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Competenze Trasversali: Impatto delle Attività Extra-Lavorative sullo Sviluppo delle Competenze

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Academic year: 2021

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(1)

Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex

D.M. 270/2004)

In Economia e Gestione delle Aziende

Tesi di Laurea

Competenze Trasversali:

l’impatto delle attività

extra-lavorative sullo sviluppo delle

Competenze

Relatore

Ch. Prof. Fabrizio Gerli

Laureando

Luca Veronese

Matricola 830905

Anno Accademico

2015 / 2016

(2)
(3)

1

Indice

Pag.

Indice delle Tabelle... 3

Indice delle Figure ... 5

Introduzione ... 6

CAPITOLO 1. COMPETENZE E PERFORMANCE ... 8

1.1 Il contesto per il superamento del concetto di Q.I. ... 8

1.2 Il quadro teorico di riferimento ... 9

1.2.1 L’approccio organizzativo per competenze: motivazioni e benefici ... 12

1.3 I principali contributi storici ... 13

1.3.1 Il contributo di McClelland ... 15

1.3.2 Il contributo di Boyatzis ... 17

1.3.3 Il contributo di Spencer e Spencer ... 21

1.3.4 Moderni contributi sul tema delle competenze ... 26

1.4 Intelligenza Emotiva: origine e modelli ... 31

1.4.1 L’origine del concetto ... 31

1.4.2 Le teorie contemporanee ... 33

1.5 Impatto delle competenze sulle performance ... 42

1.5.1 Le competenze nelle realta’ italiane: alcuni casi reali ... 43

1.6 Conclusioni ... 47

CAPITOLO 2. ESPERIENZE PERSONALI E COMPETENZE ... 49

2.1 Introduzione... 49

2.2 Apprendimento: le principali determinanti ... 50

2.3 Modelli di apprendimento ... 57

2.4 Il ruolo delle esperienze nell’apprendimento e sviluppo ... 63

2.5 Esperienze personali (o extra-lavorative) ... 67

2.5.1 Attività di volontariato ... 67

2.5.2 Esperienza all’estero ... 71

2.5.3 Esperienza artistica: l’educazione musicale ... 78

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2

2.5.5 Utilizzo di blog e social network ... 87

CAPITOLO 3. STUDIO EMPIRICO SULLE COMPETENZE ... 95

3.1 Lo studio preliminare ... 95

3.2 Analisi descrittiva dei dati ... 99

3.3 Relazioni lineari tra le attivita’ e tra attivita’ e competenze ... 105

3.4 Impatto delle attivita’ extra-lavorative sulle competenze ... 120

3.4.1 Partecipazione alle attivita’: impatto sulle competenze ... 121

3.4.2 Propensione alle attivita’: impatto sulle competenze ... 129

3.4.3 Impatto delle attivita’ sulle competenze: un confronto coerente tra gli ambiti di valutazione ... 135

3.4.4 Impatto della propensione alle attivita’: un confronto coerente tra gli ambiti di valutazione ... 144

3.5 Impatto delle attivita’ sulle competenze: uno studio completo ... 151

3.6 Studio sulle ipotesi ... 170

3.7 Conclusioni ... 175 CONCLUSIONI ... 178 Appendice A ... 180 Appendice B ... 182 Bibliografia ... 184 Sitografia ... 191

(5)

3

Indice delle Tabelle

Tabella 1.1: Citazione di McClelland (1973) in giornali, magazine, libri di testo. ... 18

Tabella 1.2: La struttura della competenza emotiva ... 39

Tabella 2.1: Scala gerarchica di importanza delle competenze interculturali... 74

Tabella 3.1: Informazioni contenute nel questionario di inizio corso ... 98

Tabella 3.2: Attività individuate per lo studio ... 101

Tabella 3.3: Riepilogo dei valori di partecipazione alle attività ... 106

Tabella 3.4: Correlazioni tra attività divisi per cluster ... 107

Tabella 3.5: Propensione all’utilizzo dei SN... 109

Tabella 3.6: Propensione all’utilizzo dei Blog e Forum ... 109

Tabella 3.7: Propensione all’attività sportiva amatoriale ... 110

Tabella 3.8: Propensione all’attività sportiva agonistica ... 110

Tabella 3.9: Nuova suddivisione per cluster ... 111

Tabella 3.10: Matrice di correlazione, Valutazioni Totali ... 115

Tabella 3.11: Matrice di correlazione, Valutazioni Personali ... 116

Tabella 3.12: Matrice di correlazione, Valutazioni Lavorative ... 117

Tabella 3.13: Correlazioni tra attività e competenze evidenziate nei diversi ambiti di valutazione ... 118

Tabella 3.14: Correlazioni tra attività e competenze evidenziabili in ambito di valutazione totale e personale... 120

Tabella 3.15: Modello WLS Valutazioni Totali ... 126

Tabella 3.16: Modello WLS Valutazioni Personali ... 127

Tabella 3.17: Modello WLS Valutazioni Lavorative ... 128

Tabella 3.18: Impatti significati delle attività sulle competenze nei tre ambiti ... 129

Tabella 3.19: Modello WLS studio sui cluster, Valutazioni Totali ... 133

Tabella 3.20: Modello WLS studio sui cluster, Valutazioni Personali ... 134

Tabelle 3.21: Modello WLS studio sui cluster, Valutazioni Lavorative ... 135

Tabella 3.22: Propensione alle attività: gli impatti significativi nei tre ambiti di valutazione ... 136

Tabella 3.23: Modello WLS per confronti, Valutazioni Totali ... 140

(6)

4

Tabella 3.25: Modello WLS per confronti, Valutazioni Lavorative ... 142

Tabella 3.26: Impatto delle attività evidenziati nei tre ambiti: campione coerente per i confronti ... 143

Tabella 3.27: Impatto delle attività sulle competenze: manifestazioni in ambito personale 144 Tabella 3.28: Impatto delle attività sulle competenze: manifestazioni in ambito lavorativo 145 Tabella 3.29: Modello WLS studio sui cluster per confronti, Valutazioni Totali ... 148

Tabella 3.30: Modello WLS studio sui cluster per confronti, Valutazioni Personali ... 149

Tabella 3.31: Modello WLS studio sui cluster per confronti, Valutazioni Lavorative ... 150

Tabella 3.32: Impatto della propensione alle attività sui tre ambiti di valutazione: campione coerente per i confronti ... 151

Tabella 3.33: Impatto in ambito personale della propensione alle attività: campione coerente per i confronti ... 152

Tabella 3.34: Impatto in ambito lavorativo della propensione alle attività: campione coerente per i confronti ... 152

Tabella 3.35: Outer model, Sport Amatoriale ... 162

Tabella 3.36: Outer model, Social Network ... 162

Tabella 3.37: Outer model, Cultura ... 164

Tabella 3.38: Inner model PLS-PM, Valutazioni Totali ... 167

Tabella 3.39: Inner model PLS-PM, Valutazioni Personali ... 168

Tabella 3.40: Inner model PLS-PM, Valutazioni Lavorative ... 169

Tabella 3.41: Modello SEM: impatto in ambito totale sulle competenze ... 170

Tabella 3.42: Modello SEM: impatto in ambito personale sulle competenze ... 171

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5

Indice delle Figure

Figura 1.1: Alcune definizioni di Competenza presenti in letteratura ... 14

Figura 1.2: Visione della competenza in chiave dinamica ... 20

Figura 1.3: La teoria della contingenza dell’azione e della prestazione ... 20

Figura 1.4: Il modello dell’iceberg ... 25

Figura 1.5: Il collegamento causale ... 25

Figura 1.6: Distinzione tra competence e competency. ... 26

Figura 1.7: Struttura dei livelli all’interno della personalità ... 30

Figura 1.8: Alcuni studi che evidenziano l’impatto delle competenze sulla performance ... 42

Figura 1.9: Competenze distintive nei manager ... 44

Figura 1.10: Competenze distintive nei manager di medio livello ... 44

Figura 2.1: Evoluzione degli approcci nei processi formativi (Gerli, 2002) ... 52

