Peraltro, qui la Corte si sofferma a sottolineare la preminenza del momento “rappresentativo” su quello “partecipativo”: “Né, tanto meno, è condivisibile l'opinione che il giusto

riconoscimento per il ruolo fondamentale delle forze politiche che animano gli organi rappresentativi possa

essere contraddetto dal riconoscimento di alcune limitate e trasparenti procedure di consultazione da parte degli organi regionali dei soggetti sociali od economici su alcuni oggetti di cui siano particolarmente esperti” (corsivo nostro).

23 In questo senso non è forse del tutto corretto affermare che non vi sia connessione tra pluralismo sociale e pluralismo politico (così invece U. DE SIERVO, Il pluralismo sociale…, cit., 61). In un certo senso il pluralismo politico presuppone il pluralismo sociale, in quanto la pluralità di soggetti e posizioni politici è il riflesso di una società civile variegata e complessa.

24 Cfr. N. MATTEUCCI, Pluralismo, in Enc. Scienze sociali, VI, 594 ss., il quale sottolinea che il termine

“pluralismo” nella sua accezione politica compare solo nel dopoguerra e che il Vocabolario Zingarelli lo attesta a partire dal 1970.

25 Lo sottolinea con forza: E. ROSSI, Le formazioni sociali…, p 66 ss.

26 In questo senso l’osservazione di E. TOSATO, Rapporti tra persona società intermedie e stato, in G.

CONCETTI (a cura di), Idiritti umani –dottrina e prassi, Roma 1982, 703: “sotto il nome di pluralismo sono

(15)

pluralismo come “quella concezione che propone come modello una società composta da più gruppi o centri di potere, anche in conflitto fra loro, ai quali è assegnata la funzione di limitare, controllare, contrastare, al limite di eliminare, il centro di potere dominante identificato storicamente con lo Stato”27 (corsivo aggiunto). Nel luogo dove il “pluralismo” è nato, gli Stati Uniti d’America, neppure esiste una parola per esprimere il nostro concetto europeo-continentale di Stato. Gli statunitensi sogliono semplicemente parlare di government e con ciò intendono una entità amministrativa che gestisce i tributi onde garantire certi servizi (il potere giudiziario, ricompreso nella nostra idea di Stato, è altra cosa). Secondo una popolare definizione lo “Stato” americano altro non sarebbe, al livello federale, che “una compagnia assicurativa fornita di un esercito” (“an insurance

company with an army”)28. Si tratta di un assetto in qualche modo già descritto da

Tocqueville, il quale vedeva nella iniziativa privata, e in particolare in forma associativa, il vero motore della democrazia americana: “dove alla testa di una nuova iniziativa trovate, in Francia, il governo, e in Inghilterra un signore, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione”29 .

Nella teoria politica statunitense, quando si parla di pluralism, si parla essenzialmente di gruppi di pressione30: è la c.d. group theory che ha trovato i suoi maggiori teorici prima in Arthur F. Bentley31, David Truman32 e in Robert Dahl33. L’idea che regge questa teoria è che il processo politico sia determinato dalla concorrenza di più élites tra di loro34. La teoria pluralista americana è infatti figlia di un sistema politico che, dopo numerosi travagli, ha percorso la via del pragmatismo evitando quella netta

di poliarchie” (cit. anche in E. ROSSI, Le formazioni sociali…, 100). Ma già Carl Schmitt si scagliava contro

il pluralismo che metteva in discussione l’unità statuale e minacciava di dissolverla in “un agglomerato di mutevoli accordi di gruppi eterogenei”. C. SCHMITT, Etica di Stato e Stato pluralistico [1930], in ID.,

Posizioni e concetti, Milano 2007, 217 ss. (235).

27 N. BOBBIO, Pluralismo, in ID., N. MATTEUCCI (a cura di), Dizionario della politica, Torino 1976, 717. 28 La definizione è attribuita al sottosegretario di Stato USA Peter R. Fisher ed è stata resa popolare dall’economista premio Nobel Paul Krugman. Cfr. P. KRUGMAN, A Fiscal Train Wreck, New York Times,

11.03.2003.

29 A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, Torino 2007 (II, II, 5).

30 Per il concetto nordamericano di pluralismo faccio riferimento soprattutto a: L. GRAZIANO, Lobbying, Pluralism and Democracy, Basingstoke/New York, Palgrave Macmillan, 2001 (in particolare: 103 ss.); L.

ORNAGHI, voce Gruppi di pressione, Enc. Diritto, Agg. III, Milano, Giuffrè, 656 ss.; G. TEUBNER,

Organisationstheorie und Verbandsverfassung, Tübingen 1978, 65 ss.

