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CAPITOLO 7

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Academic year: 2021

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Rilevamento di campagna sullo stato della vegetazione nelle aree

colpite dagli incendi campionati

7.1. Gli incendi boschivi

Gli incendi boschivi possono essere distinti, nelle seguenti cinque categorie, sulla base delle modalità di propagazione delle fiamme e dei danni prodotti sulla vegetazione: 1. di lettiera; 2. bassi, o radenti; 3. di cima; 4. di barriera, o totali; 5. sotterranei.

Il primo tipo aggredisce lo strato superficiale del terreno, formato dai residui vegetali non ancora decomposti. Si tratta di una combustione lenta che può causare gravi danni alle piante uccidendone le radici superficiali.

Il fuoco basso interessa il tappeto erboso e il sottobosco, infatti, se il rogo non è stato particolarmente violento, lo strato arboreo può non essere danneggiato. In questo caso la distruzione della cotica erbosa determina una selezione a favore delle specie rigermoglianti, che prendono il sopravvento su quelle annuali e più esigenti.

Negli incendi bassi caratterizzati dallo sviluppo di una notevole quantità di calore, i danni possono essere più gravi, con ustioni nella zona del colletto, letali anche per i polloni: rami vigorosi che si formano sul fusto di alcune specie arboree ed arbustive quando si effettua il ceduo, o il taglio a capitozza, oppure in seguito al passaggio del fuoco (ANPA, 2001).

Il fuoco di cima interessa per lo più i boschi di conifere, molto infiammabili soprattutto a causa dell’alto contenuto in resine dei rami e della chioma. In questi tipi di formazioni si accumulano, in giacenza sul terreno, grandi quantità di materiale legnoso

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secco estremamente infiammabile, come le foglie aghiformi delle varie specie di pini, che facilita la propagazione delle fiamme in tutto lo spessore dello strato boschivo.

Il fuoco di barriera, o totale, è quello che danneggia di più la foresta, dato che brucia praticamente tutta la biomassa presente, e sviluppa un calore talmente intenso da essere in grado di distruggere anche le ceppaie. Questo genere di incendio è difficilmente controllabile, infatti può avvenire che il calore crei correnti d’aria imprevedibili e faccia cambiare di colpo direzione alle fiamme. Il fortissimo ed improvviso aumento di temperatura causa combustioni esplosive dei vegetali avvolti dalle fiamme, in particolar modo degli strobili di alcune conifere, con grave pericolo per il personale addetto alle operazioni di spegnimento.

Un incendio apparentemente estinto, talvolta, riprende ad ardere anche a distanza di qualche giorno dal presunto spengimento. Tali situazioni sono causate dal fuoco sotterraneo che si propaga bruciando lentamente la sostanza vegetale indecomposta incorporata nel terreno. Questo tipo di incendio si verifica nei periodi contraddistinti da notevole siccità, quando il combustibile nei primi centimetri di suolo, è relativamente asciutto.

L’incendio sotterraneo può superare i viali parafuoco e le linee di difesa predisposte a contenimento del fuoco, per questo motivo è necessaria un’attenta bonifica dei siti, ad esempio scavando tracce nel terreno.

Un incendio boschivo produce una serie di effetti sulle diverse componenti biotiche e abiotiche degli ecosistemi forestali, con conseguenze nel breve e nel lungo periodo.

Gli organismi più colpiti sono gli erbivori e gli uccelli, costretti a migrare per trovare il cibo, e conseguentemente i relativi predatori naturali.

Le specie animali presenti nel sottosuolo possono salvarsi, dal calore sprigionato durante la combustione del bosco, grazie all’effetto isolante del terreno, ma spesso, a causa dei gas sprigionati dalle fiamme, non riescono a sopravvivere.

Tra le alterazioni più importanti dovute agli incendi vi è senza dubbio il problema dell’eliminazione dei bioriduttori del suolo che provoca gravi scompensi nel ciclo di degradazione della lettiera.

Le formazioni forestali non completamente distrutte dalle fiamme, possono essere aggredite con maggiore facilità dai patogeni che riescono a superare i meccanismi di difesa delle piante indebolite, provocandone la graduale necrosi dei

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Gli effetti del fuoco non interessano la sola sfera biotica, ma anche quella abiotica, infatti, a seguito di un incendio su un’area montuosa, o collinare, si può verificare l’erosione del versante messo a nudo dal rogo, soprattutto nei periodi di precipitazioni violente.

Negli ecosistemi poveri il fenomeno incendio, visto come agente ossidante della sostanza organica, è un utile elemento per arricchire il terreno di sali minerali, pertanto gioca un ruolo ecologico fondamentale. Da questo punto di vista, sono di fondamentale importanza la frequenza con cui il fuoco percorre una stessa area e l’intensità dell’evento. Nei casi di combustioni periodiche, gli ecosistemi perfettamente adattati sono in grado di ricostituirsi in tempi relativamente brevi. Tuttavia, sotto la pressione delle attività umane, gli incendi hanno spesso raggiunto dimensioni catastrofiche e frequenze così alte da non provocare alcun beneficio per il bosco. Gli incendi frequenti possono, infatti, esaurire gradualmente le banche di seme del terreno e sono perciò più dannosi nei confronti delle specie vegetali che si propagano unicamente per via sessuale.

Le alte temperature del fuoco, invece, possono avere effetti negativi sulle proprietà fisico – chimiche del suolo. In alcuni casi il calore è così elevato da cambiare la struttura del terreno rendendolo meno permeabile e quindi più esposto ai processi erosivi.