Figura 2.2. Goleman: Un diverso modello di apprendimento ... 53

Figura 2.3: Linee-guida per il training delle competenze emozionali ... 55

Figura 2.4: Apprendimento dall’esperienza ... 57

Figura 2.5: La Teoria del Cambiamento Intenzionale ... 62

Figura 2.6: Developmental Model of Intercultural Sensitivity (DMIS) ... 75

Figura 2.7: Supporti del blog ad insegnamento ed apprendimento ... 89

Figura 3.1: Distribuzioni di frequenza nelle attività ... 102

Figura 3.2: La VL Consapevolezza Emotiva misurata tramite indicatori formativi e riflessivi. ... 154

Figura 3.3: La VL Attività di Volontariato misurata tramite indicatori formativi e riflessivi. 155 Figura 3.4: Inner model: relazioni tra Variabili Latenti ... 157

Figura 3.5: Outer model: relazioni tra ciascuna Variabile Latente ed i propri indicatori ... 158

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6

INTRODUZIONE

Il mondo del lavoro diviene sempre più un ambiente fortemente competitivo. Numerosi fenomeni di carattere sociale ed economico, contribuiscono a rendere l’ambiente lavorativo un ambito nel quale per accedere e mantenere una posizione lavorativa sono necessarie sempre maggiori conoscenze, abilità e capacità. Partendo da questa considerazione, il contributo in questione, analizza ed approfondisce le tematiche riguardanti le competenze trasversali, ovvero una serie di competenze che concernono la consapevolezza di sé, la consapevolezza sociale, la gestione di sé, la gestione delle relazioni e il ragionamento analitico.

Sempre più, in letteratura e nelle politiche gestionali delle imprese, il possesso di queste importanti abilità personali, viene inteso come primario per il raggiungimento di prestazioni lavorative superiori.

In particolare, l’elaborato vuole investigare l’impatto di attività extra-lavorative sullo sviluppo delle competenze trasversali.

I contributi che evidenziano lo sviluppo delle soft skills in ambito lavorativo sono numerosissimi, così come modelli e processi guidati che portano le persone a sviluppare queste importanti abilità. Meno si è studiato sull’importanza che possono svolgere attività legate alla sfera dei valori, delle passioni, delle attitudini e delle propensioni personali sullo sviluppo delle competenze. Il loro processo di formazione e sviluppo, in questo caso, presenta caratteri unici e particolari che li portano ad essere difficilmente evidenziabili, molte volte, in prima persona, dagli stessi soggetti interessati. Le attività di carattere extra-lavorativo, però, ricoprono un ruolo centrale nella vita di ogni individuo, e per tanto possono essere fonte di impatti significativi sulle stesse competenze personali.

Il Capitolo 1 è strutturato in modo da guidare il lettore attraverso un excursus storico che parte dai contributi storici fino ad arrivare alle moderne teorie sul tema, il tutto presentato ponendo grande rilevanza ai contributi degli ultimi 10-15 anni. L’importanza del tema viene ulteriormente sottolineata da una serie di moderni studi su reali situazioni aziendali, presentati a fine capitolo. Viene posta attenzione, in particolar modo, su casistiche che riguardano l’area del Nord-Est italiano.

Il Capitolo 2, sempre di carattere teorico, entra nel tema centrale dell’elaborato, andando a studiare le modalità attraverso le quali avviene l’apprendimento negli adulti. Distinguendo le diverse forme di apprendimento e le diverse determinanti che entrano in questione nelle varie

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situazioni, si identificano le profonde differenze che caratterizzano i processi di crescita personale. Le attività extra-lavorative, intese come fonte di apprendimento informale e di sviluppo involontario delle competenze, verranno studiate per sottolineare quali sono le caratteristiche peculiari delle stesse e quali particolari abilità personali attivano. Questa parte dello studio è finalizzata alla formulazione di ipotesi, oggetto di studio statistico.

Il Capitolo 3 presenta le diverse fasi dello studio statistico finalizzato a validare o meno le ipotesi formulate. Verrà impostato come un continuum di considerazioni statistiche, dalle prime analisi descrittive fino alla formulazione di modelli dedicati.

Lo studio sarà perfetta occasione per avanzare proposte per futuri studi, questo attraverso la presentazione di particolari risultati contrari con quanto atteso ed osservato in letteratura. Il contributo vuole essere un mezzo per attirare l’attenzione sull’importanza dell’apprendimento informale, inteso come involontario e non strutturato, enfatizzando quale ruolo esso giochi nella crescita delle persone. Inoltre, lo studio vuole essere una importante fonte di consapevolezza, ponendo l’attenzione su come sia importante svolgere con rigoroso impegno qualunque attività si partecipi ed il valore significativo che queste attività possono ricoprire nella nostra performance lavorativa.

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CAPITOLO 1. COMPETENZE E PERFORMANCE

1.1 IL CONTESTO PER IL SUPERAMENTO DEL CONCETTO DI Q.I.

«Quali fattori sono in gioco, ad esempio, quando persone con elevato Q.I. falliscono e quelle con Q.I. modesti danno prestazioni sorprendentemente buone? Secondo me,

molto spesso la differenza sta in quelle capacità indicate collettivamente come "intelligenza emotiva", un termine che include l'autocontrollo, l'entusiasmo e la

perseveranza, nonché la capacità di automotivarsi.» [Goleman, 1998]

Il concetto di intelligenza, e di quale sia il suo impatto sull’essere umano, trova le radici in periodi storici molto lontani. Nell’Antica Grecia, lo sviluppo del pensiero logico – sillogismi, ragionamenti, indagini – era la principale fonte di informazione. Gli Stoici Greci teorizzavano come l’uomo virtuoso fosse colui che viveva in modo razionale, comprendendo la ragione del tutto, evitando di lasciarsi guidare dal vizio, inteso come incapacità di pensare e ragionare. L’influenza dettata dallo Stoicismo fu elevata, ma l’idea che la ragione fosse prevalente sulle emozioni non fu comunemente accettata. Si possono citare a riguardo il “Sentimentalismo” - insieme di quelle correnti di pensiero che teorizzavano come le scelte dovessero essere prese sulla base dei sentimenti e della morale personale piuttosto che sulla base dell’intelletto razionale (Mayer, Roberts & Barsade, 2008) – ed il “Romanticismo” – movimento che poneva enfasi sull’espressione delle emozioni attraverso le forme artistiche (Mayer, Salovey & Caruso, 2004).

Arrivando a periodi storici più moderni, si sono susseguiti contributi di numerosi psicologici e ricercatori (ad es. Binet, 1905; Simon, 1908, 1911; Stern, 1912; Terman, 1916 et al.) che hanno contribuito a sviluppare una visione molto restrittiva dell’intelligenza intesa come capacità di sostenere pensieri astratti o come generale abilità ad imparare ed adattarsi all’ambiente (ad es. Terman, 1921 in Salovey & Mayer, 2004). Vengono individuate ulteriori forme di intelligenza in base a quale sia la tipologia di informazioni sulle quali operano. Per esempio, l’intelligenza di tipo verbale-proposizionale riguarda la capacità di comprendere i vocaboli, le frasi ed i passaggi logici presenti nei testi, così come l’intelligenza percettiva permette di percepire schemi, riconoscere parti mancanti di una figura o di completare le parti di un puzzle (Wechler, 1997 in Mayer, Salovey & Caruso, 2004).

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Vengono, inoltre, sviluppati test finalizzati a misurare il livello intellettivo delle persone. Terman, nel periodo caratterizzato dalla prima guerra mondiale, ha classificato due milioni di americani con la convinzione che le persone potessero essere classificate in due categorie: intelligenti e non intelligenti. L’unico elemento sul quale veniva basato tale conclusione era il risultato conseguito nel test (Goleman, 1996).

I moderni contributi sul tema delle competenze e sul concetto di intelligenza emotiva come variabili determinanti per il raggiungimento di performance lavorative superiori, sono stati fortemente influenzati da una ampia serie di studi che hanno preliminarmente permesso il superamento del concetto di intelligenza considerato in questa chiave molto restrittiva e circoscritta a singoli aspetti od a singole abilità. Con i contributi di Thorndike (1920) e Wechsler (1943), ad esempio, il concetto di intelligenza assume un significato più ampio ed arriva ad interessare molteplici aspetti, mentre dagli inizi degli anni Ottanta, c’è stata una ampia apertura all’idea di intelligenza multipla (ad es. Gardner, 1983), facendo “sbocciare”, inoltre, ricerche su quale sia l’impatto delle emozioni sugli individui. A riguardo, si possono citare Ekman (1973) che ha riportato in luce le teorie darwiniane di come alcune informazioni emotive siano universali – espressioni facciali o emozioni; altri invece (ad es. Sloman & Croucher, 1981; Dyer, 1983; Roseman, 1984; Smith & Ellsworth, 1985) hanno esaminato come gli eventi portino a valutazioni cognitive che generano emozioni (Mayer, Salovey & Caruso, 2008).

