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IL COMPORTAMENTO SOCIALE DEGLI ANIMALI INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

IL COMPORTAMENTO SOCIALE DEGLI ANIMALI

Nel regno animale sono pochissimi gli organismi cui non si possa attribuire una qualche forma di comportamento sociale. In effetti, solo in un basso numero di specie gli individui conducono vita totalmente solitaria e non sperimentano mai interazioni interindividuali come cure parentali, cooperazione nella predazione, aggressioni o l’incontro tra i sessi necessario per l’accoppiamento (Immelman, 1988).

Lo spettro dei gradi di socialità è tuttavia molto esteso, e sul termine stesso di socialità gli studiosi si sono trovati talvolta in disaccordo. Un comportamento sociale viene generalmente definito come “un determinato modulo comportamentale che abbia la funzione di comunicazione intraspecifica” o più in generale “che ponga in relazione individui conspecifici” (Immelman, 1988). Secondo alcuni autori un tale comportamento può essere considerato sociale solo se effettuato all’interno di un gruppo di individui più o meno definito e stabile nel tempo. Al di là di un'univoca definizione, obiettivo probabilmente troppo pretenzioso studiando l’intero mondo vivente, quello che colpisce e interessa è la presenza di tali comportamenti in taxa molto differenti e filogeneticamente distanti tra loro. La ricerca dei motori primi dell’evoluzione del comportamento sociale è dunque uno dei più affascinanti campi d’indagine della biologia. Il “fondatore” della sociobiologia E. O. Wilson individua in quattro gruppi principali le “vette” di maggior complessità sociale: gli organismi coloniali marini, le società degli insetti, le società dei vertebrati e le società umane.

Tra questi fenomeni le società degli insetti rappresentano sicuramente il caso più studiato. Essi offrono una ricchissima gamma di organizzazioni sociali da osservare e confrontare. Pressoché l’intero arco dell’evoluzione sociale è rappresentato ripetutamente e indipendentemente in differenti linee filetiche, con alcune specie che mostrano una totale assenza di socialità o una socialità molto “rudimentale” (ad esempio la gran parte delle vespe Eumeninae) ed altre che raggiungono livelli d’organizzazione sociale altamente sofisticati (nelle colonie di formiche scacciatrici africane, Dorylus wilverthi, fino a 20 milioni circa di individui condividono la stessa colonia e interagiscono fra loro, praticamente tutti operaie sterili al servizio della regina, Gotwald 1995)

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Proprio queste ultime organizzazioni più complesse sono considerate l’apice raggiunto dalla socialità, e il termine impiegato per definire la loro struttura sociale è “eusocialità”. Secondo una definizione ormai ampiamente accettata (Wilson, 1975), per essere definita eusociale una specie deve presentare tre caratteristiche:

1. individui conspecifici cooperano nell’accudire la prole;

2. una divisione riproduttiva del lavoro, con individui più o meno sterili che agiscono a vantaggio dei compagni di nido fecondi;

3. negli stadi del ciclo biologico esiste una sovrapposizione di almeno due generazioni capaci di contribuire al lavoro della colonia, in modo che la prole aiuti i genitori durante un certo periodo della sua vita.

Tra i 30 ordini di insetti gli unici che presentano specie eusociali sono Imenotteri (api, vespe e formiche) e Isotteri (termiti), anche se comportamenti eusociali sono stati recentemente riscontrati in alcune specie appartenenti agli Emitteri, ai Coleotteri e ai Tisanotteri (Bourke e Franks, 1995).

Al di fuori degli insetti solo due specie di roditori sembrano potersi fregiare di tale “titolo”: sono i ratti-talpa della famiglia Bathyergidae Heterocephalus glaber e Cryptomys damarensis. Le specie che presentano comportamenti sociali che vanno oltre il comportamento sessuale, senza però raggiungere l’eusocialità (come le cure parentali dei Dermatteri ad esempio), vengono generalmente definite presociali.

Sebbene solo una piccola percentuale di specie possa dunque essere definita eusociale, non possiamo negare che questa strategia ecologica abbia conseguito nel tempo un notevole successo (Wilson, 1975). Le specie eusociali superano come biomassa e consumo di energia i vertebrati nella maggior parte degli habitat terrestri, e nelle reti ecologiche di molti ambienti giocano importanti ruoli a vari livelli, dalla forte azione predatrice delle formiche all’azione sommovitrice del suolo delle termiti fino all’importanza dei vari Apoidei come impollinatori.

Per la biologia inoltre l’evoluzione dell’eusocialità rappresenta un intrigante quesito teorico, andandosi a scontrare, almeno ad un primo approccio, con la logica della teoria evolutiva. In effetti, affinché un carattere si fissi geneticamente in una popolazione esso deve conferire, in termini di trasmissione genica, un vantaggio a chi lo possiede rispetto ai non portatori. Deve cioè garantire un aumento della fitness1 di

1 La fitness è definita come la capacità di un certo genotipo di trasmettere i suoi geni alle generazioni

successive. In genetica di popolazione si riferisce ad un determinato genotipo ed è quindi una stima media del successo riproduttivo di tutti i portatori di quel genotipo. In questo lavoro tuttavia utilizziamo

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quell’individuo. Dunque, se la selezione “premia” chi si riproduce di più all’interno di una popolazione, gli individui che aiutano altri soggetti a discapito della propria riproduzione dovrebbero essere selezionati negativamente. Più precisamente, il carattere che provoca questo comportamento non dovrebbe espandersi nella popolazione. Di concerto, non dovrebbero esistere fenomeni come l’altruismo e la presenza di aiutanti nella popolazione. Stando cosi le cose, la presenza di individui aiutanti in moltissime specie (e non solo di insetti) sembra presentarsi come un paradosso della teoria evolutiva.

Sono state avanzate varie ipotesi per spiegare l’affermazione di caratteri “altruistici”, tra cui quelli propri delle “eusocietà”. Tralasciando quelle ipotesi non corroborate da risultati sperimentali quali i modelli matematici di selezione di gruppo, come in D.S. Wilson (1975), o approcci logici basati sulla teoria dei giochi, le ipotesi più valide e plausibili sono l’ipotesi dei benefici ritardati e la teoria della kin selection (discussa nel successivo paragrafo).