31 A.F. BENTLEY, The Process of Government: A Study of Social Pressures, Chicago 1908.

32 D.B. TRUMAN, The governmental process. Political Interests and Public Opinion, New York 1951. 33 R. DAHL, Pluralist Democracy in the United States. Conflict and Consent, Chicago 1967.

34 È quello che Bobbio chiama “pluralismo democratico”. Cfr. N. BOBBIO, Pluralismo, in ID., N. MATTEUCCI (a cura di), Dizionario della politica, Torino 1976, 720.

(16)

contrapposizione ideologica che ha invece contraddistinto l’Europa del Novecento. In questo frangente, l’azione dei gruppi di pressione e il lobbying sono risultati congeniali a questo “radicale divorzio tra politica e ideologia”35. Va detto che in origine la teoria pluralistica americana non ha mai avuto una pretesa legittimante nei confronti dei gruppi di interessi, ma ha sempre inteso limitarsi a descrivere le effettive dinamiche del potere36. Truman e Bentley non volevano dire che il sistema da loro descritto fosse il “migliore dei mondi possibili”; cercavano semplicemente di tratteggiare un modello realistico del processo decisionale pubblico negli USA. Il modello ha avuto successo perché, evidentemente, coglie nel segno. E a ben vedere, i critici del pluralismo, come Olson e Schattschneider, non hanno contestato tanto la bontà ricostruttiva del modello, quanto le relazioni di forza ivi descritte. Diverso è il discorso riguardo Dahl, che invece vedeva nella “poliarchia” dei contrapposti interessi organizzati la garanzia contro il predominio di un singolo centro di potere. Il labile confine tra “teoria” e “ideologia”37 è stato poi varcato da pensatori come Laski e Cole, che hanno formulato una concezione pluralista dello Stato come ente composto di vari gruppi privati promananti dalla società. Va detto che qui diventa molto sottile anche il confine tra pluralismo e corporativismo. Difatti, il corporativismo è l’idea di uno Stato che controlla gli interessi particolari istituzionalizzandoli. Il pluralismo è l’idea di una varietà di interessi particolari che, spontaneamente in competizione tra di loro, si contendono le decisioni prese dallo Stato38. Innegabilmente molte teorie si pongono sul crinale tra questi di poli concettuali. In questa sede peraltro si ritiene non pertinente il trattare del corporativismo e ci si limiterà a riflettere sulla prospettiva pluralistica.

Il pluralismo della teoria politica americana si collega strettamente a una visione economicistica della democrazia, elaborata soprattutto dalla teoria della scelta pubblica (Public choice), per cui la politica può essere vista come un “mercato”39 dove si

35 L. GRAZIANO, Lobbying…, cit., 113.

36 Così (con riferimenti bibliografici) U. V. ALEMANN, R.G. HEINZE, Verbändepolitik und Verbändeforschung in der Bundesrepublik, in ID. (a cura di), Verbände und Staat, Opladen 1981, 12 ss. (18 ss.).

37 N. BOBBIO, Pluralismo, cit., 722

38 Cfr. W. REUTTER, Verbände, Staat und Demokratie. Zur Kritik der Korporatismustheorie, in ZParl

2002(3), 501 ss. e riferimenti ivi contenuti.

(17)

incontrano una offerta e una domanda di politiche pubbliche, in un continuo scambio tra beni (sostegno elettorale da un lato, benefici derivanti da certe politiche da un altro)40. Il pensiero dei Padri Costituenti partiva da premesse differenti41. Si può dire, semplificando, che uno è il pluralismo degli interessi, l’altro un pluralismo delle idee. Ciò evidente nell’art. 2 della Costituzione: qui non si parla semplicemente di “formazioni sociali”, ma si fornisce a questo termine, altrimenti onnicomprensivo, una ben specifica connotazione “ideale”42: le formazioni sociali in cui si svolge la personalità umana. I Costituenti riferendosi alle formazioni sociali erano ben lontani dal prender in considerazione “formazioni sociali costituite ed operanti a tutela di posizioni affatto diverse dai diritti della persona e perseguenti scopi corporativi e particolari”43. Il principale autore dell’art. 2 Cost., Giorgio La Pira, parlava, nel suo progetto di “Princìpi relativi ai rapporti civili” di “comunità naturali nelle quali [la persona umana] organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona” (art. 1)44. Come ha sottolineato Ugo De Siervo, “per parlarsi di vera e propria formazione sociale occorrerebbe ricordarsi che sempre, durante tutti i lavori costituenti, si è evidenziato il rapporto strumentale fra il singolo e la formazione sociale, che è prodotto della sua libera iniziativa o dell’unione familiare”45. Ne segue che occorre una valutazione attenta delle singole realtà prima di poterle classificare come “formazioni sociali”, o si rischia la famosa notte schellinghiana in cui tutte le vacche sono nere. Il punto di riferimento costante è la centralità della persona umana, della sua dignità, che trova svolgimento nella vita delle comunità intermedie in cui l’uomo in quanto uomo si realizza. Questo in breve il pensiero di Maritain, Mounier, La Pira e Dossetti e che affonda le radici nella dottrina sociale della Chiesa cattolica. Ora, che questo elevato pensiero sia degradato a copertura costituzionale del lobbying pare quanto meno bizzarro.