Il superamento, ormai completo, del concetto di intelligenza univoca e più in generale, di Q.I., apre una vasta letteratura finalizzata ad individuare le reali caratteristiche personali determinanti nei soggetti di successo. Prima di discutere dei principali contributi sul tema, si reputa necessario analizzare il contesto all’interno del quale si inseriscono questi studi.

1.2 IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO

«Ogni business divenne un business basato sulle informazioni, poiché le variabili del vantaggio competitivo si spostarono rapidamente dagli asset fisici agli asset intellettuali

ed alle informazioni» [Cascio & Bourdreau, 2015]

Camuffo (1998) afferma come la fase attuale dello sviluppo economico possa essere identificata come la fase nella quale le variabili tradizionali del vantaggio economico (le tecnologie, la qualità, l’efficienza, la velocità di risposta, la reputazione nel mercato, l’immagine, ecc.) possono

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essere ricondotte ad un unico fattore collocato “a monte” di questi ultimi: la conoscenza (Gerli, 2002).

A partire dalla prima metà degli anni Ottanta, inizia a modificarsi l’approccio con la quale le imprese percepiscono le risorse umane: da un mero oggetto di costo ad una risorsa strategica. L’innovazione tecnologica e la globalizzazione hanno, infatti, determinato una straordinaria accelerazione dei processi di trasformazione strategica ed organizzativa che hanno costantemente accresciuto l’importanza della risorsa umana come fattore per contrastare un ambiente mutevole e caratterizzato da forti spinte. Numerosi autori - tra i quali Boam e Sparrow (1996), Herriot (1989), Toffler (1970) – hanno individuato le pressioni economiche che hanno portato a considerare un diverso ruolo per le risorse umane all’interno di una organizzazione. Una prima forte pressione viene esercitata dallo sviluppo tecnologico, il quale innalza la complessità tecnica dei prodotti, velocizza il tempo nel quale essi diventano obsoleti e accresce i rischi di un errore nella valutazione delle tempistiche di entrata in un nuovo mercato. Cresce la qualità che il cliente si aspetta aumenta, così come il livello di personalizzazione del prodotto

o dell’esperienza di acquisto. Le aziende sono in grado di rispondere prontamente sono

divenendo flessibili e reattive. Il possesso di informazioni, in che quantità e la qualità delle stesse, sono altri elementi importanti. Ultimi fattori sono la globalizzazione che porta ad una interazione, interconnessione ed integrazione di individui, compagnie, culture e paesi (Cascio & Bourdeau, 2015) favorendo la creazione di nuove situazioni competitive quali alleanze strategiche, fusioni e joint venture.

L’elemento che si accompagna ad una serie così ampia e profonda di mutamenti e di nuove spinte economiche è un aumento del rischio percepito da parte delle organizzazioni. Sul concetto di rischio vi sono alcuni contributi che mettono in risalto i potenziali effetti negativi derivanti dall’incapacità di predire i mutamenti dell’ambiente competitivo (ad es. Jablonowski, 2006), mentre altri enfatizzano i possibili vantaggi derivabili da un ambiente in rapido sviluppo (ad es. Elahi, 2013) (Becker & Smith, 2015).

Una principale conseguenza strutturale e profonda che deriva da questa fase di sviluppo dell’economia, può essere evidenziata attraverso le parole di Recchioni (2011). L’autore afferma come muti “la definizione di organizzazione: da “insieme di dipendenti” tradizionalmente inteso come sistema chiuso, passivo e spersonalizzato, ad “attore

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apprendere e svilupparsi”, enfatizzando come i sistemi organizzativi e gestionali delle imprese siano radicalmente cambiati”.

Sono queste le motivazioni che portano ad un diverso approccio nei confronti delle risorse umane: un approccio nel quale il possesso di asset fisici – macchinari, impianti, attrezzature - diviene condizione necessaria per operare in un mercato, ma che riconosce agli asset intangibili – in particolare al capitale intellettuale - il ruolo fondamentale per il raggiungimento del vantaggio competitivo.

«È il capitale intellettuale la forza dominante, l’elemento più ambito della nuova era. Nella new economy sono le idee, i concetti, le immagini – non le cose – i componenti del

valore» [Rifkin in IT Consult, 2002].

In letteratura sono presenti diverse definizioni del concetto di capitale intellettuale. Stewart (1997) lo identifica come lo stock totale di conoscenze organizzative, informazioni, tecnologie ma anche diritti di proprietà intellettuali, esperienze e relazioni esterni detenuti da una azienda ed in grado di creare valore per essa. Edvinsson e Malone (1997) lo definiscono come l’insieme di asset intangibili e competenze di una azienda (Zerenler, Hasiloglu & Sezgin, 2008).

Ogni azienda dispone di materiale intellettuale presente in diverse forme: capitali, risorse, capacità tacite ed esplicite, conoscenze. Il passo successivo consiste nel riuscire ad individuarlo e, successivamente, ad utilizzarlo per finalità di creazione di valore per l’azienda. Edvinsson e Malone (1997), con l’intento di misurarlo quantitativamente all’interno della Skandia, esplicitano le sue tre componenti principali:

 Capitale umano, composto dalle competenze – abilità, conoscenze, capacità, esperienze – possedute dalle risorse umane dell’azienda. “Ciò significa prendere in considerazione le conoscenze tacite ed esplicite degli individui, la diffusione di tali conoscenze nell’organizzazione, gli algoritmi creati dalla combinazione di competenze, la capacità di creare l’innovazione e di costruire relazioni con l’estero” (Gerli, 2002), da considerare congiuntamente alla cultura ed ai valori dell’organizzazione.

 Capitale strutturale, appartenente all’organizzazione nel suo complesso, riproducibile e disponibile per ogni individuo. È composto dai diritti legali di proprietà, quindi tecnologie, invenzioni, dati, pubblicazioni, insieme di sistemi informativi che possono essere oggetto di brevetto, copyright o segreto aziendale. Vanno inclusi, inoltre, il portafoglio clienti e l’insieme di relazioni con l’estero (Gerli, 2002). Il sapere scientifico,

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strategia e cultura aziendale, prassi e procedure organizzati sono altre componenti strutturali.

 Capitale relazionale, comprendente le relazioni con gli altri attori economici – clienti, concorrenti, fornitori, ecc. – create per aumentare l’immagine e la reputazione dell’impresa.

Il ruolo coperto dal capitale intellettuale risulta essere quello di una delle possibili fonti di vantaggio competitivo. Esso, infatti, possiede caratteristiche che sono alla base del mantenimento di condizioni di eterogeneità, fondamentali per un vantaggio competitivo duraturo. Queste caratteristiche sono la non imitabilità, l’ambiguità causale, la complessità sociale e la contestualizzazione (Gerli, 2002).

Considerando i paragrafi fin qui trattati, si evidenzia il contesto complessivo all’interno del quale si inserisce lo studio della gestione delle risorse umane per competenze. Il superamento del concetto di intelligenza come variabile principale del successo individuale apre una vasta letteratura finalizzata ad individuare le componenti personali determinanti per il raggiungimento di prestazioni lavorative superiori. L’ambiente economico in evoluzione, invece, costringe le imprese sia a modificare i propri sistemi organizzativi e gestionali sia a spostare il focus sulle Risorse Umane come variabile strategica principale sulla quale basare il proprio vantaggio competitivo.