Secondo l’ipotesi dei benefici ritardati l’individuo che compie l’atto altruistico ottiene dei benefici in un secondo momento, ad esempio scalando la gerarchia e guadagnandosi il posto di riproduttore dopo aver “lavorato” come aiutante nel gruppo (hopeful reproductives). Questo tipo di vantaggio è stato spesso chiamato in causa per diversi comportamenti sociali negli insetti, ad esempio nelle vespe Stenogastrinae (Field et al,. 2006; Bridge e Field, 2007). Un altro caso di “delayed benefits” è l’altruismo reciproco (Trivers, 1971), teoria secondo cui il costo di un atto altruistico è ripagato in un secondo momento quando l’altruista (il donatore dell’atto altruistico) riceve a sua volta un atto altruistico dall’aiutato (il ricevente di prima). Quello che viene speso in un primo tempo è successivamente riguadagnato quando le diverse condizioni pongono le basi per un'inversione dei ruoli. Dimostrata in casi come quello dell’ittero alirosse (Agelaius phoeniceus, Olendorf et al., 2004), quest'ipotesi non si applica bene agli insetti. E’ infatti necessario che ci sia un certo grado di riconoscimento fra gli individui e una forte probabilità di incontri successivi. Negli insetti la presenza di un riconoscimento individuale è ancora molto dibattuta, e la probabilità che i ruoli s'invertano (ad esempio tra operaie e regine, ma anche fra fondatrici associate) è spesso irrisoria. Inoltre, il costo di un comportamento altruistico quale quello affrontato delle operaie è così alto che

un concetto di fitness legato all’individuo, secondo una prospettiva hamiltoniana più tipica in ecologia del comportamento. La fitness diventa una misura del successo riproduttivo del singolo soggetto, ossia il contributo, in termini di geni (più precisamente alleli, forme alternative di un certo gene) che egli dà alla generazione successiva (Fasolo, 2004).

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difficilmente può essere ripagato successivamente. L’eusocialità negli insetti non sembra quindi poter essere spiegata in termini di altruismo reciproco.

LA TEORIA DELLA “KIN SELECTION”

Alcune versioni rudimentali di questa teoria erano presenti nel mondo scientifico fin dai tempi di Darwin, ma il termine è stato introdotto da Maynard Smith in riferimento ad un concetto proposto da W.D. Hamilton nel 1964 (Hamilton, 1964). Egli generalizzò e quantificò il concetto di selezione di parentela, rimarcandone l’importanza e la vasta portata. Con “kin selection”1

si indica il processo mediante il quale alcuni caratteri sono favoriti per il loro effetto positivo sulla sopravvivenza di parenti stretti.

La fitness di un individuo si può teoricamente scindere in due componenti: quella diretta e quella indiretta. La prima dipende dalla riproduzione dell’individuo stesso ed è quindi rappresentata dalla sua progenie. La fitness indiretta si riferisce invece alla quantità di informazione genetica che un individuo lascia alla generazione successiva favorendo la riproduzione di quegli individui che condividono con esso parte del patrimonio genetico, cioè i parenti. (Hamilton, 1964; Krebs e Davies, 2002). La logica della kin-selection è che un gene può produrre copie di se stesso sia aumentando la fitness del suo portatore (fitness diretta) che aumentando quella di parenti del portatore che condividono copie di quel gene (fitness indiretta) (Queller e Strassman, 1998).

La teoria di Hamilton spiega come possa evolvere un carattere che codifica per un comportamento altruistico, cioè un comportamento che beneficia altri individui favorendone la sopravvivenza e la riproduzione a scapito dell’individuo altruista. Se l’effetto di quel comportamento è l’aumento del successo riproduttivo di un individuo che condivide una parte del patrimonio genetico (e il “gene altruista” in particolare) con l’“aiutante”, l’aumento in fitness del primo si rifletterà in un aumento della fitness indiretta dell’altruista.

Ovviamente, risulta fondamentale in quest’ottica il grado di parentela tra gli individui considerati. Più alto sarà questo grado maggiore sarà la tendenza a compiere atti altruistici. Hamilton presentò una formula matematica per valutare quando un atto altruistico potesse essere vantaggioso in termini di fitness per un certo individuo. La

1 Secondo una definizione più formale (Bourke e Franks, 1995) la kin selection è “la selezione naturale di

geni per le azioni sociali attraverso la condivisione di questi geni tra il donatore (colui che effettua l’azione) e i suoi parenti.”

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versione più semplice, che in ogni caso si è dimostrata notevolmente robusta (Grafen, 1985; Queller, 1992) è:

B*r – C>0.

L’altruismo sarà favorito quando la fitness ottenuta dal beneficiario (B) moltiplicata per il grado di parentela tra donatore e ricevente (r, coefficiente di parentela1

) supera la fitness persa dal donatore, il quale compiendo l’atto altruistico sperimenta un certo costo (C). Questo costo può manifestarsi come una privazione di cibo, un’aumentata probabilità di morte, ma, in definitiva, si traduce in una diminuzione della efficienza riproduttiva del donatore.

Qualora quindi il costo (C) dell’atto altruistico sia superato dal prodotto tra il beneficio ricavato dal ricevente e il grado di parentela tra ricevente e donatore, l’atto altruistico si considera vantaggioso per il donatore. La teoria della kin selection vede dunque l’atto altruistico diretto verso un parente non tanto come una spesa, quanto piuttosto come un investimento.

In relazione allo specifico caso delle forme estreme di altruismo che si trovano negli Imenotteri, assieme al concetto di kin selection Hamilton richiamò l’attenzione sul particolare meccanismo di determinazione del sesso presente negli Imenotteri, invocandolo come causa (o almeno concausa) dell’evoluzione ripetuta e indipendente (almeno 11 volte) della eusocialità in quest’ordine.

In vespe, api, formiche e compagni la determinazione del sesso è di tipo aplodiploide, il che significa che le femmine nascono da uova fecondate, a corredo genetico diploide, mentre i maschi si sviluppano a partire da uova non fecondate (aploidi), che portano quindi solo metà corredo genetico. Questo crea inusuali coefficienti di parentela tra membri della stessa famiglia rispetto ai coefficienti che troviamo nelle famiglie di organismi diploidi (Bourke e Franks, 1995). In particolare, le femmine (le operaie sorelle) di una colonia aplodiploide sono molto imparentate fra loro (r è uguale a 3/4), poiché sicuramente condividono geni dell’unico corredo aploide fornito dal padre. Le sorelle sono quindi molto più strettamente imparentate fra loro che con la propria prole (Bourke e Franks, 1995) (vedi tabella in appendice 1). In base a questo Hamilton proponeva l’“ipotesi dell’aplodiploidia”, secondo cui “l’elevata

1 Il coefficiente di parentela è definito come un coefficiente di regressione (Hamilton 1970 e 1972, per una

trattazione approfondita consultare Bourke e Franks, 1995). In prima approssimazione può essere definito come “la quantità di informazione genetica condivisa tra due individui” (Turillazzi, 2002). Ad esempio, tra madre e figlio, in una specie a riproduzione diploide come Homo sapiens, r è uguale a 0,5, tra due gemelli monozigotici r è uguale a 1.