40 Cfr. N. BOBBIO, Teoria generale della politica, cit., 411.

41 Metteva in guardia già nel 1966 sulle “profonde differenze” tra “il pluralismo delle democrazie in lingua inglese” e “il pluralismo che si va delineando nelle nostre società”, P. RESCIGNO, Persona e comunità, cit.,

12 ss.

42 Mortati, nelle sue Istituzioni, trattando delle formazioni sociali, menziona la famiglia, i sindacati, i partiti, gli enti territoriali, le scuole e le comunità alloglotte. Risulta significativo il fatto che Mortati qualifichi le formazioni sociali in cui non sia formalizzato un vero e proprio vincolo associativo come “comunità ideali”. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1967, p 918 ss. (919).

43 E. ROSSI, Le formazioni sociali…, 64.

44 Cfr. ASSEMBLEA COSTITUENTE, Atti della Commissione per la Costituzione,Relazioni e proposte, Roma

s.d. [1946], 14 ss. (19).

(18)

Né va dimenticato che l’Assemblea Costituente rappresentò, come noto, il tentativo di sintesi di due grandi culture novecentesche: da un lato il pensiero cattolico nelle sue varie declinazioni, dall’altro quello socialista. Se si è sempre sottolineato, a buon diritto, che l’art. 2 Cost. costituisce innanzitutto il portato del pensiero cattolico-sociale di Mounier e Maritain, come filtrato da La Pira, Moro e Dossetti, non va però omesso che anche l’altra grande cultura, quella socialista, non era certo aliena da un pensiero “pluralistico”46. Bobbio parla del pluralismo del cristianesimo sociale come di un “pluralismo degli antichi”, un societarismo che privilegia le forme comunitarie (famiglia, parrocchia, ecc…), laddove il pluralismo socialista sarebbe un “pluralismo dei moderni”, ossia un “pluralismo di lotta” di cui le classi più deboli possono servirsi per lottare contro il potere del capitale (e qui il pensiero corre soprattutto al sindacato e ai partiti)47. Quindi, da un lato la formazione sociale – comunità, dall’altro la formazione sociale – strumento di azione collettiva. Il risultato di questo concorso di concezioni è appunto l’art. 2, dove la “formazione sociale” è sia la famiglia e la parrocchia, sia il sindacato e il partito. Ciò che hanno in comune queste realtà è proprio il fatto di essere funzionali allo svolgimento della personalità umana dei singoli che ne fanno parte. Questo è quello che si potrebbe chiamare un “pluralismo delle idee”, ossia un pluralismo legato non tanto alla mera soddisfazione di un interesse materiale individuale o di gruppo, ma piuttosto espressione e presupposto di legami sociali nettamente differenziati da quelli puramente economicistici.

Del resto, anche nel campo dell’economia, luogo geometrico del “pluralismo degli interessi”, bisogna considerare che le concezioni dei Costituenti rispecchiano l’idea di uno Stato che è ben di più della risultante di divergenti interessi di gruppo. Uno dei molteplici significati di “pluralismo” sta infatti nel concetto di “policrazia” che Carl Schmitt aveva ripreso da Johannes Popitz48 e che era stato definito come “la molteplicità dei titolari giuridicamente autonomi dell’economia pubblica, davanti alla cui indipendenza la volontà statale trova un limite”. Gli esiti nefasti di policrazia e pluralismo si trovano vividamente descritti nel Custode della costituzione. Le pagine di Schmitt non

46 Si vedano il c.d. “socialismo delle gilde” di Fabian e il pensiero di Gurvitch. Cfr. G. GURVITCH, La déclaration des droits sociaux, Paris 1946.

47 Cfr. N. BOBBIO, Pluralismo, in ID., N. MATTEUCCI (a cura di), Dizionario della politica, Torino 1976, 719.

48 Cfr. J. POPITZ, Der künftige Finanzausgleich zwischen Reich, Ländern und Gemeinden. Gutachten, erstattet der Studiengesellschaft für den Finanzausgleich, Berlin 1932.