1.2.1 L’APPROCCIO ORGANIZZATIVO PER COMPETENZE: MOTIVAZIONI E BENEFICI

Dal paragrafo precedente, si è evidenziato quali pressioni economiche operanti nel contesto di riferimento abbiano costretto ad adottare un diverso approccio nei confronti della Risorsa Umana, tradizionalmente centrata sull’analisi del ruolo e delle posizioni occupate nell’organizzazione. La necessità di affrontare nuovi livelli di rischi aziendali porta all’adozione di nuove forme organizzative e nuove modalità operative caratterizzati da una ridefinizione dei ruoli organizzativi ed una destrutturazione delle singole mansioni. Le strutture organizzative, non potendo più essere basate su contesti stabili e prevedibili, dovranno garantire maggior responsabilità ed autonomia agli individui che vi operano. Le caratteristiche individuali dei lavoratori, quindi ciò che essi sanno fare, otterranno sempre maggior rilevanza rispetto alle attività della mansione, quindi ciò che sono chiamati a fare (Gerli, 2002).

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Il crescente legame tra l’efficienza organizzativa e le performance personali, costringe l’organizzazione stessa a dedicare risorse alla gestione del capitale umano, in modo che la sua gestione ed il suo utilizzo divengano funzionali al raggiungimento degli obiettivi organizzativi. Si inseriscono in questo contesto i diversi approcci e metodologie legate alla gestione per competenze delle Risorse Umane, finalizzati a “rappresentare una tecnologia adeguata e completa, in grado di gestire i cambiamenti strategici e organizzativi valorizzando il portafoglio di competenze degli individui e fornendo un insieme di strumenti che possano essere applicati ai processi di reclutamento, selezione, sviluppo e valutazione” (Gerli, 2002).

Questo approccio organizzativo permette di utilizzare il concetto di competenza in una ampia serie di processi organizzativi fino ad individuarlo, potenzialmente, come base delle politiche di gestione dell’intero ciclo professionale del personale. Sono stati individuati numerosi benefici raggiungibili da un approccio di questo tipo (Gerli, 2002). Se ne presentano alcuni:

 Identificare e diffondere in tutta l’organizzazione sistemi di comportamento efficaci;  Ridurre significativamente gli errori di inserimento e di selezione di nuovo personale,

riducendo il grado di asimmetria informativa;

 Fornire ai manager una base più oggettiva e condivisa sulla quale stilare piani di sviluppo personale dei dipendenti e delle loro carriere, selezionandoli internamente per nuove mansioni, avviandoli verso sentieri di sviluppo coerenti o individuando le debolezze da sviluppare;

 Fornire uno strumento di valutazione più oggettiva per gli aspetti qualitativi e soggettivi di una performance;

 Aumentare i livelli di coerenza tra le diverse politiche di gestione;

 Facilitare e diminuire le problematiche di processi quali l’allocazione, mobilità e

compensation del personale;

1.3 I PRINCIPALI CONTRIBUTI STORICI

Nei successivi paragrafi si vogliono presentare alcuni dei principali contributi sul tema trattato. Partendo dalla trattazione del contributo di McClelland, padre fondatore dello studio sulle competenze, si passerà a studiare Spencer e Spencer e Boyatzis. Verranno presentati i contributi di questi autori fino ad arrivare agli inizi del Nuovo Millennio. L’ultimo paragrafo conterrà i contributi più recenti sul tema.

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Prima di analizzare i vari contributi, si ritiene importante esplicitare come, in letteratura, si riscontrino numerosi tentativi di definire il concetto di competenza. Al concetto in questione vengono assegnati una serie di significati che dipendono da elementi quali il contesto di riferimento, la prospettiva dello studio, il soggetto analizzato – individuo od organizzazione – e la finalità attribuita alla competenza (Garavan & McGuire, 2011).

Alcuni ricercatori (Jubb & Robotham, 1997; Gorsline, 1996; Nordhaug & Gronhaug, 1994) considerano un problema la mancanza di una definizione che sia comunemente accettata o ritenuta completa ed esauriente, ma l’elevato numero di elementi variabili presuppone una serie di definizioni sul concetto di competenza che lo analizzino sotto diversi aspetti. Inoltre, il concetto è stato oggetto di studio in numerosi ambiti accademici, ciascuno dei quali ha avanzato differenti definizioni, metodologie di studio e modelli di riferimento. Se si considerano, oltre al già citato contributo in ambito aziendale, gli studi di psicologia, sociologia ed epistemologia, si evidenzia un proliferare di diverse connotazioni semantiche che alcuni autori (ad es. Consoli, Benadusi, 1999) hanno evidenziato come rischioso, data la possibile ambiguità di significato attribuibile al concetto fino ad una ipotesi di inaffidabilità metodologica (Gerli, 2002).

Tra le definizioni presenti in letteratura, si individuare tre diversi approcci:

1. Definizioni worker-oriented, incentrate sulla competenza intesa come caratteristica dell’individuo che influisce sul suo essere lavoratore;

2. Definizioni work-oriented, focalizzate ad analizzare l’impatto delle competenze sulla performance lavorativa;

3. Definizioni multidimensionali, rivolte a studiare le competenze come insieme eterogeneo di abilità possedute dagli individui.

Nella Figura 1.1 sono presentate alcune definizioni presenti in letteratura divise per i tre diversi approcci.

Figura 1.1: Alcune definizioni di Competenza presenti in letteratura Definizioni Worker-Oriented:

1. Le conoscenze, abilità, tratti, attitudini, la concezione di se, i valori e le motivazioni direttamente collegate alla performance lavorativa o ad un importante obiettivo

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perseguito nella vita e che differenziano gli average dai top performers (McClelland, 1973).

2. Caratteristiche comportamentali degli individui che sono causalmente collegate ad una performance efficace e/o superiore in una mansione (Boyatzis, 1982).

3. Caratteristica intrinseca individuale che è causalmente collegata ad una performance efficace e/o superiore in una mansione od in una situazione, misurabile sulla base di un criterio prestabilito (Spencer & Spencer, 1993).

Definizioni Work-Oriented:

1. La competenza è l’abilità di svolgere le attività all’interno di una organizzazione ad un livello di performance atteso (Management Charter Initiative, 1990).

2. L’abilità di svolgere una attività in una organizzazione (Nordhaug & Gronhaug, 1994). Definizione multidimensionale

1. Le abilità, conoscenze e capacità cognitive, qualità ed attributi, insieme di valori e comportamenti che portano ad una efficace performance manageriale in un determinato contesto, situazione o ruolo occupato (Woodall & Winstanley, 1998).

Rielaborazione da: Garavan & McGuire (2011)

1.3.1 IL CONTRIBUTO DI MCCLELLAND

Il contributo che, per primo, ha permesso l’introduzione del concetto di competenza è stato quello di McClelland (1973, 1985). Le sue tesi si basano sia sull’esperienza di professore universitario di Harvard sia su studi precedenti che tentavano di trovare una correlazione tra riconoscimenti accademici e performance lavorative o attitudini sociali superiori (ad es. Taylor, Smith & Ghiselin, 1963; Thorndike & Hagen, 1959; Holland & Richards, 1965; Elton & Shevel, 1969. Nel tentativo di affrontare il problema della scarsa affidabilità dei test comportamentali e d’intelligenza come strumenti in grado di prevedere prestazioni lavorative eccellenti, McClelland avanza una serie di critiche rivolte ad un sistema educativo che sembra venir meno di un principio basilare, ovvero il fatto che educare significa favorire lo sviluppo individuale delle persone, da qualunque livello esse partano.

McClelland non si limita a “demolire” il sistema di educazione, valutazione e selezione in uso, ma avanza una serie di proposte e riflessioni su come poterlo migliorare. L’autore pone come

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punto di partenza il concetto di competenza, anziché quello di intelligenza, e come finalità lo sviluppo individuale piuttosto che la selezione.

Un primo suggerimento avanzato dall’autore, verte sui criteri di campionamento dei test di valutazione, che dovrebbero essere corredati da analisi sul campo e relativi alla performance effettiva dei soggetti oggetti di analisi. Per rendere il sistema di valutazione più coerente, i test dovrebbero essere strutturati in modo da evidenziare ciò che il soggetto ha appreso. Chiaramente, per favorire l’apprendimento è necessario che siano rese note le modalità con le quali migliorare caratteristiche e competenze oggetto del test. Un'ulteriore indicazione di McClelland riguarda il fatto che i test sarebbero maggiormente efficaci se coinvolgessero insiemi di competenze legate a obiettivi e risultati conseguibili nella vita.