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parentela tra sorelle facilita l’evoluzione tramite kin-selection dell’altruismo riproduttivo nelle femmine di Imenotteri” (Hamilton 1964, Bourke e Franks, 1995). In realtà i calcoli si fanno differenti se consideriamo anche la prole maschile. Infatti, la parentela verso i fratelli è 0,25. Con l’altruismo si investe su fratelli e sorelle (0,25 e 0,75 rispettivamente), il che è uguale a investire nella propria riproduzione (figli e figlie entrambi hanno r=0,5). L’attività di aiuto diventa quindi più vantaggiosa della riproduzione se le femmine (operaie) aiutano la regina a produrre sorelle ma producono loro stesse i maschi, in quanto con figli e nipoti la parentela è maggiore che con i fratelli (questo argomento è ripreso successivamente, quando si discute della sex ratio).

Sebbene attualmente siano presenti anche altre ipotesi per spiegare la cooperazione e l’origine della socialità (negli imenotteri e più in generale anche in altri taxa, soprattutto in ragione del fatto che in altri taxa non vi è aplodiploidia), fortemente orientati a dare peso al contesto ecologico oltre che alla predisposizione genetica (Zahavi, 2003; Queller, 2004), tale teoria ha fatto luce sull’importanza di considerare non solo il singolo individuo ma anche i suoi rapporti di parentela con i conspecifici, passando quindi da un fitness diretta esclusiva (qui ed ora) ad una fitness più estesa, la “inclusive fitness”.

Nel caso degli insetti, l’importanza della teoria della kin selection è che permette di ragionare sulla struttura genetica della colonia, di valutare gli interessi dei vari membri (o partiti1

), ed infine di effettuare predizioni verificabili su quali saranno i comportamenti che le parti in gioco adotterano in situazioni differenti. Ciò permette da un lato di verificare la teoria stessa e al medesimo tempo di fornire indizi su quali altri fattori oltre alla struttura genetica influenzino (e in quale grado) il comportamento altruistico.

Alcune notevoli dimostrazioni del potere predittivo della kin selection theory sono la sex ratio e la worker policing, due fenomeni prima predetti teoricamente in base alla teoria della selezione di parentela e poi verificati sperimentalmente (Sundström et al., 1996; Monnin & Ratnieks, 2001).

La sex ratio è definita come il rapporto tra il numero di maschi e il numero di femmine presenti in un certo gruppo (ad es. colonia o popolazione). In una specie diploide l’equilibrio della sex ratio si raggiunge quando l’investimento in prole maschile

1 Negli studi di sociobiologia spesso si considerano collettivamente gli individui che hanno interessi

simili, così si parla dell’interesse della regina (o delle regine), delle subordinate e delle operaie insieme. Per tali gruppi si utilizza, in lingua anglosassone il termine “parties”. Qui utilizzo il corrispettivo italiano “partiti”, facendo riferimento al collettivo e condiviso interesse dei membri che di un certo gruppo fanno parte.

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e femminile è uguale; nel caso in cui il costo di produzione sia uguale per i due sessi, l’equilibrio sarà raggiunto per una sex ratio uguale ad 1 (Queller e Strassmann, 1998). Negli imenotteri il sistema genetico aplodiploide genera peculiari patterns di parentela (vedi tabella in appendice 1). In colonie monoginiche, con la regina accoppiatasi una sola volta, le operaie possono investire i loro sforzi riproduttivi in due tipi di individui riproduttivi: le femmine, che sono sorelle (r=0,75), e i fratelli (r=0,25). Per la regina invece figli e figlie hanno lo stesso valore: 0,5 in entrambi i casi. In base a questa asimmmetria nel Trivers e Hare (1976) postularono che l’interesse della regina fosse quello di investire ugualmente nei due sessi, mentre l’interesse collettivo delle operaie quello di sbilanciare la produzione in favore delle femmine, verso le quali sono più imparentate. Ammesso che il costo di produzione sia uguale per entrambi i sessi, la teoria predice una situazione di equilibrio per una sex ratio di 1:3, cioè 1 maschio prodotto per ogni tre femmine, nel caso che il conliftto venga vinto dalle operaie, e di 1:1 nel caso che a vincere sia la regina. In molte specie di Imenotteri sono proprio le operaie ad avere spesso la parola finale sulla determinazione del sesso del “nascituro”, attraverso vari meccanismi, ad esempio facendo sviluppare la prole femminile come regine piuttosto che come operaie, oppure sopprimendo selettivamente la prole maschile. In uno studio condotto su 21 specie di formiche il conflitto tra regina e operaie risultò essere vinto frequentemente dalle operaie, visto che la sex ratio si attestava proprio intorno al rapporto 3:1. Sebbene attualmente la scoperta dell’inseminazione multipla e di società con più regine (caratteristiche diffuse in molti imenotteri) abbia ristretto il campo di applicazione di questa previsione, essa costituisce ancora uno dei supporti più convincenti alla teoria della selezione di parentela (Queller e Strassman, 1998).

Un’altra importante predizione riguarda un conflitto all’interno della casta delle operaie. In un colonia guidata da una sola regina accoppiatasi con un solo maschio, le operaie sono più imparentate con i nipoti (figli di sorelle: operaie o riproduttrici, r=0,375) che con i fratelli (figli della regina, r=0,25). Tuttavia, se la regina si accoppia con più maschi non parenti, o se vi sono più regine attive sul nido, la parentela media di una operaia con un nipote è minore rispetto a quella con un fratello (Ratnieks, 1988). In questo caso le operaie beneficerebbero da un’attività di “worker policing”, consistente nel prevenire reciprocamente la deposizione di uova aploidi, destinate a diventare maschi. Tale controllo potrebbe prendere la forma di aggressione verso le altre operaie riproduttive o quella di distruzione delle uova da esse deposte. Il fenomeno “worker

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policing” venne predetto sulla base di tali ragionamenti (Ratnieks, 1988) prima di essere dimostrato in varie specie di insetti sociali (Ratnieks e Visscher, 1989; Mueller, 1991; Sundtrom, 1994).