(19)

sono particolarmente originali, ma compendiano bene una certa visione del problema che si aveva in quegli anni. Per Schmitt la policrazia nell’economia pubblica sfociava in un nuovo “feudalesimo economico”, con l’inevitabile sistema di clientele e predominio dei vari “gruppi sociali organizzati”. Di qui la fine della neutralità dello Stato: lo Stato pluralistico, è uno “Stato economico”, uno Stato “autorganizzazione della società” dove sono egemoni i partiti e “invece di una volontà statale si forma una sommatoria – strabica da ogni lato – di punti di vista e interessi particolari”49.

Non sono molto distanti da questi timori alcune posizioni dei Costituenti. Risalta nei dibatti in particolare l’idea che l’economia dovesse essere sottoposta a un “controllo sociale”. Così si esprimeva Fanfani nella sua relazione sul “Controllo sociale dell’attività economica” in seno alla Terza Sottocommissione della A.C.: “il controllo sociale dell’economia, organizzato in un paese in cui ogni cittadino apertamente e senza pericoli possa influire sulla cosa pubblica e concorrere a correggere i pubblici errori e gli abusi, è l’unico mezzo finora escogitato per impedire che lo Stato divenga preda di oligarchie rapaci, di abili tiranni, di folle dominate da scaltri politici”50. In altre parole, lo Stato immaginato dai Costituenti è uno Stato che, ben lungi dall’essere spettatore passivo, si attiva per rimediare alle storture causate da l’incontrollato gioco degli interessi privati. Il pluralismo sociale presenta, insomma, un triplice volto51: da un lato quello irenico della comunità, dall’altro quello progressista della azione collettiva, e infine quello minaccioso del “neofeudalesimo”. Inutile dire che è quest’ultimo il volto inviso al nostro ordinamento costituzionale e ai nostri Costituenti. Nel seguente paragrafo si cerca di spiegare come nel disegno costituzionale si tenti di sventare il rischio del “neofeudalesimo”.

3. Il valore della separazione tra Stato e società civile

Abbiamo visto che il pluralismo sociale della nostra Costituzione è cosa ben diversa dal pluralismo della teoria politica americana. L’art. 2 Cost. non parla di lobbies, ma delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità umana. Come anticipato, si tratta di un

49 C. SCHMITT,Il custode della costituzione, Milano 1981, 137. Su questa critica della teoria pluralistica

cfr. G. TEUBNER, Organisationstheorie und Verbandsverfassung, cit., 63 ss.

50 A. FANFANI, in A.C. – Atti della Commissione per la Costituzione, II, Relazioni e proposte, 120. 51 Ciò è ben notato anche da chi ha parlato di un “aspetto negativo, ed in certa misura degenerato, del pluralismo”, riferendosi alla prevalenza degli interessi particolari e al c.d. “neofeudalesimo”. Così: E. ROSSI, Le formazioni sociali…, 101.

(20)

“pluralismo delle idee”, più che di un “pluralismo degli interessi”. Ne segue che i gruppi di pressione nel nostro ordinamento non potranno, in quanto tali, appellarsi al principio pluralistico per ricevere protezione. A questo punto entra in gioco un altro “concetto chiave” del diritto costituzionale, quello della separazione tra Stato e società civile52. Parlare dei rapporti tra interessi organizzati e costituzione significa infatti parlare del rapporto tra Stato e società53.

3.1. Difendere la società dallo Stato

Il concetto di “società civile” (“bürgerliche Gesellschaft”)54 come un qualcosa di contrapposto rispetto a quello di “Stato” si ritrova per la prima volta nei Lineamenti di

filosofia del diritto di Hegel (1821)55, nella celebre progressione dialettica famiglia – società civile – Stato. In Hegel la divisione Stato/società civile cade essenzialmente sulla

linea di faglia tra politica ed economia/mercato56. Questa partizione, che Hegel aveva creduto di poter superare con il suo “Stato etico”, ancora non ci ha lasciato57. Da una parte lo “Stato-apparato” e i suoi formidabili poteri, dall’altra la libertà dei singoli e dei gruppi che danno vita alla “società civile”. Nel corso del secolo XIX il pensiero liberale ha fatto propria questa distinzione elevandola a postulato della propria teoria politica in un’ottica che si potrebbe dire di “garantismo conservativo”58: lo Stato deve essere separato dalla società civile nel senso che la società deve essere autonoma, lo Stato deve

52 In generale, su questa dicotomia: N. BOBBIO, Stato, governo, società, Torino 2006, 23 ss. Sulla

permanente attualità di questa distinzione ai fini della definizione della forma di governo: M. LUCIANI,

Governo (forme di), in Enc. dir., Annali III, Milano 2010, p 538 ss. (558 ss.). G. ZAGREBELSKY, Società –

Stato – Costituzione, Torino 1988, p 59 ss.; scettico sulla effettiva utilità di questa distinzione: K. HESSE,

Osservazioni sull’attuale problematica e sulla portata della distinzione tra Stato e società, in A.DI MARTINO, G. REPETTO (a cura di), L’unità della Costituzione – scritti scelti di Konrad Hesse, Napoli 2014, p 227 ss.