7.2. La ripresa della vegetazione dopo gli incendi

Nella regione mediterranea le formazioni forestali si presentano secondo diverse tipologie derivanti da varie combinazioni di specie arboree e arbustive.

L’intensità e pericolosità degli incendi sono collegate al tipo di vegetazione, ed aumentano con l’incremento della partecipazione di arbusti alla cenosi forestale, in particolare dei cisti: specie altamente infiammabili e invadenti, non appetite dal bestiame.

Nei boschi di latifoglie in purezza (Quercus suber, Quercus ilex, Quercus

pubescens) sono pertanto più limitate le possibilità di fuochi altamente dannosi. Inoltre,

essi sono in grado di riprendere l’aspetto naturale in tempi relativamente brevi. Nelle sugherete, ad esempio, se non vi sia stata praticata di recente l’asportazione della corteccia, la ricostituzione dell’apparato fogliare avviene dopo uno o due mesi dal

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passaggio del fuoco, mentre possono bastare due anni per il totale ritorno del soprassuolo. Se vi è stata la decortica, le sughere incendiate reagiscono emettendo polloni dalla base del fusto.

Seppure in un contesto di grande variabilità i ritmi fenologici presenti nelle specie mediterranee possono essere ricondotti a tre modelli principali (De Lillis & Fontanella, 1992):

• specie sclerofille sempreverdi (Arbutus unedo, Phillyrea latifolia, Pistacia

lentiscus, Ruscus aculeatus) che limitano la loro attività di accrescimento a

un breve periodo antecedente quello in cui aumenta l’aridità. Un modello simile riguarda le specie (Erica arborea, Quercus ilex) che cessano di produrre nuove foglie e rami durante la stagione più secca e riprendono l’attività vegetativa dopo le prime piogge

• specie decidue nel periodo arido (Calicotome villosa) la cui strategia per evitare l’aridità si basa su due periodi vegetativi interrotti da una fase senza foglie

• specie semidecidue (Cistus monspeliensis), con foglie che adottano una strategia intermedia con accrescimenti durante le stagioni aride e fredde.

Le strategie che le specie mediterranee hanno sviluppato per sopravvivere all’aridità estiva possono essere classificate in due categorie:

1. la resistenza, offerta dalla pianta mediante un insieme di specifici meccanismi volti ad evitare l’insorgere di stress;

2. la tolleranza, che permette alla pianta di svolgere normalmente le sue funzioni vitali anche in situazioni di carenza idrica.

Le prime sono, ad esempio, la caduta delle foglie, la riduzione dell’apparato vegetativo e la riduzione della traspirazione per mezzo della chiusura stomatica.

Fra le seconde sono da annoverare, invece, i vari meccanismi di opposizione alla disidratazione attraverso l’attivazione di proprietà protoplasmatiche la cui discussione esula dagli scopi introduttivi di questo paragrafo.

Uno dei più interessanti, e a lungo studiati, adattamenti al clima mediterraneo è rappresentato dalla sclerofillia, ossia l’ispessimento delle foglie, generalmente piccole, che si presentano coriacee.

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La sclerofillia può essere considerata una risposta adattativa al deficit idrico estivo, tipico dei climi mediterranei, tuttavia va osservato che le specie sclerofille non sono esclusive di tali ambienti.

La sclerofillia è inoltre considerata come un fenomeno adattativo secondario, legato alle condizioni di scarsa fertilità dei suoli su cui questa vegetazione si è evoluta, soprattutto in relazione alle carenze di fosforo e di azoto (ANPA, 2001).

La struttura fogliare delle sclerofille mediterranee è caratterizzata da cuticole spesse ed un mesofillo molto denso, formato da più strati di tessuto a palizzata. In tal modo gli spazi intercellulari sono scarsi, e questo implica una certa difficoltà negli scambi gassosi. Ciò protegge la foglia da un’eccessiva traspirazione ma, allo stesso tempo, ne riduce l’efficienza fotosintetica e, in ultima analisi, la capacità di crescita.

In condizioni di carenza idrica prolungata si può avere una vera e propria condizione di ‘riposo’ estivo. Spesso le sempreverdi bloccano ogni attività durante la stagione caldo – arida, per riprenderla in autunno o nel corso dell’inverno, infatti, le giornate miti e soleggiate, abbastanza frequenti negli inverni mediterranei, sono sufficienti ad indurre la funzione fotosintetica.

Le piante mediterranee, inoltre, sviluppano spesso un apparato radicale molto esteso e profondo, che consente di assorbire acqua dal suolo anche in situazioni di forte aridità, cosicché esse riescono a svolgere la fotosintesi in presenza di potenziali idrici fortemente negativi nelle foglie, sebbene in queste condizioni siano soggette ad un forte consumo delle riserve di amido.

Per spiegare compiutamente i fenomeni legati al dinamismo della vegetazione mediterranea, oltre a condizioni di natura strettamente climatica, devono essere presi in considerazione anche altri fattori ambientali. Tra questi il fuoco è quello che ha maggiore importanza.

Le formazioni arbustive del Mediterraneo, infatti, sono state da sempre soggette ad incendi ricorrenti (Naveh, 1975), prevalentemente di origine antropica, che hanno concorso marcatamente a determinare le caratteristiche del paesaggio. Nonostante ciò il fondamentale fattore ecologico costituito dal fuoco ed i meccanismi che la vegetazione impiega per la propria rigenerazione sono stati poco studiati (Trabaud & De Chanterac, 1985).