Questi due esempi mostrano come i conflitti intracoloniali siano un ottimo terreno di prova per la kin selection e al tempo stesso un settore di indagine che permette di capire ruoli e interazioni tra i vari attori di una società di organismi. Lo studio dei conflitti intracoloniali è un campo in fervida attività e l’attenzione è stata rivolta pressoché a tutti gli imenotteri sociali, dalle api alle vespe. Proprio nelle vespe troviamo uno dei taxon più studiati in quest’ottica, quello dei Polistinae (Ordine Hymenoptera, famiglia Vespidae).

La sottofamiglia dei Polistinae comprende quattro tribù e 29 generi. Il genere Polistes, unico rappresentante della tribù Polistini, mostra un’ampia distribuzione, essendo assente solo nelle regioni più settentrionali e meridionali del globo. Probabilmente originatosi nel Sud Est dell’Asia , si è poi diversificato ed espanso, arrivando oggi a contare 206 specie differenti.

Il genere Polistes si è prestato da sempre molto bene agli studi sull’evoluzione della socialità. Esso infatti presenta alcune caratteristiche che rendono facile ed interessante lo studio di questi animali. Innanzitutto le colonie di Polistes sono molto comuni e diffuse, quindi facilmente reperibili ed allevabili. Inoltre il nido gimnodomo (non protetto da involucro) e le colonie relativamente piccole (raramente con più di cento individui nei climi temperati) rendono facile l’osservazione e la quantificazione dei comportamenti (Pardi, 1996). La rudimentale suddivisione in caste (si vedano i paragrafi successivi) offre la possibilità di indagare l’origine delle prime fasi della socialità. Difatti Polistes è un genere chiave in questo tipo di studi (Evans, 1958), che potrebbero chiarire le pressioni ecologiche e sociali che determinano la posizione di una specie all’interno dello spettro dell’eusocialità (Reeve, 1991).

BREVE STORIA NATURALE DI POLISTES DOMINULUS

Polistes dominulus (Christ)1

è il Polistes più diffuso in Italia (Turillazzi, 2002). E’ una specie legata ad aree con climi temperati e caratterizzati da una discreta stagionalità. Il suo areale si estende dal bacino del Mediterraneo al Giappone (Guiglia, 1971) e

1 Fino agli anni 80 del ‘900 era classificato come Polistes gallicus, che in realtà è una specie differente,

pertanto molti degli studi pubblicati prima di tale data con indicazione Polistes gallicus si riferiscono in realtà a P. dominulus.

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recentemente è stata accidentalmente introdotta nel continente americano e in Australia (Liebert et al., 2006). Questa specie preferisce località aperte in pianura e collina e

difficilmente possono essere rinvenute colonie a quote superiori a 1000 m. I nidi sono costruiti a partire da fibre vegetali (recuperate generalmente da legno secco), che vengono masticate e impastate con la saliva. Privi di involucro e appesi tramite un pedunculo, i nidi sono posti in luoghi riparati ma esposti al sole. I luoghi preferiti sono i ripari offerti dalle costruzioni umane, come tegole, lamiere e tubi, anche se talvolta si possono trovare colonie anche tra la vegetazione (per esempio su fili d’erba). La dimensione del nido varia da qualche decina a qualche centinaio di cellette, con limiti massimi di 600-700 cellette (Turillazzi, 2002).

Il ciclo vitale di questa vespa può essere suddiviso in quattro fasi: la fase delle fondatrici, quella delle operaie, quella dei riproduttori e la fase intermedia (Reeve, 1991; Röseler, 1991).

Fase delle fondatrici

A inizio primavera, nei mesi di marzo e aprile, inizia la costruzione del nido, ad opera di vespe fecondate che, nate durante la stagione precedente, sono sopravvissute ai rigori dell’inverno. La fondazione può essere effettuata da una vespa singola (monoginia) o da più vespe (poliginia), raramente più di cinque. In questo caso tra gli individui si stabilisce, tramite scontri generalmente non fatali, una gerarchia lineare di dominanza (alfa>beta>gamma) (Pardi, 1942 e 1946). La vespa alfa1

rimane sul nido e delega alle subordinate i compiti più pericolosi e dispendiosi di foraggiamento e ricerca del materiale per il nido. In caso di scomparsa della alfa è la femmina beta nella gerarchia a sostituirla nel ruolo di dominante (Reeve, 1991; Röseler, 1991).

L’associazione di più femmine può avvenire sia prima della costruzione del nido, nelle vicinanze del sito di nidificazione, che in una fase più avanzata, quando una vespa si associa ad una colonia già esistente (Röseler, 1985).

Dopo la costruzione delle prime cellette avviene la deposizione delle uova, che spetta quasi interamente alla vespa alfa (Queller et al. 2000). La riproduzione delle

1 All’interno di una colonia di insetti sociali l’individuo che si riproduce e domina gli altri viene

generalmente chiamato regina. Questo termine rimane anche in molti insetti primitivamente eusociali, in cui la regina non è morfologicamente molto differente dalle altre femmine. In molti casi tuttavia si preferesice utilizzare i termini alfa, beta etc. per indicare i rapporti gerarchici presenti nella colonia. In P. dominulus i termini regina e alfa sono utilizzati in maniera equivalente, per la altre fondatrici si usano le altre lettere dell’alfabeto greco a seconda del loro rango in gerarchia, e le femmine nate sul nido si indicano colletivamente come operaie.

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fondatrici subordinate è impedita da meccanismi di inibizione ancora non chiari. Infatti, non è stato ancora definitivamente compreso il ruolo che feromoni e oofagia differenziale (la alfa mangia le uova delle subordinate e le subordinate non mangiano le uova della alfa) hanno nell’inibizione dello sviluppo ovarico di subordinate e operaie.