53 Così anche: J. H. KAISER, La rappresentanza degli interessi organizzati, Milano 1993, 403. “La

questione costituzionale del 20° secolo, l’ordine del rapporto tra lo Stato e gli interessi organizzati, è in sostanza la stessa della questione costituzionale del 19° secolo: il rapporto tra lo Stato e la società”: 54 Si usa convenzionalmente questa traduzione, anche se in realtà, il termine hegeliano non corrisponde esattamente al concetto anglosassone di civil society, in quanto riflette una visione organicistica della società. Cfr. C. SPAGNOLO, Il voto apolitico, Bologna 2017, p 100 ss

55 Cfr. G.G.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1954 [1821], p 163 ss. (§§ 181 ss.). Cfr.

anche: N. BOBBIO, Stato, governo, società, cit. p 31 ss. il quale ricorda come prima di Hegel la distinzione

non sussistesse (si parlava se mai di societas civilis cum imperio e di societas civilis sine imperio). 56 Questa almeno è la lettura che Marx fa di Hegel: N. BOBBIO, Stato, governo, società, cit., 28 e riferimenti

ivi contenuti. Bobbio contesta questa lettura a suo avviso riduttiva, ma ammette che i contorni della “società civile” in Hegel sono piuttosto sfumati e di difficile interpretazione (cfr. ivi, 32).

57 Non è del tutto vero che nei paesi anglosassoni questa distinzione sia assente. Essa è invece ben presente, anche se è declinata in modo diverso. Cfr. N. BARBER, Principles of Constitutionalism, Oxford 2018, p 121

ss.

(21)

essere limitato e i singoli devono godere di diritti di libertà nei confronti dello Stato (quelli che in tedesco sono gli Abwehrrechte, i diritti “di difesa”). In ciò, la distinzione tra Stato e società civile intende opporsi in primo luogo, proprio come il concetto di pluralismo preso nella sua accezione più lata, alle concezioni tipiche del totalitarismo. La visione liberale di questa partizione è quindi funzionale alla garanzia della sfera autonoma della società civile nei confronti di possibili intrusioni da parte dello Stato59. Se volessimo raffigurarci questo ideale con una metafora visiva, la linea di confine che corre tra Stato e società civile è una linea fortificata, da mantenere e preservare. Le fortificazioni tuttavia sono rivolte solo verso il pericolo, verso lo Stato. L’autore che meglio incarna una simile posizione è forse il John Stuart Mill del Saggio sulla libertà (1859), opera in cui “l’interferenza dello Stato” (interference of the government) è oggetto di una attenta limitazione a beneficio della libertà individuale. Come acutamente notato da Bobbio, il risultato – insoddisfacente – di questa concezione liberale è che “lo stato liberale ha eliminato il dispotismo politico ma non ha eliminato il dispotismo della società”60.

3.2. Difendere lo Stato dalla società

Eppure, il primo a inaugurare il tipico dualismo tra Stato e società civile fu Lorenz von Stein61, e lo fece da una prospettiva alquanto diversa. Secondo Stein, il “principio vitale” (Lebensprinzip) dello Stato era la libertà, mentre quello della società era l’interesse. Stein, specularmente ad altri liberali, riteneva che la libertà venisse messa a repentaglio non tanto dallo Stato, quanto dalla società civile. O meglio, da uno Stato dominato dagli interessi particolari della società civile. Secondo Stein la servitù (la Unfreiheit) ha origine nel momento in cui “il potere statuale viene costretto a servire un interesse particolare della società”62.

59 Tra gli autori più recenti di questa tendenza, si veda: N. MACCORMICK, Institutions of Law, Oxford 2007.

60 N. BOBBIO, Teoria generale della politica, cit., 278.

61 Così. G. HAVERKATE, Verfassungslehre: Verfassung als Gegenseitigkeitsordnung, München 1992, 84.

Cfr. L. VON STEIN, Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich von 1789 bis auf unsere Tage, vol. 1, Der Begriff der Gesellschaft und die soziale Geschichte der französischen Revolution bis zum Jahre 1830,

Hildesheim 1959 [1850]. 62 Ivi, 134.