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La ripresa della vegetazione mediterranea in seguito al passaggio del fuoco si basa fondamentalmente su due meccanismi di sopravvivenza:

1. la capacità di alcune specie di ricostituire la parte aerea, anche grazie alle riserve rimaste nella zona ipogea non danneggiata dall’incendio

2. la germinazione dei semi che si trovano nel terreno, favorita dalle alte temperature (Mazzoleni, 1989; Mazzoleni & Pizzolongo, 1990).

Questi due modelli consentono il veloce recupero delle comunità, le quali tendono a ricreare le precedenti composizioni e strutture vegetazionali, sempre che la frequenza ed intensità degli incendi non sia stata troppo elevata.

Gli incendi molto frequenti ed intensi, infatti, possono esaurire gradualmente le “Banche” di seme del terreno, risultando ancor più dannosi nei confronti di quelle specie che si propagano unicamente per via sessuale.

In genere i fuochi frequenti di bassa intensità, tuttavia, promuovono la germinazione più di quanto avvenga con incendi sporadici, ma particolarmente distruttivi (Tyler, 1995).

Tra le specie che, dopo il fuoco, ricorrono alla rigenerazione vegetativa della parte aerea, anche se con marcate differenze di capacità pollonifera tra specie e tra ecotipi (Arianoutsou – Faraggitaki, 1984), si annoverano (vedi tabelle 7.1 e 7.2):

Arbutus unedo, Erica arborea, Myrtus communis, Pistacia lentiscus (Mazzoleni &

Pizzolongo, 1990), nonché il genere Quercus.

Le figure 7.1 e 7.2 sono fotografie scattate in data 20 Febbraio 2005 sui Monti Pisani in località Vicopisano, in cui sono ancora evidenti i danni prodotti dall’incendio del 21 Giugno 2004 che ha bruciato circa 15 ha di pineta di pino marittimo arrivando a lambire la pista forestale visibile in alto a destra.

A distanza di poco meno di otto mesi dall’evento, tra le specie pioniere che hanno iniziato a ricolonizzare il versante, il corbezzolo e l’erica sono quelle maggiormente sviluppate, si osservi in particolare l’elevata capacità pollonifera del corbezzolo (Arbutus unedo) rispetto alle altre formazioni presenti.

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Figura 7.1: 20 Febbraio 2005, Monte Pisano; pineta di pino marittimo bruciata nell’incendio del

21 Giugno 2004.

Figura 7.2: 20 Febbraio 2005, Monte Pisano; le specie pioniere pollonifere presenti nella scena

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Il fuoco può incidere direttamente sulla germinazione attraverso: il calore, il fumo, le ceneri, le bruciature provocate ai tegumenti seminali e le sostanze volatili che si sprigionano durante l’incendio; oppure, indirettamente, tramite l’alterazione delle condizioni ambientali dei siti (Baskin & Baskin, 1998).

A tutt’oggi rimane difficile studiare il fenomeno in base a simulazioni di laboratorio perché, in relazione al tipo di terreno, la temperatura durante l’incendio può variare fortemente nel raggio di pochi centimetri. In taluni casi, infatti, dai circa 500 °C superficiali si passa a quasi 50 °C a 2 cm di profondità. La distribuzione dei semi nel profilo del terreno, invece, è generalmente del tutto casuale.

Tra le piante elencate nella tabella 3, Calicotome villosa, Cistus albidus, Cistus

incanus, Cistus monspeliensis, Cistus salvifolius e Rosmarinus officinalis vengono

completamente bruciate dagli incendi e si affidano alla sola propagazione per seme. Nel caso del genere Cistus l’effetto delle alte temperature sul seme è stato oggetto di studi approfonditi (Aronne & Mazzoleni 1989; Corral et al. 1989; Aronne, 1997) che hanno dimostrato come l’impermeabilità dei duri tegumenti seminali, in particolare di quello interno, inibisca la germinazione. Il calore, provocando la spaccatura di tali strutture, consente l’assorbimento dell’acqua e quindi favorisce indirettamente la germinazione.

La sperimentazione, inoltre, ha evidenziato che nel genere Cistus l’integrità dei tegumenti viene meno naturalmente con l’invecchiare del seme (Aronne, 1997), perciò, in assenza di incendi, la germinazione può comunque avvenire dopo alcuni anni dalla disseminazione. Questo potrebbe spiegare l’abilità dei cisti nel colonizzare campi abbandonati non soggetti a fuochi periodici.

Le specie con adattamenti agli incendi sono dette pirofite (Bernetti, 1995) e possono essere distinte in passive o attive secondo la seguente tipologia:

pirofite passive, mostrano adattamenti che consentono la sopravvivenza dell’individuo, come ad esempio la corteccia ispessita e suberizzata della quercia da sughero di cui è possibile osservarne un esempio nella figura 7.3.

pirofite attive vegetative, si rigenerano dopo gli incendi tramite polloni, spesso radicali, tipici dei generi Erica e Arbutus

pirofite attive generative, a seguito dei danni prodotti dal fuoco si possono rinnovare in massa per seme, come accade nelle specie Pinus halepensis,

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La figura 7.3 è una fotografia del tronco di una quercia da sughero, scattata in data 13 Febbraio 2005, in cui è evidente la carbonizzazione della corteccia di sughero che si presenta più assottigliata e fessurizzata, rispetto a quella sovrastante interessata solo parzialmente dalle fiamme dell’incendio del 4 Agosto del 2001.