Fase delle operaie

Verso la fine della primavera sfarfallano i primi individui, che non presentano alcuna differenza morfologica con le fondatrici, eccetto una minore dimensione corporea (Turillazzi, 1980). Queste differenze tendono a sparire man mano che la stagione avanza. I compiti delle operaie sono fondamentalmente la costruzione e la pulizia del nido, la cura delle larve ed il foraggiamento lontano dal nido. Da questo punto di vista questi animali possono essere considerati alla stregua delle operaie delle specie caratterizzate da una socialità avanzata (api, formiche e termiti).

L’assenza di caratteri morfologici distintivi tra operaie e fondatrici, la possibilità che le prime possano comunque riprodursi e la suddivisione dei compiti ha indotto molti ricercatori a parlare di una suddivisione castale funzionale (caratterizzata da un’alta plasticità) piuttosto che morfologica. Infatti, la possibilità di accoppiarsi (e quindi generare prole femminile) e di abbandonare il nido natale ottenendo una riproduzione diretta rendono molto sfumata la suddivisione castale tra regine e operaie in questa specie. Ad ogni modo, gli individui nati nella prima fase del ciclo coloniale, che generalmente non si riproducono e muoiono prima dell’autunno, vengono definiti come “operaie”. Anche tra le operaie si stabilisce una gerarchia lineare (Pardi, 1946), che può rivelarsi determinante nel caso in cui un nido monoginico rimanga sprovvisto di regina. In questo caso è l’operaia dominante a conquistare il diritto alla riproduzione diretta.

Fase dei riproduttori

Teoricamente questa fase inizia con l’emergenza del primo individuo riproduttore e dura fino al momento della dispersione di maschi e femmine dal nido, a fine estate. Tuttavia la difficoltà di distinguere le ultime operaie dai primi individui riproduttori rende difficile stabilire l’inizio esatto di questa fase. Le femmine riproduttrici, chiamate future fondatrici perché superato l’inverno fonderanno nuove colonie, fino al momento dell’accoppiamento rimangono sul nido dove sostano nella

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parte superiore vicino al peduncolo senza impegnarsi in alcuna attività (Deleurance, 1952).

Fase intermedia

Dopo l’accoppiamento e l’abbandono del nido, all’inizio dell’autunno, le femmine si aggregano in posti riparati. I ripari offerti dalle costruzioni umane, come angoli dei soffitti, crepe nelle travi, tegole sono i rifugi preferiti (Pardi, 1942; Yoshikawa, 1963) ma non mancano anche soluzioni più originali, come buchi in grosse pareti rocciose (osservazione personale). In questa fase le vespe sono ancora attive e foraggiano nei dintorni del luogo di aggregazione.

Questi aggregati pre-ibernanti precedono la fase di ibernazione vera e propria, che avviene in luoghi più riparati (hibernacula). Durante questa fase le vespe sono completamente inattive. Passato l’inverno, le vespe sopravvissute fonderanno nuovi nidi, spesso nelle vicinanze nel nido materno.

Sebbene questi aggregati siano stati a lungo considerati una fase priva di interazioni sociali (ad esempio Yoshikawa, 1963), è stata dimostrata la presenza di interazioni sociali. Studiando in laboratorio aggregati raccolti in diverse località italiane Dapporto e collaboratori (2005a) hanno osservato comportamenti sociali uguali a quelli che avvengono comunemente sul nido (dominazione, trofallassi, richiesta di cibo, aggressione). Si ipotizza inoltre che tali interazioni possano fornire alle future fondatrici un feedback sulle proprie condizioni ed influenzare addirittura le successive fasi vitali delle fondatrici, anticipando in qualche modo le gerarchie che si formeranno la primavera successiva alla fondazione dei nidi (Dapporto et al., 2006).

I CONFLITTI NEL POLISTES DOMINULUS E L’ARGOMENTO DI TESI

La storia naturale del Polistes dominulus offre alcune situazioni nelle quali i vari individui della colonia possono, teoricamente, avere interessi differenti ed entrare quindi in conflitto. Sono stati ripetutamente studiati ad esempio i conflitti tra le fondatrici al momento della formazione della gerarchia a primavera (Pardi 1948, Reeve 1991,Röseler 1991) o la produzione di maschi da parte di regina e operaie (Strassmann et al., 2003)1

.

1 Questo studio in realtà è stato condotto su Polistes gallicus, che presenta tuttavia un ciclo vitale molto

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Spostando l’attenzione sui rapporti tra regina e operaie, possiamo dire che l’assenza di sterilità e una ridotta differenza morfologica tra regine e operaie pone quest’ultime di fronte a due possibili strategie.

Da una parte è possibile attuare il tipico comportamento da operaia: aiutare la regina a prendersi cura della covata, a foraggiare, a mantenere attivo, protetto e ben costruito il nido; comportamento che in base alla teoria della selezione di parentela fornisce fitness indiretta alle operaie (grazie al tramite di una maggior riproduzione di un individuo parente, in questo caso la regina). Dall’altra parte esiste la possibilità di abbandonare un tale comportamento per tentare di riprodursi direttamente, guadagnando così in fitness diretta. Quando le operaie si trovano di fronte alla possibilità di tentare di riprodursi direttamente può nascere un conflitto di interessi tra di esse e la regina, la quale dipende dall’aiuto che esse le forniscono.

In questo lavoro abbiamo voluto indagare due situazioni in cui è ipotizzabile la presenza di un tale conflitto intracoloniale, con interessi divergenti tra i vari membri della colonia. Abbiamo valutato teoricamente e indagato sperimentalmente gli effetti sui vari mebri della colonia di (a) un decremento della produttività di alfa e (b) della sua sparizione dalla colonia.

Il decremento della produttività di alfa

Prendiamo una colonia monoginica. Reduce dallo svernamento e dai primi foraggiamenti della primavera, la alfa, dopo aver fondato il nido ed avviato la colonia, può, sperimentare una riduzione della propria fertilità, dovuta alle cause più disparate (invecchiamento, patogeni). In questo caso, per le operaie, può non essere vantaggioso continuare a lavorare per un’alfa poco produttiva, poiché la fitness indiretta di un individuo (e questo vale in termini generali, nel nostro caso quindi sia per le operaie, che per le fondatrici subordinate) dipende fondamentalmente dal grado di parentela, che rimane uguale, ma anche dalla produttività dell’individuo aiutato. Qualora la produttività (ad esempio la fertilità) diminuisca può non essere più sufficiente a compensare il costo dell’attività di aiuto . Si può supporre quindi che in una tale situazione le operaie optino per una riproduzione diretta. Infatti, sebbene l’accoppiamento avvenga di norma in autunno, in varie specie di Polistes sono stati osservati maschi precoci (prodotti cioè a inizio stagione, assieme alle prime operaie, ben prima dell’emergenza dei riproduttori veri e propri a fine estate) nonché la presenza di operaie accoppiate con essi (per P. fuscatus Strassmann et al., 1981 e Page et al., 1989; per

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P. snelleni Sukuzi, 1998; per P. exclamans Strassman, 1981; osservazioni aneddotiche anche per P. gallicus, Schmitt, 1914 e P. variatus, Rau, 1946). Anche nel P. dominulus sembra che avvenga tale fenomeno (Strassman et al., 2004; Dapporto, 2005). Una volta accoppiate le operaie potrebbero poi scegliere di fondare un nuovo nido, o più probabilmente, visto il rischio di fondare un nido ormai troppo tardivamente nella stagione, rimanere sul nido natale e deporre le proprie uova.