(22)

In Stein fa quindi la sua prima comparsa l’immagine dello “Stato catturato” – quel che oggi si chiamerebbe corporate state capture63 – ossia il timore che gli interessi particolari di settori della società riescano a “dirottare” la nave dello Stato dal perseguimento dell’interesse generale. Pochi anni prima, una simile intuizione la aveva avuta, anche se in maniera più contingente e con minore profondità teorica, il giovane Marx che, nel 1842, commentando focosamente sulla Rheinische Zeitung la nuova legge sui furti di legna promulgata dal parlamento renano64, scagliava strali contro quella che egli percepiva come una “degradazione” dello Stato “ai fini dell’interesse privato”65. La legge, infatti, era stata pensata ad esclusivo beneficio di una particolare categoria sociale, quella dei grandi proprietari di foreste. Qui Marx rendeva plasticamente questa deturpante metamorfosi dello Stato: “tutti gli organi dello Stato diventano orecchi, occhi, braccia, gambe, con cui l'interesse del proprietario di foreste ascolta, osserva, valuta, provvede, afferra e cammina”66. Curiosamente, un liberale come Stein e un Marx ancora hegeliano convergevano sullo stesso fronte ideale, a difesa dello Stato-garante dell’interesse generale dall’assalto degli interessi particolaristici della società67.Tutto questo filone di pensiero trovava certamente la sua origine primigenia nella repulsione russoviana per i corpi intermedi68, ma andava acquistando nuova sostanza con l’avvento del nuovo Stato borghese ottocentesco. Di qui la lunga storia di una concezione che avrà numerosissimi seguaci che è inutile elencare esaustivamente; per il contesto italiano è tuttavia d’obbligo il rimando alla celebre prolusione di Santi Romano Lo Stato moderno e la sua crisi (1909)69, dove l’egoismo dei gruppi sociali è visto come causa della “crisi” dello

63 Il termine è stato impiegato dagli studiosi di economia politica a partire dagli ultimi 20 anni. Cfr. J. HELLMAN et al., Seize the State, Seize the Day: State Capture, Corruption and Influence in Transition. In

Policy Research Working Paper 2444, Washington (DC) 2000.

64 In: K. MARX, Scritti politici giovanili, Torino 1950, p 177 ss.

65 Cfr. Ivi, 199. “Ma se appare qui chiaro che l’interesse privato degrada lo Stato a proprio mezzo, come non dovrebbe seguirne che una rappresentanza degli interessi privati, delle classi privilegiate, voglia e debba degradare lo Stato ai fini dell’interesse privato? Ogni Stato moderno, per quanto poco risponda al proprio concetto, al primo tentativo pratico di un simile potere legislativo sarà costretto ad esclamare: - Le tue vie non sono le mie, i tuoi fini non sono i miei!”.

66 Ivi, p 203 s.

67 Né va omesso che lo stesso Mill, nelle Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), si soffermava a lungo a riflettere su quello che egli percepiva come uno dei due maggiori “pericoli” per il governo rappresentativo, ossia che esso si ritrovasse “sotto l’influenza di interessi non identici al benessere generale della comunità” – salvo poi liquidare la questione come risolvibile garantendo parità di accesso al governo rappresentativo ad ogni interesse. Cfr. J.S. MILL, Representative Government, in ID., Utilitarianism, Liberty, and Representative Government, London-New York, 1910, p 171 ss. (p 243 ss.).

68 La contrapposizione è in particolare tra il pensiero di Rousseau e quello Montesquieu. Cfr. E. ROSSI, Le formazioni sociali, 6 ss.; P. RIDOLA, Democrazia pluralistica e libertà associative, Milano 1987.

(23)

interesse generale. Sulla stessa scia sarà anche il pensiero di Costantino Mortati. E per mezzo di Mortati il tópos dello “Stato catturato” si ripresenterà nei dibattiti della Assemblea Costituente. Infatti, Mortati, nel già menzionato discorso sul progetto di costituzione, riconosceva tre fatti come forieri di maggiori problemi per la costruzione del nuovo Stato: il suffragio universale, l’ampiamento dei compiti statali e, infine, il “fenomeno associazionistico, che ha alimentato la formazione di organismi così potenti da porsi come competitori dello Stato e da metterne in pericolo l’esistenza”. Quest’ultimo fenomeno considerato alla stregua di un “nuovo feudalesimo” e lo stesso Mortati, pur favorevole al riconoscimento del ruolo istituzionale degli interessi organizzati, temeva un “dirottamento dello Stato” e auspicava che “gli interventi in campo economico e sociale da parte dello Stato” fossero “sottratti agli influssi egoistici di gruppi limitati”70.