McClelland (1985) evidenzia quale sia l’importanza della motivazione come fattori in grado di spiegare il livello di performance ottenuta. La motivazione viene definita come “una preoccupazione ricorrente per uno stato desiderato che spinge, orienta e seleziona il comportamento”. Egli ne identifica tre diverse tipologie: Achievement motive (la tensione al risultato), che è una volontà costante verso migliori risultati; Power motive (il desiderio di potere), cioè una volontà ricorrente ad esercitare influenza sugli altri; Affiliative motive (il desiderio di affiliazione), che è una preoccupazione ricorrente verso lo stare con gli altri. Come spiegato da Giovannetti e Ruffini (2008), nelle diverse situazioni il soggetto percepisce determinati stimoli che richiamano in lui la possibilità di raggiungere migliori risultati ed uno stato desiderato, stimolando, così, la tensione al risultato. Una volta accaduto questo, la motivazione produce una spinta ad agire che si combina con i valori, capacità ed opportunità momentanee portando a comportamenti concreti. Secondo l’autore, i soggetti sono in grado di modificare il proprio profilo motivazionale purché il cambiamento avvenga coerentemente con l’ambiente di riferimento. McClelland definisce la competenza come “un sistema di schemi cognitivi e comportamenti operativi causalmente correlati al successo nel lavoro” (Gerli, 2002). Tra le competenze evidenziate da McClelland come punto di partenza del complesso sistema di educazione, valutazione e selezione, ve ne sono alcune di carattere cognitivo, come la capacità di scrittura, di lettura e di calcolo, mentre altre vengono definite personality variables, come le capacità comunicative, capacità di autocontrollo, fissazione di obiettivi sfidanti ma raggiungibili, sviluppo di sé stessi (McClelland, 1973).

L’influenza di tale articolo sarà, nel corso degli anni, sempre maggiore e sempre più autori, nei rispettivi articoli o libri, citeranno McClelland per il suo apporto dato, come dimostra la Tabella

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1. Verso la fine degli anni 80, il tema verrà definitivamente accettato dall’opinione pubblica e e nei giornali ed articoli dedicati McClelland (1973) verrà costantemente citato nell’ambito dello studio delle competenze.

Tabella 1.1: Citazione di McClelland (1973) in giornali, magazine, libri di testo.

Fonte Autore/i Titolo

New York Times Goleman (1988) IQ tests severely limited as predictors of job success

New York Times Goleman (1984) Intelligence unrelated to

career success

Atlantic Monthly Fallows (1985) Promote replacing aptitude tests with competence tests

Psychology Today Goleman (1981) Tests and grades are

unrelated to career success

More Like Us Fallows (1989) Tests and grades are useless

as predictors of occupational success

Introduction to Psychology Coon (1986) IQ does not predict important behaviours or success

Psychology: Being Human Rubin & McNeil (1985) Suggests replacing IQ tests with competence tests

Elements of Psychology Krech & Crutchfield (1982) Tests and grades are unrelated to life outcomes

Rielaborazione di Barrett G.V. & Depinet R.L. “A Reconsideration of Testing for Competence Rather Than for Intelligence”

1.3.2 IL CONTRIBUTO DI BOYATZIS

Richard Boyatzis, studioso ed allievo dello stesso McClelland, definisce la competenza come “una caratteristica intrinseca di un individuo causalmente correlata ad una prestazione efficace

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o superiore nella mansione” (Boyatzis, 1982). L’elemento della intrinsecità sta ad indicare come la competenza faccia parte in maniera integrante della personalità dell’individuo. Questo permette che egli sia in grado di esprimerla ogniqualvolta sia possibile farlo senza dover dedicare una particolare attenzione alla sua attivazione. Con l’espressione “causalmente correlata” si esprime il legame che esiste tra competenza e comportamento: il possesso di una competenza causa o prevede il manifestarsi di un determinato comportamento. Usando le parole dello stesso Boyatzis (1982), una competenza:

«può essere una motivazione, un tratto, un aspetto dell’immagine di sé o del proprio ruolo sociale, una skill, o un corpo di conoscenze. (…) Siccome le competenze sono caratteristiche interiori si possono considerare generiche. Una caratteristica generica

può apparire in diverse forme di comportamento e in una grande varietà di azioni»

Nella definizione si possono riconoscere quattro elementi portanti: il concetto di competenza articolato in più livelli; una sua visione in chiave dinamica; l’individuazione di più tipologie di competenza; la distinzione tra competenze soglia e distintive.

1. Competenza articolata su più livelli

Boyatzis individua quali siano gli elementi costitutivi di questa “caratteristica intrinseca” e che natura abbiano. La competenza si articola in più livelli. Al primo livello, quello più profondo, che può risultare inconscio, troviamo la motivazione – come definita in precedenza trattando McClelland- ed il tratto – il modo caratteristico in cui un soggetto reagisce ad un insieme di stimoli. Al secondo livello della competenza si trova l’immagine di sé – “la percezione che un soggetto ha di sé e la valutazione che dà di quell’immagine, come il risultato di un confronto che egli effettua tra sé stesso e gli altri” (Camuffo, 1998) – ed il ruolo sociale – la percezione che un individuo ha di un insieme di norme di comportamento considerate accettabili ed appropriate all’interno di gruppi od organizzazioni di cui in soggetto fa parte. Al terzo livello si collocano le

skill – l’abilità di dimostrare un sistema ed una sequenza di comportamenti che siano

funzionalmente correlati all’ottenimento di un traguardo in termini di prestazioni (Boyatzis, 1982).

2. Visione della competenza in chiave dinamica

Boyatzis non si limita ad individuare i diversi livelli della competenza ma teorizza, inoltre, come i vari livelli interagiscano tra di loro, presentando il concetto di competenza non in chiave

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statica, ma dinamica (Fig 1.2). Motivazione e tratto impattano direttamente sul livello superiore delle competenze, influenzando l’immagine di sé ed il ruolo sociale, i quali avranno un impatto diretto a loro volta sulle skill. L’immagine di sé ed il ruolo sociale, infatti, agiscono da mediatori delle motivazioni e tratti per determinare l’effettivo comportamento messo in atto. Una volta attuato un comportamento, questo influisce sul livello di skill possedute che, di conseguenza, impatta prima su immagine di sé e ruolo sociale per arrivare, poi, ad interessare il livello più profondo delle competenze.

Un ulteriore aspetto del modello dinamico delle competenze è rappresentato dalla considerazione dell’importanza dell’ambiente come determinante del comportamento e della performance (Fig 1.3). La massima performance si ottiene quando le capacità e le caratteristiche individuali incontrano le esigenze della mansione e quando queste sono coerenti con l’ambiente organizzativo all’interno del quale è impiegato l’individuo. Per caratteristiche individuali si intendono valori, vision, conoscenze, competenze, abilità ed interessi, mentre le esigenze della mansione possono essere spiegate analizzando il ruolo occupato ed i compiti da svolgere. Per ambiente organizzativo si intendono elementi interni quali il clima, la cultura e la struttura aziendale ma anche elementi esterni all’azienda come il settore nel quale si agisce, il suo livello di maturità, così come aspetti di carattere economici, sociali, politici o religiosi che impattino in qualunque modo od intensità sull’organizzazione (Boyatzis, R.E., 2007).

L’area di massima compatibilità identifica la situazione ottimale nel quale un individuo è chiamato a lavorare. In tale situazione, il lavoratore trova stimoli, opportunità e fornisce prestazioni di livello più alto.

3. Diverse tipologie di competenze

Un’ulteriore contributo dato da Boyatzis consiste nell’individuazione di differenti tipologie di competenze che “includono diversi aspetti dell’attività umana” e sono “associati a diversi aspetti del comportamento umano e alla capacità del soggetto di dimostrare quel comportamento” (Boyatzis, 1982). Complessivamente, nei suoi studi, Boyatzis individua ventun diverse competenze che hanno dimostrato essere correlate all’efficienza nei manager, indipendentemente dalla mansione o dall’organizzazione interessata (Boyatzis, 1982).