Le pirofite attive sono spesso anche fortemente infiammabili e quindi capaci di mantenere la predisposizione all’incendio delle cenosi in cui abbondano (Bernetti, 1995). L’infiammabilità è associata alla presenza di terpeni ed altre sostanze aromatiche che, d’altra parte, rendono la pianta inappetibile e quindi resistente al pascolamento.

Le pirofite attive, inoltre, sono in molti casi dotate di semi piuttosto leggeri, provvisti di ampie ali come accade in alcuni pini, facilmente trasportabili dal vento e quindi in grado di colonizzare le aree bruciate. In queste specie la germinazione del seme e la sopravvivenza dei semenzali sono spesso favorite dal microclima determinato dal fuoco, in particolare per quanto riguarda la grande disponibilità di luce.

Figura 7.3: corteccia di una quercia da sughero bruciata nell’incendio 01_08; la fotografia è stata

realizzata il 13 Febbraio 2005 nell’ANPIL Monte Castellare a San Giuliano Terme.

Nel pino d’Aleppo (Pinus halepensis) (vedi figura 7.10) si deve sottolineare la presenza di “Coni serotini”, cioè strobili la cui apertura è resa possibile soltanto da alte

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temperature che, distruggendo il rivestimento di resina, permettono alle scaglie di aprirsi e di rilasciare i semi (Piussi,1994).

Dopo la germinazione, le esigenze dei semenzali possono determinare la distribuzione della specie e le caratteristiche delle formazioni vegetali.

Euphorbia dendroides (vedi tabella 7.3), ad esempio, in seguito agli incendi

ricorre sia alla ricostituzione della chioma, preferibilmente in individui giovani, sia alla propagazione per seme. In presenza di adeguati livelli idrici nel terreno, i semi di questa specie germinano indipendentemente dall’intensità luminosa. In seguito, la piena esposizione al sole è indispensabile alla sopravvivenza dei semenzali.

Se si verifica un lungo periodo senza incendi, lo sviluppo dei semi può essere minacciato dall’ombra provocata dalla chiusura delle chiome della vegetazione circostante. Questo comportamento potrebbe spiegare l’assenza della specie in zone dove la formazione a macchia è diventata densa, anche se inizialmente la copertura del terreno dovuta a Euphorbia dendroides era consistente (Mazzoleni & Pizzolongo, 1990).

I terpeni sembrano rivestire un importante ruolo nel fenomeno degli incendi e non soltanto perché favoriscono la combustione (ANPA, 2001). Tali molecole sono costituite da unità isopreniche e, poiché ciascuna di queste unità si compone di 5 atomi di carbonio, ogni terpene può essere formato da 5 o da multipli di 5 atomi di carbonio. Spesso sono volatili, infiammabili e notevolmente odorosi, infatti, costituiscono i principali componenti degli olii essenziali accumulati nei vacuoli dei tessuti dei fiori, frutti, radici, rizomi e semi profumati (Gerola, 1998).

Tra i metaboliti secondari dei terpeni, i terpenoidi costituiscono il più vasto gruppo di composti vegetali e risultano particolarmente diffusi nelle conifere e in diverse piante aromatiche ricche di oli essenziali tipiche della macchia mediterranea (ANPA, 2001).

Negli ultimi anni numerose indagini hanno messo in evidenza il significato ecofisiologico di molti composti terpenici e, in particolare, il loro ruolo fondamentale nelle allelopatie, nelle relazioni patogeno, insetto e nei rapporti pianta-pianta (Michelozzi, 1997).

I terpeni favoriscono la combustione inoltre, il fuoco, distruggendo tali sostanze accumulate nel terreno e nel fogliame caduto, rende possibile l’insediamento di erbacee annuali.

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Successivamente l’area può essere colonizzata da arbusti aromatici che determinano condizioni avverse per altre specie (Muller et al. 1964; Muller, 1966).

L’azione inibitoria dei terpeni contenuti in arbusti aromatici quali: Salvia

leucophylla, Salvia apiana, Salvia mellifera, Artemisia californica) è stata ben descritta

(Muller et al. 1964; Muller, 1966) per le zone costiere del Sud della California, caratterizzate da un clima e una vegetazione di tipo mediterraneo.

Vaste aree californiane sono coperte da Salvia leucophylla e Artemisia

californica. Queste specie sono distribuite a macchie molto simili alle nostre formazioni

di Cistus e Rosmarinus ed esercitano un’azione negativa sullo sviluppo radicale di plantule di graminacee e cucurbitacee (come il Triticum sativum, o frumento, e la

Cucurbita pepo, o zucca, rispettivamente), nonché sulla germinazione dei loro semi.

L’effetto negativo dei terpeni si estende anche a semi e plantule delle stesse specie che le producono e pertanto l’autotossicità dovrebbe svolgere un ruolo significativo nella dinamica delle comunità vegetali.

Il fumo ed i gas prodotti durante l’incendio possono essere fattori influenti per la germinazione di alcune specie. Evidenze positive in tal senso sono riportate da vari autori (Van de Ventre & Esterhuizen, 1988; Brown et al. 1993; Landis, 2000) per l’erica e altri generi presenti nell’ambito del Fynbos sudafricano, affine da un punto di vista fisionomico alla nostra macchia mediterranea (vedi figura 7.4). In queste formazioni il fumo costituisce un messaggero chimico (quale l’etilene e il gas ammoniacale) che di per sé stimola la germinazione dei semi.