3.3. Stato e società come sistemi differenziati

L’idea che la politica debba emanciparsi dalla società civile, e che quindi, in un certo senso, lo Stato debba essere autonomo dalla società, non è tuttavia una rappresentazione esclusivamente ottocentesca. Essa è, a ben vedere, anche formalizzata nel vieppiù moderno pensiero di Niklas Luhmann71 il quale, esaminando la “differenziazione funzionale” della politica, considerava implicitamente la “chiusura operativa” (operative

Schließung) del sistema politico alla stregua di una garanzia della democrazia72.

Come si può evincere da Luhmann, la partizione tra politica e società non coincide necessariamente con quella concezione ottocentesca, tipica del Secondo Reich, di uno Stato autoritario e non democratico, di un Obrigkeitsstaat, dove il governo non è espressione della società, ma costituisce una entità a essa sovraordinata e che trova nella preminente cura dell’interesse generale la sua unica legittimazione. La partizione tra politica e società, o meglio la “differenziazione” della sfera politica, implica soltanto che nella sfera politica le decisioni siano assunte a seguito di un conflitto di tipo politico. La politica, come la società, ha i suoi conflitti, ma tali conflitti sono a loro volta differenziati

70 Cfr. C. MORTATI, Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato, cit., 919.

71 Si fa qui riferimento a: N. LUHMANN, Die Politik der Gesellschaft, Frankfurt a.M. 2000.

72 Cfr. ivi, p 104 s.; ID., Grundrechte als Institution, Berlin 1965, 148 ss.; qui Luhmann identifica tre

sfere-sottosistemi del sistema politico: “amministrazione”, “politica” e “Publikum”. I gruppi di interessi giocano un ruolo nel collegare funzionalmente le sfere che, tuttavia, devono rimanere separate. Cfr. G. TEUBNER,

Organisationsdemokratie und Verbandsverfassung, cit., 70 ss. (il quale tuttavia considera il pensiero di

Luhmann come pluralistico e se ne serve per dare uno status di pubblicità alle Verbände quasi finendo col ricadere in un pensiero neocorporativista).

(24)

e, per così dire, tipizzati73. Ciò a prescindere da quale sia poi la “valuta politica” (quello che Luhmann chiama il code)74, ossia le categorie che polarizzano il conflitto nella sfera politica.

Trasfondendo il pensiero di Luhmann nelle concrete problematiche del diritto costituzionale75, si può osservare che l’eguaglianza del voto garantita dall’art. 48 Cost., secondo il noto principio “one man one vote”, risulta essere lo strumento principe per “isolare” la sfera della politica dalle altre sfere della società, e in particolar modo da quella dell’economia. Anche i partiti politici (e per partiti qui si intendono partiti ben strutturati e organizzati) agiscono da “filtro” selezionando le istanze provenienti dalla società secondo logiche non sovrapponibili a quelle economicistiche, contribuendo ad evitare che le diseguaglianze presenti nella società siano riprodotte immediatamente nella sfera politica76. In altre parole, se i partiti sono “forti” la capacità di un singolo cittadino di influenzare il processo politico dipenderà non tanto dalle sue risorse economiche, quanto dal suo impegno e dalla sua attività all’interno del partito. Il prezzo da pagare sarà eventualmente quello di una “partitocrazia”, e quindi di un maggiore scollamento tra società civile e Stato nonché di una maggiore chiusura del processo politico77.

La Costituzione, quindi, può essere vista anche come un “convertitore” del conflitto sociale in conflitto politico. Il principio democratico impone che questa conversione avvenga, per quanto possibile, depurando la sfera della società dalle sue diseguaglianze. Gli articoli 48 e 49 Cost. cercano di realizzare la “chiusura operativa” del sistema stabilendo che sono “le teste” e non “i portafogli” i mezzi del conflitto politico. Detto in altri termini, il danaro non deve diventare un mezzo della politica, ma deve rimanere confinato nella sfera della economia. Per quanto possibile. Va da sé che una politica dove il danaro non conta è verosimilmente una chimera. Per quanto possa apparire irrealizzabile, è tuttavia utile avere chiaro in mente quale sia il maximum a cui tende idealmente l’ordinamento costituzionale. Ragionando diversamente si commetterebbe

73 N. LUHMANN, Die Politik der Gesellschaft, cit., 96.

74 Che qui, come si è sostenuto in precedenza, si assume essere le idee, ossia le rappresentazioni normative del mondo.

75 Si riprendono le ottime riflessioni di M. MORLOK, Politische Chanchengleichheit durch Abschottung? Die Filterwirkung politischer Parteien gegenüber gesellschaftlichen Machtpositionen, in D.GEHNE, T. SPIER (a cura di), Krise oder Wandel der Parteiendemokratie?, Wiesbaden 2010, p 19 ss. (in part. p 26 ss.). 76 Lamenta che senza l’intermediazione partitica alcuni interessi privati assumono una immediata connotazione pubblicistica venendo immessi direttamente nel sottosistema istituzionale: M. LUCIANI,

Governo (forme di), cit., p 565 s.