4. Classificazione delle competenze

L’ultimo dei contributi citati sul concetto di competenza è dato dalla distinzione proposta tra

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necessarie per poter essere minimamente efficaci nel lavoro – l’esperienza, la conoscenza e le capacità cognitive di base. Le seconde permettono ai top performers di distinguersi dagli

average performers, raggiungendo migliori risultati – competenze cognitive, competenze

collegabili all’intelligenza emotiva e all’intelligenza sociale (Boyatzis, 1982). Figura 1.2: Visione della competenza in chiave dinamica

Fonte: Boyatzis, 1982

Figura 1.3: La teoria della contingenza dell’azione e della prestazione

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1.3.3 IL CONTRIBUTO DI SPENCER E SPENCER

Il contributo di Lyle M. Spencer e Signe M. Spencer risente fortemente dei precedenti lavori di Boyatzis, posizionandosi all’incirca un decennio dopo l’uscita della fondamentale opera di quest’ultimo. La definizione avanzata dai due autori riprende la definizione di Boyatzis rendendola, però, maggiormente operativa ed applicabile. Una competenza è una “caratteristica intrinseca individuale che è causalmente collegata ad una performance efficace e/o superiore in una mansione od in una situazione, misurabile sulla base di un criterio prestabilito” (Spencer & Spencer, 1993). Già nella definizione viene indicata la modalità con la quale sarà possibile distinguere le due principali categorie di lavoratori: gli average dai top. Gli Spencer individuarono cinque tipologie di caratteristiche:

1. Motivazioni. Sono schemi mentali, bisogni e spinte interiori che spingono una persona ad agire. Una motivazione è un “interesse (…) che spinge, dirige e seleziona il comportamento di un individuo” (McClelland, 1973) verso determinati obiettivi e lo allontana da altri.

2. Tratti. Caratteri fisici ed una generale predisposizione ad agire e rispondere in un determinato modo a situazioni ed eventi.

3. Immagine di sé. L’insieme dei valori e degli atteggiamenti di un individuo uniti all’idea che esso ha di sé stesso.

4. Conoscenze. Insieme di informazioni possedute da un individuo su un determinato argomento.

5. Abilità (o skills). Capacità fisiche o intellettive necessarie per poter svolgere un determinato lavoro o azione.

Le ultime due caratteristiche risultano essere quelle più superficiali, quindi più facilmente osservabili, valutabili e sviluppabili. Lo svolgimento di una mansione per un periodo prolungato o una formazione professionale sono le principali modalità con le quali vengono sviluppate queste due caratteristiche personali. La formazione professionale è il sistema più efficace, in termini di costi, per assicurarsi queste capacità del personale.

Le motivazioni, i tratti e l’immagine di sé, invece, sono caratteri “sommersi” della personalità e, di conseguenza, più difficili da osservare e valutare. Le attività finalizzate a sviluppare queste caratteristiche consistono in training, psicoterapia ed esperienze, personali o di gruppo, positive. I rischi insiti in queste attività, però, sono molto più elevati rispetto ai rischi che

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caratterizzano le attività di formazione professionale. È richiesto un impiego di tempo molto maggiore, il che può avere un forte impatto sui costi, così come è elevata la probabilità che non vi sia un adeguato impatto sullo sviluppo personale, specie se le attività non sono adeguatamente organizzate.

Risultano essere, però, proprio le motivazioni, i tratti e l’immagine di sé le tre caratteristiche che predicono e permettono il raggiungimento di una performance superiore nel lavoro. Skill e conoscenze, essendo le caratteristiche più facili da sviluppare, difficilmente costituiscono il valore aggiunto predominante in una prestazione lavorativa superiore.

Gli autori avanzano una ulteriore considerazione riguardo la selezione del personale. Spesso i candidati vengono selezionati per le loro caratteristiche “di superficie” («Assumiamo laureati provenienti da buone università») partendo dal presupposto che motivazioni e tratti siano già presenti o si possano instillare attraverso un buon management. Tuttavia si rivela più efficace, in termini di costi, assumere in base alle caratteristiche più profonde ed insegnare le conoscenze e skill necessarie per il lavoro (Spencer, 1993). Usando la metafora riportata dagli Spencer (1993), “è possibile insegnare a un tacchino ad arrampicarsi su un albero, ma è meglio assumere uno scoiattolo”. Spencer & Spencer presentarono queste osservazioni attraverso il modello dell’iceberg (Fig. 1.4).

Secondo gli Spencer, il possesso di queste competenze è misurabile utilizzando una scala a valori crescenti, alternativi tra di loro, costituiti ognuno da un comportamento che identifica la competenza e la profondità con al quale si manifesta. Gli autori chiamano questo strumento Just

Noticeable Difference Scales (Gerli, 2002)

Gli spencer sottolineano attraverso il collegamento causale la relazione esistente tra competenza e performance superiore (Fig. 1.5). “Motivazioni, tratti e immagini di sé predicono le skill di comportamento-azione, che a loro volta predicono i risultati della performance nella mansione” (Spencer & Spencer, 1993). Attraverso il modello di flusso causale delle competenze, gli Spencer studiano quale sia la relazione tra competenza e performance lavorativa ottenuta. L’elemento attorno al quale è incentrato il modello è il comportamento e la competenza ad esso associata.

Il manifestarsi di un comportamento presuppone l’esistenza di una certa competenza che viene attivata in quell’occasione. Affinché vi sia questa relazione è necessario, però, che il comportamento sia mosso da una intenzione, che è la forza della motivazione che dà origine ad una azione. Un comportamento senza intenzione non definisce una competenza (Spencer & Spencer, 1993).

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Dallo studio del comportamento tenuto è possibile risalire a quale competenza sia stata attivata e con quale intensità. Osservando, quindi, quale rendimento nella mansione sia stato ottenuto di conseguenza al comportamento messo in atto, è possibile creare la relazione causale tra competenza attivata, comportamento manifestato e risultato ottenuto.

Inoltre, poiché una principale caratteristica delle competenze è quella di essere stabile nel tempo, i rendimenti ottenuti in passato mediante l’attivazione di determinate competenze, sono ottimi indicatori delle performance future in situazioni analoghe. Questo permette di prevedere come sarà il comportamento di un individuo e quale sarà la sua performance in una ampia serie di situazioni.

La definizione degli Spencer risulta maggiormente operativa rispetto a quella teorizzata da Boyatzis grazie alla individuazione di criteri di misurazione della performance. Disporre di un criterio su cui misurare le competenze è necessario per poterle definire (Spencer & Spencer, 1993). Esempi di criteri possono essere il fatturato realizzato da un venditore o il numero di clienti curati da un medico. L’importanza di questi criteri risiede nel fatto che, applicandoli ai risultati ottenuti medianti prestazioni lavorative, è possibile distinguere due diverse tipologie di performance:

 Performance superiore: definita come una deviazione standard dalla performance media.  Performance efficace: il livello lavorativo minimo accettato per poter considerare un

individuo competente nella mansione.

Questa distinzione permette lo studio su quale siano le caratteristiche individuali che permettono alle performance di discostarsi in questo modo. Usando le parole degli Spencer, “Una caratteristica non è una competenza se non predice qualcosa di significativo nella vita reale” (Spencer & Spencer, 1993). Significa che se una caratteristica non permette ad un individuo di ottenere una performance superiore, tale caratteristica non costituisce un interessante oggetto di studio e non se ne deve tener conto.

Il valore economico derivante dalla performance superiore è direttamente collegato alla complessità della mansione svolta. Per mansioni poco complesse, una deviazione standard può valere fino al 19% in più rispetto alla performance media. Per mansioni molto complesse o direttamente collegate alla vendita, il maggior valore va dal 48% ad un massimo di 120% in più rispetto alla media (Hunter, Schmidt, Judiesch, 1990 in Spencer & Spencer, 1993).

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Come Boyatzis, gli Spencer distinguono tra competenze soglia (competenze minime per poter operare in un mercato ma non causalmente correlate a prestazioni superiori) e competenze distintive (competenze che distinguono gli average dai top performer).

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Figura 1.4: Il modello dell’iceberg

Fonte: Spencer & Spencer (1993).

Figura 1.5: Il collegamento causale

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1.3.4 MODERNI CONTRIBUTI SUL TEMA DELLE COMPETENZE

Quelli presentati fino ad adesso sono i principali contributi sul tema delle competenze fino alla fine degli anni Novanta. Si presenta ora quale sia la definizione di competenza sviluppata negli ultimi anni.