L’effetto stimolante determinato da gas ossidanti presenti nel fumo (Keeley & Fotheringham, 1998) è stato osservato anche nell’ambito della vegetazione del Chaparral californiano sulla germinazione di alcune specie annuali che s’insediano dopo l’incendio (vedi figura 7.5).

Una positiva influenza del fumo è stata evidenziata per alcune rutacee, mirtacee, cupressacee e timeleacee dell’Australia Occidentale normalmente di difficile germinazione (Dixon et al. 1995).

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Figura 7.4: il Fynbos sudafricano (http://www.plantzafrica.com).

Figura 7.5: il Chaparral californiano (http://www.desertmuseum.org).

Nelle tabelle 7.1, 7.2 e 7.3 sono riassunte le principali caratteristiche ecofisiologiche di alcune specie della flora mediterranea che vegetano in luoghi soggetti ad incendi e pascolo: nella tabella 7.1 e 7.2 si fa riferimento alle specie dotate di buona capacità pollonifera a cui il fuoco distrugge soltanto la parte epigea, mentre nella tabella 7.3 vengono prese in considerazione quelle totalmente distrutte dal fuoco.

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SPECIE CARATTERISTICHE ECOFISIOLOGICHE DELLE PIANTE ED EFFETTI DEL FUOCO

Anagyris fetida

• spoglia in estate, vegeta da autunno a primavera • la parte aerea viene praticamente distrutta dal

fuoco

• ottima capacità pollonifera

• dissemina elevati quantitativi di seme di facoltà germinativa media

• non appetibile dal bestiame ovino e caprino

Arbutus unedo

• i rami vengono praticamente distrutti dal fuoco • ottima capacità pollonifera

• l’incendio non influisce sulla disseminazione (perché i frutti maturano e si disseminano quando il rischio di fuoco è minimo)

• seme con facoltà germinativa medio – alta • fogliame molto appetibile per ovini e caprini

Ceratonia siliqua

• i rami vengono praticamente distrutti dal fuoco • ottima capacità pollonifera

• l’incendio non influisce sulla disseminazione • seme con facoltà germinativa medio – alta • fogliame di appetibilità soddisfacente

• frutto molto appetibile dal bestiame, specialmente bovino ed equino

Erica arborea

• altamente combustibile, la parte aerea viene praticamente distrutta dal fuoco

• ottima capacità pollonifera

• dissemina elevati quantitativi di seme di facoltà germinativa medio – bassa

• fogliame appetibile dal bestiame ovino e caprino, specialmente gli apici vegetativi

Myrtus communis

• altamente combustibile, la parte aerea viene praticamente distrutta dal fuoco

• ottima capacità pollonifera

• dissemina elevati quantitativi di seme di facoltà germinativa medio – alta

• fogliame discretamente appetibile per ovini e caprini, soprattutto in autunno-inverno

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SPECIE CARATTERISTICHE ECOFISIOLOGICHE DELLE PIANTE ED EFFETTI DEL FUOCO

Olea oleaster

• i rami vengono praticamente distrutti dal fuoco • ottima capacità pollonifera

• l’incendio non influisce sulla disseminazione • seme con facoltà germinativa media

• fogliame appetibile dal bestiame ovino e caprino

Phillyrea angustifolia Phillyrea latifoglia*

• altamente combustibili, la parte aerea viene praticamente distrutta dal fuoco

• ottima capacità pollonifera

• disseminano elevati quantitativi di seme di facoltà germinativa medio – bassa

• fogliame poco appetibile

Pistacia lentiscus

• i rami vengono praticamente distrutti dal fuoco • ottima capacità pollonifera

• l’incendio non influisce sulla disseminazione • seme con facoltà germinativa medio – alta • fogliame non appetibile dal bestiame , eccetto

quello caprino in autunno-inverno

• frutti maturi appetibili dal bestiame ovino e caprino

Quercus ilex

• i rami vengono praticamente distrutti dal fuoco • ottima capacità pollonifera

• l’incendio non influisce sulla disseminazione • seme con facoltà germinativa medio – alta • fogliame appetibile per bovini, ovini e caprini,

soprattutto in autunno-inverno

Quercus suber

• i rami di diametro inferiore a 2-3 cm vengono distrutti dal fuoco, quelli più grandi sono sufficientemente protetti dal sughero • ottima capacità pollonifera

• l’incendio non influisce sulla disseminazione • seme con facoltà germinativa medio-alta • fogliame appetibile per bovini, ovini e caprini,

soprattutto in autunno-inverno

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SPECIE CARATTERISTICHE ECOFISIOLOGICHE DELLE PIANTE ED EFFETTI DEL FUOCO

Calicotome villosa

• solo i rami più esili vengono distrutti, la struttura legnosa rimane intatta

• non ha capacità pollonifera

• l’apparato radicale è piuttosto superficiale

• dissemina elevati quantitativi di seme ad alta facoltà germinativa

• appetibile dal bestiame ovino e caprino

• vegeta in suoli molto impoveriti e percorsi continuamente dagli incendi

Cistus incanus Cistus monspeliensis*

Cistus salvifolius

• apparato radicale superficiale e poco sviluppato

• fogliame ricco di sostanze facilmente infiammabili che fanno sì che la parte aerea bruci

completamente al passaggio del fuoco

• disseminano elevati quantitativi di seme ad alta facoltà germinativa

• il caldo, provocando la spaccatura dei tegumenti, consente l’assorbimento di acqua e quindi favorisce indirettamente la germinazione