In effetti, un’ovoposizione da parte delle operaie è stata confermata da Liebig e collaboratori (2005), che hanno mimato un declino della produttività di alfa rimuovendo periodicamente le uova da nidi di colonie monoginiche, tenute poi sotto osservazione con videocamere. Hanno potuto constatare che effettivamente le operaie del trattamento depongono significativamente più uova rispetto a quelle del controllo, nelle colonie del quale la deposizione delle operaie è effettivamente sporadica. Gli autori sostengono che le operaie siano in grado di stimare la fertilità della loro regina e optare quindi per una strategia di riproduzione diretta.

Questo studio solleva una questione interessante.Le colonie monoginiche non sono infatti che una frazione delle colonie che si trovano in natura. Spesso sul nido sono presenti più fondatrici (colonie poliginiche); la frequenza di occorrenza di queste colonie avviate da piu fondatrici è molto variabile e legata, sembra, a variabili ecologiche quali la disponibilità di siti di nidificazione e la densità della popolazione (Roeseler, 1991).

Cosa succede in queste colonie poliginiche in caso di una riduzione della fertilità della alfa è quindi una curiosità abbastanza immediata. Anche in questo caso le operaie depongono le loro uova o la presenza di una beta interferisce e previene questo comportamento?

Proviamo ad analizzare la questione dal punto di vista dei vari partiti in gioco. Innanzitutto la alfa avrà interesse a mantenere normale la sua produzione di prole, quindi aumenterà il tasso di deposizione delle uova per compensare la perdita di quelle rimosse sperimentalmente (predizione 1). Questo potrebbere essere impossibile se la alfa in condizioni normali deponesse al massimo delle sue capacità, ma come dimostrato dal lavoro di Liebig et al. (2005) la alfa può effettivamente aumentare la sua produzione di uova.

Allorché la produttività di alfa diminuisce (i.e. le vespe sul nido rilevano un’anormale mancanza di uova nelle cellette) per le fondatrici subordinate è sicuramente vantaggioso cercare di sfruttare l’occasione, puntando sulla propria fitness

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diretta. Ci si può aspettare dunque che esse sviluppino gli ovari e tentino di deporre e far sviluppare le proprie uova anche in presenza della femmina dominante (predizione 2).

Per le operaie il ragionamento si complica. In linea generale la minor quantità di uova presenti nel nido dovrebbe evocare un risposta di deposizione. Per gli stessi motivi citati sopra, dovremmo aspettarci una risposta simile a quella trovata da Liebig et al. (2005): le colonie in cui la produttività della alfa subisce un decremento dovrebbero vedere le proprie operaie deporre maggiormente rispetto alle colonie in cui le uova della alfa sono presenti sul nido. E’ necessario considerare anche i legami di parentela tra alfa e beta. Qualora la beta sia sorella della alfa, il legame di parentela tra un’operaia e le figlie della beta risulterebbe di 0,1875. Nel caso in cui alfa e beta non siano imparentate la parentela cadrebbe a 0. In entrambi i casi la parentela media sarebbe minore rispetto a quella di un’operaia con la propria prole (0,5) o con la prole di altre operaie (0,375). Per le operaie sarebbe quindi vantaggioso in ogni caso allevare la prole propria o di altre operaie piuttosto che quella di una beta (parente o non). Possiamo quindi aspettarci che le operaie si impegnino direttamente nella riproduzione invece di continuare ad investire sulle fondatrici (previsione 3). Per esse sarebbe anche vantaggioso inoltre eliminare la beta dal nido, che potrebbe prendere il posto della alfa, o almeno impedirne la riproduzione. Il fatto che le fondatrici subordinate tendano a sparire dalle colonie al momento dell’emergenza delle prime operaie (Pfennig & Klahn, 1985; Hughes & Strassmann, 1988; Gamboa et al., 1999) supporta in effetti questa possibilità. Le cause di tali sparizioni sono ancora sconosciute. Le fondatrici potrebbero lasciare la colonia di propria iniziativa nel caso non avessero alcuna chance di ereditarla a causa dell’opposizione delle operaie, oppure potrebbero essere espulse preventivamente dalle operaie o dalla alfa. La alfa vedrebbe così diminuire la probabilità di avere la propria colonia usurpata da una fondatrice non parente, e inoltre il suo aiuto non sarebbe più tanto necessario vista la presenza delle operaie (Pfennig & Klahn, 1985).

Bisogna tuttavia considerare che la produttività di un individuo riproduttore, come una fondatrice, può essere maggiore di quella di un’operaia e possono passare alcuni giorni affinché un’operaia raggiunga una condizione equivalente a quella di un riproduttore, Dapporto in stampa1

). Tale maggior fertilità, oltre il fatto di essere già

1 Questo lavoro è stato condotto sul Polistes gallicus, ma è abbastanza lecito considerare che le due specie

abbiano una fisiologia simile e dunque il risultato sul P. gallicus può essere un buon indizio di quanto accade nel P. dominulus.

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accoppiate, potrebbere in parte controbilanciare l’effetto negativo della ridotta parentela tra la prole della femmina beta e le operaie. Per un’operaia, cioè, potrebbe essere più vantaggioso aiutare una fondatrice “in forma” a riprodursi, che tentare la propria riproduzione. Tuttavia, nel caso che alfa e beta non siano imparentate aiutare la beta nella riproduzione non porterebbe ad alcuna fitness indiretta.