Boyatzis, in numerosi suoi contributi (Boyatzis 2007, 2008, 2009) e riprendendo gli studi di McClelland (1973, 1985), definisce la competency come “una capacità o un’abilità: un insieme di comportamenti diversi ma correlati e organizzati attorno ad un unico costrutto che prende il nome di intento. I comportamenti sono alternate manifestazione dell’intento, opportune in determinate situazioni e con determinate tempistiche” (Boyatzis, 2009).

Secondo questa concezione, la competenza viene definita dall’interazione dalle azioni – insieme di comportamenti diversi – e dall’intento.

Figura 1.6: Distinzione tra competence e competency.

Alcuni autori (ad es. Woodruffe, 1992; Spande, 1993; Bognanno, 1994) hanno avanzato una distinzione tra competence e competency. Il primo termine si riferisce ad un’area di competenza e all’aspetto professionale della mansione. Il secondo termine fa riferimento alle competenze comportamentali – cioè come i soggetti si devono comportare per raggiungere i risultati desiderati – che rappresentano i building blocks delle aree di competenza e quindi sono il tramite attraverso cui le persone possono sviluppare le aree di competenza. “Solo i comportamenti legati a prestazioni di successo possono essere declinati in competenze e quindi diventare competency” (Solari & Zanon, 2001, ma che Gerli, 2002).

Eraut (1994), a sua volta, distingue tra i due termini definendo con il termine “competence” una capacità generica della persona mentre con “competency” una specifica abilità.

Più recentemente, la Chartered Institute of Personnel and Development (CIPD) avanza la seguente distinzione: “Una competency è definita più precisamente come la serie di comportamenti, che i lavoratori devono avere o devono acquisire, da mettere in atto in una situazione in modo da raggiungere elevati livelli di performance, mentre una competence si riferisce ad un sistema di standard minimi” (CIPD, 2009 in Jindal-Snape & Naulty, 2009).

«The anchor for understanding which behaviour and intent are relevant in a situation emerges from predicting effectiveness in that situation. The construction of the specific

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manifestations of the same underlying construct. But they are organized primarily or more accurately initially, by the similarity of the consequence of the use of these

behaviours in social or work settings» [Boyatzis & Ratti, 2009].

Una teoria sulla performance è alla base del concetto di competenza. La teoria utilizzata riprende il contributo precedente dello stesso Boyatzis (1982), secondo il quale la massima performance si ottiene quando le capacità personali sono coerenti sia con le caratteristiche della mansione sia con l’ambiente organizzativo (vedere Figura 1.3, “La teoria della contingenza dell’azione e della prestazione”).

Boyatzis (2007, 2009) approfondisce lo studio riguardo alla distinzione tra competenze di

soglia e distintive. Da uno studio svolto in trent’anni, è risultato che i migliori leader, manager,

professionisti, o persone che svolgono ruoli chiave, necessitano di tre tipologie di abitudini comportamentali per risultare minimamente efficienti nel lavoro, e di tre cluster di competenze per raggiungere performance superiori.

I tre cluster delle competenze soglia sono: 1. L’abilità e l’esperienza.

2. La conoscenza (intesa quella dichiarativa, procedurale, funzionale e meta-cognitiva). 3. Un insieme di competenze cognitive di base, come la memoria ed il ragionamento

deduttivo.

I tre cluster che costituiscono le competenze distintive, invece, sono:

1. Competenze dell’intelligenza cognitiva, cioè le abilità che permettono di elaborare ed

analizzare le informazioni e le situazioni (ad es. sono il ragionamento sistemico ed il riconoscimento di schemi).

2. Competenze dell’intelligenza emotiva, cioè le abilità che permettono di riconoscere,

comprendere ed usare le proprie informazioni emotive (esse sono ad es. l’auto-coscienza emotiva e l’auto-controllo emotivo).

3. Competenze dell’intelligenza sociale, cioè le abilità che permettono di riconoscere,

comprendere ed utilizzare le informazioni emotive riguardo agli altri (includono la consapevolezza sociale, competenze di gestione delle relazioni, come empatia e lavoro in team).

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Boyatzis (2009) presenta i cluster in dettaglio: 1. Competenze dell’intelligenza emotiva:

a) Consapevolezza di sé: il cluster si riferisce alla capacità di comprendere i propri stati interni, preferenze, risorse ed intuizioni. Contiene una competenza;

- Autoconsapevolezza emotiva: riconoscere le proprie emozioni ed il loro effetto su di noi.

b) Gestione di sé: il cluster si riferisce alla capacità di gestire i propri stati interiori, gli impulsi e le risorse. Contiene quattro competenze:

- Autocontrollo emotivo: tenere sotto controllo emozioni distruttive ed impulsi. - Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento.

- Orientamento al risultato: saper migliorare le proprie performance per raggiungere standard di eccellenza maggiori.

- Visione positiva: guardare con positività a persone, eventi e futuro. 2. Competenze dell’intelligenza sociale.

a) Consapevolezza sociale: il cluster si riferisce a come le persone gestiscono le relazioni ed alla consapevolezza dei sentimenti altrui, dei bisogni e delle preoccupazioni. Contiene due competenze:

- Empatia: comprendere le emozioni altrui, le differenti visioni e provare per esse rispetto ed interesse;

- Consapevolezza organizzativa: saper percepire le relazioni decisionali, di potere e politiche all’interno di una organizzazione.

b) Gestione delle relazioni: si riferisce alle abilità o all’attitudine di indurre, negli altri, risposte desiderate. Contiene cinque competenze:

- Fare da coach e da mentore: sviluppare le abilità altrui fornendo feedback in maniera adeguata e fungendo da guida;

- Leadership inspiratrice: guidare e motivare gli altri con il proprio esempio inspiratore;

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- Influenza: possedere numerose tattiche per persuadere gli altri;

- Gestione dei conflitti: abbassare il livello emotivo nei conflitti e risolverli efficacemente;

- Lavoro in team: saper cooperare per raggiungere obiettivi comuni. Gestire un lavoro con altri creando sinergie.

3. Competenze dell’intelligenza cognitiva:

a) Pensiero sistemico: vedere una situazione come una serie di eventi aventi tra loro relazioni causali e percepire il flusso di informazioni, soggetti all’interno di una organizzazione, comunità o società;

b) Riconoscimento di schemi: percepire temi o schemi ricorrenti in eventi apparentemente tra loro non correlati.

Per Boyatzis (2009), le competenze possono essere considerate un approccio comportamentale all’intelligenza emotiva, sociale e cognitiva. Nella sua definizione di “intelligenza”, Boyatzis definisce alcuni criteri che permettono di definire qualcosa come una forma di intelligenza, in modo da essere in grado di percepire una differenza rispetto ad una semplice abilità o componente delle personalità (Boyatzis & Sala, 2004). Deve:

1. Osservabile attraverso i comportamenti.

2. Essere relativo al funzionamento del sistema neurale-endocrino. Cioè ogni cluster di competenza deve essere differenziato riguardo alla tipologia di circuito neurale e sistema endocrino coinvolto.

3. Essere correlato a risultati lavorativi e quotidiani.

4. Essere sufficientemente diverso dai costrutti di personalità differenti in modo che venga aggiunto valore alla comprensione della personalità umana e del suo comportamento. 5. Poter essere misurabile e la sua misurazione deve soddisfare i criteri di validità

convergente e discriminante.

Boyatzis e Sala (2004) affermano, inoltre, che “oltre alla conoscenza ed alle competenze, l’ingrediente aggiuntivo necessario per ottenere performance superiori appare essere il desiderio di usare il proprio talento. Questo appare essere guidato dai valori della persona, dalla sua filosofia, dalla sua mission, dalle sue motivazioni inconsce e dai tratti”.

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Un approccio integrato di questo tipo – nel quale vengono incluse analisi e considerazioni riguardanti il campo delle neuroscienze, le emozioni ed il loro impatto sui comportamenti – costituisce la struttura teorica sulla quale viene sviluppata la teoria della personalità. Boyatzis (2007), sviluppando i contributi precedenti di McClelland (1951) e Goleman (1995), sintetizza la visione della personalità umana derivante dall’interazione ed influenza reciproca di una serie di componenti eterogenei: circuiti neurali ed endocrini; tratti e motivazioni personali inconsce; valori; competenze osservabili e cluster di competenze.