• vegetano in suoli degradati e percorsi continuamente dagli incendi

• tranne in casi estremi, non appetibili dal bestiame ovino e caprino

Euphorbia dendroides

• viene completamente distrutta per l’alta combustibilità del legno

• non ha capacità pollonifera

• apparato radicale piuttosto superficiale

• dissemina elevati quantitativi di seme ad alta facoltà germinativa

• non appetibile dal bestiame ovino e caprino

• vegeta prevalentemente su litosuoli

Helichrysum microphyllum* Lavandula stoechas

• fogliame ricco di sostanze facilmente infiammabili che fanno sì che la parte aerea bruci

completamente al passaggio del fuoco

• disseminano elevati quantitativi di seme di alta facoltà germinativa

• poco appetibili dal bestiame ovino e caprino

• vegetano in ambienti aperti e degradati

Juniperus phoenicea

• i rami terminali sono ricchi di sostanze aromatiche volatili che favoriscono la combustione

• non hanno capacità pollonifera

• disseminano elevati quantitativi di seme di bassa facoltà germinativa

• fogliame poco appetibile dal bestiame ovino e caprino

• vegetano prevalentemente su litosuoli

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7.3. La vegetazione mediterranea interessata dagli incendi campionati

I rilevamenti di campagna nelle due aree colpite dagli incendi 01_07 e 01_08 sono stati effettuati in data 13 Febbraio 2005 e 23 Gennaio 2005 rispettivamente.

Le fotografie acquisite in entrambi i siti hanno la finalità di mostrare lo stato della vegetazione a distanza di circa tre anni e sei mesi dagli eventi di cui sopra.

In questo paragrafo si è cercato di descrivere le caratteristiche più importanti delle principali specie mediterranee, focalizzando l’attenzione su quelle rilevate durante le escursioni sul campo:

• le formazioni miste a prevalenza di leccio e sughere • le pinete in cui il pino marittimo era dominante • il pino d’Aleppo e quello domestico

La più tipica ed evoluta delle formazioni mediterranee è senza dubbio la foresta sempreverde dominata dal leccio (Quercus ilex), presente in tutto il bacino del Mediterraneo.

Alle leccete spesso partecipa o si sostituisce la sughera (Quercus suber). Le sugherete sono prevalentemente di origine colturale, infatti, la sughera, che è specie eliofila, tende a formare boschi misti, tuttavia si ritrova spesso in formazioni pure in quanto coltivata per la sua corteccia da cui si ricava il sughero, un materiale molto versatile e ottimo isolante termico.

Le figure 7.6 e 7.7 sono fotografie scattate, il giorno 13 Febbraio 2005, nella ANPIL Monte Castellare a San Giuliano Terme, dove il 26 Luglio 2001 si è verificato l’incendio 01_07 (vedi capitolo 4).

Nella figura 7.6 è possibile osservare delle sughere, la cui corteccia presenta evidenti segni di carbonizzazione, intervallate da lecci dalla caratteristica pagina fogliare inferiore di colore grigio, allo stadio arbustivo e molto ramificati.

La figura 7.7 ritrae alcune querce da sughero miste a leccio, si osservi che la vegetazione, ha ricolonizzato quasi completamente l’area incendiata. I fusti delle sughere, infatti, hanno resistito all’impatto delle fiamme permettendo alla maggioranza delle piante di recuperare in tempi relativamente brevi, tuttavia alcuni di questi alberi sono andati perduti a causa del rogo.

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Figura 7.6: fotografia dell’area colpita dall’incendio 01_07, scattata il 13 Febbraio 2005,

raffigurante le sughere dalla corteccia carbonizzata e folti arbusti di leccio.

Figura 7.7: le formazioni miste presenti al 13 Febbraio 2005 nell’ANPIL Monte Castellare a San

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L’altra formazione boschiva, che ricorre frequentemente nei Paesi mediterranei, è la macchia: una comunità di specie arbustive molto densa, caratterizzata da una composizione floristica simile a quella delle foresta sempreverde, anche se mancano gli individui arborei.

La macchia si può originare dalla foresta sempreverde a seguito di azioni di disturbo antropico come l’incendio reiterato, il pascolo o i tagli frequenti (macchia secondaria) o può essere il risultato di una combinazione di fattori climatici, come ad esempio l’azione del vento, che impediscono alla cenosi un’evoluzione verso strutture propriamente forestali (macchia primaria).

La macchia mediterranea si differenzia in numerose categorie, in base all’altezza (macchia alta e macchia bassa), alla densità ed alla composizione specifica.

La macchia bassa a erica, cisti e lavanda, deriva da una forma di degrado meno estrema rispetto a quella propria della gariga, tale copertura si sviluppa su terreni acidi, poveri di nutrienti e frequentemente percorsi da incendi.

La gariga (da garrigue, il nome francese della quercia spinosa) rappresenta uno degli aspetti più poveri della macchia ed è caratterizzata da vegetazione bassa e sporadica con larghi tratti di terreno nudo affiorante.

La figura 7.8, rilevata nell’area dell’ANPIL Monte Castellare, il 13 Febbraio 2005, mostra il fianco sud – est della collina caratterizzato da una copertura a macchia bassa con prevalenza di cisti ed erica. Nella parte centrale della figura è possibile osservare l’oliveto frapposto alle formazioni miste a prevalenza di leccio, probabilmente preesistenti. La vegetazione, anche in questo caso, appare aver ricolonizzato l’area pressoché in maniera completa anche se le piante non hanno raggiunto ancora le dimensioni tipiche degli stadi più maturi. Questo fatto è ancor più evidente nelle specie pollonifere (lentisco, fillirea, erica) dove sono rimasti integri i vecchi rami carbonizzati, a tal proposito si osservi la figura 7.9.