A questo punto possiamo chiederci se effettivamente alfa e beta siano imparentate oppure no. Uno studio del 2000 mostra che in un terzo delle colonie alfa e beta non sono imparentate (r=0), mentre negli altri casi lo sono (in questo caso si tratta probabilmente di cugine o sorelle, Queller, 2000). E’ evidente quindi che dal punto di vista delle operaie (come per le beta verso le alfa) una strategia di aiuto indiscriminato alla beta sul nido rappresenti un notevole rischio. Il rischio è di puntare il proprio investimento energetico sul “cavallo sbagliato”.

Una strategia che limiti questo rischio sembrerebbe quindi evolutivamente stabile1

. Tale strategia potrebbe essere una strategia di “non aiuto incondizionato”, cioè “non aiutare beta ad ereditare il nido in nessuna occasione, quindi ogni volta che alfa depone poche uova opta per una tua riproduzione diretta”. Altrimenti, potrebbe essere adottata una strategia condizionale, senz’altro più fine e vantaggiosa, che si basi su una discriminazione del rapporto di parentela, e che preveda una maggior tendenza ad aiutare la beta nel caso sia parente e una strategia di riproduzione diretta nel caso non ci sia alcun legame di parentela. Il valore di parentela formante la soglia di questa strategia condizionale non è definibile a priori. In questo lavoro considereremo solo due casi limite: colonie con alfa e beta sorelle e colonie con alfa e beta non parenti.

Risulta evidente che una simile strategia presuppone la capacità degli individui di discriminare tra parenti e non parenti. Il riconoscimento di parentela è stato dimostrato in vari taxa animali (Gadagkar, 1985). Nelle vespe sociali tale fenomeno è stato a lungo studiato (per una panoramica dettagliata vedere Gamboa, 2004) e si sa che esiste un riconoscimento coloniale, cioè tra membri della stessa colonia e membri provenienti da altre colonie. Tale capacità è stata dimostrata anche in Polistes dominulus, e si basa sul canale chimico della comunicazione. Le cere cuticolari, specialmente nella

1 In questa sede “evolutivamente stabile” richiama i concetti della teoria dei giochi applicata alla zoologia

da Maynard Smith, senza tuttavia implicare che le strategie discusse siano state sottoposte a modellizzazione e simulazione per capirne la stabilità, procedimento che esula dagli scopi di questo lavoro.

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loro frazione di alcheni e alcani metilati sono il principale vettore di informazioni (Dani, 2006; Monnin, 2006).1

Ma queste informazioni sono così affidabili da poter essere utilizzate per una discriminazione tra individui omocoloniali in base alla somiglianza genetica (i.e. tra soggetti omocoloniali parenti e individi omocoloniali non parenti)? Un’analisi congiunta di genetica e marcatura cuticolare mostra che, in linea teorica, gli idrocarburi possono fornire un’informazione sufficientemente affidabile per tale discriminazione in Polistes dominulus (Dani et al., 2004; Dani, 2006). E’ utile precisare inoltre che, ai fini della strategia considerata, non è necessario supporre un riconoscimento preciso del grado di parentela fra alfa e beta, piuttosto potrebbe essere sufficiente una valutazione del grado medio di omogeneità genetica della colonia. Se infatti la distanza chimica riflette la distanza genetica, come dimostrato da Dani et al 2004., e supponendo che, come ipotizzato per alcune specie di formiche (Dahbi e Lenoir, 1998, per Cataglyphis iberica e Lenoir et al., 2001, per Aphaenogaster senilis) l’odore coloniale sia una “mescolanza” degli odori dei vari individui, si può ipotizzare che l’omogeneità dell’odore del nido rispecchi in una certa misura l’omogeneità genetica della colonia. Dal momento che le operaie sono figlie della alfa, una disomogeneità indicherà, salvo rare eccezioni, una differenza chimica della beta rispetto al resto della colonia. Potrebbe dunque essere una soglia di omogeneità dell’odore del nido ad essere valutata dalle operaie e ad evocare differenti comportamenti.

La quarta previsione è dunque che laddove alfa e beta non siano imparentate si possa osservare una deposizione delle operaie di entità maggiore rispetto alle colonie in cui alfa e beta sono parenti, nelle quali dunque la fitness indiretta può ancora giocare un ruolo nel comportamento delle operaie.

La sparizione della alfa

Il secondo caso preso in esame riguarda il conflitto che può instaurarsi tra i vari membri della colonia al momento della sparizione della alfa. Tale eventualità, da imputarsi molto probabilmente alla morte della alfa, è stata riscontrata abbastanza frequentemente nelle popolazioni studiate in natura (frequenze che vanno dal 20% al 40% a seconda del periodo della vita coloniale preso in esame, Strassmann et al. 2004).

1 Recentemente è stata posta l’attenzione anche sui composti peptidici come vettori di informazione

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Chi eredita la posizione vacante, e dunque il nido, è una questione di cruciale importanza per la colonia.

E’ dimostrato che alla morte della alfa la beta diviene molto aggressiva e mostra comportamenti tipici della vespa dominante. Poichè comportamentalmente diviene la nuova alfa si è sempre sostenuto che essa divenga effettivamente la nuova monopolizzatrice della riproduzione sul nido (Roeseler 1991, Sledge et al. 2001). Tuttavia non è mai stato verificato se effettivamente tale comportamento dominante si traduca in un effettivo monopolio riproduttivo, né con osservazioni dirette né con studi genetici. In effetti, sebbene usualmente il comportamento da dominante indichi sia una dominanza sociale che una dominanza riproduttiva, questi due aspetti non sono necessariametne legati, come dimostrato dal fatto che fondatrici ovariectomizzate possono assumere rango da alfa pur lasciando la riproduzione alla beta (Roeseler, 1985; Roeseler e Roeseler, 1989)1

. La struttura genetica della colonia cambia al momento della sostituzione della alfa, e lo fa in maniera drastica nel caso che beta non sia imparentata con la precedente alfa2

. Potrebbe perciò succedere che la beta si comporti da alfa ma che effettivamente le operaie non le lascino ereditare il monopolio riproduttivo, cioè depongano esse stesse in grandi quantità. La differenza tra questa situazione e la precedente (paragrafo precedente) è evidente. In questo caso la alfa viene effettivamente rimossa. Quindi non solo mancano le sue uova sul nido, ma manca essa stessa. Non può perciò interagire con gli altri membri, e il conflitto diventa esplicitamente per chi andrà a capo della nuova colonia.