(25)

uno dei maggiori errori che lo studioso di scienze morali possa commettere, quello della “conversione alla realtà”78, col convincimento che la descrizione di ciò che è sia scienza79.

3.4. L’attuale valore della distinzione tra Stato e società

Alla luce di queste osservazioni va pertanto criticata quell’opinione di Bobbio per cui da un’espansione della società civile segue un allargamento della politica80. Bobbio sostiene infatti che se i gruppi di interesse e altri soggetti promananti dalla società civile acquisiscono potere nel processo decisionale pubblico, allora la sfera della politica si allarga in virtù del coinvolgimento di questi soggetti. Così argomentando si perde di vista il fatto che l’azione dei gruppi di interesse se, da un lato, può essere “politica” nel senso che contribuisce sostanzialmente alla determinazione della politica nazionale, dall’altro non potrà mai avere quella dimensione egualitarista che la Costituzione richiede alla sfera politica.

Riassumendo, la distinzione tra Stato e società è un assioma del nostro ordinamento costituzionale che rigetta allo stesso tempo sia l’idea di uno “Stato totalitario” che fagocita la società, sia l’idea di una “società senza Stato”81. La distinzione tra sfera pubblica e sfera privata risulta ancora oggi uno dei cardini dello Stato di diritto e della democrazia costituzionale82.Tale idea può sembrare una banalità e una superflua astrazione dottrinale che in concreto dice poco o nulla83. In realtà, come cercheremo di chiarire meglio nel prosieguo della trattazione, ciò non è vero se si intende la distinzione nel modo che si è detto. La società deve essere tutelata dalle ingerenze dello Stato e al tempo stesso lo Stato deve essere messo al riparo dalle ingerenze provenienti dalla sfera sociale non filtrate dal medium politico. Il moderno valore della dicotomia Stato/società

78 Cfr. R. DE MONTICELLI, Al di qua del bene e del male, Torino 2015.

79 G. ZAGREBELSKY, Società-Stato-Costituzione, cit., 8.

80 “La grande trasformazione dello stato che abbiamo sott’occhio consiste invece in una crescente estensione ed espansione della produzione giuridica sotto forma di accordi tra i grandi gruppi di interesse all’interno dello stato e tra questi gruppi e lo stato […] Sarebbe peraltro un errore interpretare questa trasformazione come un segno di riduzione della sfera politica in rapporto alla sfera sociale, o, peggio ancora, come si legge talora in analisi un po’ troppo sbrigative, di fine della politica. Al contrario, la sfera della politica si è allargata. Una delle caratteristiche della forma democratica di governo è l’aumento dei soggetti che agiscono politicamente, vale a dire che collaborano direttamente o indirettamente alla formazione delle decisioni collettive”. N. BOBBIO, Teoria generale della politica, cit.,

81 Così anche: G. REPETTO, Appunti per uno studio sui rapporti tra garanzie costituzionali e indirizzo politico nell’esperienza repubblicana, in Diritto Pubblico 3/2018, p 725 ss. (726).

82 Così L. FERRAJOLI, Principia iuris, vol. 1, Bari/Roma 2009, 802.

Riferimenti

Documenti correlati

partecipazione ovvero il diritto di vendere le proprie partecipazioni, unitamente a quelle dei soci di maggioranza, alle medesime condizioni in modo da cedere il “pacchetto di

569 ss., che riconduce questa soluzione alla scelta del legislatore di limitare il più possibile le ipotesi di invalidità delle decisioni dell’organo amministrativo: “pure

Il notaio, dunque, al momento della redazione dell’atto costitutivo è tenuto a verificare l’identità dei comparenti davanti alla sua figura e, ovviamente, non

3 In fondo, anche per la progettata riforma del servizio sanitario lombardo sono adeguate le acute parole scritte da Rosario Ferrara (R. Ferrara, L’ordinamento della sanità,

Vincenzo Franceschelli DIRITTO PRIVATO Quinta Edizione Persone Famiglia Successioni Diritti reali Obbligazioni Contratti Responsabilità civile Imprese

Pure geometry “Pure” color Rendering of material properties.. Can an image be “in 3D”?.. So images can be useful to describe a 3D scene, but they could not be “transferred”

Ciò avrebbe condotto il legislatore comunitario, da lì a qualche anno, alla definitiva affermazione, con l’adozione della Direttiva 89/552 Televisione senza

E’online il servizio DigIT Expert, un sevizio di prima assistenza virtuale che permette alle aziende, attraverso la registrazione al sito DigIT Export, di