Dai dati forniti dal Corpo Forestale dello Stato integrati con la testimonianza raccolta dai residenti è stato possibile ricostruire la dinamica dell’incendio e la superficie effettivamente interessata dal fuoco: le fiamme hanno avuto inizio a livello della Strada Provinciale Lungomonte che da San Giuliano giunge ad Asciano, e hanno interessato praticamente tutto il versante stringendosi quasi ad anello attorno alle mura della casa di colore giallo visibile nella figura 7.8.

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Figura 7.8: versante sud – est dell’ANPIL Monte Castellare; la vegetazione a macchia bassa,

scendendo di quota, cede il posto alle formazioni miste a prevalenza di leccio.

Figura 7.9: scorcio della vegetazione arbustiva del Monte Castellare danneggiata dall’incendio

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Un’altra formazione tipica della vegetazione mediterranea è il bosco di pino, caratterizzato da copertura poco densa e discontinua per cui la luce arriva abbastanza intensa nello strato inferiore che risulta costituito perlopiù da cespugli della macchia.

I pini, essendo specie eliofile e a rapido accrescimento, generalmente riescono ad insediarsi con maggiore facilità laddove esiste vegetazione bassa e sporadica, come ad esempio quella che si rigenera a seguito degli incendi.

Le pinete, infatti, in natura rappresentano lo stadio evolutivo iniziale della vegetazione mediterranea, ma anche il primo passo verso la colonizzazione di terreni nudi o devastati dal passaggio del fuoco.

Il pino d’Aleppo colonizza i terreni più difficili e si ritrova associato anche alle forme più degradate della macchia. La sua diffusione viene, entro certi limiti, favorita dagli incendi.

La figura 7.10 è una fotografia scattata il 13 Febbraio 2005, nell’ANPIL Monte Castellare, in una piccola radura raggiunta dal fuoco del 26 Luglio 2001. Lo spazio, chiuso su due lati da pareti di rocce calcaree nude, è caratterizzato da un suolo dallo spessore molto ridotto e rocce affioranti.

Nella figura 7.10 sono presenti dei pini d’Aleppo e altre essenze come la fillirea latifoglia, il lentisco, il Cistus monpeliensis e il Cistus salvifolius.

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Il Pino marittimo è la specie meno termo – xerofila fra i pini mediterranei e può spingersi fino alla media collina.

La figura 7.11 acquisita il 23 Gennaio 2005 alle Cerbaie, in località Staffoli – Montefalcone, tra i Comuni di Santa Maria a Monte e Castelfranco di Sotto, mostra una porzione della pineta bruciata nell’incendio del 4 Agosto 2001.

Gli alberi presenti nella scena sono quasi tutti pini marittimi ad eccezione di qualche specie appartenente al genere Quercus come la roverella (Quercus pubescens), comune negli ambienti collinari e adattabile a varie tipologie di terreni tra cui quelli argillosi e sabbiosi, essa inoltre si presta per colonizzare ambienti denudati.

La vegetazione più bassa comprende arbusti quali il corbezzolo, l’erica, la ginestra, la fillirea e il lentisco e alcuni piccoli pini marittimi probabilmente impiantati per accelerare il recupero della pineta preesistente.

La figura 7.12, è una fotografia scattata il 23 Gennaio 2005 nella pineta delle Cerbaie, la scena mostra un dettaglio delle cortecce di pino marittimo annerita dalle fiamme. La traccia lasciata dal fuoco sui fusti suggerisce che, probabilmente, in quella porzione di bosco l’incendio ha colpito con minor violenza, procedendo ad un livello prossimo al terreno. Nel sottobosco sono visibili specie che hanno ricolonizzato il terreno tra cui il lentisco, il corbezzolo e i cisti, alternate alle fronde residue delle felci.

Il pino domestico, infine, è l’altra specie tipica delle nostre pinete insieme al pino marittimo, tuttavia le formazioni litoranee che caratterizzano prevalentemente la pianura pisana nord-occidentale sono di impianto artificiale.

Nuclei di pino domestico furono introdotti già alla fine del XVI secolo dai Medici, poi dai Lorena, in San Rossore. Anche il pino marittimo pur essendo autoctono del nostro Paese, fu ampiamente utilizzato per riforestare le zone più prossime alla costa, dove il pino domestico mostrava segni di sofferenza (Garbari, 2003).

Gli utilizzi principali a cui si presta il pino domestico (Pinus pinea) sono i seguenti:

• il commercio dei pinoli

• la valorizzazione paesistica di alcune zone • la protezione della fascia litoranea

Quest’ultimo punto riveste notevole importanza per ridurre gli effetti negativi dell’inquinamento marino da tensioattivi, sulla vegetazione più interna. Tali sostanze

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derivano dai detergenti che si ritrovano in grande quantità nelle acque reflue provenienti dagli scarichi civili e industriali.

I tensioattivi vengono trasportati dai venti di libeccio insieme all’areosol marino, e una volta depositati sulle foglie delle piante, sono in grado di provocare gravi danni permanenti.