Riguardo a tale situazione, anche sulla base delle considerazioni presentate nel paragrafo precedente, possiamo fare le seguenti previsioni:

1) nelle colonie dove alfa viene rimossa la nuova alfa (la ex beta) aumenta drasticamente la deposizione;

2) le operaie aumentano anch’esse la deposizione, eventualmente cercando di espellere la nuova alfa o di impedirne la riproduzione;

3) Esistono delle differenze nei livelli di deposizione delle operaie tra le colonie in cui la nuova alfa è parente della vecchia alfa, e le colonie in cui non lo è, con una maggior deposizione nelle seconde rispetto alle prime.

1 Inoltre può avvenire anche il contrario: una regina può essere docile e non dominante da un punto di

vista comportamentale ma riuscire comunque a mantenere il monopolio riproduttivo (Sumana et al., 2007 su Ropalidia marginata). Lo stesso studio inoltra mostra come una nuova regina nei primi periodi dalla scomparsa della vecchia regina non riesca a impedire lo sviluppo ovarico delle operaie, pur dominandole e aggredendole ripetutamente.

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Chi vince gli eventuali conflitti?

La massiccia deposizione delle operaie nelle colonie monoginiche in cui alfa perde in efficienza riproduttiva, potrebbe far pensare ad una “vittoria” del conflitto riproduttivo da parte delle operaie. Tuttavia è noto che la alfa, nelle colonie monoginiche, si garantisce un monopolio riproduttivo grossomodo equivalente a quello di una situazione ordinaria attraverso la continua sostituzione delle uova delle operaie con uova proprie (Liebig et al., 2005). Avviene cioè una rimozione delle uova appartenenti alle operaie e nelle celletta vuote la alfa depone le proprie. Queste non sono a loro volta sostituite dalle operaie e il risultato è che alla fine sono principalmente le uova della alfa a rimanere sul nido, e quindi la sua prole a svilupparsi. Questa sostituzione differenziale presuppone un’oofagia differenziale, ovverosia che le uova di alfa e operaie siano riconosciute e trattate in maniera differente (quelle delle operaie mangiate e le uova della alfa no). Chi effettui l’oofagia differenziale è incerto, sebbene certi autori propendano per la alfa (Gervet 1964b; Roeseler, 1991; Liebig et al., 2005; Dapporto, 2007). In molti insetti sociali è in effetti dimostrato che la alfa può riconoscere e mangiare le uova che non sono sue (in particolare delle operaie) e nello stesso Polistes dominulus sappiamo che la alfa, nelle fasi iniziali della fondazione della colonia, mangia e rimpiazza le uova deposte dalla beta (Gervet, 1964b). Tuttavia, non è escluso che anche le operaie possano riconoscere e distruggere le uova di altre operaie o della beta, e in assenza di osservazioni dirette di oofagia non è possibile stabilire con certezza l’autore.

Quello che più interessa è in ogni caso l’esito finale dell’oofagia e della sostituzione: quali uova vengono rimpiazzate più frequentemente e chi ne beneficia?

Nel nostro caso, ammesso che le operaie incomincino a deporre come previsto, possiamo supporre che avvenga un fenomeno simile a quello descritto nelle colonie monoginiche.

Un ulteriore scopo della tesi è perciò quello di osservare i pattern di sostituzione delle uova in entrambe le situazioni sperimentali, decremento di produttività della alfa e sua sparizione. Cercheremo di valutare l’attività di rimpiazzo delle uova da parte di alfa, fondatrici subordinate e operaie.

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UN APPROFONDIMENTO DELL’OVOPOSIZIONE

L’ovoposizione è un momento centrale nella vita di una colonia, e, di conseguenza, è un comportamento fondamentale di cui tener conto nella maggior parte degli studi sugli insetti sociali.

Data la sua importanza, in questo lavoro di tesi abbiamo cercato fornire una preliminare caratterizzazione di questo modulo comportamentale, approfondendo in particolare due aspetti: la durata temporale (i.e quanto dura una deposizione) e la distribuzione temporale del modulo comportamentale (i.e. il pattern giornaliero di ovoposizione). Tali aspetti non sono mai stati presi in considerazione, a nostra conoscenza, in Polistes dominulus nè in altri Vespidi sociali. Il tipo di sperimentazione condotta (registrazione tramite telecamere, vedi materiali e metodi) permette per la prima volta di approfondire il fenomeno superando il carattere inevitabilmente aneddotico delle precedenti osservazioni.

RIASSUNTO DEGLI SCOPI DELLA TESI

Lo scopo della tesi è quello di registrare e analizzare il comportamento dei membri di una colonia di Polistes dominulus quando la produttività della alfa diminuisce (a) o quando la alfa scompare improvvisamente dalla colonia (b).

Le previsioni che possiamo fare a riguardo sono:

nella situazione (a): -1. la alfa aumenta la deposizione di uova;

-2. le fondatrici subordinate incominciano a deporre; -3. le operaie incominciano a deporre;

-4. nelle colonie dove alfa e beta non sono imparentate le operaie depongono di più rispetto alle colonie in cui alfa e beta sono parenti;

nella situazione (b): -1. la nuova alfa (la ex beta) aumenta drasticamente la deposizione;

-2. le operaie aumentano anch’esse la deposizione, eventualmente cercando di espellere la nuova alfa o di impedirne la riproduzione;

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-3. le operaie delle colonie in cui beta è imparentetata con la alfa rimossa depongono di più rispetto alle operaie delle colonie dove alfa e beta non sono parenti.

Alternativamente a queste ipotesi, le operaie potrebbero accettare la beta come nuovo riproduttore e comportarsi come nella situazione precedente quando era presente la femmina alfa originale.

Le previsioni saranno testate confrontando l’attività di deposizione e di sostituzione delle uova di colonie appartenenti a tre gruppi sperimentali: il gruppo di controllo, il gruppo in cui si mima un decremento della produttività della alfa, situazione (a), e il gruppo in cui si mima la scomparsa della alfa, situazione (b). I tre gruppi sperimentali saranno d’ora in avanti chiamati rispettivamente “controlli”, “rimozione prole” e “rimozione alfa”.

Sono stati poi valutati i pattern di sostituzione delle uova nelle varie situazioni. Infine sarà presentata una preliminare caratterizzazione del comportamento di deposizione, specificatamente nelle sue componenti temporali (durata e periodicità giornaliera).

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