Figura 1.7: Struttura dei livelli all’interno della personalità

Fonte: Boyatzis (2007)

Dallo studio dei più moderni contributi di Boyatzis, risulta evidente come le competenze vengano costantemente considerate all’interno di cluster formati da abilità e caratteristiche coerenti tra loro ed in grado di produrre un effetto moltiplicativo superiore sulla performance. Il possesso di uno o più di questi cluster permette agli individui di sviluppare forme di

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intelligenza multiple, intese come capacità di gestire diversi ambiti della vita personale e lavorativa con efficienza.

Nella letteratura, un importante filone di studi e ricerche accademiche ha contribuito a formare e sviluppare il concetto di Intelligenza Emotiva. Anche se di teorizzazione più recente, i successivi paragrafi presenteranno i contributi storici che hanno permesso lo sviluppo di questo concetto, oltre ad una presentazione delle teorie più moderne.

1.4 INTELLIGENZA EMOTIVA: ORIGINE E MODELLI

Il concetto di intelligenza emotiva (EI), originariamente definita come “a set of interrelated

abilities” (Mayer & Salovey, 1990), nel corso della letteratura è stato protagonista di numerosi

studi e ricerche di psicologi e studiosi i quali hanno, ognuno, tentato di apportare una personale definizione di tale concetto, accompagnata da numerosi modelli o processi di misurazione tra loro differenti.

Numerosi autori hanno sottolineato negativamente questo proliferare di studi sul tema. Come sottolineato da Daus e Ashkanasy (2003), questo ha contribuito a creare una notevole confusione e numerose incomprensioni su cosa sia o dovrebbe essere l’EI. Trovandosi in accordo con numerosi colleghi (ad es. Landy, 2005; Murphy & Sideman, 2006; et al.), anche Mayer, Salovey e Caruso (2008) affermano come il concetto sia stato sovraccaricato di tratti e differenti visioni. Tuttavia, altri autori, come Cherniss e Goleman (2001), vedono il proliferare di teorie e modelli come un elemento favorevole, sintomo di un concetto che può e deve essere ancora approfondito.

Se si può riconoscere a Mayer e Salovey (1990) il primato di aver utilizzato per la prima volta il termine EI ed a Goleman quello di esserne il divulgatore più riconosciuto, la letteratura presenta numerosi contributi che hanno permesso la moderna teorizzazione ed applicazione pratica di questo concetto.

1.4.1 L’ORIGINE DEL CONCETTO

Le origini della teoria sull’EI, vengono fatte risalire ai primi studi che miravano a testare l’intelligenza. Seguendo la ricostruzione fatta da Cherniss e Goleman (2001), Thorndike (1920) è stato il primo ad individuare l’aspetto dell’EI che egli chiama social intelligence ed a percepirne l’importanza nelle attività umane. Questa forma di intelligenza viene definita come “the ability

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(Thorndike, 1920) e Thorndike la inserisce in uno spettro più ampio di intelligenze che comprende anche quella meccanica e quella astratta. Egli si concentrò principalmente sullo studio dei quest’ultima forma di intelligenza dopo che i tentativi di perfezionare e misurare l’intelligenza sociale risultarono senza successo (Seal, Boyatzis & Bailey, 2006). Thorndike motiva l’incapacità di misurare questa forma di intelligenza sostenendo che essa si manifesti in “reali situazioni con vere persone” (Thorndike, 1920), essenziali elementi per poterla misurare. Nel 1937, Thorndike e Stern, basandosi sullo studio precedentemente citato, identificano come l’intelligenza sociale sia costituita da un insieme di attitudini e comportamenti sociali, così come dalla capacità di mettere in atto determinati comportamenti (Cherniss & Goleman, 2001). Per i successivi cinquant’anni, gli studi psicologici furono dominati principalmente dall’approfondimento del paradigma comportamentale e dallo studio sulla misurazione dell’intelligenza attraverso i test IQ (Cherniss & Goleman, 2001). Un contributo comunque rilevante giunge da Wechsler (1943, 1952), il quale afferma come “l’intelligenza sia la capacità aggregata o globale di un individuo di agire deliberatamente, di pensare razionalmente ed avere a che fare in maniera efficace con il suo ambiente” (Wechsler, 1943 in Salovey & Mayer, 1990). La definizione contribuisce a sviluppare una visione dell’intelligenza più ampia e che includa molteplici aspetti.

Howard Gardner (1983) ha contribuito fortemente a riportare in primo piano gli studi psicologici sull’EI. Egli completa il superamento del concetto di intelligenza come caratteristica univoca criticando l’uso dei test di intelligenza come mezzo unico per classificare le persone.

«E' arrivato il momento di ampliare la nostra concezione della gamma dei talenti. Il più importante contributo che la pedagogia può dare allo sviluppo di un bambino è quello di aiutarlo e di guidarlo verso un campo nel quale i suoi talenti siano più adatti, e in cui egli

possa sentirsi soddisfatto e competente. (…) Dovremmo passar meno tempo a classificare i bambini e più tempo ad aiutarli a identificare e coltivare le loro competenze e i loro talenti naturali. Ci sono centinaia e centinaia di modi diversi per avere successo, e

molte, moltissime diverse capacità che possono aiutare a farlo» [Gardner, intervista

svolta da Goleman, 1986].

Egli, infatti, afferma come vi siano diverse forme di intelligenza che non possono essere unificate tra di loro. Non vi sono strutture cognitive generali, bensì diversificate, ed ognuna delle diverse forme di intelligenza opera in modo relativamente indipendente dalle altre (Gardner, 1983). Il concetto di intelligenza “multipla” comprende complessivamente sette

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diverse forme di intelligenza. Alcune di queste sono puramente scolastiche – linguistica e logico-matematica – altre, invece, tendono a spiegare il successo di alcuni soggetti in ambiti quali l’arte, la musica o le abilità fisiche. Ci sono, però, anche due forme di intelligenza “personale” che introducono concetti che negli anni successivi saranno ampiamente approfonditi: “intelligenza interpersonale” che, come Gardner afferma, “è la capacità di comprendere gli altri, le loro motivazioni e il loro modo di lavorare, scoprendo nel contempo in che modo sia possibile interagire con essi in maniera cooperativa. I venditori di successo, i politici, gli insegnanti, i clinici e i leader religiosi sono probabilmente individui con un elevato grado di intelligenza interpersonale” (Gardner, 1993 in Goleman, 1996); ”intelligenza

intrapersonale”, intesa come la capacità di comprendere sé stessi, la propria personalità per

inserirla nel contesto sociale ed ottenere risultati migliori nella vita personale (Gardner, 1983). “L'intelligenza intrapersonale [...] è una capacità correlativa rivolta verso l'interno: è l'abilità di formarsi un modello accurato e veritiero di sé stessi e di usarlo per operare efficacemente nella vita" (Gardner, 1993 in Goleman, 1996).

Entrambi i concetti che definiscono le due forme di intelligenza “personali” costituiscono una base importante sulla quale i successivi contributi (ad es. Salovey & Mayer, 1990; Goleman, 1997) si poggeranno.

1.4.2 LE TEORIE CONTEMPORANEE

Concentrando lo studio della letteratura unicamente sui modelli basati sull’EI, si può notare come negli ultimi vent’anni siano state avanzate numerose differenti classificazioni del costrutto, anche se in molti casi queste possono essere ritenute complementari.

Si possono notare due diversi approcci nella presentazione dei modelli: un approccio pseudo-scientifico, successivo alla pubblicazione di Goleman (1995), caratterizzato, secondo Cooper e Sawaf (1997), Elìas, Tobias e Friendlander (1999) et al., da un intendo divulgativo piuttosto che puramente scientifico; un approccio scientifico basato su una review della letteratura precedente, su studi empirici finalizzati a validare il modello presentato attraverso l’applicazione di processi di misurazione appositamente sviluppati (ad es. Bar-On, 1997; Boyatzis, Goleman & Rhee, 2000; et al.) (Fernandez-Berrocal & Extremera, 2006).

Si presentano ora i tre principali modelli dell’EI presenti nella moderna letteratura. Il modello di Bar-On: l’approccio psicologico

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