In alcuni punti della pineta delle Cerbaie sono stati osservati gruppi consistenti di pini marittimi completamente spogli e privi di evidenti segni di carbonizzazione. Tale specie, infatti, è ospite del parassita virulento Matsococcus feytaudi, una cocciniglia appartenente a un gruppo di insetti fitomizi o succhiatori di linfa vegetale, che vive esclusivamente sulla specie Pinus pinaster dislocandosi nella parte viva della corteccia da cui succhia la linfa elaborata. Le piante infestate manifestano ingiallimenti della vegetazione, deperimenti vegetativi con filloptosi intense (dall’autunno alla primavera) e disseccamenti diffusi sul cimale.

Figura 7.11: pini marittimi e roverelle colpiti nell’incendio 01_08 la fotografia è stata scattata il 23

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Figura 7.12: dettaglio di una porzione di pineta delle Cerbaie; la fotografia è stata scattata in data

23 Gennaio 2005, a quasi tre anni e sei mesi dall’incendio.

Le avversità naturali come quella della cocciniglia del pino marittimo, o antropiche dovute all’inquinamento da tensioattivi rappresentano solo due esempi di fattori di stress, a cui è sottoposta la vegetazione. Questi eventi possono interferire nell’analisi delle firme spettrali degli incendi, alterando i valori di riflettanza soprattutto nelle regioni spettrali dell’infrarosso medio, particolarmente sensibile al contenuto d’acqua nei tessuti fogliari.

I rilevamenti di campagna effettuati il 23 Gennaio 2005 e il 13 Febbraio 2005 nelle aree colpite dagli incendi 01_07 e 01_08 rispettivamente, hanno permesso di concludere che la vegetazione arbustiva pioniera è rappresentata principalmente da specie pollonifere quali erica, lentisco, mirto e corbezzolo. Insieme a queste sono presenti anche il cisto, l’euforbia e il ginestrone (Ulex europaeus), arbusti totalmente distrutti dal fuoco, ma in grado di ricolonizzare il suolo tramite semi dell’elevata capacità germinativa.

Tra le essenze arboree riconosciute nelle zone di cui sopra, meritano menzione il leccio e la sughera in particolare. Il primo produce nuovi rami dai polloni sopravvissuti alle fiamme. La quercia da sughero, grazie alla protezione fornita dalla corteccia

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suberificata non subisce danni eccessivi, negli incendi bassi di moderata intensità, per cui è in grado di riprendersi velocemente.

Le pinete osservate alle Cerbaie il 23 Gennaio 2005, a prevalenza di pino marittimo, sono costituite da alberi ad alto fusto che in molti casi sono scampati alla distruzione perché non investiti completamente dalle fiamme. Le chiome di queste piante presentano le tipiche foglie aghiformi e gli strobili. Laddove il fuoco ha interessato tutto lo spessore della pineta, sono rimaste tracce di fusti e rami carbonizzati, mentre il suolo è stato ricoperto dalla vegetazione bassa di tipo arbustivo già citata in questo paragrafo.

In conclusione l’analisi sul campo ha dimostrato la validità dell’analisi spettrale effettuata nel capitolo 5, e l’attendibilità della valutazione del recupero della vegetazione, mediante gli indici analizzati nel capitolo 6.

In entrambe le regioni di interesse sono evidenti i danni prodotti dalle fiamme, in particolar modo sul Monte Castellare. In questa area la vegetazione ad alto fusto, rappresentata dal leccio e dalla sughera, appare in netto recupero. Le sughere scampate al fuoco hanno prodotto nuove foglie, mentre i lecci, in prevalenza bruciati, stanno ricolonizzando l’area attraverso i polloni, ma rispetto alle sughere sono più bassi.

La vegetazione arbustiva della gariga (Monte Castellare) ha ricolonizzato l’area pressoché in maniera completa, anche se le piante non hanno raggiunto ancora le dimensioni tipiche degli stadi più maturi. Questo fatto è ancor più evidente nelle specie pollonifere (lentisco, fillirea, erica) dove i vecchi rami carbonizzati, rimasti integri, (figura 7.8) risaltano le differenze tra lo stato d’equilibrio e quello a tre anni e sei mesi dall’incendio.

A conferma di quanto suddetto l’analisi spettrale e gli indici di vegetazione hanno fornito i seguenti risultati:

• riflettanza nel NIR leggermente più bassa rispetto a quella iniziale (15 Febbraio 2001)

• indicatore normalizzato di recupero di poco inferiore a quello di effetto per tutti gli indici di vegetazione

L’incendio delle Cerbaie ha interessato una vasta porzione di territorio (170 ha). L’esplorazione della maggior parte di questa zona ha permesso di concludere che la vegetazione bruciata nel 2001 si è rigenerata quasi completamente. Il sottobosco si è riformato, e negli spazi compresi tra i nuclei di pino marittimo scampati alla distruzione

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sono presenti specie arbustive quali: il ginestrone, la ginestra dei carbonai, il corbezzolo, il cisto e l’erica.

I dati spettrali e gli indicatori IEN e IRN, basati sui VIs del capitolo 6, confortano suddette osservazioni. La riflettanza a tre anni dall’incendio, infatti, si sovrappone a quella rilevata prima di tale evento in tutte le bande dello spettro ETM. L’indicatore di recupero, inoltre, risulta uguale o leggermente più alto di quello di effetto, per tutti gli indici di vegetazione esaminati.

Figura

Figura 7.1: 20 Febbraio 2005, Monte Pisano; pineta di pino marittimo bruciata nell’incendio del
Figura 7.3: corteccia di una quercia da sughero bruciata nell’incendio 01_08; la fotografia è stata
Figura 7.4: il Fynbos sudafricano (http://www.plantzafrica.com).
Tabella 7.1: specie mediterranee parzialmente distrutte dal fuoco.
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